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La crisi tra l'Iraq e le Nazioni Unite

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La crisi tra l'Iraq e le Nazioni Unite


A sei anni dalla fine della guerra del Golfo, una nuova e acuta crisi internazionale investe lo stesso scenario mediorientale, dove l'Iraq e le Nazioni Unite si confrontano in un ennesimo braccio di ferro. Protagonisti sono ancora una volta il dittatore iracheno Saddam Hussein e gli Stati Uniti; motivo scatenante della contesa l'applicazione da parte del paese mesopotamico delle condizioni del trattato di pace del 1991. Infatti, dopo la sconfitta subita nel 1991 ad opera della coalizione militare, che agiva per mandato dell'ONU, capitanata dagli Stati Uniti e che vedeva schierate nazioni occidentali tra cui la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia, e paesi arabi, primi fra tutti l'Arabia Saudita e l'Egitto, l'Iraq doveva garantire l'eliminazione di tutti i suoi arsenali di armi di distruzione di massa nucleari, chimiche e batteriologiche, nonché di tutti gli impianti industriali per la loro costruzione. Finché non avesse soddisfatto questa condizione, l'embargo economico decretato nel 1990 dall'ONU come prima misura contro l'Iraq in seguito all'invasione del Kuwait non sarebbe stato tolto.

Sin dal primo momento, tuttavia, Hussein non si è dimostrato molto collaborativo e ha sempre tentato di ostacolare il lavoro degli ispettori dell'UNSCOM (United Nations Special Commission), la commissione speciale delle Nazioni Unite, incaricati di sorvegliare l'adempimento delle condizioni del trattato; inoltre si è sempre lamentato dell'imposizione del divieto di volo imposto ai suoi aerei militari nella zona settentrionale (Kurdistan) e meridionale del paese, nel contempo giudicando un'intrusione nella sovranità del suo paese i voli degli aerei spia americani U-2 sul territorio iracheno. Nonostante sia stato colpito da isolati attacchi militari nel 1993 e nel 1996, Hussein non si è dato per vinto. Le continue dichiarazioni delle autorità irachene di aver distrutto tutte le armi come richiesto sono state regolarmente smentite dagli ispettori dell'ONU, che hanno denunciato la presenza di parti di arsenale nucleare e la mancata completa distruzione delle armi chimiche e soprattutto di quelle batteriologiche. Si ritiene che l'Iraq celi un arsenale di armi batteriologiche e che detenga circa 400 chilogrammi di spore del batterio antrace, potentissima ed economica arma, detta infatti 'la bomba atomica dei poveri', un singolo grammo della quale è in grado di uccidere milioni di persone, nonché 25 missili a testata batteriologica con una gittata di 400 chilometri. Inoltre conserverebbe riserve del nuovo gas nervino 'VX' e di iprite, il micidiale gas mostarda.



Sulla capacità di Saddam Hussein di utilizzare simili armi si nutrono pochi dubbi, dato che quelle chimiche sono state sicuramente impiegate dall'esercito iracheno contro i ribelli curdi.

Viste le continue inadempienze degli iracheni, il Consiglio di Sicurezza decide infine di ricorrere a contromisure e giovedì 23 ottobre adotta la risoluzione 1134, con cui obbliga tutti gli stati membri delle Nazioni Unite a negare l'accesso o il transito sul proprio territorio ai funzionari e agli ufficiali delle forze armate irachene responsabili del non adempimento delle precedenti risoluzioni dell'ONU. Una misura dal significato simbolico, definita come 'una bacchettata sulle dita', dato che il dittatore iracheno non esce mai dai confini del proprio paese, e i suoi rappresentanti ufficiali molto poco. La debolezza della decisione del Consiglio di Sicurezza deriva dalla sua mancanza di unanimità: la risoluzione 1134 è stata infatti adottata con dieci voti favorevoli, nessuno contrario e le cinque astensioni di Francia, Russia, Cina, Egitto e Kenya. In particolare fra i membri permanenti del Consiglio si è manifestata la divisione fra Stati Uniti e Gran Bretagna da una parte, fautori della linea dura, e Francia, Russia e Cina dall'altra, disponibili a una linea negoziale più morbida

Saddam Hussein pertanto tenta di incunearsi fra le opposte fazioni e allargare la frattura in seno al Consiglio di Sicurezza: la risposta del governo iracheno è una minaccia di rappresaglie nel caso che nuove sanzioni vengano imposte, e lunedì 27 ottobre l'Assemblea nazionale irachena raccomanda al Consiglio rivoluzionario di comando, l'organo di governo presieduto da Saddam Hussein, di sospendere la cooperazione con la UNSCOM e l'adempimento delle risoluzioni dell'ONU almeno fino a quando l'embargo contro l'Iraq non sarà tolto completamente e senza condizioni.

