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FONTI COMUNITARIE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI

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FONTI COMUNITARIE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI


1. Considerazioni generali.


Abbiamo visto come la caratteristica propria dell'ordinamento comunitario, consiste nel riconoscere come titolari di soggettività giuridica non solo gli Stati membri, ma anche coloro ai quali tale soggettività spetta nell'ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri. Tale caratteristica comporta che le norme comunitarie presentano due dimensioni:

- dimensione internazionale: sono di tipo internazionalistico i rapporti giuridici che il diritto comunitario fa sorgere in capo agli Stati membri e alla Comunità. Il contenuto di tali rapporti è costituito da una serie di diritti e obblighi che la Comunità, o lo Stato membro può far valere nei confronti di un altro Stato membro o istituzione. Nell'ambito di tali rapporti, lo Stato membro interessato si presenta in maniera unitaria, analogamente a quanto avviene nell'ordinamento internazionale.

I rapporti di tipo internazionalistico sfociano, in caso di controversia, nei procedimenti giudiziari di soluzione, il più importante dei quali è disciplinato dagli artt. 226 e 227 TCE.



- dimensione interna: appartengono ad una dimensione interna all'ordinamento di ciascuno Stato membro, i rapporti giuridici interessati dal diritto comunitario che coinvolgono soggetti di tali ordinamenti. Talvolta si tratta di rapporti orizzontali (contrapposti sono soggetti privati), più spesso si tratta di rapporti verticali (sorgono tra un soggetto privato e un soggetto pubblico). Il diritto comunitario può intervenire su tali rapporti con intensità variabile.

In primo luogo, può darsi che il diritto comunitario fornisca la disciplina di tali rapporti. Ciò avviene, in particolare, nel campo d'applicazione dei regolamenti, i quali, essendo direttamente applicabili, disciplinano un'intera materia e si sostituiscono alle eventuali norme interne preesistenti (effetto di sostituzione). Tale effetto, seppur su scala più limitata, può derivare anche da altre fonti di diritto comunitario.

In secondo luogo il diritto comunitario può interessare la disciplina di un rapporto giuridico dettando principi o regole che si limitano ad impedire l'applicazione di norme interne ad esse contrarie (effetto di opposizione). In questi casi, la disciplina del rapporto resta soggetta al diritto interno, dal quale vengono eliminate soltanto le norme incompatibili con il diritto comunitario.

In entrambi i casi precedenti si suole dire che la norma comunitaria produce effetti diretti ovvero gode di efficacia diretta negli ordinamenti interni (non è possibile definire a priori il contenuto degli effetti diretti che una norma comunitaria può produrre, essendo questi strettamente legati al contenuto della norma stessa e al contesto in cui la norma è invocata).

L'efficacia diretta di una norma comunitaria implica che il soggetto nei cui confronti la norma produce effetti favorevoli può pretenderne il rispetto da parte dell'altro soggetto del rapporto (efficacia diretta in senso sostanziale). In caso di mancato rispetto, l'efficacia diretta comporta anche l'invocabilità in giudizio: i soggetti favoriti della norma comunitaria possono chiedere al giudice nazionale l'applicazione in giudizio della norma stessa, ottenendone la corrispondente tutela giurisdizionale.

Occorre rilevare che in passato, la Corte usava indistintamente i termini efficacia diretta e applicabilità diretta. In realtà l'applicabilità diretta in senso stretto è riservata dall' art. 249 TCE ai soli regolamenti. L'efficacia diretta è invece una caratteristica che può essere presente anche in altre fonti comunitarie, appare quindi opportuno distinguere le due nozioni ed utilizzare soltanto il termine efficacia diretta per riferirsi all'oggetto della presente Parte.

Non sempre le norme comunitarie presentano le caratteristiche necessarie per produrre effetti diretti (persino di regolamenti).

L'efficacia diretta non costituisce tuttavia l'unica forma attraverso cui le norme comunitarie assumono rilevanza normativa interna. In presenza di norme prive della capacità di produrre effetti diretti, la giurisprudenza ha individuato almeno due forme di efficacia indiretta:

- interpretazione conforme: riconoscere che il diritto comunitario, anche non direttamente efficace, ha un valore interpretativo cogente rispetto alle norme interne. I giudici nazionali sono infatti soggetti ad un obbligo di interpretazione conforme.

- risarcimento del danno: riconoscere che la mancata attuazione di una norma non direttamente efficace fa sorgere, in capo coloro che sono stati danneggiati dalla mancata attuazione, il diritto al risarcimento del danno a carico dello Stato membro responsabile.


