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De Francesco - Il modello analitico fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell'elemento psicologico del

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De Francesco - Il modello analitico fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell'elemento psicologico del reato


La dogmatica aspira ad incidere sulla prassi.  Infatti l'opzione della giurisprudenza verso una scelta dogmatica piuttosto che un'altra ha nella maggior parte dei casi natura strumentale, perché, più che discendere da una convinzione teorica, serve a soddisfare contingenti esigenze processuali. La riconduzione del dolo e della colpa all'elemento soggettivo del reato e la ricostruzione in chiave rigorosamente oggettiva dell' illecito ( nell'ambito dell'adesione giurisprudenziale alla contrapposizione tra elemento soggettivo ed elemento oggettivo ) ne sono una testimonianza.

Un esempio è offerto dall'applicazione giurisprudenziale dell'errore ex art. 59.4 c.p. Infatti, la ricostruzione della putatività della legittima difesa in chiave oggettiva, fondata, cioè, su quel complesso oggettivo di circostanze che, seppur interpretate male, abbiano fatto sorgere nell'agente la ragionevole opinione sul bisogno di difendersi, risponde ad esigenze di semplificazione probatoria per quei casi in cui la putatività non trovi altra conferma che nelle dichiarazioni dell'agente. Ma in realtà, quest' interpretazione, che pretende di porsi come "oggettiva", di oggettivo ha ben poco, perché l' unico dato oggettivo è proprio l'erronea rappresentazione della realtà ( quindi un dato personalistico, proprio quel dato personalistico cui la giurisprudenza avrebbe voluto negare rilievo ), mentre tutto il resto è arbitrario, in quanto fondato su un processo ascrittivo e non descrittivo. Infatti il criterio della ragionevolezza si pone come tertium genus accanto alla scusabilità e all' inescusabilità. La prima esclude qualsiasi forma di responsabilità, la seconda esclude il dolo, ma lascia residuare la colpa, il terzo lascia sopravvivere la stessa responsabilità dolosa, per cui finisce con l'ascrivere a titolo di dolo un fatto che descrittivamente doloso non può essere. Quindi, quest'operazione ermeneutica finisce con l' estendere invece di circoscrivere l'ambito della responsabilità penale, anche se consente una semplificazione probatoria, come dimostra il richiamo alla storia personale della vittima di una rapina fatta per scherzo che ha poi invocato la legittima difesa: la ricostruzione di una personalità carica di ansia nella tutela del proprio patrimonio a dispetto della vita altrui, già manifestatasi in precedenti occasioni, è servita per incriminarla.



Ma questa normativizzazione del giudizio che mortifica il dato psicologico- empirico e muove da un procedimento valutativo- ascrittivo ricorre anche in altre ipotesi.

Innanzitutto, preoccupazioni general- preventive in ordine ad un possibile affievolimento dell' obbligatorietà della legge penale inducono la giurisprudenza a distinguere le norme extrapenali in quelle integratrici e in quelle non integratrici della norma penale, per sottrarre le prime dall'ambito di applicabilità dell'art. 47.3 c.p. e ricondurle nell'alveo dell'art. 5 c.p., ancora una volta "manipolando" il dolo per costruire una responsabilità dolosa ( la sempre possibile dolosa insufficiente informazione sulla legge ) laddove vi sarebbe spazio, tutt'al più, per una responsabilità colposa.

Ed ancora, la stessa colpa diviene spesso oggetto di un giudizio normativo che non ha riscontro nel reale atteggiamento psichico dell' agente. Si pensi agli addebiti di culpa in eligendo e culpa in vigilando, spesso mossi a soggetti che ricoprono posizioni di vertice all' interno di organizzazioni più o meno complesse, per gli infortuni dei dipendenti Nonostante, a parole, sia stata ammessa l'efficacia liberatoria della delega, nella prassi il delegante è spesso destinatario di un addebito di responsabilità. E questo nonostante l'accuratezza nella scelta del delegato, una razionale ripartizione delle funzioni,  una capillare attività di controllo e, soprattutto, la distrazione del soggetto infortunato.

