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STORIA DELLO STATO



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STORIA DELLO STATO













LO STATO NELLA GRECIA CLASSICA:




PLATONE


Platone fu dopo Aristotele il più importante fra gli scrittori politici della Grecia Classica ed insieme ad Aristotele quello che più ha influito sul pensiero della proprietà.

Nei primi dialoghi del cosiddetto II° periodo Platonico (Gorgia e Marnione), Platone fece accenni perlopiù negativi alla politica, considerata in modo pessimistico anche a causa dell'esperienza negativa vissuta prima alla corte del tiranno Diongi il Vecchio a Siracusa.

Tuttavia, in questi dialoghi la politica viene definita dal punto di vista etico e cioè come la pratica del bene da parte di chi vuole estendere a tutta la città la virtù. La teoria politica di Platone diviene più articolata nella Repubblica dove il filosofo viene definito come il perfetto politico e cioè come colui che sa che cosa è la giustizia e la effettua consapevolmente. In questo dialogo viene ricercata la genesi dello stato, la sua origine di carattere economico fondata cioè sulla necessità di soddisfare i bisogni naturali dell'uomo e della comunità e la giustizia viene identificata con l'equilibrio, con la capacità di ciascuno e di ciascuna classe presente nello Stato, di svolgere bene il proprio compito. Ma perché questo possa essere realizzabile è necessaria la massima consapevolezza dell'identità fra interesse proprio e interesse dello stato. Gli unici a possedere tale consapevolezza sono i filosofi ai quali viene affidato il commando completo.

In questo senso si può parlare in Platone di uno Stato e di rapporti politici tra classi caratterizzati dalla noocrazia e cioè dall'egemonia del potere di chi sa.

La perfezione politica dello stato, insomma, presuppone la sua perfezione filosofica - etica di qust' ultimo, incarnata dalla classe dei filosofi al potere.

La riflessione politica di Platone, dopo la repubblica si sviluppò ulteriormente nel Timeo nel quale il dualismo tra mondo delle idee e mondo della realtà concreta viene attenuato e all'idea di stato come attuazione della giustizia viene affiancata dalla necessità di osservare le leggi.

Si è parlato allungo e discusso del valore storico-filosofico dello Stato platonico: se esso sia solo un'utopia (un'idea perfetta ma difficilmente realizzabile) oppure abbia un carattere normativo nei confronti della realtà e cioè un modello a cui gli stati reali devono, per quanto è possibile rifarsi. Hegel ha sostenuto che lo stato platonico fosse un "utopia reale" e cioè certamente un prodotto del pensiero, ma non un ideale vuoto, piuttosto quel concetto di Stato che meglio di tutti coglieva la natura stessa dell'eticità greca.


ARISTOTELE


Secondo Aristotele la vita etica dell'uomo si realizza in quella politica, cioè nella polis, innanzi tutto come vita associata, come realizzazione della natura più profonda dell'uomo. L'uomo, infatti, è essenzialmente un animale politico o socievole, destinato a vivere nella polis. La formazione dello stato non deriva pertanto da una convenzione stipulata dai singoli uomini, al contrario, sussistono solo all'interno della polis la quale si conura come una struttura ideale a cui tendono tutte le altre forme di convivenza (la famiglia, il villaggio).

Aristotele ricerca l'origine della polis: la formazione della comunità politica è un processo che ha origine nella ragione prima per la quale si forma una comunità di uomini, la riproduzione.

La polis è la città perfetta, è quella che si mostra autosufficiente e autonoma, che si riproduce da sé e che permette alle parti che la compongono di vivere in correlazione l'una con l'altra al suo interno. L'origine della polis è dunque del tutto naturale perchè coincide con il processo vitale in quanto tale e con l'essenza etica del bene. Vivere politicamente vuol dire perciò vivere bene.

Il bene a cui tende la polis (città-stato) coincide con la piena autosufficienza, riproduttiva che è perciò lo scopo finale dell'evoluzione (dalla famiglia al villaggio alla città) sia un naturale risultato a cui però non pervenire il processo di formazione politica.