2. I presupposti dell'efficacia diretta


Già si è detto che l'efficacia diretta non è una caratteristica propria di ogni norma comunitaria. Pertanto il giudice nazionale, qualora intenda trarre da una norma comunitaria effetti diretti al fine di risolvere una controversia, ha l'onere di verificare d'ufficio se la norma presenti le caratteristiche necessarie, avvalendosi, se del caso, del rinvio pregiudiziale di cui al art. 234 (è una questione infatti che attiene all'interpretazione della norma stessa e rientra pertanto nella competenza pregiudiziale della corte di giustizia).

Per stabilire se una norma comunitaria abbia o meno efficacia diretta, la Corte mira ad individuare nella norma in questione alcune caratteristiche sostanziali che la rendano suscettibile di essere applicata dal giudice. Le caratteristiche richieste sono espresse con formule variabili ma che ruotano sempre intorno al concetto di sufficiente precisione e in incondizionatezza della norma. (V. sentenza Van Gend & Loos).

1)Sufficiente precisione: ha riguardo alla formulazione della norma: essa deve contenere un precetto sufficientemente definito perché i soggetti destinatari possano comprenderne la portata e il giudice possa applicarlo nei giudizi di propria competenza. La norma comunitaria deve specificare almeno tre aspetti:

a) il titolare dell'obbligo;

b) il titolare del diritto;

c) il contenuto del diritto-obbligo creato dalla norma stessa.

(V. sentenza Francovich e sent. CIA Security International).

La diretta efficacia si determina anche in funzione del contenuto del diritto che si intende azionare (v. sentenza Johnston e sent. von Colson).

2) incondizionatezza: attiene all'assenza di clausole che subordinino l'applicazione della norma ad ulteriori interventi normativi da parte degli Stati membri o delle istituzioni comunitarie, ovvero consentano agli Stati membri un certo margine di discrezionalità dell'applicazione (v. sentenza Becker). L'esistenza di norme che consentono agli Stati membri di derogare all'applicazione di un'altra norma per determinati motivi non esclude di per sé l'efficacia diretta di quest'ultima (sentenza Van Duyn).

Inoltre ai fini della verifica dell'efficacia diretta, la destinatarietà formale della norma non ha alcun rilievo. In particolare la circostanza che la norma si rivolga agli Stati membri o alle istituzioni non comporta necessariamente che sia priva di efficacia diretta (v. sentenza Defrenne).

In linea di massima, i presupposti dell'efficacia diretta sono gli stessi qualunque sia il tipo di norma comunitaria rispetto alla quale il problema si pone. Le caratteristiche proprie di ciascuna fonte portano ad alcune differenze di approccio e, talvolta, a soluzioni particolari.

- Disposizioni del Trattato: alcune di esse si riferiscono espressamente singoli. Esempio importante è dato dalle norme in materia di concorrenza (in particolare gli artt. 81 e 82), le quali sono senz'altro direttamente efficaci, nel senso che sono direttamente opponibili alle imprese interessate (v. sentenza Pronumptia e sentenza Manfredi). Quindi anche norme del Trattato formalmente rivolte agli Stati membri possono produrre effetti diretti qualora siano dotate delle caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Van Gend & Loos,Defrenne,Van Duyn e Reyners). Le norme del Trattato producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali, quanto nei rapporti orizzontali. Si parla pertanto di efficacia diretta verticale e di efficacia diretta orizzontale (v. sentenza Angonese e sentenza Deliège).

- Accordi internazionali conclusi dalla Comunità (art. 300): anche per essi si pone il problema dell'efficacia diretta. È infatti possibile che soggetti privati siano interessati a far valere la disciplina contenuta in tali accordi, per contestare la legittimità di comportamenti o di provvedimenti degli Stati membri o delle istituzioni (v. sentenza Kupferberg e sentenza Sevince). La verifica svolta dalla Corte per decidere circa l'efficacia diretta delle disposizioni contenute in accordi internazionali si caratterizza per una particolare attenzione rivolta al contesto. Dapprima occorre dimostrare che la natura e la struttura dell'accordo permettono di riconoscere effetti diretti alle sue disposizioni in generale. Successivamente, è necessario provare che la specifica disposizione invocata presenti le caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Kupferberg).