Queste intollerabili manipolazioni della giurisprudenza ripropongono il problema della collocazione dell'elemento psicologico del reato. E sorprende che in questo panorama, un recente intervento dottrinale abbia evidenziato la necessità di riaffermare il dualismo oggettivo- soggettivo come presupposto ineludibile di un diritto penale garantista. Questa voce non ha voluto alludere ad un modello in generale, ma ad uno in particolare: quello di Beling, massima espressione del garantismo liberale.

Beling è stato sostenitore di una teoria oggettiva dell' illecito e di una ricostruzione in chiave empirica e descrittiva della colpevolezza: dolo e colpa vengono  presi in considerazione per ciò che realmente sono, e non per il significato che può essere loro ascrittivamente assegnato. La colpevolezza si manifesta nel contingente atto di volontà, escludendo qualsiasi indagine sulla personalità dell'agente. In sostanza, restano estranei calcoli di ordine finalistico che determinino una strumentalizzazione delle persona in chiave preventiva.

Le decisioni giurisprudenziali sono molto lontane dall' osservanza di questi schemi. La colpevolezza, nell'utilizzo dei giudici, è permeabile a calcoli valutativi e funzionali. Nella ricostruzione dell'elemento psicologico del reato trovano ingresso, come abbiamo visto,  considerazioni di semplificazione probatoria e esigenze di soddisfacimento di istanze repressive. Il sostrato ascrittivo non è estraneo neanche alla rifondazione della colpevolezza operata dalla Corte con la sentenza 364/88. Ed oltretutto, frequente è il riferimento alla personalità dell'agente se non ai fini dell'an, quantomeno ai fini del quantum.

Il ritorno a Beling è auspicabile proprio perché la politica criminale resti fuori dall'edificio del reato, e della colpevolezza in particolare: infatti, la normativizzazione e generalizzazione dei coefficienti soggettivi, frutto dei procedimenti ascrittivi sopra illustrati, altro non rappresentano che quella categoria etichettata "colpevolezza e prevenzione". Ma qual è la strada per il ritorno a Beling? O si opta per una riproposizione della giustapposizione tra oggettivo e soggettivo o per una sua rottura, e la conseguente sottrazione  del dolo e della colpa dall' orbita della colpevolezza.

Il fenomeno della soggettivizzazione dell'illecito è parallelo a quello della normativizzazione della colpevolezza. La colpevolezza è, infatti, la più duttile delle categorie dogmatiche e, quindi, la sede ideale per il "compromesso riformistico" tra il razionalismo del liberalismo e il pragmatismo funzionale, inteso a valorizzare la personalizzazione della risposta penale per esigenze di difesa sociale. Ed è proprio in questa linea di tendenza che si colloca la nostra giurisprudenza, costantemente volta ad utilizzare un concetto funzionale di colpevolezza. Una linea di tendenza cui si è amalgamata anche la dottrina, che spesso si è accontentata di denunciare le violazioni del principio di personalità, quando, invece, la soluzione è una sola: assecondare la storia e procedere ad un ulteriore impoverimento della colpevolezza.

Se il "ritorno a Beling" venisse tentato riproponendo il dualismo soggettivo- oggettivo, si finirebbe con l'avallare le tendenze illiberali della prassi. Invece, la strada del garantismo, che voglia evitare una strumentalizzazione della persona umana per fini di politica criminale, può essere più efficacemente battuta rinforzando il contenuto empirico- descrittivo dell'illecito, cioè "conficcando" bene il dolo e la colpa nel fatto. Il timore, largamente condiviso, che la rottura del dualismo possa pregiudicare la valenza garantistica dello schema tripartito ( tipicità, antigiuridicità e colpevolezza ) appare anacronistico. Innanzitutto, perché alcune conquiste come il nullum crimen sine atione sono ormai consolidate; poi, perché una prudente soggettivizzazione dell' illecito si preoccuperà di distinguere, all'interno dell'illecito stesso, gli elementi soggettivi da quelli oggettivi; ed infine, perché inderogabile è l'esigenza di formalizzare, e quindi rendere più vincolanti, le regole di imputazione soggettiva, per sottrarle all'arbitrio della giurisprudenza. Del resto, anche Von Liszt era consapevole della diversa forza garantistica dell' illecito e della colpevolezza, di cui osò pronosticare lo sviluppo futuro: la colpevolezza sarebbe naufragata verso un inevitabile matrimonio con la politica criminale, di cui  l' illecito avrebbe, invece, costituito l'unica vera barriera .

