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CHE RAPPORTO HA IL DIRITTO ROMANO CON I SINGOLI DIRITTI PARTICOLARI, cioè CHE RAPPORTO HANNO I SINGOLI GIURISTI CON GLI ORDINAMENTI PARTICOLARI



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CHE RAPPORTO HA IL DIRITTO ROMANO CON I SINGOLI DIRITTI PARTICOLARI, cioè CHE RAPPORTO HANNO I SINGOLI GIURISTI CON GLI ORDINAMENTI PARTICOLARI STESSI (con i comuni dell'Italia centro-settentrionale):

All'inizio esiste una sorta di estraneità reciproca tra i docenti e i comuni. Questo ha fatto dire ad alcuni che i giuristi del basso medioevo (Irnerio e successori) fossero dei sognatori completamente estranei alla realtà del loro tempo, ma è assolutamente falso e citiamo come prova Bulgaro (allievo di Irnerio) il quale a casa sua, non solo teneva scuola, ma ospitava spesso rappresentanti istituzionali del comune, nella sua casa si riunivano i riformatori dello statuto, cioè era un luogo importante nella Bologna dell'epoca, dove avvenivano riunioni anche politiche, oltre che scolastiche, di grande importanza.

Dal punto di vista di interesse reciproco, esiste comunque una sorta di parallelismo tra i docenti e i comuni: si disinteressano l'uno con l'altro, cioè c'è una forma di indifferenza.

In un secondo tempo, invece, assistiamo ai primi attriti tra i docenti e i comuni, che vediamo da quando cominciano ad esserci le prime emigrazioni dei docenti: cominciano ad esserci delle vere e proprie conflittualità e cominciano ad esserci dei veri e propri dissidi derivati, in qualche modo, dalla possibile utilizzazione del diritto romano nei confronti dello statuto. Lo statuto è la legislazione dei comuni e i comuni non vedono troppo bene il fatto che questi giuristi, attraverso il diritto romano, possano in qualche modo "mistificare" il contenuto dello statuto stesso.



Un altro modo di dialogare che hanno i giuristi con il comune, in particolare con il comune consolare, è quello del "consilium sapientis iudiciale", cioè quel parere giuridico che i sapienti del diritto danno ai consoli di giustizia, che sono "ignoranti" del diritto romano: quindi, una forma di collaborazione dei giuristi nei rapporti con il comune.

I primi dissidi, però, nascono quando comincia a dialogare il diritto romano con il diritto statutario e il problema di base è che, secondo la logica dei giuristi di diritto romano, al di là di queste collaborazioni, i comuni, in quanto tali, non sono abilitati a fare legge, perché l'unica legge la può fare l'imperatore.

Già con Irnerio troviamo questo principio: "SOLUS IMPERATOR POTEST FACERE LEGES", cioè SOLO L'IMPERATORE PUO' FARE LE LEGGI.

Ora possiamo capire come mai da una prima fase di indifferenza si passa ad una fase di attrito: come facevano gli organi comunali ad accettare nelle loro mura una dottrina o una scuola di diritto dove si facevano affermazioni del genere, perché era lesiva dell'autonomia comunale. Inoltre, a questo punto cos'erano gli statuti?

Comunque, per i glossatori il diritto statutario non è legge, perché i comuni non possono fare legge: possono mettere per iscritto  tutte le consuetudini, o possono fare tante altre cose, ma non possono fare leggi. E questo agli organi comunali pesava parecchio ed era fonte di dissidi e di incomprensioni.

Dopo Irnerio, ad esempio, con Cino, troviamo addirittura delle espressioni di profondo disprezzo nei confronti degli statutari: Cino definiva "asini" gli autori di statuti, perché diceva che gli autori di statuti non conoscono bene il diritto, non conoscono bene la terminologia, un giorno fanno uno statuto e il giorno dopo lo cambiano. Per questo, quindi, a volte i giuristi hanno manifestato anche delle posizioni di grande disprezzo nei confronti degli statuti.

D'altra parte, però, questo tipo di atteggiamento così rigido non va male anche ai comuni, ma va male anche ai giuristi, i quali se ne accorgeranno ben presto, perché in questo modo i giuristi rischiano di rimanere fuori dal mondo: insegnano il diritto romano universale, poi sanno che fuori c'è un altro diritto e di questo diritto non se ne occupano, anzi, questo diritto non lo definiscono neanche legge; cioè, rischiano di perdere tanti avvenimenti della realtà quotidiana. Fanno tanti tentativi per reagire: ad esempio, inseriscono nella compilazione giustinianea i "liber feudorum", i quali diventano la decima collatio, dopo le 9 collationes delle novelle di Giustiniano: anche se i liber feudorum non c'entrano assolutamente nulla con Giustiniano, è lo stesso un loro tentativo di accaparrarsi la spiegazione, l'esegesi e il monopolio di un diritto importantissimo nel medioevo, come quello feudale.