- Regolamenti: per essi il problema dell'efficacia diretta ha scarsa consistenza. Infatti la caratteristica della diretta applicabilità implica che, normalmente, le disposizioni dei regolamenti siano anche capaci di produrre effetti diretti. Il principio subisce una certa attenuazione nel caso di regolamenti che richiedono l'emanazione da parte degli Stati membri di provvedimenti di integrazione o di esecuzione. In mancanza quindi dei provvedimenti nazionali, non si può fare a meno di verificare che la disposizione regolamentare in questione presenti i presupposti della sufficiente precisione e della incondizionatezza (v. sentenza Leonesio e sentenza Azienda Agricola Monte Arcosu). Anche i regolamenti producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali (efficacia diretta verticale) quanto in quelli orizzontali (efficacia diretta orizzontale).


3. Segue: il caso delle direttive e delle decisioni.


- Direttive: per quanto riguarda i presupposti sostanziali, anche le direttive per essere direttamente efficaci, devono presentare le caratteristiche della sufficiente precisione ed incondizionatezza (v. sentenza Marshall). Le differenze dai casi precedenti riguardano invece il momento a partire dal quale l'efficacia diretta si produce e i soggetti nei cui confronti può essere fatta valere.

1) portata temporale: per sua natura la direttiva non è concepita come fonte di effetti diretti. La disciplina dei rapporti giuridici interni rientranti nel suo oggetto viene posta dalle norme di attuazione emanate da ciascuno Stato membro (hanno un'efficacia normativa interna meramente indiretta o mediata). Tuttavia, capita spesso che gli Stati membri attuino le direttive in ritardo oppure in forme non corrette o sufficienti, in modo da impedire il raggiungimento del risultato voluto. Solo in casi del genere si pone il problema di stabilire se, nonostante la mancanza o l'insufficienza delle misure nazionali d'attuazione, la direttiva possa produrre effetti diretti. Quindi di effetti diretti di una direttiva non può parlarsi se non dopo la scadenza del termine per l'attuazione concesso agli Stati membri. Prima di questo momento l'unico effetto giuridico che produce è quello di obbligare gli Stati membri ad attuarla. (L'unico caso di efficacia diretta anticipata potrebbe darsi nell'ipotesi di attuazione completa effettuata prima della scadenza del termine. V. sentenza Inter-Environnement Wallonie, sentenza Mangold e sentenza Adeneler).

2) portata soggettiva dell'efficacia diretta di una direttiva: la giurisprudenza ha seguito un percorso argomentativo alquanto vario, ma coerente nel sottolineare il nesso tra efficacia diretta e violazione dell'obbligo d'attuazione che grava sugli Stati membri. (Inizialmente, la Corte ha puntato sul carattere obbligatorio della direttiva, avvicinandola in tal modo al regolamento, ma anche sulla teoria dell'effetto utile, che porta ad interpretare le norme comunitarie in maniera da consentire che esse esplichino i loro effetti nella maggior misura possibile.V. sentenza Van Duyn.- Successivamente la Corte introduce un nuovo argomento che sembra assimilare l'efficacia diretta ad una sorta di sanzione a carico dello Stato membro inadempiente. V. sentenza Ratti). Dal momento che l'efficacia interna della direttiva inattuata è conseguenza dell'obbligatorietà della stessa nei confronti degli Stati membri, si comprende perché la Corte abbia limitato tale l'efficacia ai soli rapporti verticali e, più specificatamente, ai rapporti in cui la direttiva è invocata contro un'autorità pubblica.Ogni autorità pubblica, infatti, è tenuta, nel proprio ambito di competenza, ad attuare la direttiva ai sensi dell'art. 249.3 (ad essa è perciò possibile rimproverare di non averlo fatto). Viceversa, la direttiva inattuata, non può produrre effetti diretti dei rapporti orizzontali o comunque in modo da addossare obblighi ai soggetti privati, i quali non possono essere in alcun modo considerati responsabili della mancata attuazione. La direttiva pertanto ha soltanto efficacia diretta verticale, mentre è priva di efficacia diretta orizzontale (v. sentenza Ratti,sentenza Marshall,Faccini Dori e Pfeiffer).

Di fronte ad una direttiva inattuata , risulta pertanto determinante stabilire se il soggetto nei cui confronti si intende invocare la direttiva è un soggetto pubblico o un soggetto privato. La Corte considera che l'obbligo di attuare la direttiva non incombe soltanto sugli organi dello Stato centrale, ma anche su qualsiasi articolazione della struttura pubblica, indipendentemente dal se si tratti di entità dotate di poteri autoritativi ovvero di entità che agiscano con gli strumenti dell'autonomia privata (v. sentenza Marshall, sentenza Foster, sentenza Ratti,sentenza Johnston e Van Duyn).

