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CONNESSIONE DIRITTO PROCESSUALE CIVILE



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CONNESSIONE DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

La connessione è la relazione che può intercorrere tra più diritti e quindi tra più rapporti giuridici, quindi tra azioni giuridiche che hanno ad oggetto quei rapporti giuridici. Lo scopo della connessione è quello di dar vita alla trattazione simultanea delle cause; questo per ragioni di economia processuale ma anche perché se le cause fossero trattate separatamente vi potrebbero essere decisioni non conciliabili tra loro. La connessione può aversi prima dei processi, se un soggetto vuole proporre due domande in una stessa sede, o dopo l'inizio dei processi, se si vuole riunirli. La relazione tra le cause, quindi la connessione può riguardare: i soggetti, il titolo o l'oggetto. Le ipotesi di connessione sono varie:

La connessione per accessorietà di cui all'art.31 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause, una principale e l'altra accessoria, in cui vi è un'identità di soggetti (attore e convenuto sono gli stessi) ed inoltre è necessario che la causa principale sia fondata. In linea di principio spetta al giudice della causa principale decidere anche quella accessoria, a meno che la competenza non lo permetta. A tal proposito bisogna dire che ai fini della connessione per accessorietà è derogabile la competenza per territorio ma non quella per valore. La connessione per accessorietà (la riunione) viene chiesta dall'attore ed un esempio si può avere nel caso di una domanda per il capitale ed una domanda per gli interessi.



La connessione per garanzia di cui all'art.32 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause in cui vi è un'identità del titolo ed anche qui è necessario che la causa principale sia fondata (perché vi possa essere la garanzia). Occorre tuttavia distinguere la garanzie proprie (personali quali la fideiussione e reali quali la garanzia per evizione) dalle garanzie improprie (che comportano un semplice collegamento a causa di ragioni di fatto economiche); infatti per queste ultime non vi è l'unicità del titolo (ad esempio nella vendita a catena, si può averi il caso in cui l'acquirente agisce contro il venditore ed il venditore contro il fornitore o il produttore). La connessione per garanzia propria può aversi anche in deroga della competenza per territorio ma non in deroga della competenza per valore; mentre la connessione per garanzia impropria non può aversi se vi è una competenza per territorio diversa per le due cause (non si può derogare la competenza per territorio); infatti per potersi avere la riunione è necessario che per le due cause sia competente territorialmente lo stesso giudice. Quindi la connessione per garanzia impropria pur dando vita alla riunione non da vita a modificazioni della competenza per ragioni di territorio. Il tipico esempio di connessione per garanzia propria si ha nell'ipotesi in cui l'attore proponga una domanda nei confronti si un suo debitore e una domanda nei confronti del fideiussore del suo debitore.

La connessione per cumulo soggettivo di cui all'art.33 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause in cui vi è un'identità del titolo (obbligazione di natura divisibile, ovvero un attore e più convenuti) o un'identità di oggetto o un'identità di entrambi (incidente stradale). In questo tipo di connessione vi è un solo attore e più convenuti, quindi l'attore più agire nei confronti di tutti in uno stesso processo; a tal proposito l'articolo in questione richiede che sia rispettata la competenza per territorio almeno per uno dei convenuti. Questo tipo di connessione non è applicabile se vi sono fori esclusivi. Quindi possiamo dedurre che la competenza per territorio è derogabile solo per alcuni convenuti, ma non per tutti (almeno per uno bisogna rispettarla). In questo tipo di connessione siamo per lo più in presenza di ipotesi di litisconsorzio facoltativo.

La connessione per pregiudizialità di cui all'art.34 c.p.c.: può aversi quando vi sono due cause in cui un rapporto pregiudiziale ed un rapporto pregiudicato. Questo tipo di connessione può aversi per legge o per domanda di parte e non fa riferimento ad una pregiudizialità di rito (casi di competenze e giurisdizioni diverse) ma fa riferimento ad una pregiudizialità di merito appunto perché riguarda rapporti giuridici in relazione di antecedenza logico-giuridica (nel senso che un rapporto dipende dall'esistenza di un altro rapporto). La pregiudizialità può essere intesa in diversi modi, infatti essa può consistere in:

un punto pregiudiziale: se sul rapporto pregiudiziale, che deve essere conosciuto dal giudice del rapporto pregiudicato, c'è l'accordo delle parti sulla valutazione o una sentenza passata in giudicato;

una questione pregiudiziale: se sul rapporto pregiudiziale, che deve essere conosciuto dal giudice del rapporto pregiudicato, le parti non sono d'accordo (vi è una contestazione) e quindi il giudice dovrà decidere la questione con efficacia incidenter tantum;

una controversia pregiudiziale: se sul rapporto pregiudiziale, che deve essere conosciuto dal giudice del rapporto pregiudicato, vi è una contestazione ed il giudice dovrà decidere con efficacia di giudicato appunto perché la questione pregiudiziale si è trasformata in controversa pregiudiziale (ricordiamo che questa "trasformazione" può avvenire o per disposizione di legge o per esplicita domanda di parte che propone una domanda di accertamento incidentale).

