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SANTAMARIA COLPEVOLEZZA - La concezione psicologica della colpevolezza - Le origini della concezione normativa della colpevolezza



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SANTAMARIA

COLPEVOLEZZA



1: Nozione di colpevolezza.

Con il termine "colpevolezza" ( dal latino culpa, in tedesco schuld ) viene indicato uno dei presupposti indefettibili per l'applicazione della pena. Oltre che alla commissione di un fatto tipico ed antigiuridico, infatti, la punibilità è subordinata ad un atteggiamento di rivolta del soggetto nei confronti dell'ordinamento. E' necessario, cioè, che il soggetto sia consapevole del valore vincolante della norma che viola e del disvalore della propria azione. La colpevolezza rappresenta quindi l'elemento soggettivo, all' interno del quale confluiscono quelle condizioni che legittimano la pretesa punitiva. Una di queste è l'imputabilità, come situazione di normalità psichica ( condizione iniziale ), ma accanto ad essa rilevano altri indici della personalità del soggetto ( esperienze di vita, risposta agli stimoli emotivi, abiti volitivi ) che concorrono a esprimere l' intensità della disobbedienza e consentono una graduazione della pena.



Per il suo collegamento con la pena e il suo significato ideologico, il concetto di colpevolezza non è univoco: le diverse concezioni che sono state proposte dipendono dalle oscillanti e contingenti ricostruzioni del rapporto tra illecito e pena, per cui ogni concezione della colpevolezza è legata al suo tempo.


2: La concezione psicologica della colpevolezza.

La concezione psicologica ( che sostituisce il concetto di imputazione assorbente anche dell'azione, che ora assurge ad autonoma categoria del reato- tipicità ) riduce la colpevolezza ad un rapporto psichico tra l'autore e l'evento criminoso ( estromettendo qualsiasi contenuto di valore, che resta assorbito nel dato psichico della volontarietà [ Ubi delictum alicui imputari possit, debet esse voluntarium. Ubi enim non est voluntarium ibi nulla est culpa ] ) e la costruisce come una categoria di genere idonea a ricomprendere le due forme del dolo e della colpa. Quindi la concezione psicologica ricerca questo dato psichico unitario denominato "rapporto soggettivo tra fatto ed autore" che si lega ad un'idea retribuzionistica della pena ed abolizionistica della recidiva di matrice liberale, perché circoscrive la responsabilità del soggetto al singolo fatto criminoso. Secondo MAURACH, già ancorato però ad una concezione normativa, l'assenza di qualsiasi riferimento al processo motivazionale svuoterebbe completamente di significato il concetto di colpevolezza. Invece il tentativo di farne un concetto di genere vuole rispondere a vecchie esigenze del diritto penale ( Culpa enim est nomen generis, quod continet non modo quidquid negligenter peccatum est sed et dolose et malitiose ). Ma fino a che punto può essere individuato un comune denominatore? Il dolo è volontà dell'evento criminoso, la colpa riposa sulla valutazione della violazione di una norma, di prudenza, diligenza o perizia. Il giudizio sul dolo rientra nella psicologia, quello sulla colpa nel diritto o nell'etica. Si è cercato di superare quest' ostacolo riflettendo sull' analogia tra delitto omissivo doloso e delitto colposo. Nell' uno e nell'altro caso è possibile rinvenire un elemento di volontarietà non dell'evento, ma, nel primo,  dell' omissione, nel secondo, della messa in pericolo del bene giuridico, quando non si osservi la regola precauzionale. Ecco il motivo per cui la colpa incosciente resterebbe esclusa dalla colpevolezza: in essa manca il dato psichico della previsione che lega il delitto colposo a quello doloso.


3: Le origini della concezione normativa della colpevolezza.