Il mero fatto che l'applicazione di una direttiva inattuata comporti effetti sfavorevoli nei confronti di singoli non sempre conduce a classificare la fattispecie come un'ipotesi di efficacia diretta orizzontale. In proposito vi sono tre ipotesi:

a) rapporti triangolari: rapporti in cui un privato invoca l'applicazione di una direttiva inattuata nei confronti di un organo pubblico, a titolo principale, ma anche nei confronti di altri soggetti privati, la cui posizione verrebbe compromessa dall'applicazione della direttiva. In casi del genere, la Corte non sembra considerare l'effetto pregiudizievole indirettamente subito dai soggetti privati controinteressati come circostanza preclusiva alla produzione di effetti diretti da parte della direttiva (v. sentenza Fratelli Costanzo).

b) direttive che prevedono procedure comunitarie di controllo sulle normative degli Stati membri: tali direttive riguardano adempimenti prescritti a carico dei soli Stati membri. In questi casi, la direttiva inattuata non influisce sulla disciplina dei rapporti interprivati, se non indirettamente, nel senso di precludere l'applicazione di una normativa interna emanata in violazione delle procedure di controllo. In casi del genere, la Corte ritiene che la direttiva non crea né diritti né obblighi per i singoli e può dunque essere applicata dal giudice, senza che si possa parlare di efficacia orizzontale (v. sentenza Unilever).

c) successione di norme interne di cui la più recente sia incompatibile con una direttiva: si è sostenuto che in casi del genere la direttiva non comporterebbe di per sé effetti negativi a carico dei privati, dal momento che essa si limiterebbe ad impedire l'applicazione della disposizione interna più recente. La tesi è stata respinta dalla Corte nella sentenza Berlusconi. Tuttavia la sentenza è stata resa con riferimento a casi in cui il riconoscimento di effetti diretti avrebbe comportato un aggravamento della responsabilità penale degli imputati. Tenendo conto che la Corte si è sempre mostrata restia ad attribuire alle norme comunitarie effetti del genere, non è escluso che, in un contesto che non coinvolga conseguenze di tipo penale, la Corte possa accogliere la tesi sopradescritta.

La scelta di negare alle direttive inattuate ogni efficacia diretta in senso orizzontale è stata oggetto di molte critiche (s'è parlato di discriminazione arbitraria).

- Decisioni: raramente la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla loro efficacia diretta. Nella sentenza Grad la Corte occupandosi di una decisione del Consiglio rivolta agli Stati membri, ha riconosciuto la possibilità che tale decisione possa essere invocata non soltanto dalle istituzioni comunitarie, ma anche da qualsiasi soggetto interessato al suo adempimento, anticipando in gran parte gli argomenti che sono stati poi utilizzati a proposito delle direttive nella citata sentenza Van Duyn (la Corte non ha però mai avuto occasione di precisare se le decisioni inadempiute possono avere efficacia diretta anche orizzontale ovvero se anche a questi atti si applicano le stesse limitazioni individuate a proposito delle direttive - v. decisioni in materia di aiuti statali delle imprese).


4. L'obbligo di interpretazione conforme.


Si è visto come esistono numerosi motivi che possono escludere l'efficacia diretta di una norma comunitaria. In ipotesi del genere, occorre domandarsi se la norma comunitaria possa assumere un valore normativo indiretto nell'ordinamento degli Stati membri e debba perciò essere presa in considerazione dal giudice nel risolvere una controversia. L'individuazione di forme di efficacia indiretta del diritto comunitario è stata valorizzata in particolare rispetto alle direttive. Il ricorso alle forme di efficacia indiretta è servito alla Corte per attenuare gli inconvenienti derivanti dalla giurisprudenza sulla mancanza di effetti orizzontali.

Prima forma di efficacia indiretta consiste nell'obbligo di interpretazione conforme: gli operatori giuridici e soprattutto i giudici quando sono chiamati ad applicare norme interne sono tenuti ad interpretarle in conformità con il diritto comunitario, anche se questo non è direttamente efficace. Tale obbligo si ricollega all'obbligo di leale collaborazione.