Nelle prime due ipotesi di pregiudizialità non sorgono problemi di competenza perché il giudice non decide con efficacia di giudicato, mentre nell'ultima ipotesi se il giudice non è competente a decidere la controversia pregiudiziale deve rimettere entrambe le cause al giudice "superiore".

La connessione per compensazione di cui all'art.35 c.p.c.: può aversi quando vi è una causa in cui l'attore agisce nei confronti del convenuto per ottenere la soddisfazione di un credito ed un'altra causa in cui si deve decidere su un controcredito vantato dal convenuto (che l'ha opposto in compensazione); infatti qui il presupposto è che alla domanda dell'attore il convenuto abbia opposto in compensazione un controcredito di cui l'attore ha poi contestato l'esistenza. Si deve  decidere su due cause: una sull'esistenza del credito ed una sull'esistenza del controcredito. Se il giudice che decide sul credito ha anche la competenza (per valore) per decidere sul controcredito non sorgono problemi, in caso contrario invece il giudice della prima causa può decidere sul credito e rimettere al giudice competente la decisione sul controcredito. Tuttavia si ritiene che nel caso di incompetenza del primo giudice sul secondo rapporto debba funzionare l'art.40 c.p.c., cioè si ritiene che entrambe le cause debbano essere decise dal giudice competente per la seconda (l'ipotesi è che la causa sul credito penda dinanzi al giudice di pace, mentre per il controcredito sia competente il tribunale; in tal caso è quest'ultimo che deve decidere entrambe le cause).



La connessione per riconvenzionale di cui all'art.36 c.p.c.: può aversi quando nell'ambito di una causa il convenuto non si limita a sollevare delle eccezioni ma propone una domanda riconvenzionale nei confronti dell'attore (qui vi sarà un collegamento col titolo della causa principale o con le eccezioni). Qui è il giudice al quale si è rivolto l'attore a decidere su entrambe le domande tranne nel caso in cui questi è incompetente per materia o per valore sulla domanda del convenuto; allora deciderà su entrambe le domande il giudice competente sulla domanda riconvenzionale. Anche se vi sono dei limiti all'ammissibilità della domanda riconvenzionale (dipendenza dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o dipendenza dall'eccezioni) la giurisprudenza finisce per ammettere in giudizio tutte le domande riconvenzionali.

Ora bisogna fare una distinzione tra due ipotesi:

L'ipotesi di più domande connesse proposte dinanzi a giudici diversi di cui all'art.40 c.p.c.: secondo cui le cause vanno decise dal giudice della causa principale o, seguendo il criterio della prevenzione, dal giudice preventivamente adito (il giudice la cui causa è inizia prima); tuttavia vi è un limite alla riunione che è quello per cui essa non può essere chiesta dopo la prima udienza (questo per evitare che la decisione di un causa venga ritardata).

L'ipotesi di più domande connesse proposte dinanzi allo stesso giudice di cui all'art.274 c.p.c.: può essere scissa in due casi, il caso in cui per stesso giudice si intende la stessa persona fisica (in tal caso quel giudice dispone la riunione d'ufficio) ed il caso in cui per stesso giudice si intende lo stesso ufficio giudiziario (in tal caso il giudice che abbia avuto notizia della pendenza delle due cause lo comunica al presidente del tribunale che dispone che le due cause vengano chiamate ad una stessa udienza davanti ad uno stesso giudice in modo che quest'ultimo possa disporre la riunione).

La riunione trovava un ostacolo nella diversità di rito ma dal 1990 si è stabilito che tra due cause connesse ma di rito diverso prevale quella col rito ordinario presso il cui giudice si decidono entrambe le cause; nel caso di due cause connesse tra le quali una è promossa col rito speciale del lavoro, tale rito prevale anche se l'altra causa è promossa col rito ordinario (eccezione alla regola generale) a meno che la causa promossa con il rito speciale del lavoro non è una causa di lavoro. In ogni caso prevale la causa con riferimento alla competenza per materia (e quindi al rito) altrimenti si considera la competenza per valore. I commi aggiunti (nel 1991) all'art.40 c.p.c. stabiliscono che, sia quando la connessione si ha fin dall'inizio che quando si ha nel corso delle cause, tra giudice di pace e tribunale prevale il tribunale ed inoltre il giudice di pace anche quando è prossimo alla decisione deve affidare tutto al tribunale (secondo alcuni invece andrebbe sempre rispettato il limite temporale).