Un altro fenomeno lo vediamo con gli statuti stessi: è vero che c'è questo atteggiamento di disprezzo, però ad un certo punto succede un fenomeno abbastanza strano.

JACOPO BALDOVINI - Statuti di Genova del 1200

RICCARDO MALOMBRA - Statuti di Venezia del 1300

BALDO DEGLI UBALDI - Statuti di Pavia del 1300

PAOLO DI CASTRO   - Statuti di Firenze del 1400

E' una cosa abbastanza strana: giuristi che, a partire dal 1200, diventano redattori di raccolte consuetudinarie che diventano statuti.

Al di là di questa collaborazione, laddove i giuristi non considerano legge gli statuti, oppure dove i giuristi manifestano disprezzo nei confronti degli statuti, i comuni reagiscono INSERENDO NELLO STATUTO IL DIVIETO DI INTERPRETARE LO STATUTO STESSO, perché, secondo loro, in questo modo mettevano in difficoltà i giuristi.



Questa è la situazione di fatto.

Vediamo adesso la situazione di diritto, cioè in che modo i giuristi si avvicinano piano piano a giustificare la capacità dei comuni di darsi delle leggi.

Uno dei primi giuristi che ci prova, uno degli allievi di Martino e di Bulgaro, è ALBERICO DI PORTA RAVENNATE il quale fa un'equazione: CONSUETUDINE = PACTA, di conseguenza SERVANDA SUNT = le consuetudini sono dei patti che la collettività stringe tre sé stessa: se è vero che le consuetudini sono uguali ai patti, di conseguenza sono vincolanti. Quindi, c'è una prima affermazione di obbligatorietà, non degli statuti, ma delle consuetudini.

Inoltre, abbiamo PILLIO DA MEDICINA dice la stessa cosa di Alberico, però fa un'altra equazione: STATUTA = PACTA. Si dice solo che gli statuti sono dei patti: quindi, l'autorevolezza dello statuto non viene dal comune, ma viene dal diritto privato: si elude il problema della potestà normativa dei comuni, e lo si fa rimanere nell'ambito del diritto privato.

Abbiamo poi anche AZZONE (maestro di Accursio): prende una constitutio dell'imperatore Costantino, dove si dice: "CONSUETUDO NON VILIS AUTORICTATIS EST" (=la consuetudine non è da disprezzare). Ma la cosa importante che fa Azione non è tanto prendere questa constitutio, ma estenderne il suo valore anche alle consuetudini contra legem: quindi, Azione ci ricorda la constitutio di Costantino, poi ci dice che questa constitutio può valere anche per le consuetudini contra legem, cioè anche le consuetudini che sono contrarie alla legge non sono di vile autorità, cioè bisogna.

Infine arriviamo ad ACCURSIO: ci sono solo alcuni passi dove lui cita, tra le fonti di diritto, anche gli statuti, però poi non spiega da nessuna parte qual è il fondamento legittimante di questa affermazione: quindi, recepisce tutte le istanze provenienti da Alberico, da Pillio e da Azione, però poi non dice niente di più.


A partire dal XIV secolo (1300) cominciano ad affermarsi le vere teorie legittimanti della potestà normativa dei comuni: già alla fine del 1200, primi del 1300, si dice che i comuni sono legittimati e hanno potestà normativa.

Qual è la fonte di legittimazione? PACE DI COSTANZA (1183): la pace di Costanza è una norma imperiale, è un patto tra l'imperatore e i comuni, con delle concessioni imperiali: infatti la pace di Costanza, come forma di costituzione imperiale, sarà inserita nelle novelle.

Però dobbiamo dire alcune cose: innanzitutto, la pace di Costanza è certamente un pretesto, perché se la pace di Costanza avesse veramente legittimato i comuni, i giuristi dal 1184 avrebbero cominciato a sfornare le loro teorie: invece, nel 1183 siamo in piena epoca dei glossatori, i quali, con la loro visione letterale, non  si possono schiodare da quello che dice l'imperatore e l'imperatore romano dice che lui è il solo che può fare le norme, al limite, la consuetudine non è di vile autorità o, al limite, la consuetudine è un patto, ma niente di più.

La pace di Costanza, poi, non dice neanche che i comuni possono fare le leggi, prima cosa perché Federico Barbarossa non lo avrebbe mai pensato, ma anche perché, se lo avesse detto, non capiremmo i motivi di tanto imbarazzo dei glossatori.

Alberto Gandino dice: "Lombardi habent exspetiali privilegio concesso in pace Constantiae quod unaquaequae civitas possit sibi facere statuta" = I LOMBARDI (cioè l'Italia settentrionale) HANNO PER SPECIALE PRIVILEGIO CONCESSO NELLA PACE DI COSTANZA CHE CIASCUNA CITTA' POSSA FARE A SE STESSA DEGLI STATUTI. Gandino affermava che le città centro-settentrionali avevano il potere di fare degli statuti grazie alla pace di Costanza.