La differenza tra diretta efficacia e interpretazione conforme risiede nel fatto che, mentre nel primo caso il giudice disapplica la norma interna confliggente con la norma comunitaria, nel secondo egli applica pur sempre la norma interna ma interpretandola in modo aderente a quella comunitaria (la distinzione è sottolineata dalla giurisprudenza, secondo la quale l'interpretazione conforme delle norme interne non può giungere fino al punto che ad un singolo venga opposto un obbligo previsto da una direttiva non trasposta. In caso contrario si avrebbe la produzione di effetti diretti orizzontali). L'obbligo di interpretazione conforme è stato affermato anzitutto quando il giudice nazionale si trova a dover interpretare e ad applicare le disposizioni che uno Stato membro ha specificatamente adottato per attuare una direttiva (sentenza von Colson). Successivamente l'obbligo di interpretazione conforme è stato esteso anche a disposizioni nazionali più antiche rispetto alla direttiva e pertanto prive di qualunque legame funzionale con la direttiva stessa(sentenza Marleasing). Da ultimo la Corte ha chiarito che l'obbligo in questione riguarda tutto il diritto nazionale.

L'obbligo di interpretazione conforme incontro alcuni limiti. In primo luogo esso resta subordinato all'esistenza di un margine di discrezionalità che consenta l'interprete di scegliere tra più interpretazioni possibili della norma interna. Se, invece, la norma interna è inequivocabilmente contraria alla norma comunitaria e questa è priva di efficacia diretta, l'obbligo in esame viene meno (in sintesi l'obbligo di interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale - sentenza Adeneler). Il secondo limite è di carattere temporale: l'obbligo non sorge prima della scadenza del termine di attuazione della direttiva in questione. In terzo luogo la giurisprudenza ha precisato che nel riferirsi al contenuto delle direttive quando interpreta le norme di diritto interno, il giudice deve rispettare i principi generali che fanno parte del diritto comunitario(sentenza Kolpinghuis Nijmegen). La Corte nega pertanto la possibilità che le direttive, finché restano inattuate, possano avere l'effetto, anche solo sotto profilo interpretativo, di aggravare la responsabilità penale degli individui (sentenza Arcaro e precedente cit.).

La Corte ha affermato che tale obbligo sussiste anche riguardo alle decisioni quadro adottate nell'ambito del III pilastro, nonostante che l'art.34 par.2 TUE specifici che tali atti non hanno efficacia diretta (sentenza Pupino).


5. Il risarcimento del danno.


Un'altra forma di efficacia indiretta consiste nel riconoscere che la norma comunitaria, anche se non direttamente efficace, può essere fonte di un diritto al risarcimento del danno. Secondo la Corte il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli in violazione del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato (sentenza Brasserie du Pècheur). Non vi è dubbio che, qualora gli organi di uno Stato membro ledano il diritto attribuito ad un singolo da una norma comunitaria direttamente efficace, provocando un danno, tali organi siano tenuti al risarcimento. In questi casi il diritto al risarcimento costituisce un corollario necessario dell'effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie.

Più problematica è l'ipotesi di mancata attuazione di una direttiva priva di efficacia diretta. In questi casi, il comportamento omissivo degli organi statali impedisce il sorgere stesso del diritto che la direttiva intendeva garantire ai singoli, per cui si può parlare di efficacia indiretta della direttiva, posto che il diritto al risarcimento costituisce un diritto a sé stante (il diritto ad ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza della mancata attuazione di una direttiva non direttamente efficace è stato affermato per la prima volta nella sentenza Franchovich).

Le condizioni dettate dal diritto comunitario perché il diritto al risarcimento sorga sono tre:

1) la norma comunitaria violata deve essere diretta a conferire diritti ai singoli danneggiati, il cui contenuto possa essere individuato in base alla norma stessa;

2) la violazione della norma deve essere sufficientemente grave e manifesta;

3) tra la violazione e il danno deve esistere un nesso di causalità diretto (vedi sentenza Francovich, sentenza Dillenkofer,Brink-mann,Lomas) (si ricordi che non è richiesta la presenza di un particolare elemento psicologico, dolo o colpa che sia, da parte degli organi statali responsabili del danno).

Quanto egli organi che, con il loro comportamento omissivo o commissivo, possono mettere in gioco la responsabilità per danni dello Stato membro, può trattarsi degli organi legislativi di uno Stato, di autorità fiscali, di una cassa di previdenza, di un ente locale, ma anche del potere giudiziario (sentenza Kobler - per gli altri casi vedi sentenze relative).

Condizioni formali sostanziali per l'esercizio del diritto al risarcimento: dipendono dalle varie legislazioni nazionali, salvo il rispetto dei limiti che tali legislazioni devono rispettare quando si applicano ad azioni aventi ad oggetto diritti di derivazione comunitaria (sentenza Francovich cit.).


