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L'ultimo Pirandello: i "miti" e le novelle surreali



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L'ultimo Pirandello: i "miti" e le novelle surreali

I «miti» teatrali.  Una nuova poetica rispetto a quella dell'<umorismo>. Già sul finire degli anni Venti compaiono però nella produzione teatrale di Pirandello nuove direzioni di ricerca, che rivelano un cambiamento di poetica rispetto a quella. dell'<umorismo» e del <grottesco» che aveva sostanzialmente ispirato la sua opera sino a quel momento (anche la fase del «pirandellismo» proseguiva su quella linea, pur costituendone un'involuzione). Come si è visto, l'«umorismo» tendeva a scomporre la realtà, svelando stridori e contraddizioni, dissolvendo l'idea di una totalità organica: era il corrispettivo della visione di una realtà frantumata e aperta, molteplice e polivalente, avvicinabile da prospettive diverse, i cui frammenti non potevano venire ricomposti in un ordine oggettivo, essere ricondotti ad un senso globale dato una volta per tutte. Di qui derivavano la riduzione degli intrecci narrativi e drammatici a meccanismi assurdi e l'impostazione raziocinante, tesa ad anatomizzare quelle situazioni paradossali mediante un linguaggio spezzato, concitato, convulso.

Il contatto con l'Essere attraverso il simbolo. Ora invece compaiono tendenze irrazionalistiche e mistiche, che puntano a stabilire un contatto con l'Essere, con l'essenza stessa delle cose, a rivelare una verità arcana e universale attraverso forme simboliche, vaghe e indefinite, attraverso processi di intuizione che mettono immediatamente, misteriosamente in contatto con una dimensione 'altra'. Mentre nella fase «umoristica> la natura appariva estranea e indifferente, ora tra soggetto e oggetto, uomo e natura vengono postulate segrete corrispondenze. L'arte, da procedimento "umoristico" che è sempre <fuori di chiave>, scisso, straniato e autoriflessivo, diviene lo strumento privilegiato per la rivelazione intuitiva dell'essenza e della verità, attraverso la forza suggestiva del simbolo.



Il linguaggio lirico e ispirato. Anche il linguaggio muta: il discorso assume forme di liricità ispirata ed effusa, «che mira a illuminare magicamente spettatore e lettore» (Luperini). In questo passaggio dal corrosivo, lucido, disincantato razionalismo umoristico, straniante e critico, ad un irrazionalismo magico e simbolico, si può ravvisare un ritorno di Pirandello ad un clima decadente. Paradossalmente lo scrittore, che nella sua fase centrale era ormai andato oltre il Decadentismo, che pure era la sua originaria matrice culturale, in una direzione di ricerca più moderna, sembra riavvicinarsi ad esso proprio nell'ultima fase della sua produzione.

Il riavvicinamento al clima decadente. Ma, come ha osservato Luperini, vi erano motivazioni storiche ben riconoscibili. Se il primo Novecento era stato il periodo delle avanguardie, delle inquietudini innovatrici e delle ardite sperimentazioni, in coincidenza dell'instaurarsi del fascismo come regime, dopo il '26, si assiste anche nel campo della cultura ad un 'ritorno all'ordine'', ad una rinuncia alle provocazioni, ad un ricupero di una concezione mitico-simbolica dell'arte, ad una sua assolutizzazione estetizzante.

I "miti". Di questo clima mutato sono espressione i tre cosiddetti «miti» pirandelliani (a cui va unita la Favola del lio cambiato): testi teatrali che non rappresentano più la realtà sociale borghese contemporanea, sia pur attraverso il filtro deformante e corrosivo del «grottesco>, ma si collocano in un'atmosfera mitica e simbolica, utilizzando elementi leggendari, meravigliosi, sovrannaturali.

I luoghi dell'immaginario. L'azione si svolge di norma in luoghi separati dalla realtà storica contemporanea, luoghi essenzialmente dell'immaginario: nella Nuova colonia (1928) un'isola edenica dove si rifugia un gruppo di contrabbandieri, nel tentativo di dare origine ad una comunità utopica; in Lazzaro (1929) un podere felice, che rappresenta la genuinità della natura in contrapposizione alla città e alla vita meccanizzata della civiltà moderna; nei Giganti della montagna (iniziato intorno al 1930 e rimasto incompiuto, alla morte dell'autore) la villa simbolica della Scalogna, dove si rifugia il mago Cotrone a compiere i suoi incantesimi. Gli eventi prodigiosi. In questi spazi 'altri' si producono eventi prodigiosi, sovrannaturali: nella Nuova colonia la prostituta Spera, che incarna l'ancestrale mito della Madre Terra, scatena un terremoto per punire coloro che non sanno vivere all'altezza dei valori naturali, in Lazzaro il sacerdote Lucio compie il miracolo di far camminare la sorella paralizzata, nei Giganti il mago Cotrone evoca visioni arcane, materializzazioni della fantasia e dell'inconscio.

