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IL GUERRIERO E IL CAVALIERE, LA DIGNITA' CAVALLERESCA



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IL GUERRIERO E IL CAVALIERE

L'avventura cavalleresca - prospettive matrimoniali a parte - era essenzialmente la ricerca di nuove fonti di ricchezza e di possibilità d'ingaggio: il servizio militare mercenario- molto diffuso già a partire dal XII secolo, ma in fondo anche da prima: i cavalieri normanni che nell' XI secolo sciamavano verso la Puglia e Bisanzio erano appunto soliti offrire il loro braccio armato a chi fosse in grado di arlo meglio, a cominciare dallo stesso basileus di Costantinopoli -, le varie camne militari in Sna o, soprattutto fra Due e Quattrocento, nel Nord-Est europeo contro Slavi e Balti ani.

Tuttavia l'avventura si viveva anche nel quotidiano, senza bisogno di guerre o di crociate. Essa era già nella caccia, specie in quella alle grandi e nobili belve delle foreste europee: il cervo, il cinghiale, l'orso con il loro tessuto simbolico.

E soprattutto si poteva tradurre in una caratteristica attività agonistica per un verso, funzionale all'addestramento militare per un altro, ma soprat­tutto significativa al livello della teatralizzazione delle funzioni sociali e dell'autorappresentazione delle aristocrazie: il torneo.



E' difficile dire quando sia nata la pratica dello scontro di gruppi contrapposti in campo chiuso, detto hastiludium (dal caratteristico scontro fra cavalieri armati delle pesanti aste di le­gno, che avevano come principale scopo quello di scavalcare l'avversario) o conflictus gallicus (come lo chiamano le fonti anglo-normanne dato che nell'isola la pratica fu evidentemente portata dalla Francia).

A proposito di questi giochi militari, gli storici hanno polemizzato a lungo: avevano o no, e fino a quale punto, un effettivo valore sul piano dell'addestramento? Il problema non è da trascurarsi, in quanto rientra in un'altra e più ampia questione: gli eserciti dei secoli X-XIII, nei quali la cavalleria era la truppa scelta e anzi il vero e proprio nucleo combattente in quanto tutti gli altri (fanti, guastatori, addetti agli ordigni d'assedio o alle macchine d'artiglieria a leva) erano piuttosto degli inservienti, conoscevano il valore della tattica e della strategia? Op­pure esso sarebbe tornato in auge solo al contatto con l'Oriente bizantino e musulmano (il quale in cambio aveva conservato e aggiornato l'arte militare greco-romana), soprattutto attorno al Due-Trecento. Ciò non significa d'altronde che i cavalieri ignorassero, prima di allora, le questioni tattiche e i problemi strategici; e che si limitassero ad attaccare frontalmente, nelle elementari formazioni « a siepe » o « a cuneo », riducendo lo scontro militare ad una pura questione di forza fisica e di destrezza equestre. Vero che, se facciamo attenzione alle formulazioni teoriche, sarà' facile raccogliere da chansons e romanzi un florilegio di massime eroiche nelle quali qualunque tipo di artificio e di stratagemma viene equiparato a slealtà' e a tradimento;

Si dice che a Nicopoli, nel 1396, il fiore della cavalleria europea si sia lasciato così sterminare o ridurre in prigionia dai Turchi, i quali combattevano alla loro maniera

vale a dire mediante rapidi raids di arcieri a cavallo e sottili formazioni che si aprivano dinanzi alle cariche pesanti dei cri­stiani coperti da capo ai piedi di ferro, per rinchiudersi poi alle spalle e serrarli in una morsa. Ma nel Trecento la cavalleria è in via di ridefinizione in quanto distinzione sociale e in crisi in quanto forza militare. Se guardiamo invece alla realtà dei secoli nei quali essa era in auge, ci rendiamo conto che i guerrieri a cavallo erano ben lungi dall'ignorare le ruses de guerre: e in questo senso il torneo, che sovente si conurava come una vera e propria battaglia, poteva costituire una buona occasione di addestramento.


LA DIGNITA' CAVALLERESCA.

La dignità cavalleresca - l'ingresso nella quale veniva segnato dalla cerimonia dell'addobbamento - iniziò a profilarsi come socialmente e culturalmente importante e la cavalleria quindi, da libera confraternita di armati riuniti in comitive attorno a un capo, sembrò cominciare a trasformarsi in istituzione, i principi dell'Europa feudale intervenendo per arginare il meccanismo degli addobbamenti sulla base della cooptazione regolare l'ingresso al pur composito ambiente degli insigniti del cingulum militare. Per quanto la dignità cavalleresca non fosse mai dichiarata di per sé ereditaria, eredi­tari vennero dichiarati i requisiti per accedervi; e quindi i privilegi ­connessi alla condizione di cavaliere, ma anche i relativi doveri.Co1 tempo, comunque, il termine « cavaliere » non parve più sufficiente a indicare il detentore della dignità cavalleresca. Battere a cavallo era pratica che si esercitava anche indipendentemente da tale dignità: e così piano piano bisognò distinguere, ad esempio, tra semplici milites e milites <<de corredo>>­ (che avevano cioè ricevuto l'addobbamento) o, come più tardi si disse, equites aurati un'espressione che le fonti italiane traducono come « cavalieri a sprone d'oro ».Ma si trattava di una distinzione sociale, i detentori della si guardavano di montare a cavallo. Di solito - nel meccanismo delle formazioni militari cittadine, signorili o mercenarie - la legittima detenzione della dignità cavalleresca dava dal canto suo diritto a un d'ingaggio più alto; ma niente o quasi niente di più. E molti dovevano naturalmente essere gli abusi.