IL RINASCIMENTO


MACCHIAVELLI


Il Rinascimento in Italia si caratterizza per la formazione dei Principati e delle signorie, nell'Europa delle grandi Monarchie. Nella storia umanistica rinascimentale del pensiero politico italiano possono essere distinte due fasi: la prima vede scontrarsi due opposti ideali di stato, quello "repubblicano" e quello "civile" che presentava Firenze come l'erede dell'antica Roma repubblicana in contrapposizione a quella della "tirannide" dei visconti di Milano. La seconda fase del pensiero politico italiano corrisponde alla crisi degli stati regionali e dell'equilibrio Mediceo ed è in questa cornice storica che si colloca la ura di Macchiavelli il massimo pensatore politico italiano della metà del '500. La sua riflessione si concentra sulla ricerca di una logica interna che regoli le dinamiche politiche liberandola dai richiami di carattere morale e religioso. Tutte le sue opere ci mostrano una concezione storica ed insieme naturalistica dei processi politici. E' nel Principe, un trattato di 26 moduli, che il Macchiavelli da i suoi precetti sul modo con il quale si costituiscono, si conservano, si estendono gli Stati. Il trattato si potrebbe dividere in due parti: nella prima si danno esempi di uomini che sono riusciti a conquistare il potere e a conservarlo; nella seconda si danno precetti e consigli sull'arte di conservarli.

Ma la parte per cui il Macchiavelli è diventato famoso in Italia è quella che riguarda le caratteristiche che devono essere fondate dal Principe nella cui ura trova una possibile sintesi l'antinomia fra fortuna e virtù. Insieme alla virtù e alla fortuna il Principe deve possedere la forza o meglio la capacità di raggiungere a tutti i costi un risultato praticamente utile portato a compimento con la consapevolezza delle proprie capacità e della condizione oggettiva in cui opera. Per Macchiavelli Cesare Borgia racchiude in se tutti e tre a termini dell'agire politico: la virtù (come capacità d'intervenire adeguatamente sulle cose politiche), la fortuna (come ineliminabile casualità propria della natura umana) la forza (come capacità di usare senza incertezze il proprio potere). Dunque l'orine dello stato secondo il Macchiavelli si presenta come una fondazione di un principato per opera di una forte virtuosa personalità politica, la quale sappia conciliare la realtà oggettiva con l'accidentalità delle vicende umane e quindi sappia scegliere i mezzi con il quale sostenere il principato.


L'ORIGINE CONTRATTUALISTICA DELLO STATO:


HOBBES




Per Hobbes lo sto non è come per Aristotele un ente naturale, ma decisamente artificiale costruito volutamente dagli uomini sulla base di una convenzione da essi liberatamene stipulata per ragioni che riguardano la necessita di autoconservarsi e mantenersi in vita.

L'opera principale di Hobbes è il Lieviatiano (1651). Per Hobbes l'unità dello stato e l'obbligo politico di obbedire alle leggi emanate dal sovrano sono i principi fondamentali su cui si costruisce il campo politico. Secondo Hobbes il potere sovrano e l'obbligo politico di obbedienza devono direttamente scaturire dalla volontà stessa degli individui, dal consenso che viene da loro espresso idealmente in un "patto" che istituisce la forma politica di stato. Lo stato "Hobbesiano" si presenta, dunque come un'istituzione fondata essenzialmente sul consenso dei sudditi e perciò moderna in quanto lascia cadere ogni giustificazione divina o naturale della propria ragione. Il potere affidato consensualmente dai sudditi ed un terzo (individuo o assemblea) deve essere assoluto perché deve mantenere la pace tra gli uomini i quali per natura sono tendenzialmente egoisti ed incapaci di autoconservarsi in una condizione di pace stabile e duratura infatti se non ci fosse il corpo politico l'uomo vivrebbe in uno stato di natura in tutto simile ad uno stato di continua guerra civile. La persona dello stato è rappresentata dal Sovrano che può anche non essere un monarca, ma un'assemblea di tutti neldemocrazia - Le elezioni - I gruppi parlamentari - Il governo - La Corte Costituzionale" class="text">la democrazia, di pochi nell'aristocrazia. La sovranità detiene in modo unitario ed indiscutibile tutti i diritti e i poteri dello stato e la giustizia, la guerra, l'amministrazione,

Le decisioni in campo religioso sono tutti ambiti in cui deve intervenire la sovranità dello stato per evitare il ritorno alla guerra civile ma il potere "assoluto" dello stato non è arbitrario perché è il risultato di un patto universalmente consentito e liberamente voluto.



