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IL LINGUAGGIO DELLE NORME GIURIDCHE PRIVATISTICHE



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IL LINGUAGGIO DELLE NORME GIURIDCHE PRIVATISTICHE


La norma giuridica come fenomeno di linguaggio

La norma giuridica privatistica, al pari di ogni altro tipo di norma, si presenta all'osservatore come un insieme di parole. Gli elementi costitutivi della norma giuridica - fattispecie ed effetto - appartengono ai fenomeni del linguaggio umano: sono parole sulle quali, o mediante le quali, è destinata a svolgersi l'attività dell'interprete.

Questi o si limita a ricostruire il significato delle parole usate dal legislatore, o si serve di esse per classificare eventi naturali e accaduti storici. Rientrano nella prima specie di attività le proposizioni, con cui l'interprete esplicita il contenuto di una data norma, ossia ripete ed itera nel proprio linguaggio il linguaggio legislativo. Rientrano nella seconda specie di attività, che perciò suole denominarsi pratica o applicativa, le proposizioni con cui l'interprete riconduce un caso (evento naturale o episodio della storia umana) in una categoria di fatti descritti dal legislatore.



Così quando il giudice afferma che Tizio e Caio hanno stipulato un contratto di compravendita, non si limita ad iterare il contenuto dell'art. 1470, ma assegna un predicato giuridico al fatto storico.

Soltanto attraverso questo processo di pensiero, i fatti - che di per sé appartengono alla sfera degli eventi naturali o alla storia umana - penetrano nel mondo del diritto, e diventano fatti giuridici.

Queste prime notazioni lasciano distinguere nell'ambito del diritto privato una pluralità di ordini o livelli di linguaggi, poiché altro è il linguaggio delle norme, altro il linguaggio dell'interprete (o iterativo), altro, infine, il linguaggio dell'interprete <<pratico>> (o applicativo).

Le posizioni dell'interprete, nelle due specie di attività ora indicate, non esprimono norme, ma piuttosto concernono e riguardano norme, che vengono o ricostruite nel loro significato o utilizzate come canoni di classificazione dell'esterna realtà.

Esse presentano perciò un grado linguistico diverso da quello delle norme a cui si riferiscono: sono un meta-linguaggio, in rapporto ad un linguaggio-oggetto.

Tra l'oggetto della scienza e le proposizioni, con cui lo scienziato parla di esso, vi è un salto logico: il primo appartiene alla sfera della natura, le seconde al linguaggio umano.

La scienza del diritto, al contrario, discorre su un altro discorso, parla di altre parole, passa da uno ad un altro linguaggio. L'oggetto della ricerca è già un fenomeno linguistico, sicchè le proposizioni della scienza si legano ad esso in un ininterrotto rapporto di omogeneità e continuità.

Il linguaggio delle norme è dunque un linguaggio-oggetto, dotato di proprie regole d'uso e di propri criteri di combinazione. Esso ha a tal segno carattere rigido e sistematico da disciplinare anche l'attività dell'interprete: cioè la lettura di sé medesimo. L'art. 12 disp. prel. cod. civ.  opera appunto una norma di chiusura dell'ordinamento giuridico, sia nel senso (1° comma) di enunciare i canoni di interpretazione del linguaggio-oggetto, che (2° comma) di stabilirne le regole di trasformazione.

L'analogia è l'esclusivo strumento di trasformazione del linguaggio-oggetto, che non può allargarsi né integrarsi medianti altri metodi o fonti. La costruzione del meta-linguaggio - ossia del linguaggio con cui il giurista parla delle norme - è perciò in larga parte determinata dalla struttura del linguaggio-oggetto, che limita e talora sopprime lo stile e la capacità inventiva dello scienziato.


Linguaggio-oggetto e meta-linguaggio.

I due gradi del discorso giuridico sono designati in vario modo. Piuttosto diffusa è la distinzione tra linguaggio del diritto, ossia linguaggio nel quale sono formulate le leggi di un certo Stato, e linguaggio giuridico, ossia linguaggio nel quale i giuristi parlano delle leggi di un certo Stato.

Preferiamo designare il linguaggio delle norme come linguaggio normativo o (considerata la prevalenza della legge tra le fonti del diritto) legislativo. Il meta-linguaggio può essere distinto in:

linguaggio dottrinario, che si limita a esplicare il contenuto delle norme (la norma x ricollega alla fattispecie A l'effetto B);

linguaggio applicativo, con cui il giurista assegna predicati giuridici a eventi naturali e accaduti storici (il fatto a rientra nel tipo legislativo A: è un contratto di compravendita o di premuta ecc.).

