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Tutto ciò che ho

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Questo è un racconto di fantasia, si svolge tra persone fittizie in un momento storico immaginario. Fatti e persone menzionate nel testo sono una mia creazione e ogni rassomiglianza con la realtà è puramente casuale.


Tutto ciò che ho


In principio, ero solo una bambina dimenticata da tutti, tranne che da Dio (o almeno così speravo, anche se poi mi vennero dei dubbi). La mia famiglia era un disastro: papà era sempre ubriaco e si rifiutava di lavorare, mia madre era sempre a letto con forti mal di testa e mia sorella Marzia era il peggio del peggio. Voleva sempre soldi per vestiti nuovi o per uscire con gli amici; mio padre glieli negava. Allora lei per protestare si rifiutava di andare a scuola e si chiudeva in camera sua (che era anche la mia), impedendo a tutti di entrarci, anche a me. Così ero costretta a dormire sul divano. Quante notti insonni perché la sorella maggiore faceva i capricci! Sembra strano: "La sorella minore che a le conseguenze degli sfizi della maggiore". In una famiglia normale sarebbe stato il contrario; ma la mia non lo era per nulla.

Io sono sempre stata una bambina forte. Dovevo esserlo per sopportare una situazione famigliare tanto da eguagliare la Prima Guerra Mondiale (anzi, facciamo la seconda, anche se il mio tormento credo sia durato di più). La mamma mi diceva sempre di essere più forte, specialmente quando papà e Marzia litigavano. Le volevo molto bene anche se sapevo che lei non era la mia vera madre. Non le ho mai detto come l'avevo scoperto e tanto meno che lo avevo scoperto; non volevo che si preoccupasse di me, quando invece doveva occuparsi della casa e curare quei suoi brutti attacchi d'emicrania. Certo, dopo aver scoperto che i miei genitori naturali mi avevano abbandonato davanti alla sartoria dove lavorava "mia madre", non feci i salti di gioia, tuttavia non sprofondai nemmeno in depressione! In un primo momento non riuscivo a crederci. Stavo spolverando i mobili del salotto, (volevo che la mamma trovasse pulito al suo rientro e potesse riposarsi), quando da dietro il grosso armadio in noce scuro, spuntò il lembo di un foglio. Incuriosita, spostai il mobile (non ci crederete mai, ma la forza della curiosità è immensa. Anche se rischiai di rompere il lampadario!), e quello che trovai fu un vero e proprio archivio: certificato di nascita, certificato di adozione, ordinanze del giudice, certificati di residenza in vari orfanotrofi locali e non . . insomma, i miei primi cinque anni di vita scritti in una dozzina di fogli tenuti uniti da un'elegante, anche se sbiadito, nastro argenteo con sopra scritta una dedica: "Finalmente la mia Annie". Sì proprio così mi chiamo Annie (per chi non lo sapesse si pronuncia "Enni"). Lo so è un nome strano, ma mia madre voleva che iniziasse per "A" come angelo, e fosse speciale come lo ero io per lei. "Il suo angelo speciale". La sua Annie.



Da quel giorno non cambiò il rapporto che avevo con la mia famiglia, anzi iniziai a guardarla da una prospettiva nuova! All'inizio odiavo quel clima di tensione, le facce scure a pranzo, colazione e cena, ma poi anche le litigate tra papà e Marzia assumevano aspetti positivi, sentivo che non ero sola, e anche se era un "po'" disastrata, io una famiglia ce l'avevo! (Però in certi momenti ho pensato e gridato il contrario!).

Una sera, la mamma, colpita da uno dei suoi mal di testa, e mentre papà e Marzia discutevano per l'ennesima bottiglia di birra, mi fece promettere che avrei preso il suo posto e avrei tenuto unita la famiglia. Accettai. Ero troppo piccola per capire di che fardello mi ero caricata (ed anche troppo stupida, puoi dire di tutto a dei bambini di dieci anni e loro ti ascoltano se riesci a premere il tasto giusto.).

Due settimane dopo la mia promessa, la mamma si sentì male e fu portata in ospedale, dove si costatò che aveva una grave forma di tumore al cervello e nessuna possibilità di sopravvivere. Nei giorni in cui rimase in ospedale andavamo tutti e tre a farle visita portandole fiori o cioccolatini. Sembrava finalmente una famiglia unità, di quelle che si vedono solo in televisione. Durante il tragitto da casa all'ospedale papà e Marzia si parlavano come si dovrebbero parlare un padre e una lia NORMALI e non come ubriacone e bambina viziata. Questo spariva quando eravamo a casa e soprattutto dopo che io ero andata a letto (io ero "la piccola che non si doveva impicciare nelle questioni dei grandi" così mi liquidava lei.  Ero stupida sì, ma non fino a questo punto. Infondo, chi si era accollata tutte le responsabilità, facendo un giuramento alla mamma, quella santa donna "che mi aveva messo nei casini"?).

Una domenica mattina, ancora assonnata, mi recai in cucina. Li sentii litigare come al solito. (Non esistevano i giorni festivi per loro!). Non ci credevo. Avevo sperato che quei litigi sarebbero finalmente finiti! Ma non era cambiato nulla, avevano soltanto fatto finta. Questo mi ferì profondamente. Aprii di colpo la porta della cucina ed urlai con tutto il fiato che avevo in corpo: " ½ odio! ½ odio tutti e due! Siete dei bugiardi!", e scappai in camera mia.