LO STATO "ANTIASSOLUTISTA" O "LIBERALE":


LOCKE


Locke, nel Secondo Trattato sul Governo (1690), non diversamente da Hobbes, traccia la sua teoria contrattualistica del potere politico e dello stato. Ciò che separa Locke dall'assolutismo hobbesiano, è l'introduzione esplicita ed argomentata, nella ricostruzione della formazione moderna dello stato, della categoria di individuo libero ed uguale sia nello stato di natura sia in quello di diritto.

Il rapporto stato - individuo viene modificato da Locke in senso "liberale": la sovranità non appartiene unilateralmente alla persona dello Stato, ma innanzi tutto a quella del suddito poiché è un contratto che fa diventare suddito un uomo. Al di fuori di questo meccanismo, cioè al di fuori del potere politico liberamente pattuito dai singoli individui, vi è uno stato di natura in cui essi vivono in rapporti di perfetta uguaglianza Il rapporto politico di sudditanza o di sovranità a cui gli uomini sottostanno, interviene proprio in virtù della naturale libertà con cui i singoli decidono di unirsi a Stato. Lo stato di natura fonda così quella stessa libertà che deve permanere nello stato di diritto.

Lo stato di diritto intervienine a riordinare ciò che illegittimamente è stato sovvertito, la legge di natura violata con la forza e con la guerra necessita di un'ulteriore ricomposizione, quella politica. La conflittualità naturale si presenta già regolata da norme giuridiche che distinguono l'aggressore e dall'aggredito e spingono il conflitto a ricomporsi pacificamente ad un livello giuridico più elevato.

Per Locke l'ordine originario esclude, pertanto,ad ogni livello dei meccanismi costitutivi del potere politico,la presenza di una volontà non sottoposta alla norma. Il sovrano perciò, così come il popolo, è sottoposto a precise norme che regolano la sua stessa istituzione e che permettono al popolo di resistergli qualora arbitrariamente tentasse di violarle. In questo senso la guerra civile si presenta come conflitto di potere e non come un disordinato e a-giuridico stato naturale.




LA DIVISIONE DEI TRE POTERI:


MONTESQUIEU


Montesquieu s'inserisce nella grande corrente di riflessione politica dei filosofi del diciottesimo secolo. Questo teorico, convinto che la diversità delle razze e dei temperamenti umani dipenda dalle differenze climatiche tra i vari paesi, ha sezionato la società classificando i diversi tipi di governo con un'originalità di metodo e una modernità che la sociologia politica contemporanea non può certamente negare. I tre tipi di governo individuati sono: la repubblica, la monarchia e il dispotismo. Nel primo, il capo del governo si rivolge direttamente ai governati uguali nella libertà; il popolo delega la propria autorità al governo che lo rappresenta. Nel secondo caso, il monarca governa attraverso classi privilegiate, sudditi che sono uguali nell'obbedienza. Quanto al terzo caso si tratta del regno assoluto del despota su schiavi uguali nella servitù. Il popolo subisce il giogo tirannico di un padrone assoluto.

Ogni tipo di governo si basa su un principio che ne determina l'azione e ne assicura la salvaguardia. Il governo repubblicano si basa sul principio della virtù, poiché i cittadini sono garanti della legge. Il governo monarchico ha come principio l'onore mentre il governo dispotico la paura. Montesquieu ura come fautore di una monarchia moderata nella quale il re non può abbandonarsi alla tentazione di diventare un despota né il popolo a quella di liberare i propri istinti d'indipendenza; spetta ai poteri intermedi il compito di mantenere un certo equilibrio nello stato. Nell'identico spirito di equilibrio, Montesquieu raccomanda che i poteri non vengano concentrati nelle stesse mani. Egli distingue tre livelli di poteri: il potere esecutivo, il potere legislativo e il potere giudiziario. Le idee di Montesquieu pensatore liberale, hanno esercitato un'influenza profonda; i legislatori delle assemblee rivoluzionarie hanno mutuato da lui il principio della separazione dei poteri e un vasto programma di riforme. Analogamente a quella degli altri filosofi del suo secolo, che basano la loro riflessione sulle scienze umane, l'analisi politica di Montesquieu ha sempre avuto un'importante dimensione morale diventando una scienza fondata sulla conoscenza precisa dei rapporti desiderabili degli uomini fra di loro.