Mediante il filtro del linguaggio i fatti assumono un nomen juris, una qualifica che li ordina e classifica nelle categorie legislative. Mentre il linguaggio dottrinario è propriamente un discorso sulle norme, il linguaggio applicativo si apre al mondo dei fatti nel senso che vengono ridotti a <<casi>> o <<esempi>> di tipi legislativi.

Il diverso grado o livello dei discorsi giuridici spiega perché soltanto il meta-linguaggio (dottrinario o applicativo) soggiaccia al controllo di verificazione e possa perciò dirsi vero o falso. La verità della norma è nella sua validità, ossia nell'appartenenza al sistema di norme dal cui punto di vista ci siamo collocati. Quando l'interprete informa che la tal norma ha un dato contenuto (la fattispecie A e l'effetto B), o che il tal fatto rientra in una data categoria legislativa (il fatto a nella categoria A), noi siamo in grado di controllare la verità della proposizione, mediante il rapporto tra meta-linguaggio e linguaggio-oggetto. Questa verifica non avrà, carattere sperimentale (nel senso di riprodurre il fenomeno descritto nella legge naturalistica), ma carattere storico-interpretativo.

Si tratterà, cioè, di vedere se il giurista ha ricostruito correttamente il significato delle parole usate dal legislatore, osservando le regole di lettura dall'art. 12, 1° comma, disp. prel. e i codici linguistici.


Il linguaggio-oggetto. Lingua comune e linguaggio legislativo.

Esaminando un sistema storicamente dato (il diritto privato vigente in Italia) osserveremo che esso costruisce il proprio vocabolario mediante tre fonti tipiche:

utilizzando parole già appartenenti alla lingua comune, e conservandone il significato originario;



utilizzando parole già appartenenti alla lingua comune, e modificandone il significato originario;

coniando nuove parole, destinate poi o a rimanere nel linguaggio del diritto o a trasferirsi  nella lingua volgare.

Nel secondo e nell'ultimo caso, il vocabolario legislativo si conura come un autonomo codice linguistico. Il legislatore si mostra consapevole della specificità del linguaggio normativo, e cosi impone all'interprete di preferire il <<significato proprio delle parole>> (art. 12, 1° comma, disp.prel.), ossia di scegliere il significato tecnico, e non quello volgare e profano.

La norma dell.art. 12, 1° comma, si riferisce naturalmente alle ipotesi in cui la parola sia dotata di due o più significati: l'uno nel linguaggio giuridico e l'altro nella lingua comune; o l'uno nel linguaggio giuridico e l'altro nel linguaggio tecnico di una disciplina: l'interprete dovrà sempre adottare il significato proprio al diritto.

Infine, nel caso sub 1), la parola appartiene alla lingua comune ed al linguaggio legislativo, ed esprime in ambedue le sedi il medesimo significato: cerniera, per così dire, tra autonomi codici linguistici.

In verità la scelta tra i due tipi di linguaggio legislativo non tanto precede da una diversa sensibilità al carattere scientifico degli studi giuridici, quanto da una diversa considerazione dei rapporti tra la legge ed  il giudice.

La disciplina legislativa ha in questo caso un carattere nettamente analitico: fattispecie ed effetti sono descritti nei singoli elementi, e designati con appositi simboli o nomi tecnici.

Se invece la norma è espressa con parole della lingua comune, la disciplina procede di massima per clausole generali, che lasciano al giudice largo spazio nella determinazione delle fattispecie e degli effetti.

Il sistema giuridico italiano offre documenti dell'uomo o dell'altro tipo di linguaggio. Mentre le norme contenute nel codice civile sono di massima espresse il linguaggio tecnico, le norme costituzionali, relative a materie ed istituti privatistici, utilizzando parole della lingua comune o del linguaggio politico. Ne sono derivati, e tuttora ne derivano, problemi interpretativi di grande difficoltà, in quanto - alla luce di un corretto metodo sistematico e di una rigorosa considerazione della gerarchia delle fonti - le norme del codice civile possono risultare o in conflitto con i principi costituzionali o compatibili con essi. Nel primo caso, la norma verrà sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale, e cesserà di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136, 1° comma, Cost.).