Il Consiglio rivoluzionario, riunitosi mercoledì 29 ottobre, di conseguenza stabilisce che cittadini americani non possono far parte dell'UNSCOM e che quelli presenti devono abbandonare l'Iraq entro una settimana, imputando la responsabilità della decisione dell'ONU all'ostilità del governo americano nei confronti dell'Iraq. La reazione degli Stati Uniti è dura, minacciando 'gravi conseguenze', mentre Francia e Russia fanno pressione su Baghdad perché non interrompa le operazioni degli ispettori. Il giorno giovedì 30 ottobre, gli iracheni mettono in atto le loro minacce, negando l'ingresso a due membri americani dell'UNSCOM appena atterrati in Iraq.

Gli iracheni protestano che gli ormai sette anni di embargo stanno causando grandi sofferenze alla popolazione civile, solo parzialmente lenite dall'accordo 'oil for food' del 1996, ovvero petrolio in cambio di cibo e medicinali, che permette all'Iraq limitate vendite di petrolio greggio, i cui proventi sono da destinarsi al saldo delle riparazioni di guerra, da are al Kuwait e agli altri paesi danneggiati, e all'acquisto di cibo e medicinali per la popolazione civile irachena, e pertanto chiedono il definitivo e incondizionato ritiro dell'embargo.

Gli americani e con loro i fautori della linea dura contro l'Iraq hanno gioco facile ad affermare che la fine dell'embargo dipende solo ed esclusivamente dall'adempimento delle condizioni del trattato di pace del 1991, e che dunque la responsabilità della prosecuzione dell'embargo risiede nell'ostinazione di Saddam Hussein nel non voler distruggere i suoi arsenali celandoli con trucchi, e non nella malevolenza delle Nazioni Unite. La data della fine dell'embargo è già fissata, sostengono, e sarà precisamente quando l'Iraq avrà finito di distruggere le sue armi e avrà smesso di nasconderle: è Hussein l'affamatore del suo popolo, non l'ONU.

Gli iracheni affermano invece che l'embargo è dovuto all'ostilità degli americani contro la persona di Saddam Hussein, e che pertanto in realtà non sarà mai ritirato fintanto che Hussein rimarrà al potere, e non sarà mai possibile dimostrare che gli arsenali siano stati distrutti. L'Iraq può affermare ciò con una certa parvenza di veridicità grazie anche alla violenta politica di demonizzazione del dittatore iracheno realizzata durante la guerra del Golfo, e dunque Hussein, sebbene non goda di particolari simpatie nel mondo arabo, dove anzi è unanimemente detestato dai governanti, può proporsi come campione degli arabi contro l'arroganza degli americani. E così stavolta anche le nazioni arabe che facevano parte della coalizione anti-irachena del 1991, Arabia Saudita ed Egitto le più importanti, non si dimostrano favorevoli alla soluzione di forza, sostenendo tra l'altro che l'attacco militare danneggerebbe ancora una volta il popolo iracheno, senza scalfire l'armatura di Hussein, che ha già dimostrato di non curarsi delle sofferenze che il suo popolo patisce, salvo per utilizzarle a proprio vantaggio. L'allontanamento dei paesi arabi si è reso palese nella dichiarazione espressa dalla Lega Araba il 2 novembre, in cui respinge l'ipotesi di un'azione militare contro l'Iraq e chiede al Consiglio di Sicurezza di adoperarsi per trovare una soluzione pacifica alla crisi. La crisi si fa ancora più evidente nella decisione della maggior parte dei paesi arabi di boicottare il congresso economico del Medio Oriente e del Nord Africa, che si tiene quest'anno nel Qatar, piccolo stato del Golfo Persico; al congresso, caldeggiato dagli Stati Uniti come sede dove discutere della questione israelo-palestinese, il segretario di Stato americano Madaleine Albright si è trovata sola.

Gli americani intanto iniziano un dispiegamento di forze nel Golfo Persico, con una flotta comandata dalla portaerei Nimitz, più tardi raggiunta da una seconda squadra navale con a capo la portaerei George Washington, raggiungendo una forza complessiva di 135 aerei e quasi 20.000 uomini, cui vanno aggiunte le forze di terra schierate in Arabia Saudita, forti di 10.000 uomini e 162 aerei, pronti a imporre con la forza il rispetto delle risoluzioni dell'ONU; inoltre riprendono i voli degli aerei spia U-2, nonostante le minacce irachene di abbatterli. Lo schieramento americano è senz'altro una provocazione, cui del resto Hussein si è ben guardato dal rispondere, se non a parole. Il suo gioco è quello di mettere gli alleati uno contro l'altro, non di scatenare un attacco contro il suo paese.