Altre due ipotesi di modificazione della competenza oltre alla connessione sono:

La litispendenza si ha nell'ipotesi in cui due o più cause identiche (e non connesse) siano pendenti davanti a giudici diversi. Questa ipotesi si ha quando le cause hanno gli stessi soggetti, lo stesso oggetto e lo stesso titolo. In questo caso il giudice adito successivamente in qualunque stato e grado del processo (anche in cassazione) ed anche d'ufficio dichiara la litispendenza con sentenza ed impone con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo. Non si ha la litispendenza se il giudice o l'ufficio giudiziario è lo stesso, infatti perché si abbia la litispendenza è necessaria l'identità delle cause e la proposizione delle stesse dinanzi a giudici diversi. Per stabilire quale è il processo che pende prima dell'altro si fa riferimento alla notifica dell'atto di citazione oppure al deposito del ricorso.

La continenza si ha quando due cause sono parzialmente identiche, cioè vi è una causa continente ed una causa contenuta nel senso che l'oggetto di una causa contiene l'oggetto dell'altra (quindi nelle due cause abbiamo gli stessi soggetti, lo stesso titolo e l'oggetto parzialmente uguale). In questa ipotesi il giudice della causa contenuta dichiara la continenza con sentenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti devono riassumere la causa contenuta davanti all'altro giudice.

Sia la sentenza che dichiara la litispendenza che la sentenza che dichiara la continenza, poiché non sono decisioni di merito possono essere impugnate con il regolamento necessario di competenza.







Requisiti importanti che il giudice deve avere nello svolgimento dei sui compiti sono:

l'imparzialità, infatti deve giudicare senza preconcetti e prendendo in considerazione solo ciò che le parti producono;

la terzietà, infatti non deve avere nessun interesse nella causa che si sta svolgendo dinanzi a se.

Il legislatore ha previsto istituti, scarsamente  applicati, che sono:

L'astensione è la dichiarazione, che fa il giudice, di non poter giudicare in una causa perché non può assicurarvi l'imparzialità o la terzietà. Il giudice non ha l'obbligo di astenersi (il nostro codice nutre una certa fiducia nella ura del giudice), salvo ricusazione della parte. Il giudice deve astenersi in una serie di ipotesi dettate dall'art.51 c.p.c. che possono ricondursi a due tipologie: le ipotesi di stretto rapporto con la causa (il giudice ha interesse in una causa che verte su un'identica questione di diritto oppure ha prestato patrocinio, dato consiglio o testimoniato nella causa) e le ipotesi di stretto rapporto con le persone (il giudice è parente di uno dei difensori o ha una causa pendente con i difensori o ancora è tutore di una delle parti). Quando la norma parla di "interesse" del giudice si riferisce ad un interesse che deve essere diretto; inoltre per "altro grado del processo" si deve intendere nel senso più ampio, cioè non bisogna riferirsi solo ai gradi ma anche alle fasi del processo.

La ricusazione è l'alternativa offerta alle parti che possono chiederla se il giudice, nonostante non abbia i requisiti dell'imparzialità o della terzietà, non si astiene.

L'astensione e la ricusazione sono istituti che operano in via preventiva, in quanto prevengono il danno; tuttavia ci sono anche strumenti che operano in via repressiva (cioè quando il danno è stato già cagionato) contro il giudice che non si è astenuto o non è stato ricusato. A tal proposito dobbiamo trattare della responsabilità civile dei magistrati.

La responsabilità civile dei magistrati, nel processo civile è stata regolata  dagli artt.55 e 56 c.p.c. fino al 1988, ma questi articoli hanno fatto sorgere problemi di costituzionalità.

Prima del 1988

Il magistrato rispondeva nei confronti delle parti per tutti i danni procurati in seguito a: dolo (volontà di cagionare un danno), frode (distruzione o alterazione di documenti) e concussione (amento di una somma per decidere in un certo modo, corruzione).

Il magistrato non era responsabile per l'errata interpretazione della legge.

Il magistrato poteva essere responsabile anche per diniego di giustizia.

La domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non poteva essere proposta senza l'autorizzazione del ministro di grazia e giustizia ed era la cassazione che su richiesta della parte autorizzata designava con decreto (emesso in camera di consiglio) il giudice che doveva provvedere alla domanda.

Gran parte di questa disciplina costituiva una violazione di principi costituzionali.