In realtà la possibilità di trovare un denominatore comune al dolo e alla colpa passa per l'abbandono della concezione psicologica e l'adesione ad una concezione, quella normativa, che individua il fondamento della colpevolezza al di fuori dell' elemento psicologico, nella violazione di un obbligo, che esigeva dal soggetto un comportamento diverso da quello tenuto, indipendentemente dal fatto che l'evento sia stato voluto o non voluto ma evitabile. Questa concezione relaziona il soggetto ad una norma; che, come ha sottolineato GOLDSCHMIDT, non è la norma positiva che regola il comportamento esteriore del soggetto, ma una norma che ad essa si affianca, dotata di una forza psicologica ed in grado di costituire un metro di valutazione del comportamento del soggetto o, come sostenuto da BELING, è una norma diretta al mondo interiore del soggetto. E quindi, questa concezione riesce ad inserire all' interno della colpevolezza anche la colpa incosciente. Infatti, sempre secondo GOLDSCHMIDT, la carenza del dato psichico della previsione è integrato da questa valutazione normativa: come nel delitto doloso, anche nel delitto colposo l'elemento costitutivo della colpevolezza si colloca al di fuori dell'elemento psicologico, nella violazione di quella norma d'obbligo, che consente di muovere un rimprovero al soggetto per non essersi lasciato motivare dalla stessa; altrimenti, sarebbe stato attento a non produrre l'evento che pure aveva previsto ( colpa cosciente ) o a rappresentarsi la possibilità che quell'evento si producesse ( colpa incosciente ). Anche la colpa incosciente deriva dalla trasgressione dell' obbligo. Ma certo non è stata l' intenzione di costruire una categoria idonea ad abbracciare le varie forme psicologiche a fondare la necessità di una revisione del concetto di colpevolezza. Infatti, l'apertura al criterio normativo riposa soprattutto sull'esigenza di adeguare la pena al caso concreto meglio di quanto non facesse la teoria psicologica. FRANK, infatti, parte dalla constatazione che un medesimo reato può essere realizzato con lo stesso elemento psicologico, ma per motivi diversi. Il furto di un cassiere di un negozio ben retribuito, abituato a svaghi costosi e scapolo non può essere valutato allo stesso modo del furto di un fattorino retribuito male e con molti li a carico, così come la negligenza di un ferroviere fresco di energie nel commettere un errore di manovra nello scambio dei binari non può essere equiparata a quella di un ferroviere stanco dopo una dura giornata di lavoro. FRANK consente l' ingresso, all' interno della valutazione di colpevolezza, delle circostanze e per sottrarsi alle critiche circa la natura oggettiva o soggettiva delle stesse, FRANK le riporta nella sfera soggettiva sotto forma di motivazione, che finisce però con l'essere un dato psicologico. Ecco che la riflessione sulle scusanti consente il superamento di questa contraddizione. Infatti le scusanti introducono il concetto di esigibilità quale metro di valutazione della contrarietà all' obbligo, o meglio, come criterio per verificare se il soggetto, in quella situazione concreta, fosse o meno motivabile. Le scusanti esemplificano ipotesi nelle quali non è possibile attendersi che il soggetto agisca in modo conforme alle pretese dell' ordinamento: se le circostanze erano tali che chiunque avrebbe agito come il soggetto, non sorge il rimprovero di colpevolezza.




4: La concezione normativa della colpevolezza nella dottrina contemporanea del reato.

