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Ugo Foscolo

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Ugo Foscolo

Il Foscolo è un chiaro esempio di come si possa con il solo talento e con l'integrità di carattere conquistarsi un ruolo nella società. Egli senza i genitori, senza una lira, con il suo ingegno e il suo coraggio di dire il vero, senza adulare nessuno, era riuscito se non a farsi amare, almeno a farsi stimare e rispettare in una patria che non era nemmeno la sua. Sembra quasi che egli voglia, come il principe di Machiavelli, essere più temuto che amato. Leggendolo, non si ha di lui - come invece accade per molti altri intellettuali - l'immagine di un topo di biblioteca, intento solo a leggere e a consultare volumi. Non è lì infatti che egli impara l'arte di conoscere la società. La sua epoca sembra piena di felici prospettive: i lombardi si sono lasciati alle spalle una pesante schiavitù e davanti a loro adesso si prospetta un avvenire di una apparenza libera e gloriosa, pieno di speranze e di illusioni. C'erano teatri, feste, conviti, danze, giochi e ognuno si abbandonava al godimento e alla gioia. Non vi è un epoca così felice come quei tre anni dell'amministrazione Melzi e il Foscolo dallo studio intenso sui classici si gettava a testa bassa nelle dissipazioni. Dopo lo studio si passava quindi al divertimento, e quello del Foscolo erano il teatro e il tavoliere. La concezione del giorno quotidiano era molto semplice per lui: dopo aver meditato sui testi di Omero, Callimaco e Tacito usciva per andare a sfidare la fortuna. Essa gli sorrise molte volte e qualche volta tornava a casa con un mucchio d'oro; il giorno dopo si alzava un nuova sipario per la sua vita: comprava abiti , cavalli, cambiava abitazione e alloggiava in un appartamento dorato. Ma tutto questo lusso poi svaniva nel momento in cui la fortuna gli volgeva le spalle. Vendeva ogni cosa e si ritirava in un cantuccio, immergendosi nello studio senza uscire di casa per molti giorni. Anche le belle donne gli piacevano molto: non si sa se in amore fosse fortunato come nel gioco, perché in quest'altro gioco è più facile nascondere le perdite che simulare le vittorie.
Fisicamente era di statura mediocre, ma con una struttura forte e muscolosa. Aveva ruvidi e ricci capelli che rendevano più energica l'espressione del suo viso; i suoi occhi erano grigi e piccoli, ma profondi e acuti. La sua carnagione era rossigna, con una folta barba che gli copriva il mento e le mascelle. Il suo riso e la sua allegria c'erano e non c'erano, e io penso che l'abitudine e il genere di studi avessero contribuito a far crescere questa nera tinta del suo spirito. Quello che mi stupisce è che invece di combattere questo suo umore melanconico, egli sembra quasi nutrirlo, anzi se ne vantava anche perché lo faceva assomigliare all'Alfieri al quale ha cercato di rifarsi molte volte (basta guardare il suo stile di vita). Ogni tanto usciva dalla solitudine per soddisfare la sua vanità di farsi notare e far parlare di se in società. In un circolo numeroso egli era un interlocutore incomodo, irrefrenabile; ma in privato era esattamente l'opposto: cortese, ragionevole, insomma amabile. In pubblico non aveva più nessun amico, voleva tiranneggiare a tutti i costi. Ma a mio parere non aveva tutti i torti perché aveva due qualità che lo ponevano in un gradino più alto: la memoria e l'eloquenza. La sua memoria era una cosa prodigiosa: citava dozzine di versi greci, latini e italiani, come se non avesse fatto nella vita che imparare a memoria versi; e la cosa ancora più sorprendente è che citava sempre esattamente e con appropriata espressione.