Dopo il 1988

Nel 1988, con un referendum, sono stati abrogati gli artt.55 e 56 c.p.c. e la disciplina della responsabilità civile del magistrato è stata poi regolata dalla legge n.117/1988 che :

disciplina la responsabilità del giudice sia in sede civile che penale;

amplia le ipotesi di responsabilità introducendo tra queste la colpa grave;



mantiene la responsabilità per diniego di giustizia;

individua il giudice competente a decidere sulla responsabilità del magistrato.

Il legislatore tuttavia lascia al giudice la possibilità di sbagliare, anche se entro certi limiti; infatti il magistrato viene sanzionato solo per l'errore grave o la volontà di procurare un danno.

Quando il magistrato risponde per dolo a livello economico non ci sono limiti; mentre quando risponde per colpa grave o per diniego di giustizia il limite economico è costituito da una percentuale del suo stipendio.

La legge n.117/1988 fa rientrare nella nozione di colpa grave:

la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

l'affermazione, determinata da ignoranza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente (palesemente) esclusa dagli atti del procedimento;

la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

l'emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona, fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Tutti queste previsioni tranne l'ultima possono riguardare sia il processo penale che il processo civile. Ricordiamo inoltre che l'introduzione della colpa grave tra le cause di responsabilità del magistrato costituisce una discreta garanzia a favore delle parti, anche in funzione del fatto che prima non era prevista. Per quanto riguarda il soggetto contro il quale si rivolge l'azione di responsabilità civile del magistrato e per ciò che riguarda i presupposti dell'azione stessa, bisogna innanzitutto di che l'azione di responsabilità del magistrato è improcedibile fin quando non sono stati esperiti tutti gli altri mezzi di impugnazione; nel senso che se il giudice di 1° grado mi procura un danno, io non posso lasciar passare in giudicato la sentenza e poi agire per la responsabilità, ma devo prima provare ad appellarmi eventualmente fare ricorso in cassazione o chiedere la revocazione e solo se non sono riuscito ad evitare il danno provocatomi dal giudice posso agire con l'azione di responsabilità nei sui confronti. Prima di entrare nel merito della controversia il giudice competente verifica l'ammissibilità dell'azione e successivamente inizia la causa che non viene proposta direttamente nei confronti del magistrato ma nei confronti dello stato nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri. La causa procede dinanzi ad un determinato giudice che ha competenza per territorio in quanto è il Tribunale della sede di Corte d'appello del distretto più vicino a quello in cui il magistrato esercitava le proprie funzioni. Al termine della causa per la responsabilità del magistrato se viene emanata una sentenza di accoglimento a are il danno sarà lo stato che in seguito potrà esercitare un'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ma entro un anno dal risarcimento. La sentenza di risarcimento sarà opponibile nel corso del giudizio di rivalsa da parte del magistrato che abbia fatto intervento nel giudizio di responsabilità (difficilmente un magistrato interviene in un giudizio di responsabilità cosicché nel giudizio di rivalsa è lo stato a dover dimostrare che il danno è stato cagionato per dolo, colpa grave o diniego di giustizia). Per quanto riguarda la misura della rivalsa essa non può superare una somma pari al terzo di un'annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta. Il limite di un terzo non si applica in caso di dolo ma solo negli altri due casi (colpa grave e diniego di giustizia). Da questa disposizione (in funzione della lunga durata di un processo del tipo in esame e degli aumenti automatici degli stipendi dei magistrati) si evince ulteriormente il favor del legislatore nei confronti dei magistrati. Nel caso in cui il danno viene provocato da un collegio (e non da un giudice monocratico) a tutela del danneggiato interviene la legge n.117/1988 che ha aggiunto all'art.131 c.p.c. il comma che stabilisce che dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale che deve contenere la menzione dell'unanimità della decisione o del dissenso; questa norma è stata dichiarata incostituzionale e alle parole "è compilato" sono state sostituite quelle "può, se uno dei componenti del collegio lo richiede, essere compilato".

Quindi è il dissenziente che deve chiedere che il suo dissenso venga messo a verbale. L'art.55 c.p.c., abrogato, prevedeva un termine breve (10 giorni) dal deposito dell'istanza di parte entro il quale se il giudice non provvedeva si poteva agire contro di lui per diniego di giustizia. Mentre oggi la legge n.117/1988 prevede che scaduti i termini di legge per il compimento dell'atto deve essere presentata istanza ed il giudice ha a disposizione 30 giorni per emettere il provvedimento; se il termine di legge non è previsto i 30 giorni decorrono dal deposito in cancelleria dell'istanza volta ad ottenere il provvedimento. Anche in questo caso la posizione del giudice è stata agevolata in quanto è possibile prorogare il termine per un massimo di tre mesi dalla data di deposito o di sei per la redazione di sentenze di particolare complessità.







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