Nel secondo caso, la norma conserverà la propria efficacia, ma il risultato sarà spesso ottenuto scegliendo, tra i diversi significati che il testo legislativo è in grado di esprimere, il significato compatibile con i principi costituzionali. Questi ultimi non operano qui come criterio del giudizio di legittimità, ma come criteri di interpretazione sistematica, cioè di scelta e di preferenza di uno tra i significati ricavabili dal testo normativo.


Lo <<stile>> legislativo. La nomenclatura giuridica

L'unità e coerenza del linguaggio adottato appartengono alle tecniche necessarie per raggiungere gli scopi prescelti dalla classe politica, sicchè una variazione di esso,o un alternarsi di tipi diversi, è

destinato a pregiudicare o impedirne il conseguimento.

Occorre perciò che l0intero sistema normativo obbedisca ad una logica unitaria, ed esprima un serrato ed organico stile linguistico.

L'arte del legiferare consiste nell'ininterrotta fedeltà alla scelta compiuta,nell'evitare che il medesimo corpo di norme sia redatto in tipi diversi di linguaggio, e così che l'identica parola venga usata ora nel significato volgare ora nel significato tecnico.

Arte difficile da esercitare soprattutto in anni di intense trasformazioni sociali, per così dire, in una pluralità di direzioni, spesso diverse e contrastanti. Allora il problema è di inserire le nuove norme nell'ordine giuridico esistente, il nuovo linguaggio nel sistema espressivo adottato per il passato.

La varietà degli interventi legislativi, il carattere sperimentale delle soluzioni, l'eccesso di norme rispetto agli scopi perseguiti, rende ardua l'opera della classe politica, che non di rado preferisce affidare all'interprete l'ufficio di rendere compatibile il linguaggio di vecchi e di nuovi testi, e, addirittura, di individuare le norme ancora in vigore ( si pensi alle tecniche dell'abrogazione <<tacita >> - art. 15 disp prel. -, e dell'abrogazione generica di tutte le leggi anteriori in contrasto con la legge successiva).

Lo stile di un codice, o di un intero sistema, si misura soprattutto nel rigore della terminologia, cioè nell'uso dei nomi impiegati per designare i fenomeni essenziali della disciplina normativa.

Né il codice civile né le norme del diritto privato,collocate in sedi diverse dal codice,prescindono dalle trame sintattiche proprie della lingua comune: il tecnicismo del .linguaggio si rileva nella denominazione dei fenomeni, dalla sintesi dei quali risulta l'elementare unità della norma.

L'esigenza del distacco del linguaggio dal terreno della lingua comune è avvertita soprattutto nel momento in cui il legislatore assegna un nome alla fattispecie (o a singoli elementi di essa) o a gruppi di norme disciplinanti materie di carattere unitario.

Il lessico tecnico è infatti composto, in grado quasi esclusivo, da: nomi di istituti giuridici (intendendo per <<istituto>> un gruppo di norme regolanti una  <<materia>> - cfr. art. 12, 2° comma, disp. prel. cod. civ. -considerata unitariamente dal legislatore); nomi di fattispecie; e nomi di elementi o, frazioni di fattispecie. Appartengono alla prima categoria i nomi tecnici, collocati di massima nei titoli della legge, ossia al di fuori del testo dei singoli articoli, e destinati a riassumere l'oggetto della disciplina contenuta in un libro o capo o sezione (esempi: <<Dell'azione surrogatoria>>, <<Dell'azione revocatoria>>, <<Della funzione della società>>, ecc.).



Alla seconda ed all'ultima categoria i nomi tecnici, collocati di massima nella rubrica o nel testo dei singoli articoli, e destinati a designare o intere fattispecie o elementi e frazioni di esse.

Poiché la fattispecie determina sempre la vicenda di un obbligo, la nomenclatura, usata per designare gli effetti giuridici, risulta più semplice e povera di quella ora esaminata. Essa si risolve di regola in una proposizione descrittiva, formata con parole del lessico volgare e  sorretta da un <<è tenuto>>, <<è obbligato>>, <<deve>> ecc.

I nomi tecnici , che formano il vocabolario legislativo, possono distinguersi, dal lato della struttura, in semplici e composti. I nomi semplici constano di una o di più parole.

Essi hanno la caratteristica di non esprimere alcun rapporto con fenomeni giuridici diversi: non richiamano né evocano altre discipline legislative.

Sono nomi composti quelli che constano di più nomi, combinati in un certo ordine:un nome indica il genere, a cui il fenomeno appartiene, l'altro o gli altri nomi denotano la specie. Così, se le designazioni di due fenomeni hanno il primo nome in comune, si può correttamente inferire che essi rientrano nel medesimo genere.