6. La disciplina processuale della tutela dei diritti di origine comunitaria.


Salvo eventuali interventi di armonizzazione da parte delle istituzioni comunitarie, la definizione degli aspetti processuali spetta all'ordinamento nazionale dello Stato membro nel cui ambito la norma comunitaria è azionata. Tale principio (definito dell'autonomia processuale degli Stati membri) incontra tuttavia alcuni limiti:

1) principio di equivalenza: le modalità definite dal diritto nazionale per l'esercizio di posizioni di derivazione comunitaria non possono essere meno favorevoli di quelle applicate per la protezione in via giudiziaria di posizione analoghe, di origine puramente interna;

2) principio di effettività: le modalità non possono essere tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti di derivazione comunitaria. Le due condizioni sono cumulative (vedi sentenza Rewe,sentenza Peterbroeck,Emmott,Fantask,Santex,Manfredi).

Il principio dell'autonomia processuale degli Stati membri e i limiti a tale principio si applicano anche nel caso di azioni per ottenere il risarcimento del danno imputabile agli organi statali per violazione del diritto comunitario (sentenza Francovich,Traghetti del Mediterraneo,Kobler).


7. Il primato del diritto comunitario.


La capacità del diritto comunitario di produrre effetti diretti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri pone il problema dei conflitti che possono sorgere tra norme comunitarie e norme interne incompatibili. Conflitti del genere sono risolti in base al principio del primato del diritto comunitario: quando la norma comunitaria direttamente efficace incontra una norma interna incompatibile , perché ne impedisce parzialmente o totalmente l'applicazione, il principio del primato impone che la norma comunitaria prevalga su quella interna.

Da un punto di vista logico, il principio del primato si salda con quello dell'efficacia diretta: se l'efficacia diretta non si accomnasse al primato, la norma comunitaria non potrebbe concretamente creare diritti in capo ai soggetti di quegli ordinamenti degli Stati membri in cui fossero presenti norme interne incompatibili. L'efficacia della norma comunitaria varierebbe infatti da uno Stato membro all'altro. Una situazione del genere sarebbe inaccettabile. È infatti un'esigenza fondamentale dell'ordinamento comunitario che le sue norme siano applicate uniformemente in tutti gli Stati membri.

A cedere di fronte al diritto comunitario sono le norme interne di qualunque rango. In caso contrario, l'efficacia della norma comunitaria varierebbe in ragione del diverso rango delle norme interne che regolano, nei vari Stati, la stessa materia oggetto della norma comunitaria (il principio del primato si è affermato in via giurisprudenziale, è stato esplicitato per la prima volta nella sentenza Costa c. Enel: 'se l'efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all'altro, in funzione delle leggi interne posteriori, ciò non metterebbe in pericolo l'attuazione degli scopi del Trattato. La Costituzione riprende il principio del primato in una norma scritta, la cui genericità lo farebbe valere anche per gli atti adottati nelle materie già rientranti nel II e nel III pilastro, cosa che attualmente sembra da escludersi). Secondo la Corte, l'ordinamento comunitario non soltanto impone la prevalenza della norma comunitaria sulla norma interna incompatibile, ma determina altresì le modalità attraverso cui tale prevalenza deve trovare applicazione e in particolare l'organo competente a farlo valere (se l'ordinamento nazionale fosse libero di determinare modalità e procedimenti, il carattere uniforme della norma comunitaria verrebbe meno). La Corte riconosce in particolare, che il giudice nazionale ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale (sentenza Simmenthal). Non possono pertanto essere ammesse le costruzioni normative o le prassi giurisprudenziali che hanno per effetto di sottrarre al giudice ordinario il potere di disapplicare immediatamente le norme interne incompatibili con il diritto comunitario e di riservarlo ad organi diversi. Della sentenza Simmenthal rilevano alcuni passaggi in cui la Corte sembra voler delineare l'esistenza di un rapporto gerarchico tra ordinamento comunitario e ordinamenti degli Stati membri, tale da provocare l'invalidità della norma interna incompatibile con quella comunitaria. Quindi non solo rendere ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie (l'importazione questa che non è stata accettata dalla Corte costituzionale della sentenza Granital e recentemente ridimensionata anche dalla Corte di giustizia nella sentenza IN.CO.GE. - la Corte ha respinto l'idea che l'incompatibilità con il diritto comunitario di una norma di diritto nazionale successiva abbia l'effetto di rendere quest'ultima inesistente).

L'esigenza di assicurare la tutela giudiziaria immediata delle norme comunitarie produttive di effetti diretti implica altresì il potere per il giudice nazionale di emanare provvedimenti provvisori, che comportino la sospensione dell'applicazione di una norma interna, in attesa che sia definitivamente accertato (mediante rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia) l'incompatibilità della norma interna con il diritto comunitario (sentenza Factortame I).