In questa storia continua di malintesi e di contraddizioni che è la storia della cavalleria, va pertanto registrato anche il fatto che la cultura aristocratica medievale era piena di valori e di lieviti cavallereschi che la cavalleria vera e propria era divenuta ben povera cosa: una serie di orpelli esteriori che si potevano vendere e comprare, o uno strumento di promozione sociale, oppure una disorganica congerie di guerrieri superbi del loro rango ma poveri di mezzi e in continua ricerca di sistemi per sbarcare il lunario.

Alla base della « decadenza » della cavalleria e della sua par­ziale smilitarizzazione fra Duecento e Cinquecento sta comunque il sostanziale mutamento nelle tecniche militari. Se n'era avu­ta già qualche avvisaglia fin dal XII secolo, con l'introdu­zione sui campi d'assedio e di battaglia di quell'arma che nella sua versione portatile veniva dalle steppe dell'Asia, la balestra, e che la Chiesa considerò a lungo illecita data la forza micidiale dei suoi colpi. Nonostante essa ne proibisse l'uso nei conflitti fra cristiani, la balestra si affermò; e insieme con essa il long bow inglese, dotato di lunga gittata e di gran velocità di tiro (due doti che il verrettone scagliato dalla balestra non aveva). Queste armi da lancio avevano obbligato i cavalieri ad appesan­tire sensibilmente il loro armamento aggiungendo all'usbergo di maglia di ferro (che si andava trasformando dal camicione dei secoli XI-XII in una specie di tuta aderente al corpo) piastre di ferro sagomate nei punti critici: il collo, il torace, il dorso, i gomiti, i polsi, le ginocchia. Queste difese rinforzate rendevano meno necessario lo scudo, che fra l'altro era d'impaccio al combattimento d'urto in quanto il cavaliere, impegnato a so­stenere la pesante asta fra ascella e braccio destro, doveva avere il sinistro libero di guidare il cavallo. Lo scudo tese quindi a sire - ma rimase importante tuttavia come supporto dell'arma araldica -; esso, grande e « a mandorla » nei secoli XI-XII, si trasformò nel XIII in una più piccola arma triango­lare e andò in seguito mutando forma fino ad assumerne di fantastiche, esteticamente decorative ma non funzionali allo scontro in ­campo aperto o in torneo, dal quale veniva eliminato. Questo lento processo condusse nel Quattrocento, all'armatura interamente « di piastra »: il cavaliere, coperto da capo ai piedi di acciaio, era un proiettile inarrestabile se lanciato in battaglia:

ma bastava accerchiarlo e scavalcarlo e diveniva un povero crostaceo in balia della plebaglia a piedi. E ciò accadde sovente, fino da quella celebre « battaglia degli sproni » che fu lo scontro di Courtray del 1302, dove le fanterie borghesi dettero ai cavalieri ­una dura e solenne lezione. Il Trecento fu l'età delle sconfitte della cavalleria, che dovette scendere spesso di sella, spezzare la parte inferiore delle lance da scontro e resistere così sulle difensive, come una lì fanteria pesante, all'attacco del nemico. Fra l'altro, 1'appesantirsi dell'armamento difensivo (a parte un rapido e violento lievitare dei costi) impediva ai cavalieri di stare a lungo in sella e li obbligava a selezionare razze equine sempre più forti e resistenti; ma meno veloci, il che esponeva il guerriero a cavallo al tiro dell'avversario per un periodo più lungo di quanto non fosse prima accaduto. Come rimedio si dovevano accorciare i tempi di carica e le distanze da percorrere per entrare in contatto col nemico: ma quando dall'altra parte si trovarono arcieri e balestrieri ben allineati e coperti dai grandi scudi rettangolari detti « pavesi », l'attacco riusciva vano o addirittura rovinoso; e lo stesso quando il cavaliere lanciato al galoppo era obbligato a fermarsi dinanzi alla siepe delle lunghe picche delle fanterie comunali o, più tardi, mercenarie (sia gli Svizzeri sia i <<lanzi>> del Sud della Germania erano noti quali specialisti nel combattere inquadrati in compatti reparti di picchieri).Alla cavalleria restavano l'apparato, i tornei, le sfide « a singolar tenzone>> ma la guerra vera tra fine Medioevo e inizio età mo­derna, era ormai altra cosa. Le armi da fuoco, a partire dal Trecento dettero un ultimo colpo alla funzionalità militare e al prestigio morale del combattente a cavallo.







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