Fra i fautori della linea negoziale, invece, mentre la Cina non dimostra particolare sensibilità per le questioni dei diritti umani e delle armi nucleari, Francia e Russia sono interessate al ritiro dell'embargo principalmente per ragioni economiche. La Russia, infatti, vanta un cospicuo credito nei confronti dell'Iraq, maturato principalmente durante la lunga guerra contro l'Iran negli anni Ottanta, quando la maggior parte della fornitura di armi all'Iraq proveniva dall'Unione Sovietica, ma anche da altri importanti paesi occidentali, tra cui gli stessi Stati Uniti. L'embargo, soffocando l'economia irachena e bloccando la vendita del greggio, la principale, se non l'unica esportazione del paese, rende sempre più remota la possibilità per la Russia di ricuperare il proprio credito, ragion per cui si spiega l'impazienza russa per l'intransigenza americana. Anche la Francia attende dall'Iraq il amento di cospicui debiti e conta di fare grandi affari nel paese, naturalmente nel campo dei petroli, non appena sarà di nuovo libero di commerciare col resto del mondo.

Tuttavia, è di fondamentale importanza che il Consiglio di Sicurezza mantenga la sua unità e rimanga saldo sulle sue posizioni: se dovesse permettere a Saddam Hussein, aggressore sconfitto nella guerra, di dettare condizioni e non rispettare le risoluzioni dell'ONU, la credibilità dell'organizzazione internazionale ne risulterebbe irrimediabilmente compromessa, così come la sua capacità di risolvere situazioni di crisi internazionale. Pertanto la Russia si impegna nel trovare una soluzione diplomatica che permetta una via d'uscita alla situazione. Dopo diversi incontri fra il ministro degli esteri russo Yevgeni Primakov e il primo ministro iracheno Tariq Aziz, la faccia rispettabile del regime di Saddam Hussein, la Russia è riuscita a convincere l'Iraq ad accettare senza condizioni il rientro degli ispettori dell'UNSCOM, tutti senza eccezioni, americani compresi, e a permettere loro di svolgere il loro compito senza intralciarli. Come contropartita, la Russia si impegna a promuovere con più forza la causa della rimozione dell'embargo in sede Consiglio di Sicurezza.

Giovedì 20 novembre alle 2 del mattino si riuniscono a Ginevra il segretario di stato americano Madeleine Albright, il ministro degli esteri russo Yevgeni Primakov, il ministro degli esteri francese Hubert Védrine, il segretario degli esteri britannico Robin Cook e insieme perfezionano la bozza d'intesa da proporre all'Iraq, elaborata dal russo e accettata di massima da Aziz; il giorno seguente il Consiglio rivoluzionario iracheno la accetta formalmente, e sabato 22 novembre gli ispettori dell'UNSCOM riprendono il loro lavoro.

L'interruzione delle ispezioni dell'UNSCOM e dei voli degli aerei spia U-2 è servito agli iracheni per approfittarne per nascondere riserve di armi di vario genere, schermare le telecamere di sorveglianza posizionate dall'UNSCOM e spostare le armi batteriologiche da posti già 'bruciati' ad altri, tanto che viene quasi il sospetto che le provocazioni dell'Iraq e l'espulsione degli ispettori americani avesse come scopo reale di guadagnare tempo e allontanare la commissione speciale che si stava avvicinando troppo alla verità e a scoprire le armi nascoste. Anche ora che le ispezioni sono riprese, tuttavia, le autorità irachene continuano a porre il veto sulle ispezioni nei cosiddetti palazzi presidenziali di Saddam Hussein, alcune decine di edifici sparsi su tutto il territorio, e che gli ispettori ritengono funzionino da depositi segreti di armi. Sciolta la tensione durata un mese, non appare dunque risolta una volta per tutte la questione irachena, ma nemmeno avviata verso una soluzione rapida e definitiva. Gli americani continuano a mostrare la loro sfiducia nei confronti di Saddam Hussein e mantengono schierate le loro forze nel Golfo Persico, aspettando un improbabile cambiamento nell'atteggiamento del tiranno. Nel frattempo il popolo iracheno, posto fra l'incudine e il martello della spietata dittatura di Hussein e delle sofferenze provocate dall'embargo internazionale, attende e spera in una difficile soluzione.





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