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Lucrezio La peste d'Atene

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Lucrezio

La peste d'Atene

(De Rerum Natura VI, 1138-l198)



Questo tipo di malattie e l'influsso mortale un tempo rese funesti i campi nei territori di Cecrope e devastò le vie, spopolò la città dai cittadini.

Infatti una volta sorta all'interno dei confini dell'Egitto, venendo attraversando molta aria ed i  campi natanti [i mari, i.e.], alla fine, si fermò su tutto il popolo di Pandione.

Poi a caterve si davano alla malattia ed alla morte.  

Da principio avevano il corpo incendiato dalla febbre ed i due occhi arrossati da una luce soffusa.

Anche la gola trasudava nera di sangue, e la via della voce ostruita dalle piaghe si chiudeva e la lingua, interprete dell'anima, emetteva sangue debilitata dai mali, pesante al movimento, ruvida al tatto.

Quindi quando attraverso la gola la forza del morbo aveva riempito il petto ed era confluita nel mesto cuore dei malati, allora veramente tutte le porte della vita crollavano.

Il fiato esalava un odore orribile al di fuori della bocca, nel modo in cui puzzano i cadaveri insepolti putrefatti.

E le forze di tutto l'animo ed ogni corpo languiva ormai completamente sulla soglia della stessa morte.

Ed ai mali intollerabili era continuamente comna un'ansia angosciata ed un lamento commisto  a gemiti.

Un singulto frequente li estenuava notte e giorno, spossandoli, già indeboliti, spingendoli a contrarre continuamente i nervi e le membra.

Né avresti potuto vedere che a qualcuno la parte esterna sulla superficie scottava per il troppo calore, ma piuttosto che offriva alle mani un tiepido contatto, e contemporaneamente che tutto il corpo era rosso quasi come per ferite bruciate, come accade quando il sacro fuoco si diffonde tra le membra.

In verità, l'intima parte degli uomini bruciava fino alle ossa, bruciava nello stomaco una fiamma come dentro le fornaci.



Addirittura non avresti potuto rendere utile a nessuno niente di leggero e delicato per le membra, ma sempre aria fresca.

Alcuni gettavano le carni ardenti per il morbo nei fiumi gelidi buttando il corpo nudo tra le acque.

Molti si gettarono a precipizio dall'alto nelle acque dei pozzo giungendovi con la stessa bocca aperta.

Una sete arida insaziabilmente, immergendo più volte i corpi, rendeva una grande pioggia simile a poche gocce. Né c'era alcun rimedio al male: i corpi giacevano spossati. La medicina balbettava con tacito timore, poiché essi tante volte volgevano gli occhi spalancati, ardenti per le malattie, privi di sonno.

Inoltre si davano molti segni di morte: le facoltà intellettive dell'animo turbate nella sofferenza e nella paura, il sopracciglio triste, il volto furioso e stravolto, poi le orecchie turbate e piene di ronzii, il respiro affannoso o pesante e lento, ed il sudore lucido grondante sul collo, tenui sputi minuti, cosparsi di coloro croco e salati, emessi attraverso la gola a forza con una rauca voce.

I nervi poi non esitavano a contrarsi nelle mani e gli arti a tremare ed il freddo a diffondersi dai piedi poco per volta.

Infine, di seguito, al momento supremo le narici chiuse, la punta del naso assottigliata, gli occhi scavati, le tempie incavate, la pelle fredda e dura sul viso, giacendo sulla bocca, teneva la fronte tesa.

Né dopo troppo gli arti giacevano rigidi per la morte.

E di solito nell'ottava luce del sole splendente o ancora al nono giorno restituivano la vita.




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