I giganti della montagna I1 testo più significativo, a cui Pirandello affida in certo qual modo il suo testamento spirituale, è I giganti della montagna. In forme simboliche e allusive, talvolta oscure e difficilmente decifrabili, l'opera affronta un problema che assilla lo scrittore, quello della posizione dell'arte, in particolare quella teatrale, nella realtà moderna, capitalistica e industriale, in rapporto con il mercato e il pubblico. L'attrice Ilse vuole portare tra gli uomini il messaggio estetico, ostinandosi eroicamente a recitare La favola del lio cambiato, il testo di un poeta che l'aveva amata ed è ormai morto (nella realtà l'opera è di Pirandello stesso), ad un pubblico volgare che rifiuta l'arte e la poesia. Di contro il mago Cotrone, chiuso con un gruppo di stravaganti creature nella villa della Scalogna, appartata dal mondo, afferma che l'arte può vivere solo nella sfera della fantasia, dei sogni, dell'inconscio, quindi è perfettamente autosufficiente e non deve cercare il contatto con la società e il pubblico.



L'arte nella società industriale. I1 mago non riesce a convincere Ilse e questa, su suo consiglio, cerca l'aiuto dei Giganti, potenti creature che vivono sulla montagna, e che rappresentano il Potere, la realtà industriale moderna, efficiente e produttiva (e forse alludono anche al regime fascista): il simbolismo sembra voler dire che l'arte nella società industriale, dominata dal mercato, non può sopravvivere con le sole sue forze, ma deve cercare l'appoggio del potere economico e politico (attraverso sovvenzioni, finanziamenti, appoggi). La conclusione del dramma non fu scritta da Pirandello, ma il lio Stefano ce ne ha conservata la traccia, confidatagli dal padre: Ilse recita la Favola dinanzi ai servi dei Giganti, durante un banchetto nuziale, ma quegli esseri barbari e rozzi sbranano lei e i suoi attori. In questa pessimistica conclusione sulle sorti dell'arte e del teatro si può forse cogliere l'eco di un episodio reale vissuto da Pirandello: egli aveva rappresentato a Roma la sua Favola del lio cambiato musicata da Malipiero e aveva incontrato scarsa approvazione da parte del regime.

Il rapporto col regime fascista. Nei servi dei Giganti quindi Pirandello adombrerebbe i gerarchi fascisti, e nella sorte della recita di Ilse la sorte dei propri tentativi di cercare appoggio per il suo teatro presso lo Stato. Nelle ure dell'attrice Ilse e del mago Cotrone si proietta quindi un dilemma che doveva essere lacerante per lo scrittore negli ultimi suoi anni: continuare l'attività teatrale, facendo i conti con la sordità del pubblico alla poesia e lottando per ottenere un sostegno dello Stato che finanziasse il teatro in crisi, quindi cercando un compromesso tra le ragioni dell'arte e quelle del potere e dell'economia, o rinunciare al rapporto col pubblico, chiudersi nella sfera autosufficiente della pura creazione poetica, che sprezza i condizionamenti materiali. La sorte finale di Ilse sembra far capire che Pirandello, stanco e disilluso, propendesse per la seconda soluzione.

Le ultime novelle. In una direzione affine a quella dei miti teatrali, ma con esiti decisamente più persuasivi, si muovono le novelle scritte da Pirandello negli anni Trenta, raccolte negli ultimi due volumi delle Novelle per un anno, Berecche e la guerra e Una giornata. In alcune di esse è mantenuto un riferimento alla realtà comune, ma alla rappresentazione «umoristica» delle convenzioni sociali, delle maschere che la vita associata impone agli uomini, dei meccanismi assurdi e grotteschi dell'esistenza, si sostituisce lo scavo nella dimensione dell'inconscio.

