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LE CALDERE DA FRANA (AVALANCHES CALDERAS)

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LE CALDERE DA FRANA (AVALANCHES CALDERAS)

Le caldere da frana sono ampie depressioni a forma di ventaglio che incidono i fianchi di molti strato-vulcani. Solo dopo l'evento del vulcano St. Helens nel 1980 ci si è resi conto che queste forme vulcaniche erano il risultato di frane che avevano asportato interi settori di un edificio vulcanico. 

Il franamento può avvenire per fenomeni gravitazionali in strato-vulcani alti e con fianchi molto inclinati, specialmente quando le colate di lava si alternano a materiali piroclastici incoerenti che possono rappresentare i piani di scivolamento.

Se il franamento innesca un'eruzione, questa è spesso un'esplosione laterale e direzionale, nella quale la miscela eruttiva viene emessa con direzione orizzontale, o inclinata di un piccolo angolo con l'orizzontale.

Nell'area dell'esplosione la devastazione è completa. Un'esplosione laterale può smuovere grosse masse di detrito che scendono ad elevata velocità (anche oltre i 100 km/ora) per i fianchi del vulcano e si espandono alla base per notevoli distanze.

Le esplosioni laterali direzionali che accomnano le frane vulcaniche sono innescate dalla caduta di pressione indotta dal franamento nel magma. Oltre all'essoluzione dei gas  magmatici, la rapida diminuzione di pressione causa anche l'istantanea variazione di stato dei fluidi idrotermali.



La fase più violenta di queste eruzioni coincide con l'esplosione laterale e con l'emissione di una miscela eruttiva turbolenta e ad alta temperatura, polifase (gas-liquido-solido), che si muove per un certo tratto a contatto col terreno.

Questa fase può essere seguita da eruzioni pliniane e dall'emissione di flussi piroclastici. Talvolta la fase parossistica è costituita dall'eruzione pliniana, senza esplosione laterale, come ad esempio a Komagatake nel 1640 e a Shiveluch nel 1964 (Giappone).

L'attività successiva alle esplosioni è di solito moderatamente esplosiva e porta alla costruzione di coni o di duomi di lava all'interno della caldera. 

FORMA DELLE CALDERE DA FRANA

In pianta la forma di queste caldere è semicircolare o allungata, limitata sia lateralmente che posteriormente da alte pareti subverticali. Le pareti laterali possono essere parallele tra loro oppure leggermente divergenti in modo che la depressione risulta più ampia in corrispondenza dell'apertura.

L'altezza del bordo che limita la superficie della caldera dalla superficie esterna del vulcano va decrescendo di quota a partire dalla parte posteriore della caldera fino all'estremità anteriore, dove si congiunge al fondo della depressione.

L'apertura della caldera si trova alla base dell'edificio o, più spesso, a mezza altezza sul fianco del vulcano. Il profilo longitudinale della depressione presenta una parte anteriore con una pendenza relativamente bassa, una zona centrale quasi piatta ed una parte posteriore svasata con pendenze elevate.

Questa morfologia originaria viene a volte modificata da eruzioni successive. L'attività vulcanica all'interno della caldera consiste nella formazione di duomi lavici (St. Helens e Bezymianny) o di coni piroclastici (Colima e Popocatepetl) che possono arrivare a riempire totalmente la depressione.

Le caldere da frana, oltre a differire per forma dalle normali caldere da collasso, che sono circolari, sono anche più piccole ripetto a queste. Un'analisi statistica su circa 100 caldere da frana ha messo in evidenza una lunghezza media di 3,5 km e una larghezza media di 2,9 km, contro un diametro medio di 7,8 km delle caldere di collasso.

ERUZIONI ASSOCIATE ALLE CALDERE DA FRANA

Le eruzioni associate alla formazione delle cadere da frana vengono distinte in due tipi:

  • eruzioni tipo Bezymianny (magmatiche o freatomagmatiche);
  • eruzioni tipo Bandai (esclusivamente freatiche, senza emissione di materiale juvenile).

I due casi differiscono, oltre che per la presenza o meno di magma, anche per intensità e durata dell'attività eruttiva. Infatti, la sequenza esplosione laterale-fase pliniana-flussi piroclastici avviene solo nelle eruzioni di tipo Bezymianny, mentre nelle eruzioni di tipo Bandai la fase parossistica consiste nelle esplosioni laterali, cui talvolta segue una fase freatica di minore intensità.

Inoltre, mentre le eruzioni di tipo Bezymianny sono precedute da attività precursoria eruttiva e sismica, quelle di tipo Bandai presentano solo precursori sismici, spesso di breve durata.

Si ritiene che il tipo di eruzione sia determinato dalla posizione del magma all'interno dell'edificio vulcanico al momento del franamento. Se il magma si trova nella parte alta dell'edificio, la frana crea una zona di debolezza che favorisce l'emissione in quel punto di prodotti iuvenili attraverso violente esplosioni direzionali.

Quando il magma è più profondo, gli effetti della depressurizzazione sono meno immediati e l'esplosione può avvenire lungo il condotto principale, lasciato libero dal movimento franoso, con eruzioni magmatiche pliniane, senza esplosioni laterali.

Quando il magma non si trova all'interno dell'edificio vulcanico, ma ancora più in profondità, avvengono esplosioni freatiche non magmatiche che coinvolgono solo il sistema idrotermale. Infine, in un vulcano non più attivo da lungo tempo la formazione di grosse frane non è accomnata da alcuna attività vulcanica. Questo fenomeno rappresenta un terzo caso, chiamato - tipo Unzen, dall'evento occorso al vulcano Unzen (Giappone) nel 1792.

