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IL NOME "Italia"



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IL NOME "Italia"


Secondo l'ipotesi più accreditata il nome "Italia" ebbe origine dalla forma grecizzata Italói di *Viteloi, nome di una tribù protoitalica della Calabria meridionale, derivato presumibilmente dal nome locale del totem tribale, il torello o il vitello. Giunto ai Romani probabilmente attraverso la forma greca Italia, passò invece ad altre popolazioni italiche, quali i Lucani, gli Irpini e simili, nella forma indigena ed è attestato direttamente nella forma osca Viteliu sulle monete italiche del tempo della guerra sociale (91-88 a.C.). Inconsistente appare invece la connessione del nome Italia col fatto che essa abbondava di vitelli (Festo), come pure quella con il termine vitis (vite), in base alla quale sarebbe stata chiamata dai Greci Enotria "Terra del vino" (da ôinos, vino). All'inizio del  v sec. a.C. il nome Italia designava la Calabria meridionale, quindi si estese al territorio tarentino e campano e, via via, alla maggior parte della penisola, fino alla Magra e al Rubicone, e da ultimo, con Ottaviano (42 a.C.), fino allo spartiacque alpino dal Varo al Formio (più tardi all'Arsa). Con la riforma amministrativa attuata dell'imperatore Diocleziano anche la Corsica, la Sicilia e la Sardegna entrarono a far parte del territorio dell'Italia (diocesi italiciana).



Nel medioevo però il nome si riferiva solamente all'Italia settentrionale o a singole parti del territorio. Successivamente la denominazione venne acquistando un significato linguistico e culturale, e anche se dal punto di vista territoriale l'Italia continuò a essere soltanto "un'espressione geografica", si fece sempre più strada l'idea che a essa dovesse corrispondere un'effettiva unità politica. Questa unità venne infine realizzata nel marzo 1861 con la proclamazione del regno d'Italia.

- A llus. lett. Ahi, serva Italia!, inizio di una celebre invettiva dantesca (Purg.,  vi, 76): D Ahi, serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta / non donna di provincie, ma bordello!

- A llus. st. L'Italia è la terra dei morti. La frase è attribuita a Lamartine, il quale non la scrisse testualmente, ma espresse un giudizio sull'inerzia dell'Italia nell'Ultimo canto del pellegrinaggio di Aroldo (1825), dicendo fra l'altro di dover cercare fuori d'Italia des hommes, et non pas de la poussière humaine. I versi suscitarono, una volta conosciuti negli ambienti culturali italiani e specialmente fiorentini, un vivo sdegno, di cui si fece espressione G. Pepe in un articolo assai aspro contro il poeta francese. Lamartine, che era allora segretario della legazione di Francia a Firenze, sfidò a duello il Pepe e nello scontro (18 febbraio 1826) restò ferito a un braccio. G. Giusti solo nel 1842 scrisse la poesia La terra dei morti, replicando a giudizi negativi sull'Italia correnti in ambiente giornalistico, ma avendo certo presenti anche i versi di Lamartine. Nel 1859 apparve infine un libro dello scrittore francese Marc Monnier intitolato L'Italia è la terra dei morti?, favorevole all'Italia. L'Italia è un'espressione geografica, affermazione di Metternich (agosto 1847), v.   espressione. L'Italia farà da sé. L'espressione (ma non in questa forma testuale) è contenuta nel proclama ai popoli della Lombardia e della Venezia, firmato da Carlo Alberto e conosciuto la mattina del 24 marzo 1848, dopo che il consiglio dei ministri piemontese aveva deciso, nel pomeriggio del 23 marzo, la guerra contro l'Austria. Nel proclama infatti era detto: "Seconderemo i vostri giusti desideri fidando nell'aiuto di quel Dio, che è visibilmente con Noi, di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì maravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da sé". L'espressione, nel corso del 1848, passò a indicare, con un significato più generale, l'orientamento di quanti erano contrari a un intervento della Francia nelle cose d'Italia, e si applicò quindi non solo ai moderati filosabaudi, ma anche ai repubblicani mazziniani, criticati aspramente per questo loro atteggiamento antifrancese dalla corrente repubblicana di C. Cattaneo e G. Ferrari.










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