Gli scritti del Foscolo hanno un 'aria di irrequieto dolore ed egli non riesce a desiderare altro che la pace e l'oblio. Questo lettore di Plutarco, che si professa più volte stoico, non si distacca tanto dal Petrarca. Il desiderio di fuggire da una vita troppo pesante non e soltanto nella sua opera poetica, non si manifesta soltanto nella sua predilezione per i poeti della camna e della solitudine come Tibullo o il Pindemonte. Con quanta compiacenza (nelle lettere pubblicate dal Perosino) si intrattiene con la madre, con le sorelle, con il fratello a parlare del suo sogno di vivere una vita tranquilla con i suoi a Venezia. E negli ultimi anni poi lo pigliò la nostalgia dalla Grecia e della sua fanciullezza. E inoltre quanto spesso nelle lettere alla Donna gentile c'è il rimpianto e il desiderio di vita buona ed umile e in pace al fianco di lei! Egli che aveva dichiarato più volte, con stile alfieriano, di non voler procreare bambini dove non c'era patria, sognò una vita matrimoniale con lei, o con altre donne. Anche in fondo alle sue passioni e ai suoi deliri amorosi rideva l'idillio della tranquillità, dell'isolamento con l'oggetto del suo amore o della sua amicizia. La solitudine anche più assoluta non lo spaventava: l'aveva cara anzi quanto odiava la società clamorosa e vana dei salotti. La sua vita non rispondeva affatto ai bisogni intimi della sua anima. Egli era un malinconico. Scriveva che la 'malinconia è, dopo la noia, la più vile infermità dei mortali', ma ciò non toglie che egli non dichiarasse di essere stato malinconico sin da fanciullo: 'nella mia fanciullezza fui tardo, caparbio, infermo spesso per malinconia e talvolta feroce ed insano per ira'.
Questa sua intima volontà di pianto e di isolamento va nel Foscolo di pari passo con un senso profondo di stanchezza, che gli fece dire più volte di essere un vecchio, anche quando era giovanissimo; e difatti tra i suoi amici più veri, la maggior parte erano vecchi. Il vecchio è urazione simpatica nella sua opera poetica; a Firenze per esempio passava la gran parte del giorno con un vecchio venditore di stampe.
Ma ancora più spesso il Foscolo fantastica riguardo alla soppressione del proprio Io, il suicidio: la sua dichiarata rinuncia alla lotta e la stanchezza morale sono immagini che richiamano il suicidio. Forse la famiglia del Foscolo era proprio disgraziata; se è vero il fratello Giovanni si soppresse spontaneamente. Ma ho notato che i suicidi abbondano in periodi di rivoluzione: quando non tutti sanno adattarsi ai nuovi e violenti assetti sociali, il suicidio è determinato da uno strano e profondo senso quasi di nostalgia del passato. Come fu nell'Ortis. Foscolo ebbe dei propositi di suicidio già in occasione del suo innamoramento per la Fagnani; l'eterno connubio di amore e morte si sente anche qui. Alla notizia della morte del fratello, il primo suo desiderio e quello di morire; 'Mio fratello è morto - scriverà - le sue fiere vicende, la sua anima generosa, una dolore profondo lo stancarono della vita . '. E a proposito della madre aggiunge: 'Temo che fra pochi giorni non le resterà di tre li, che questo giovinetto infelice (Giulio), che piange con me la nostra sciagurata famiglia'. E ancora: 'Io sento quella stessa stanchezza che consumò il mio povero fratello; . Se non perdessi il tempo scrivendo e leggendo, non saprei più a che rimanere sulla terra, se non se a risparmiare il lutto di chi sarebbe inconsolabile sul mio sepolcro; e sarebbe mia madre sola'. Ma in Inghilterra, quando le disgrazie della vita non lasciarono al Foscolo più il tempo di autoesaminarsi, il pensiero del suicidio non lo turberà più, anzi in quegli anni mostrerà pentimento di avere scritto il celebre romanzo.
Questo ravvedimento si spiega pensando che il pessimismo foscoliano è più un sentimento che una profonda convinzione, e nulla è meno costante del sentimento. Per Foscolo è fatale il dolore dei mortali, più di una volta affermò che l'uomo è nato propenso più al dolore che al piacere e che più avanti gli uomini si affanneranno cercando di fuggire ai dolori di un esistenza che non sanno troncare E' convinto che l'infelicità sia inerente alla natura umana, cioè che l'uomo apparentemente felice, sotto sia invece un misero. Ma talvolta il suo pessimismo è meno generico e diventa parte integrante della sua concezione politica e sociale.
Ad un certo punto della sua vita Foscolo si rende conto che forse la vita, così sostanzialmente misera, ha in sé una qualche fonte di consolazione, e gli uomini si distruggerebbero quando dalla loro coscienza di infelicità non nascesse la virtù della compassione e quando la forza del loro affetto non fosse temperata dal pudore. Le Grazie saranno in gran parte l'espressione poetica di tali concetti, e diventeranno la correzione dell'Ortis, che è la sintesi del pessimismo giovanile e sentimentale dell'autore







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