La regressione all'infanzia e l'emergere dell'inconscio: I piedi nell'erba Vi si esprime anche il confronto tra la civiltà moderna, delle grandi metropoli tumultuose, dove si svolge una vita alienata e meccanizzata (non a caso alcune novelle significative sono ambientate in America), ed un bisogno di autenticità, di vitalità genuina, che si manifesta come ritorno alla natura, come emersione incontrollata di istinti profondi o come regressione all'infanzia e alla sua innocenza primigenia. Significativa è la novella I piedi nell'erba (1934): un uomo anziano, a cui è morta la moglie, trascorre il suo tempo nei giardini pubblici; al vedere i bambini che corrono a piedi nudi sul prato anch'egli sente l'impulso irresistibile di denudarsi i piedi, di immergerli sensualmente nel fresco dell'erba rigogliosa. I1 gesto apparentemente assurdo rivela un bisogno di regredire all'infanzia, per trovare una vitalità ormai perduta, in un contatto rigenerante con la natura. Nel gesto si esprimono però anche impulsi profondi e inconsci di natura sessuale, di carattere esibizionistico: il suo senso è immediatamente colto da una fanciulla, che inveisce indignata contro il vecchio, ma questi resta a sua volta stupefatto, non si riconosce in quell'interpretazione, rifiuta di fare i conti con la parte più profonda e ignorata di sé.



Il chiodo. I1 caso simmetricamente speculare è quello della novella Il chiodo (1936), in cui un ragazzo di buona famiglia, per un impulso misterioso e irresistibile, uccide con un grosso chiodo arrugginito una bambina di otto anni, Betty, esprimendo così il rifiuto di crescere, la volontà di restare fermo ad uno stadio infantile, visto come un Eden in cui il tempo si sia fermato: <E tu resterai sempre piccina così, qua in camna, senza mai farti grande per nessuno; in camna, come in un paradiso, Betty».

Le novelle surreali: C'è qualcuno che ride In molti casi invece il riferimento alle coordinate della realtà salta, e le novelle si collocano in un clima surreale, fantastico, addirittura allucinato. È il caco di C'è qualcuno che ride (1934), in cui, in una festa mascherata molto ufficiale e seria, serpeggia l'inquietudine perché c'è una famigliola che si abbandona a un riso giocondo, irrefrenabile. I1 riso rappresenta l'erompere delle pulsioni più profonde dell'inconscio, da cui la civiltà si sente minacciata, perché la spontaneità dell'istinto può rivelare le convenzioni false su cui essa si regge. La novella, con mezzi semplicissimi, crea un clima di forte tensione, un'atmosfera allucinata che ha fatto pensare alla narrativa kafkiana (per un approfondimento rimandiamo all'analisi del testo, T54).

Gli impulsi distruttivi: Soffio Le forze emergenti dall'inconscio possono essere sane e vitali, come in questo caso, ma possono al contrario veicolare impulsi aggressivi e distruttivi. E il caso di Soffio (1931), in cui un uomo scopre che, soffiando sul pollice e l'indice uniti, può uccidere, e, preso come da un'allucinata e mostruosa volontà omicida, semina intorno a sé la morte, in una specie di apocalisse. Alla fine l'aggressività si ritorce su se stessa: il protagonista finisce per soffiare contro la propria immagine riflessa in uno specchio, autodistruggendosi.

Una giornata, metafora esistenziale. La più suggestiva di queste novelle è però forse Una giornata (1936): un uomo, strappato dal sonno, si trova buttato fuori dal treno, di notte, in una città sconosciuta. Non ricorda nulla di se, della propria vita. La gente però mostra di riconoscerlo. Un'automobile con autista lo porta in una bellissima casa, in cui egli si sente estraneo. Guardandosi allo specchio si scopre già vecchio, mentre il giorno prima era ancora giovane. Gli vengono annunciati i suoi li, ma nell'atto in cui li osserva vede diventare vecchi anch'essi, mentre i nipotini si trasformano in uomini. La novella è forse una metafora della vita, in cui piombiamo come estranei, senza che noi lo vogliamo, e del rapido fuggire del tempo che subito ci avvicina alla morte.

Di sera, un geranio Quello della morte è un tema costante di queste ultime novelle pirandelliane. Affascinante è anche Di sera, un geranio (1931), che descrive l'esperienza di un'anima che si è appena staccata dal corpo e va a poco a poco svanendo, pur col desiderio di continuare ancora ad esistere in qualcosa, una pietra, un fiore. Così, per un attimo, l'anima si cala in un geranio, che all'improvviso, nella sera, si accende di tutto il suo color rosso vivo.










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