La circostanza che una norma interna sia incompatibile con il diritto comunitario e vada pertanto disapplicata dal giudice nazionale in forza del principio del primato, norme esime lo Stato membro interessato dal provvedere alla abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica. In mancanza, la permanenza della norma nell'ordinamento dello Stato membro mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità loro garantita di fare appello al diritto comunitario (sentenza 24 marzo 1988, Commissione c. Italia - sentenza San Giorgio, sentenza Provincia autonoma di Bolzano). L'


8. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana.


La piena accettazione del principio del primato da parte della Corte costituzionale italiana è risultata particolarmente difficoltosa. Inizialmente la Corte parte dall'assunto che, secondo l'ordinamento costituzionale italiano, l'unico procedimento attraverso cui una legge in vigore può essere resa inapplicabile è la dichiarazione di incostituzionalità ai sensi dell'art. 134 Cost. (Sentenza Costa c. Enel) L'attenzione della Corte si focalizza sulla legge di esecuzione del Trattato,la quale, come si è visto, è una legge ordinaria. Da ciò la Corte costituzionale deduce che anche le norme del Trattato hanno il rango di legge ordinaria e sono pertanto destinate a cedere di fronte ad una norma di legge successiva (la Corte infatti esclude che la legge contenente disposizioni difformi dal Trattato sia incostituzionale per violazione indiretta dell'art. 11 attraverso il contrasto con la legge esecutiva del Trattato. Ne consegue che deve rimanere saldo l'impero delle leggi posteriori e quindi in caso di legge incompatibile con il Trattato, si pone una mera questione di successione di leggi nel tempo, che deve essere risolta dal giudice di merito e non dalla Corte costituzionale). Il contrasto è netto: secondo la Corte di giustizia il giudice nazionale deve applicare le norme del Trattato, disapplicando qualsiasi norma interna contraria, mentre, secondo la Corte costituzionale, il giudice italiano può applicare le norme del Trattato soltanto se non sia intervenuta una legge interna successiva incompatibile.

Un primo avvicinamento avviene con la sentenza I.C.I.C. La Corte costituzionale, valorizzando maggiormente l'articolo 11 Cost., ne deduce che tale norma non soltanto consente all'Italia di accettare limitazioni di sovranità con legge ordinaria, ma esige altresì che il legislatore rispetti le limitazioni di sovranità così accettate e, in particolare, non ostacoli, attraverso l'emanazione di leggi successive incompatibili o anche meramente riproduttive, la diretta applicabilità dei regolamenti prescritta dall'art. 249.2 TCE. In simili evenienze, la norma di legge è incostituzionale per violazione dell'articolo 11, ma tale vizio non può portare alla sua disapplicazione da parte del giudice ordinario, rendendosi invece sempre necessario l'intervento della Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 Cost.

Riassumendo, il giudice italiano, per effetto del principio della successione delle leggi nel tempo, ha il potere di disapplicare una norma di legge interna contraria al diritto comunitario qualora la legge preceda nel tempo la norma comunitaria, ma non ha il potere di fare altrettanto qualora il rapporto temporale sia inverso: in questo caso il giudice non potrà fare altro che sollevare la questione di legittimità costituzionale e attendere la decisione della Corte costituzionale (la soluzione elaborata dalla Corte costituzionale presenta il seguente vantaggio: le sentenze di incostituzionalità hanno valore generale e privano la norma incostituzionale di efficacia, rimuovendola definitivamente dall'ordinamento; ma anche rilevanti difetti: riduce il ruolo della Corte ad una funzione puramente notarile e inoltre l'intervento della Corte costituzionale ritardava il momento a partire dal quale il giudice poteva applicare direttamente la norma comunitaria).