Mia madre morì qualche settimana dopo, il 27 febbraio 1973. A quell'epoca avevo solo dici anni (e mezzo, se vogliamo precisare! Voglio precisare!) e tutti i pesi della famiglia, (Marzia e me), caddero su mio padre. Lui cercò di darci tutto quello che poteva offrirci (dopo la morte della mamma il bilancio famigliare crollò in un pozzo senza fondo.), ma non fece un buon lavoro con Marzia: lei aveva ormai sedici anni e dopo la morte della mamma cadde in depressione. Però i problemi più grandi iniziarono quando cominciò a frequentare strane comnie. I guai vennero a palate, anzi secchiate, (droga, alcool, fumo . ..), si bucava con gli amici e arrivava addirittura al punto di rubare i soldi a mio padre per comprarsi cognac (era un tipo piuttosto raffinato) e altre cose simili. Mio padre non la considerava più sua lia e neanche Marzia non lo chiamava più papà: ora era solo mio padre. No, lui non era mio padre. Lei non era mia sorella. Però, io le volevo bene quasi come una seconda madre per me: ascoltava sempre quello che avevo da dire, gli confidavo tutti i miei problemi, ma io non potevo fare niente per lei, non mi parlava mai di se stessa e da qualche tempo aveva lo sguardo perso nel vuoto, mentre io le raccontavo le mie giornate, lei era lì con la mia testa in grembo, ma la sua mente era altrove in un posto dove non potevo, non riuscivo ad entrare, i suoi pensieri era chiusi in uno scrigno sigillato in tal modo che nessuno ci potesse entrare, tanto meno io .

Una notte mi svegliai di soprassalto, avevo sentito delle grida che provenivano dalla cucina, scesi impaurita dal letto, mi misi la vestaglia e sbirciai dalla porta aspettando di sentire o di vedere qualcosa,  riconobbi la voce di papà e di Marzia: stavano litigando ancora. Decisi di scendere di sotto ed urlargli tutto in faccia (per la prima volta nella mia vita bestemmiai!), e confessargli che ero stata adottata e che me n'andavo perché non erano la mia famiglia, se fosse stato necessario a farli smettere definitivamente. Papà era molto sbronzo, si sentiva dal tono della voce: sognante, ma forse troppo arrabbiata per una normale lite con Marzia, mia sorella doveva aver combinato qual cosa di veramente spaventoso. Scesi le scale decisa a perseguire il mio scopo. Un tuono rombò nell'aria, fuori quella notte un forte temporale si abbatté sul paese, e qualcosa d'ancora più spaventoso stava per sconvolgere la nostra gia disastrata famiglia. Camminai verso la porta della cucina. Quel tuono mi aveva spaventato. Era un avvertimento. Non dovevo andare in quella maledetta cucina. Origliai dal buco della serratura. Mi bastarono queste tre parole " . è mio lio . ", per scoprire mia sorella diciassettenne stava per avere un bambino, per questo mio padre si infuriò, ma quando Marzia minacciò di denunciarlo perché non voleva mantenere lei e il suo bambino, perché abortire, andava contro i suoi principi. Papà afferrò la bottiglia di whisky e la colpì in piena nuca. Spalancai la porta proprio nel momento in cui mio padre stava abbassando il braccio contro Marzia. Mia sorella cadde a terra. L'unica cosa che riuscii a dire fu: "Dovevo morire io". Non so perché lo dissi ma mi sentivo responsabile di tutto: ero io che dovevo tenere unita la famiglia, io avrei dovuto salvarla. In quel momento mio padre s' accorse di me. Lo guardai negli occhi, erano umidi, tristi, colpevoli . i miei invece erano freddi. Mi disse: "Tu non eri il suo angelo, l' ho fatto per te." Quelle furono le parole peggiori che un padre avesse potuto dire ad una lia dopo aver sfondato il cranio alla sorella. Mi rendevo conto perfettamente di quello che aveva fatto.

Papà prese il corpo di Marzia e lo portò fuori. Dalla finestra vidi che, sotto una fortissima pioggia, mio padre seppelliva la sorella che tanto amavo.

Quando rientro tutto bagnato, io ero lì in cima alle scale che lo guardavo con occhi, azzurri, profondi e penetranti di ghiaccio!

Non potei mai perdonargli quello che fece a Marzia, nemmeno mentre nel suo letto d'agonia chiese, sempre con gli occhi di quella sera, il mio perdono, io gli risposi con lo stesso sguardo di vent'anni prima: fredda e distaccata.

E vero, la mia "fanciullezza" è stata un po' movimentata, ma chi non ha avuto problemi in famiglia? Credo nessuno. Nonostante tutto, ringrazio il signore per avermi dato una vita (anche se un pochino strana direi . ) che mi ha reso una persona forte, che ha affrontato tutte le difficoltà di petto, senza lasciarsi scoraggiare, realizzando i propri obiettivi, ma che ha scoperto che non deve mai perdere se stessa, perché quando il mondo ti volta le spalle tu sei tutto ciò che hai. E tutto ciò in cui devi credere per continuare il tuo cammino. Sii sempre te stessa sempre e comunque. Io ho fatto così e sono arrivata dove non me lo sarei mai aspettata, io la piccola Annie!


























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