La sogettivizzazione dell' illecito produrrebbe indiscussi benefici innanzitutto sul terreno della responsabilità colposa, dove palesi sono le manipolazioni funzionalistiche della giurisprudenza. Infatti, la costruzione di questo tipo di responsabilità intorno al dovere di diligenza lascia aperte due possibilità: o procedere ad una capillare regolamentazione delle varie ipotesi di responsabilità colposa ( soluzione adottata da altri ordinamenti, con il risultato di aver soddisfatto le sole esigenze di legalità esteriore ) o lasciare all' interprete il compito di concretizzare la diligenza dovuta nel caso contingente ( soluzione accolta dal nostro ordinamento ). Solo che i nostri giudici hanno assolto questo compito aderendo ad un punto di vista  ex post, assumendo, cioè, come indice la prevedibilità in astratto: in questo modo è possibile trovare qualche pecca, qualche smagliatura anche nel comportamento dell' uomo più avveduto. Così, in ossequio a logiche repressive, la giurisprudenza ha, in sostanza, sfumato l'elemento soggettivo ed introdotto numerose presunzioni di responsabilità. Paradigmatico è il caso della colpa incosciente, dove l'ascrizione di responsabilità prescinde totalmente dall'esistenza di un coefficiente psicologico, quando, invece, un diritto penale garantista dovrebbe ancorare la responsabilità alla consapevole deviazione dalla regola di diligenza e, quindi, alla colpa cosciente. In realtà, una soluzione interessante è costituita dall'idea della doppia misura della colpa, in quanto la scomposizione del giudizio in due fasi, con l'esame di un dovere di diligenza oggettivo già nella prima fase, dove si verifica la tipicità del reato ( la categoria garantistica per antonomasia ), assicura l'autonomia del concetto da calcoli preventivi, purchè ovviamente la diligenza oggettiva dovuta non venga stabilita in base ad aspettative disumane. Poi, la seconda fase, in cui confluisce la considerazione della caratteristiche personali dell'agente concreto, che può intervenire solo dopo l'accertamento della negligenza oggettiva ed unicamente in bonam partem, consente una maggiore personalizzazione dell'addebito.

Palese è anche l'ordine di idee funzionalistico in cui si inquadra quell' orientamento giurisprudenziale che riconduce la problematica dell'errore su legge extrapenale in quella dell'art. 5 c.p. E condivisibile sembra quella posizione dottrinale che, equiparando psicologicamente chi incorra in errore su una legge extrapenale ( qualificativa di un elemento del fatto di reato ) a chi agisca sulla base di un'erronea rappresentazione di un dato reale ( trattandosi in entrambi i casi di un errore sul fatto che sostituisce reato ), pone l'accento sul contenuto empirico- descrittivo del dolo.

Parimenti, non è accettabile la ricostruzione offerta dalla giurisprudenza della putatività ex art. 59 c.p. Infatti, il primato del fatto non può essere realizzato se non si procede ad una distinzione sistematica tra quegli elementi che prescindono da qualsiasi riferimento alla personalità e quelli che, invece, richiedono un'indagine personalisticamente orientata. Così, nella prima categoria, oltre agli elementi già tradizionalmente assegnati al momento oggettivo del reato, devono essere ricondotti: il dolo e la colpa, l'errore sul fatto ( art. 47.1 c.p. ), l'errore su legge extrapenale ( art. 47.3 c.p. ) ed anche la putatività ex art. 59 c.p. Quindi, anche quest'ultima deve essere appurata alla stregua delle regole che presiedono all'accertamento del dolo e della colpa. Nel secondo gruppo resterebbero così: l'imputabilità, l'errore su legge penale e una seconda misura della colpa.

In conclusione, la colpevolezza non è in grado di assolvere ad una funzione limitativa delle esigenze funzionali ( prevenzione generale e speciale ), perché troppo approssimativi sono gli indici che utilizza. Invece, l'illecito, la componente oggettiva del reato, può meglio "tutelare il singolo dall'arbitrio del potere" perché ancorato a dati empirici, Ed è questo il motivo per cui non solo l'attribuibilità materiale, ma anche l'attribuibilità psicologica del reato deve avvenire secondo gli schemi del fatto tipico.






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