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Antropologia e relativismo -Evans-Pritchard e la logica degli Azande

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Antropologia e relativismo

Evans-Pritchard e la logica degli Azande


Nella seconda metà dell'Ottocento si era creato un pregiudizio etnocentrico, secondo il quale sistemi di pratiche magico-religiose di culture non occidentali dovevano essere irrazionali, perché in contrasto con le più semplici osservazioni e con i valori della cultura occidentale.
Nei primi decenni del Novecento, autori diversi hanno ingaggiato una battaglia decisiva contro tale pregiudizio. Studiando le relazioni tra il singolo, la società e le categorie cognitive, veniva sottolineata infatti l'importanza che rivestono cultura e linguaggio sulla determinazione dei fatti: in tal modo anche il conoscere scopriva la propria relativita' in epoche e tradizioni diverse.
Sviluppando questa consapevolezza, e attraverso studi sul campo delle fenomenologie magico-religiose di culture 'primitive', E.E. Evans-Pritchard ha concluso che le differenze nel loro modo di pensare (e di agire) rispetto alla nostra cultura dipendono da un globale scarto categoriale. Sistemi diversi di credenze sono compresi non in virtù della spiegazione di 'errori' altrui, ma attraverso il confronto tra 'epistemologie' diverse. Questo cambio di funzione nel campo dell'antropologia si è presentato prima come il problema della mente primitiva, poi come il relativismo cognitivo e linguistico, ed infine come il problema della incommensurabilità concettuale.
Secondo Evans-Pritchard, le strategie per comprendere credenze e lingue, e per imparare "a pensare in base a[i] concetti e a credere negli stessi valori" dei popoli 'selvaggi' sono, da un lato, un approccio funzionalista di tipo classico, che considera magia, stregoneria e divinazione alla stregua di forze di coesione sociale; dall'altro, una analisi interna dell'ideologia magico-divinatoria, per mostrare come le differenze tra il nostro modo di pensare e quello esaminato siano determinate da diverse concezioni del mondo o presupposti teorici.
Ciò risulta tanto più evidente dallo studio della società degli Azande. Uno zande non fa niente senza consultare un oracolo. Qualsiasi disgrazia può essere attribuita alla stregoneria. Ad esempio, è lo stregone che manda lo spirito della sua stregoneria per provocare disgrazie ad altri. Colui che la subisce consulta gli oracoli o un indovino per scoprire chi lo perseguita e, quando il colpevole viene individuato, gli si chiede di ritirare la malefica influenza. Se, in caso di malattia, ciò non avviene e il malato muore, i parenti del defunto chiedono vendetta, un compenso, oppure compiono un rito magico mortale per distruggere lo stregone: "in tal modo stregoneria, oracoli e magia costituiscono un complesso sistema di credenze e di riti che acquistano senso soltanto se visti come parti interdipendenti di un unico complesso", per cui le disgrazie derivano dalla stregoneria che a sua volta è governata da intenzioni malvagie.
In un certo senso, ha osservato Geertz, adesso "siamo tutti indigeni", proprio come quei bambini che utilizzano per la prima volta un linguaggio, ed imparano il significato di una parola non attraverso una spiegazione logica, ma confrontandola con altre parole e modi di dire.
Scopo dell'indagine antropologica diventa, dunque, una "comprensione 'etnografica' del pensiero". A differenza di quegli antropologi che, come Lévi-Strauss, credevano nell'impossibilità di penetrare fino in fondo il significato di vite bizzarramente singolari se non attraverso una analisi universalizzante che, dissolvendone l'immediatezza, ne dissolvesse anche la stranezza, adesso «la stessa dicotomia tra 'civilizzato' e 'selvaggio' che sembra necessario lasciare cadere.
L'antropologia, per questo suo aprirsi ad altri mondi, per il suo non 'stare mai ferma', è stata definita un "sapere di frontiera", ma essa è anche un sapere che nasce sulla frontiera e che, come tale, consiste in un dialogo tra culture, tra chi osserva (l'antropologo) e chi è oggetto d'osservazione.





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