Ma la pace di Costanza non dice niente a questo proposito: la pace di Costanza dice solo due cose a favore dei comuni, cioè autonomia fiscale (i comuni dell'Italia centro-settentrionale si possono dare autonomamente delle proprie tasse, al di là di quello che debbono all'imperatore); inoltre, i missi imperiali quando vengono mandati nelle città per dirimere alcune controversie in ultima istanza, possono giudicare secondo le leggi e le consuetudini della città.

Però 50 e 100 anni dopo l'atmosfera cambia, i giuristi hanno passato la fase della litera romanistica, cominciano a collaborare con le città, quindi sono pronti ad accettare la capacità normativa dei comuni: fanno questo appunto utilizzando la pace di Costanza come mero pretesto.



La teoria che parte dalla pace di Costanza è detta TEORIA DELLA PERMISSIO, perché si basa sull'idea che i comuni si possono dare gli statuti, perché c'è l'imperatore che glielo ha permesso (gli ha dato un privilegio).

Qual è lo svantaggio di questa teoria per i comuni? Con la permissio il comune è a posto, perché l'imperatore gli ha dato il permesso di fare lo statuto, però come l'imperatore gli ha dato il permesso, glielo può anche togliere e il comune si trova daccapo.

Questo problema è stato avvertito da molti giuristi, in particolare è stato avvertito da BARTOLO il quale ha inventato la teoria della IURISDICTIO: bisogna evitare che l'imperatore, di punto in bianco, tolga la permissio, quindi bisogna ancorare la potestà normativa a qualcosa di stabile. Questo si fa con un modello piramidale e si dice: la massima iurisdictio nel mondo l'ha l'imperatore, ma il fatto che l'abbia lui, non significa che gli altri non l'abbiano. L'imperatore ha la massima iurisdictio per tutto il mondo, però a livelli inferiori possono averla anche altre autorità, per esempio, il rex, il comune, persino il pater familias: il rex ha la iurisdictio nell'ambito dei confini del suo regno, il comune l'ha all'interno delle mura o del distretto urbano, il pater familias l'ha all'interno del suo fondo agricolo e della sua famiglia. Quindi,  la iurisdictio non è altro che un modello che si può adattare a scale inferiori, come delle scatole cinesi: la iurisdictio è la stessa, cambia solo l'ambito di applicazione.

Qual è il vantaggio di questa teoria? Per togliere la potestà normativa al comune bisogna ammettere che cada l'imperatore, perché la iurisdictio l'ha l'imperatore, e questo non è possibile. L'imperatore non può togliere la iurisdictio, semplicemente perché la iurisdictio è la sua, anche se lui l'ha più grande e gli altri l'hanno più piccola, ma non si può negare che anche gli altri l'abbiano, anche se in ambiti territoriali e contenutistici molto più piccoli.


L'ultima teoria è quella di BALDO: "Omnes populi sunt de iure gentium" = TUTTI I POPOLI SONO REGOLATI DAL DIRITTO DELLE GENTI. Tutti i popoli, come se fossero degli organismi animati, cioè delle persone, hanno bisogno di un'anima che si chiama REGIMEN: questo regimen non può essere regolato se non dal diritto delle genti.

Baldo dice che non c'è bisogno neanche dell'imperatore come modello, perché tutti i popoli hanno diritto ad autoregolarsi in virtù del diritto delle genti, quindi salta addirittura il modello imperiale.



CONCLUDENDO . .

Bartolo afferma la iurisdictio nel 1343 a Perugia, la città dove insegnerà per tutta la vita. Perugia è un comune popolare, cioè governato dalle corporazioni e Bartolo fa parte della corporazione più importante, che è quella dei giuristi.

Per cui capiamo come Bartolo, nella sua Perugia, si è interessato ad affermare una teoria che sganci il suo comune dai problemi della permissio.

Nel 1355 il maestro di Bartolo, RANIERI ANSENDI si trova  a Padova, dove si è affermata la signoria e c'è la famiglia dei Carraresi. Così Ranieri Assendi sconfessa l'allievo e riprende la teoria della permissio.

Bartolo è in un comune popolare e quindi deve affermare una teoria che dia autonomia al suo comune.

Ranieri Assendi si trova sotto la signoria, la quale è interessata che la potestà normativa dei comuni venga limitata e, siccome i signori Carraresi sono legittimati dall'imperatore, ci tengono a che il comune possa legiferare solo dietro ad un'esplicita permissio imperiale.

La stessa cosa è fatta da Baldo: dopo la sua affermazione egli va ad insegnare a Pavia, che è sotto i Visconti del ducato di Milano, quindi Baldo è nella stessa condizione di Ranieri Assendi. Perciò si dimentica della sua teoria e troviamo delle altre opere dove afferma la teoria della permissivo.

In altre parole, DOVE C'E' LA SIGNORIA I GIURISTI TENDONO AD AFFERMARE LA TEORIA DELLA PERMISSIO per tenere limitato il potere comunale.







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