L'ERUZIONE DEL S. HELENS

L'eruzione del St. Helens del 18 maggio 1980, intensamente osservata e studiata, costituisce il modello di riferimento per l'interpretazione di questo tipo di eventi. 

L'eruzione è iniziata circa 20 secondi dopo il franamento del fianco del vulcano, rigonfiato dal magma che non riusciva a risalire nel condotto principale, ostruito da magma solidificato. Le prime esplosioni si sono originate in vari punti dalle scarpate formate dai blocchi di frana. Nel giro di pochi secondi, le esplosioni si sono intensificate fino a fondersi fra loro, formando una grossa nube che dal fianco del vulcano si espandeva velocemente nelle zone circostanti.

Dalle osservazioni fatte sull'abbattimento degli alberi e sui tronchi, è stato dedotto che la devastazione è stata provocata non solo dall'onda d'urto dell'esplosione, ma anche dal passaggio di una corrente ad alta temperatura e densità, costituita da una miscela di gas, liquido e solidi che veniva emessa in condizioni di flusso supersonico uniforme.

A tale corrente, che presenta caratteri intermedi tra un flusso piroclastico e un surge, è stato dato il nome di corrente piroclastica di densità. Il deposito di questo flusso è costituito da varie unità che rispecchiano le fasi di sviluppo della nube eruttiva.

Lo strato basale ha uno spessore massimo di circa 1 m, a granulometria prevalentemente grossolana, massivo o debolmente gradato, impoverito in particelle fini nella parte alta. Al di sopra si trova uno strato dello spessore di alcune decine di cm, costituito da ceneri e lapilli, massivo o debolmente gradato nella parte inferiore, con sottili stratificazioni e strutture a dune nella parte alta.

Un'altra porzione di deposito è formata dai prodotti sedimentati da nubi convettive formatesi sopra la corrente direzionale e da quelli derivanti dalla fase pliniana e dai flussi piroclastici successivi.

Un dato importante che si ricava dal deposito della devastante esplosione laterale (e che lascia intuire quanto sia difficile il riconoscimento di eventi catastrofici non recenti) è lo spessore limitato, da circa 1 m in prossimità del vulcano a 1 cm nelle aree distanti.

I DEPOSITI DI FRANE VULCANICHE

Il deposito di una frana di detrito vulcanico è formato da un miscuglio di materiale vulcanoclastico, derivante dalla frammentazione di porzioni dell'edificio vulcanico, senza selezione granulometrica ne' stratificazione. La morfologia è a colline e depressioni, con bordi longitudinali e trasversali.

Gran parte dei clasti sono litici a spigoli vivi, di dimensioni variabili da submillimetriche a più che decametriche fino ad arrivare, in alcuni casi, a blocchi di diverse centinaia di metri, detti megablocchi. Si può trovare incorporato nel deposito anche materiale juvenile, se con il franamento si innescano eruzioni o la distruzione di duomi in via di formazione.

Le dimensioni del più grosso megablocco trovato in un deposito di frana vulcanica sono di 2,5 Kmx1 Kmx400 m (vulcano Socompa, in Cile), ma normalmente sono più piccoli, con misure massime di 500 m di diametro.

Per le analisi granulometriche dei depositi di frane vulcaniche, si usa considerare separatamente i clasti grossolani e la matrice. Il limite tra le due classi non è ben definito, essendo le particelle di dimensioni intermedie considerate nell'una o nell'altra classe, a seconda dei casi.

Generalmente, nella matrice vengono incluse le particelle con dimensione della cenere e inferiori, fino ai lapilli e, a volte, fino ai massi di qualche metro di diametro. Una campionatura del deposito che sia significativa è possibile solo per la matrice e di questa, solo della porzione più fine

La porzione del deposito a granulometria maggiore (da megablocchi fino a piccoli blocchi di qualche metro) è costituita essenzialmente da materiale litico, proveniente dalla fratturazione dell'edificio vulcanico.

La matrice, invece, presenta una maggiore variabilità composizionale, anche se è costituita in gran parte da frammenti litici derivanti da rocce polverizzate durante la formazione ed il movimento della frana. Nella matrice sono presenti anche piroclasti juvenili, insieme a sedimenti alluvionali e lacustri, scaglie di suolo e frammenti di piante incorporati dalla frana. I frammenti vegetali in genere non sono carbonizzati e questo indica che il materiale è a bassa temperatura.

Una caratteristica molto importante dei megablocchi è la conservazione della struttura originaria della parte di vulcano da cui si sono staccati, anche quanto questa è costituita da materiali piroclastici non consolidati.

La conservazione della struttura originaria viene ritenuta possibile solo se il flusso scorre con movimento laminare e il trasporto dei megablocchi avviene senza grandi movimenti di rotolamento. Simili considerazioni sono state ricavate dallo studio del deposito della frana di detrito del M. Shasta (USA), dove alcuni megablocchi conservano porzioni di suolo nelle parti superiori.

Normalmente i megablocchi sono fratturati e possono essere presenti anche più sistemi di fratture. Le fratture vengono chiamate jigsaw crack o jigsaw fit (fratture o attacco a sega) per indicare che i frammenti da entrambi i lati della frattura corrispondono. La presenza di jigsaw crack è una caratteristica che si ritrova anche nei depositi da frana di materiale non vulcanico.






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