La concezione normativa sposta il momento della valutazione della disobbedienza dall'elemento psicologico al rapporto con la norma. La colpevolezza nasce dalla relazione tra la formazione della volontà e la norma giuridica; in questo modo, il dolo smette di essere un elemento costitutivo della colpevolezza e diviene una proprietà dell'azione ( Graf Zu Dohna ). Lo sviluppo della concezione normativa della colpevolezza passa, infatti, attraverso una ricostruzione dogmatica della tipicità, che prevede l'inclusione del dolo nel fatto tipico, potendo addirittura darsi ipotesi ( come la truffa ) in cui la conurabilità del fatto tipico dipenda dalla sussistenza dell'elemento intenzionale, indicando qualcuno quest'ultimo come dolo naturalistico, perché indipendente dall' imputabilità. Inizialmente, invece, la colpa era stata lasciata nell'alveo della colpevolezza, essendole connaturata una valutazione normativa ( la violazione di una norma prudenziale ) ed essendo radicata la convinzione che la colpa ( intesa come prevedibilità delle conseguenze ) fosse strettamente correlata ad una maturità psichica ( imputabilità ), e, quindi, alla colpevolezza. La necessità di costruire la colpa anche per chi non fosse imputabile ha condotto alla scissione dalla colpevolezza anche della colpa, e alla sua collocazione all' interno del fatto tipico. E, infatti, la violazione della diligenza rileva prima sul piano oggettivo, per verificare se risulti integrato il fatto tipico, e solo successivamente sul piano soggettivo, per stabilire se l'agente concreto avesse potuto prevedere le conseguenze del suo comportamento. D'altronde, l'uscita dell'elemento psicologico dalla colpevolezza è testimoniata dalla formulazione dell'art. 203.2 c.p. ( "La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133"). Il rinvio ai criteri per la determinazione della pena indica come dolo e colpa intervengano anche nella scelta e nella commisurazione della misura di sicurezza, per cui dolo e colpa, allo stato del diritto positivo, non costituiscono prerogative della pena, e quindi della colpevolezza, ma presupposti per l'applicazione anche delle misure di sicurezza. In definitiva, dolo e colpa ( l'elemento psicologico ) assolvono una funzione tipicizzante, nel senso che concorrono a costituire quel fatto tipico che può essere la base di un successivo, eventuale giudizio di colpevolezza o di pericolosità. E che il dolo eventuale non escluda un momento di valore non significa che esso continui ad esprimere una forma di colpevolezza, visto che il momento di valore incide pur sempre sulla qualificazione del fatto tipico. Le obiezioni che sono state mosse a questa concezione normativa ( monca dell'elemento psicologico ) sono soprattutto di due ordini:

la concezione normativa, così formulata, ridurrebbe la colpevolezza alla sola imputabilità, in quanto a) la coscienza dell'antigiuridicità o costituisce un dato psicologico o dipende dall' imputabilità; b) le scusanti ( come lo stato di necessità ), che esprimono il momento dell'esigibilità, si collocano più propriamente tra l'antigiuridicità e la colpevolezza, ad escludere "la responsabilità per il fatto" ( lo stato di necessità è invocabile anche dal non imputabile ).

per evitare che la colpevolezza si esaurisca in uno stato psicologico, in un fatto, la concezione normativa ha finito con l'esteriorizzare il giudizio di valore sulle azioni umane, staccandolo dalla testa del colpevole e collocandolo fuori di lui, nella testa di un altro. In questo modo, il giudizio di riprovevolezza finisce con il risolversi nella divergenza con il metro espresso dalla norma. Ma ricorrere alla personificazione dell'ordinamento giuridico nel legislatore o nel giudice non significa che la colpevolezza esista solo nel cervello di chi giudica. Infatti essa investa pur sempre il momento formativo della volontà, in cui il soggetto ha deliberatamente scelto di compiere l'illecito, anziché conformarsi alla pretesa della norma.



Ma da cosa dipende la volontà? Dalla libertà. Il determinismo, secondo cui l'uomo si decide al male consapevolmente, negava che l'atto di volontà potesse essere ricondotto al soggetto, dovendo essere valutato in sé, isolatamente. L' indeterminismo, invece, considerava ogni decisione dell' uomo come il prodotto di forze causali in senso meccanicistico. La struttura dell'uomo e la sua posizione nel mondo rivelano però che l' uomo è libero nel senso che può intervenire e liberarsi dalla coazione causale degli impulsi per determinarsi secondo ragione. La colpevolezza non è una decisione verso il male, ma il lasciarsi assoggettare da impulsi contrari al volere. Questa consapevolezza ha aperto la strada all' ingresso della personalità nel giudizio di colpevolezza, come testimonia l'art. 133.2 c.p., secondo cui "Il giudice deve tenere conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole [ . ]". Tutti gli elementi che contrassegnano la personalità devono essere presi in considerazione nell' inflizione della pena: carattere, precendenti penali, condotta di vita e condizioni di vita. L'art. 133 esprime la contemporanea concezione della colpevolezza ed è il risultato di una lenta e lunga evoluzione.