Il binomio di termini semplici e termini composti è una vera e propria tecnica di disciplina legislativa; l'uso del termine composto (risultante, cioè, dalla combinazione del nome di genere e del nome di specie) rende applicabile al fenomeno specifico la disciplina dettata per la categoria generica.

Il rapporto di genere a specie permette un risparmio di attività normativa, concorrendo, nello stesso tempo, alla costruzione di un linguaggio agile ed ellittico. Le rubriche degli art. 1520 e 1521 cod. civ. collocano talune fattispecie nell'ambito di una categoria generica (la <<vendita>> ),e quindi legittimano l'applicazione della disciplina di questa a quelle.

Può tuttavia accadere che il reale contenuto della disciplina del fenomeno specifico risulti incompatibile con il rapporto di genere a specie, istituito nella designazione di esso. Ci troveremo allora di fronte al conflitto tra nome tecnico e concreta disciplina del fenomeno, nel senso che il nome apparirà inesatto od erroneo, rispetto al contenuto delle norme. L'uno evoca una disciplina (quella,appunto,del fenomeno generico), che l'altro deroga e contraddice.

Spetterà al giurista di segnalare il contrasto tra nome e disciplina; in altri casi, il legislatore estende il nome semplice, già utilizzato per la designazione di una fattispecie, ad altra fattispecie a torto considerata identica.

In concreto si tratta di vedere se il legislatore italiano si è riservata questa facoltà, o se invece ha stabilito regole d'uso dei due vocaboli, dalle quali può discostarsi soltanto a rischio di entrare in conflitto con il proprio codice linguistico.

Ne nasce un conflitto, che l'interprete ha il dovere di segnalare e risolvere. Egli non impone al testo legislativo una terminologia costruita dalla dottrina, ma piuttosto chiede ad esso di serbarsi coerente con le proprie scelte semantiche, di non trasgredire le convenute regole d'uso. Si coglie qui una delle funzioni precipue della scienza giuridica, che integra, e talora corregge, il vocabolario dei testi legislativi; nel meta-linguaggio della scienza il linguaggio-oggetto delle norme si affina, si ordina, e si costruisce in sistema.


Le definizioni legislative.

Prendendo in esame l'art. 1470 cod. civ. (<<Nozione. La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo>>), scorgiamo già la distinzione, ed il reciproco rapporto, tra nomi e definizioni normative.

Il legislatore può limitarsi ad attribuire un nome al fenomeno disciplinato, senza peraltro enunciarne la definizione: spetterà all'interprete, in base al concreto contenuto della disciplina (artt. 1571 e 1615 cod. civ.), di svolgere il nome in una definizione, così enunciando che l'affitto è il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa produttiva mobile o immobile,per un dato tempo verso un determinato corrispettivo.

Nell'art. 1470, invece, l'itinerario logico procede dalla definizione al nome, nel senso che il legislatore assegna il nome <<vendita>> all'insieme di note ed elementi costitutivi della fattispecie.

Sarebbe erroneo credere che nell'art. 1470, come in tutti gli altri in cui viene data una nozione, la norma definisca il nome, dotato di per sé di un certo significato e rivelatore di un complesso di caratteri. Si tratta, non già di definizioni  di cose, ma di nomi di definizioni, ossia di nomi desunti dalla lingua comune o foggiati nel lessico giuridico, che riassumono singole fattispecie.

La definizione - che è poi descrizione degli elementi della fattispecie - si ripiega e involve in un nome, destinato a evocarne il contenuto e ad essere veicolo nelmemoria - I processi di memorizzazione dall'acquisizione al richiamo - Studi comparati" class="text">la memoria degli uomini.

L'analisi degli artt. 1470 e 1615 cod. civ. ci rivela due modi o tecniche, con i quali il nostro legislatore assegna nomi ed enuncia definizioni. Egli può limitarsi a disciplinare il fenomeno, attribuendo ad esso un nome tecnico ma non enunciandone la definizione: così, l'art. 1615 regola il contratto di affitto, la cui definizione è per altro lasciata all'opera dell'interprete. O può invece definire il fenomeno e dotarlo di apposita designazione, sicchè l'interprete trovi dinanzi a sé la definizione ed il nome (art. 1470).



In quest'ultimo caso, il linguaggio-oggetto presenta il massimo grado di completezza; nel primo, al contrario, spetterà al meta-linguaggio il compito di definire il fenomeno, di spiegare e risolvere il nome in una definizione (tecnica denominatoria e tecnica definitoria).




