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Esercizio sulla I Bucolica



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Esercizio sulla I Bucolica


La prima bucolica è interamente costruita sul contrasto tra l'angoscia e la malinconia di Melibeo e la serenità e la tranquillità di Titiro. Pertanto essi sono tra di loro in posizione antitetica, e questo lo possiamo già evincere dalla chiasmatica opposizione tra il "nos maiestatis" ed il "tu", alternativamente utilizzati dai due pastori: ricerchiamo quindi questi loro stati d'animo contrastanti nel lessico della prima bucolica.

Melibeo all'inizio riprende Titiro, poiché lo vede "patulae recubans sub tegmine fagi"; egli è quindi disteso, tranquillo, posato, seguendo le sue solite abitudini. In opposizione a questo invece Melibeo è costretto ad abbandonare i "dulcia arva", e con essi quindi la sua personale patria, giacché il mondo contadino è fortemente legato all'ambito dei possedimenti terrieri. "Dulcia" quindi perché per lui sono i campi amati, dolci, gradevoli, i campi nei quali è vissuto sin da bambino e probabilmente gli unici che conosce. Quest'antitesi è ripresa subito dopo, quasi Melibeo ne volesse fare un piccolo sommario: "Nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra [ . ]". Da parte di Titiro ad ogni modo non c'è solo tranquillità e serenità, in quanto egli è perfettamente cosciente che se non ci fosse stato l'intervento di Ottaviano (da lui divinizzato fino a diventare "deus") ora si troverebbe nelle stesse situazioni dell'amico Melibeo: Titiro ne è talmente cosciente da promettere che "saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus". Dunque Melibeo ammette di non invidiare l'amico, ma di meravigliarsi piuttosto: "fino a questo punto c'è scompiglio in tutta la camna!". Melibeo è stordito, non riesce a capire molto di quello che sta succedendo, e questo suo stato interiore è ben esemplificato nel termine "miror", che vuol dire sì meravigliarsi, essere stupiti, ma vuol dire anche ammirare interdetti qualcosa . Melibeo è quindi malinconico, attonito, ma anche e soprattutto "aeger", ovvero afflitto, malato, sia fisicamente sia, soprattutto, mentalmente. Egli si rende anche conto che queste disgrazie le avrebbe anche potute prevedere, in quanto segni divini gliele avevano preannunciate. Titiro dall'altra parte è cambiato, si è in un certo senso evoluto ed ha già ricevuto un insegnamento da questa situazione poiché, dopo essere stato lasciato da Galatea ed essersi messo con Amarillide, gli si sono "aperti gli occhi". Sicché mentre prima "parvis componere magna solebam", ora riesce a ragionare meglio ed ha una mente più aperta. Quindi non solo comincia a vedere Roma come una città che svetta rispetto a tutte le altre ma comincia anche a preoccuparsi della propria situazione economica, della quale prima non si curava affatto. Melibeo poi riprende il campo semantico del "miror", osservando stupito e quasi invidioso come Amarillide aspettasse il ritorno di Titiro "maesta", quasi in religiosa attesa. Da qui fino alla fine dell'egloga sarà un'alternanza tra l'esaltazione e "l'osannazione" del deus Ottaviano (poi più confidenzialmente definito "iuvenis") da parte di Titiro ed il malinconico ricordo dei "dulcia arva" affiancati da una serie di consuetudini e situazioni usuali di tutti i giorni da parte di Melibeo. Titiro non si è dimenticato della grande grazia concessagli da Ottaviano, "quotannis bis senos cui nostra dies altaria fumant". Melibeo quindi considera Titiro colpito da una grande grazia divina, "fortunate senex", in contrapposizione alla sua sfortunata situazione, che lo costringe a rimpiangere i suoi "rura". A Titiro infatti sarà consentito per tutto il resto della vita godersi la frescura prodotta dall'ombra di un salice, o addormentarsi dolcemente accomnato dal "susurro Hyblaeis apibus", e tutta una serie di consuetudinarie situazioni cui i pastori sono abituati e senza le quali si sentono disorientati e quasi privati di qualcosa di fondamentale, come la situazione che sta vivendo interiormente Melibeo. Titiro poi afferma, utilizzando le ure retoriche dell'iperbole e dell'adynaton, che prima che dal suo cuore se ne sarebbe andato via il ricordo del "deus iuvenis" Ottaviano si sarebbero dovute verificare una serie dei situazioni improbabili. Dall'altra parte Melibeo è deluso e si rende conto che tutto il lavoro che egli ha fatto per coltivare amorevolmente i suoi "dulcia arva" è destinato a passare sotto silenzio, ed i suoi campi destinati ad essere distribuiti a gente che non ne è degna, in quanto "Impius haec tam culta novalia miles habebit, barbarus has segetes.". Da sottolineare è il significato assunto da "culta novalia": infatti i campi sono sì coltivati, ma insito nella parola "culta" vi è il senso di una coltivazione operata con amorevole cura. E sempre Melibeo, ormai rassegnato, elargisce l'ultimo malinconico saluto alle sue amate "capellae", ricordando il suo come un "felix quondam pecus". Ed inoltre rivolge una richiesta a Titiro, di innestare i peri e di disporre in ordine le viti, che sebbene sia resa con un imperativo può essere interpretata come un ultimo desiderio di un pastore che, incredulo e malinconico, sta lasciando i luoghi natii. Ed infine Titiro, partecipe del dolore del comno, gli propone di passare con lui l'ultima notte, in mezzo a quei campi tanto amati; infatti nel frattempo si sta facendo notte e quindi nell'atmosfera pacata del tramonto si stempera, nello spazio protetto da Titiro, il dolore per il piccolo ed interno dramma di Melibeo.



Le parole più frequentemente utilizzate da Melibeo sono, ovviamente, quelle che vanno a sottolineare il suo stato d'animo angosciato e malinconico; solitamente però egli pone questa sua situazione interiore mettendola in contrapposizione con quella più tranquilla e serena di Titiro (fortunate senex, ergo tua rura manebunt et tibi magna satis) che dal canto suo continua per tutta la durata della bucolica ad esaltare e ricordare il magnanimo gesto del "deus iuvenis", considerandosi fortunato ad avere conservato i suoi "rura".






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