La dottrina psicologica, come sappiamo, si rivolgeva al singolo atto di volontà, produttivo del fatto, la retribuzione del quale era l'unico scopo della pena. Successivamente, la concezione normativa interveniva a dare rilevanza ai motivi dell'azione e alle circostanze in cui essa si realizza, ma pur sempre circoscrivendo la valutazione al fatto e omettendo una ricognizione della personalità dell'agente. E' stata la Scuola Positiva, nell'ambito di una rivisitazione dei rapporti tra Stato ed individuo, a spostare l' interesse dal fatto all' individuo e a postulare che l'uomo sia un aggregato di forze causali di cui il reato sia solo un prodotto, rendendo così inefficace l'idea di una retribuzione per il singolo fatto. Un importante passo avanti è stato offerto dall' elaborazione di Von Liszt, che ha identificato la colpevolezza nella disapprovazione giuridico- sociale del fatto e dell'autore, ritenendo che sussista una relazione tra il fatto e l'intera personalità del soggetto. Ad una conclusione analoga sono giunti anche i sintomatici, secondo cui il comportamento delittuoso è sintomo di un ben più profondo substrato psicologico, ed i carattereologi, secondo cui l'uomo sano fisicamente e psichicamente è responsabile del proprio carattere, per cui il giudizio di colpevolezza è un giudizio sul carattere in relazione al reato commesso. Sono, quindi, pur sempre necessari i due presupposti dell'imputabilità e della tipicità. La responsabilità per il carattere postula la sua malleabilità ( lo stesso Binding notava che il carattere non è qualcosa di fisso e di immutabile, ma un insieme di sentimenti e di rappresentazioni in continuo divenire ), e cioè che la norma ( la pretesa normativa ) sia in grado di costituire una controspinta all' inclinazione al reato e, quindi, di rafforzare la predisposizione al bene. Ma l'appello della norma all'autoformazione del carattere dell'uomo presuppone la sua libertà. E questa non può essere meramente oggetto di una finzione necessaria ( ma non già sufficiente ) allo Stato e senza la quale non avrebbe senso porre delle norme giuridiche o immaginare la stessa vita in comune. Bisogna pur sempre accertare il momento della libertà nel rapporto tra il fatto e il suo autore. E la prova è fornita dalla psicologia e dall'antropologia. Infatti, già la psicoanalisi sottolinea la capacità di inibizione; le moderne teorie del carattere hanno, poi, evidenziato come in una condizione passionale il contrasto tra gli impulsi sia deciso dalla loro intensità. Ma l'attività razionale dell' io ne coglie i significati ed agisce quindi come freno inibitore. Il fondamento della colpevolezza risiede, quindi, nella possibilità e conseguente obbligatorietà di questo dominio sui propri impulsi e tendenze del proprio temperamento. E' la ragione a garantire la libertà. E le circostanze che sono richiamate dall'art. 133 c.p., come le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo contribuiscono proprio a definire il suo abito volitivo e a precisare, quindi, in che modo e fino a che punto il soggetto poteva reagire agli stimoli delittuosi con il suo "io" razionale. Anche la recidiva è un indicativa della personalità del reo, nel senso di una maggiore controllabilità dei suoi istinti, perché l'esperienza vissuta ( la condanna penale già riportata ), se si tiene conto della funzione costitutiva della memoria per la formazione della personalità di un individuo, avrebbe dovuto costituire una più forte controspinta all' impulso delittuoso. In questo caso, il soggetto era in condizione di avvertire più facilmente la coscienza dell'antigiurididicità. Come sottolinea Welzel, quest' ultima, da oggetto di accertamento al momento del fatto ( e quindi da componente del dolo ), in un momento storico in cui l'uomo- massa si affida al potere dell'autorità ed il comando gli resta estraneo, è passata ad essere elemento della colpevolezza, da quando il cittadino partecipa attivamente al potere dello Stato ed il diritto può costituire per lui un appello che lo richiami con maggiore scrupolo al suo senso di responsabilità








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