Il sopravvenire della sentenza Simmenthal (in cui la Corte di giustizia prende posizione proprio contro la soluzione contenuta nella sentenza I.C.I.C.) costringe la Corte costituzionale a modificare nuovamente il proprio orientamento. L'occasione viene fornita dalla sentenza 8 giugno 1984 n. 170, Granital. La novità del ragionamento della Corte costituzionale consiste nel rifiuto di assimilare le norme comunitarie a norme nazionali di legge. Da ciò discende l'impossibilità di applicare ai conflitti tra norme comunitarie e norme di legge i metodi di risoluzione previsti per l'ipotesi di conflitto tra norme entrambe appartenenti all'ordinamento italiano, compresa la dichiarazione di incostituzionalità. Trattandosi di norme di ordinamenti diversi, gli eventuali conflitti vanno risolti in base ad un diverso criterio: il criterio della competenza (l'ordinamento della C.e.e. e quello dello Stato, pur distinti e autonomi sono necessariamente coordinati). Occorrerà pertanto stabilire se la materia disciplinata rientri tra quelle in relazione alle quali l'Italia ha accettato, in conformità con l'articolo 11, di limitare la propria sovranità in favore della Comunità. Tale compito va svolto dal giudice ordinario e non richiede l'intervento della Corte costituzionale. Qualora risulti che la materia rientra effettivamente nella competenza che il Trattato attribuisce alle istituzioni comunitarie, il giudice italiano,accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame e ne applica di conseguenza il disposto, con l'esclusivo riferimento al sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva. La soluzione vale soltanto se e quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca in una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno (come nel caso dei regolamenti) (la giurisprudenza successiva ha riconosciuto che il potere del giudice di applicare direttamente le norme comunitarie, lasciando inapplicate le leggi interne incompatibili va esteso a tutte le fonti comunitarie capaci di produrre effetti diretti). La soluzione elaborata dalla Corte costituzionale nella sentenza Granital benché molto vicina a quanto richiesto dalla Corte nella sentenza Simmenthal, lascia sopravvivere alcune differenze (separatezza dell'ordinamento statale rispetto a quello comunitario su cui esiste la Corte costituzionale mentre visione integazionista della Corte di giustizia nella sentenza Simmenthal. Secondo la Corte costituzionale la norma di legge confliggente con la norma comunitaria non è invalida come sostiene la Corte di giustizia, quindi la legge interna resta in vigore ma non interferisce nella sfera occupata da tale atto).

La Corte costituzionale esclude in due ipotesi il potere del giudice di applicare immediatamente la norma comunitaria e di disapplicare l'eventuale legge interna confliggente, esigendo invece che sia sollevata questione di costituzionalità. Si tratta pertanto di casi ancora oggi riservati alla competenza residua della Corte costituzionale:

1) norma comunitaria contraria ai principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e ai diritti dell'uomo: il giudice nazionale chiamato ad applicare una norma comunitaria sospettata di violare i predetti principi, sarebbe pertanto tenuto a sollevare questione di costituzionalità relativamente alla legge di esecuzione del Trattato, in quanto da tale legge deriverebbe l'applicazione in Italia di una norma comunitaria del genere. (La competenza rivendicata dalla Corte costituzionale confligge inevitabilmente con la competenza esclusiva della Corte di giustizia a giudicare della violazione dei diritti dell'uomo da parte di atti delle istituzioni. La Corte peraltro, non esclude che il giudice a quo si rivolga prima alla Corte di giustizia, interrogandola sulla validità dell'atto in questione per violazione dei diritti umani protetti dall'ordinamento comunitario, e sollevi questione di costituzionalità solo in caso di risposta insoddisfacente a tale questione - sentenza FRAGD, sentenza Frontini);

2) norme di legge dirette ad impedire il rispetto dei principi fondamentali del Trattato: (sentenza Granital) dovrebbe trattarsi di casi caratterizzati da particolare gravità e da una comprovata intenzione di impedire l'applicazione in Italia di interi settori del diritto comunitario. In casi del genere la Corte sarebbe quindi chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuni dei limiti della sovranità statale, da esso medesimo posti, mediante la legge d'esecuzione del Trattato in diretto e puntuale adempimento dell'articolo 11 Cost. (La competenza della Corte costituzionale a conoscere di conflitti tra norme comunitarie e norme interne sussiste anche in tutte quelle ipotesi che si pongano al di fuori del giudizio di costituzionalità in via di eccezione. Qualora infatti un conflitto del genere venga in rilievo nell'ambito di una delle sue competenze dirette, la Corte costituzionale è chiamata a risolverlo, rispettando, come tutti gli organi dello Stato, il principio del primato (v. varie sentenze).

Con la riforma del Ttolo V della Costituzione il principio del primato del diritto comunitario su quello interno ha trovato un'esplicita consacrazione nel nuovo testo dell'art. 117.1. (Resta salvo pertanto il potere-dovere del giudice ordinario di disapplicare direttamente la norma interna incompatibile secondo la soluzione delineata a partire dalla sentenza Granital, senza dover ricorrere al giudizio di incostituzionalità in via d'eccezione. Per quanto riguarda invece le competenze dirette della Corte costituzionale l'art. 117 costituisce ormai il parametro di costituzionalità naturale).







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