Il valore normativo delle definizioni

La vecchia disputa  sul carattere delle definizioni legislative - se vincolanti o non vincolanti per l'interprete, se sottoposte o estranee al controllo di verità - va risolta di caso in caso, a seconda del tipo di definizione presa in esame. Le definizioni legislative, non diversamente dai nomi designati singole fattispecie, sembrano rientrare in due categorie: l'una comprende le definizioni semplici, che si limitano a descrivere, modalità ed elementi della fattispecie; l'altra, le definizioni composte, che descrivono la fattispecie mediante l'indicazione di un genere, già definito dal legislatore, e di una o più note ad essa peculiari.

La definizione composta, classificando il fenomeno come specie di un genere, rende applicabile all'una (vendita) la disciplina dell'altro (contratto), e così dispensa il legislatore dal reiterare di volta in volta le norme dettate per la categoria più ampia.

Dalle definizioni semplici o composte, che descrivono fattispecie, e spiegano una concreta efficacia normativa,vanno separate le mere definizioni dottrinarie, con cui il legislatore, arrogandosi la competenza scientifica e didattica propria della dottrina, distingue elabora classifica i fenomeni disciplinati.

Il carattere dottrinario della definizione si rileva osservando che nessuna norma può accoglierne il contenuto nella parte ipotetica o nella parte dispositiva, e che perciò essa è il risultato di un'attività teorica del legislatore, di un ripiegarsi e riflettere sopra se medesimo.

L'interprete non ne è vincolato, e può controllarne la conseguenza con la disciplina dell'istituto, e stabilirne l'esattezza o l'erroneità logica.


Definizioni ed elencazioni

Non di rado la definizione è seguita da un elenco di membri, appartenenti alla classe o categoria di cui il legislatore ha enunciato i caratteri essenziali.

L'enumerazione dei singoli casi o specie può rispondere ad una duplice esigenza di tecnica legislativa: o di offrire all'interprete esempi di applicazione del concetto generale; o di esaurirne i casi di applicazione.

Di qui il binomio di enumerazioni esemplificative ed enumerazioni limitative o esaustive. Il carattere tassativo dell'enumerazione (ancorché questa non sia contenuta in una norma eccezionale: articolo 14 disp. prel.) si risolve invece in un divieto di interpretazione analogica, nel senso che il legislatore ha esaurito con la propria indicazione di specie tutte le possibilità espressive della norma.

È appena il caso di aggiungere che il nesso tra definizione ed enumerazione non è costante; e che l'analisi registra enumerazioni senza definizione, e definizioni senza enumerazione.


Requisiti della terminologia giuridica

Ci siamo limitati, a individuare e classificare le forme del linguaggio normativo, senza peraltro esaurire l'analisi di tutte le tecniche di disciplina utilizzate dal legislatore (finzioni, presunzioni ecc.). I due profili sono astrattamente separabili, sebbene la tecnica di disciplina (l'applicazione di talune norme ad una diversa fattispecie) possa determinare la scelta di uno piuttosto che di altro modulo linguistico (di una definizione classificatoria in luogo di una semplice descrizione di elementi costitutivi).

Bisogna indicare i requisiti di una rigorosa terminologia giuridica; in primo luogo, i nomi legali debbono soddisfare il bisogno della completezza: tanti nomi quanti fenomeni normativi.

Da questo carattere discende l'altro dell'univocità, che elimina il rischio di adottare nomi identici per fenomeni diversi o nomi diversi per fenomeni identici.

Una terminologia così costruita risponderà anche al canone dell'organicità, svolgendosi in nomi composti (che indicano il genere e le proprietà comuni di tutti i fenomeni semplici; esempi nelle rubriche degli artt. 1520 e 1521 cod. civ.   << Vendita con riserva di gradimento >>, << Vendita a prova >>); e nomi semplici a componente fissa (in cui il residuo di ciascun nome denota una proprietà del singolo fenomeno: esempi negli artt. 1334 e 1420 cod. civ.: << Unilaterale >>, << Pluri-lateralità >>).

<< Servo infedele, e segreto padrone del pensiero >>, il linguaggio è il nemico insidioso e sottile della legislazione e delle scienze: pregiudica e tradisce gli scopi pratici dell'una, ostacola e intorbida la strada percorsa dall'altra; è auspicabile chiedere che alle parole sia attribuito un significato costante; e che le regole d'uso, una volta poste e convenute, non siano violate per disattenzione o per capriccio.








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