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Lucrezio - Leopardi, La comunicazione con la natura

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Lucrezio - Leopardi


Lucrezio ebbe un temperamento solitario e malinconico, sdegnò la politica e la vita mondana. Non pubblicò poesie da vivo: di qui il silenzio e il mistero che avvolgono la sua vita (ne abbiamo solo qualche cenno sommario fornitoci da S. Girolamo).

Pare che Lucrezio si sia suicidato: se questa morte sia stata conseguenza delle patite delusioni amorose e dello stato pietoso della sua salute, oppure se egli, che in tutto il De rerum natura condannò il timore della morte, abbia voluto dimostrare che parlava sul serio, o, ancora, se abbia ceduto alla disperazione per non essere riuscito a trovare nella filosofia epicurea la serenità e il conforto che tanto affannosamente vi aveva cercato, non si può affermare con certezza.


Anche Leopardi pensò di comporre un'opera sulla natura delle cose (in una lettera del 1829, egli promette al Colletta di esporgli l'elenco dei suoi intenti: 'Il trattato della natura degli uomini e delle cose conterrebbe le questioni delle materie astratte, dalle origini della ragione, dei destini dell'uomo, della felicità e simili'). Abbiamo tracce ed elementi di una sintesi compiuta del mondo materiale e morale nello Zibaldone, corpus di osservazioni erudite e filosofiche.




Secondo Carducci 'Leopardi è il Lucrezio del pensiero italiano' .


La comunicazione con la natura


La comunicazione si cerca nella natura: è la natura che ci tiene in pugno, disponendo delle nostre vite. Alla comunicazione segue la comprensione: rivolgersi alla natura significa ricondursi  all'uomo, cercando di scoprire le regole del ludus che determinano il suo destino.

A questo proposito, Leopardi scrive un canto, conosciuto con il nome di Canzone sepolcrale:


'Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre
di strappar dalle braccia
all'amico l'amico
al fratello il fratello
la prole al genitore
all'amante l'amore: e, l'uno estinto,
l'altro in vita serbar? Come potesti
far necessario in noi
tanto dolor, che sopravviva amando
al mortale il mortal?'


Il tu si cerca nella natura, e Leopardi e Lucrezio hanno la stessa doppia visione di essa, una che si ferma alla superficie, e l'altra che va più a fondo: quando vedono la natura coi soli occhi corporei, nelle sue attrattive esterne, se ne innamorano, ma poi ne scoprono le nefandezze nascoste, e se ne sdegnano.

Il Canto alla Primavera di Leopardi richiama e ripete l'inno a Venus genetrix del I libro di Lucrezio. In questi passi la natura è personificata, quasi a voler cercare in essa un'entità dal quale ricevere le risposte alle eterne domande.

Quando ne investigano a fondo i segreti paurosi, rivolgono frequenti rimproveri alla natura matrigna: basti pensare alla terribile requisitoria contro di essa nel Dialogo della Natura e di un Islandese; anche in Lucrezio sono presenti questi tormenti:


'Il mondo non è stato affatto creato per noi dalla divinità, tanto esso è pieno di difetti' (II e V libro)

'Quare mors immatura vagatur?': 'Perché immatura aleggia intorno la morte?' (V libro)


Dell'ultimo pensiero ne abbiamo gli echi in Leopardi, che ebbe un'impressione dolorosissima della morte dei giovani: 'Mio dolore in veder morire i giovini come a vedere bastonare una vite carica di uva immatura' (da: Appunti e ricordi - 1819 - in Scritti Vari).

Questa è la visione più pessimistica, perché fa capire ai due poeti quanto sia improbabile che l'uomo, dalla natura, riesca a ricavare quelle risposte di cui ha bisogno (e questo per incapacità degli esseri umani, che non sanno comunicare con la natura, che, invece, è disposta a parlare con noi).

Quando Leopardi, nell'Ultimo canto di Saffo, arresta lo sguardo alle 'amene sembianze', si apa del rapimento estetico della natura: nella lettera del 6 Marzo 1820 a Pietro Giordani racconta come, affacciatosi a contemplare una serena notte stellata, domanda perdono alla natura, gridando e piangendo.


In un passo del Tramonto della luna, Leopardi scrive:


'Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
in argento va della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete, che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla qual poscia, seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi'


A questi versi si può citare Virgilio: 'Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras' ('O Sole, che con la tua luce rischiari ogni cosa terrena', Eneide, IV, 607), oppure lo stesso Lucrezio: 'Ognuno vede e sa chiaramente come tutto a un tratto il sole, sorto in quel punto, sia solito distendere su tutte le cose l'ammanto della sua luce' (II libro, vv. 147-l49).

La natura conosce i segreti tanto ricercati, ma l'uomo riuscirà a svelarli solo quando avrà trovato un metodo adeguato di comunicazione con la natura

Lucrezio spera di trovarlo nell'epicureismo: 'nil dulcius est bene quam munita tenere| edita doctrina sapientium templa serena' ('niente è più bello che abitare le ben difese fortezze elevate dalla serena filosofia dei saggi', II libro, vv. 23-24), ma l'insoddisfazione verso la dottrina epicurea lo spinge al suicidio.

In Leopardi la conclusione, almeno in linea teorica, è la medesima: 'se la vita è sventura, perché da noi si dura?' (Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)

Leopardi amante della morte, dunque, in quanto, paradossalmente, la morte è un modo per conoscere i segreti della vita, essendo morte e vita condizione e ragione l'una dell'altra, nella loro perpetua alternanza










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