LO STATO DEMOCRATICO


ROUSSEAU


Le esperienze cui andò incontro nella vita, la sua personalità, le difficoltà sorte al momento della pubblicazione delle sue due maggiori opere - il Contratto sociale e l' Emilio, entrambe del 1762 -, la polemica con gli enciclopedisti a proposito del 'dispotismo legale, alcuni caratteri del suo pensiero, fanno di Rousseau un illuminista sui generis, estraneo al trionfalismo proprio dell'ideologia del progresso del "partito filosofico" allora culturalmente imperante in Francia e in Europa.

Già nel suo Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) sottolinea la funzione negativa che le scienze e le arti ufficiali esercitavano nella società, rovesciandone i valori originari e promuovendo egoistiche passioni private.

Nel Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini (1755) analizza l'ineguale sviluppo della società civile: 'Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare 'questo è mio e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile.' La polemica è tutta rivolta contro l'origine della società da un atto indebito di appropriazione privata della terra. La proprietà privata - a differenza di Locke che la considerava un diritto naturale da trasformare in diritto positivo - secondo Rousseau non è un diritto di natura, ma frutto di un graduale processo di acculturazione, che subisce un'accelerazione quando vengono inventate le arti metallurgiche e agricole che richiedono la divisione del lavoro. Le leggi nascono dal riconoscimento della proprietà privata, e insieme ad esse nasce il potere del governo. Dunque la società civile e politica sorge da uno snaturamento della condizione umana, poiché con essa s'instaura un'innaturale e convenzionale disuguaglianza che tradisce le esigenze primarie della maggioranza degli uomini: 'È contro la legge di natura [ . ] che un bambino comandi a un vecchio, che un imbecille guidi un saggio, e che un pugno d'uomini rigurgiti di cose superflue mentre la moltitudine affamata manca del necessario'.

Nel Contratto sociale, logica prosecuzione del secondo Discorso, Rousseau esordisce dicendo: 'L'uomo è nato libero, e dovunque è in catene.'

L'analisi condotta in questo scritto intende valutare attentamente i fondamenti del potere politico togliendo al dispotismo e all'ineguaglianza ogni ragione di legittimità.

La forza non può dar luogo al diritto né l'obbedienza incondizionata può costituire il dovere.

'Rinunziare alla libertà vuol dire rinunziare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell'umanità, persino ai propri [ . ]. Una tale rinunzia è incompatibile con la natura dell'uomo: togliere ogni libertà alla sua volontà significa togliere ogni moralità alle sue azioni. Infine, una convenzione che stabilisce, da un lato, un'autorità assoluta e, dall'altro, un'obbedienza illimitata, risulta vana e contraddittoria'
(Rousseau, Contratto sociale, I/4).

Lo Stato "secondo natura", rispettoso cioè dei diritti naturali dell'uomo, non può fondarsi sull'ineguaglianza tra chi comanda e chi è comandato, non può rendere convenzionalmente valido ciò che è in realtà incompatibile con la natura umana, cioè con il diritto alla libertà. L'ipocrisia della moderna società civile e del moderno Stato politico va smascherata con la critica proveniente proprio dai quei settori sociali che subiscono il rovesciamento di valori, a danno della loro stessa vita.

Il patto sociale dovrà coinvolgere allora il popolo nel suo insieme al fine di trovare una forma associativa che protegga la persona e i beni di ciascun associato in modo però da conservarlo nella sua piena libertà e uguaglianza con tutti gli altri. E' la formulazione del patto sociale che risolverà questo moderno problema: con esso ciascuno aliena completamente i suoi diritti a tutta la comunità, e non al sovrano o al magistrato piuttosto che al governo. Dunque l'alienazione che il singolo fa dei suoi diritti è totale, ma la controparte è la comunità intera (non un altro singolo o una parte dell'associazione); solo così, pur alienandoli, il singolo può contemporaneamente conservarli.

'Ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l'equivalente di ciò che si perde e un aumento di forza per conservare ciò che si ha [ . ]. Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto. Istantaneamente quest'atto di associazione produce, al posto delle persone private dei singoli contraenti, un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell'assemblea, che trae dal medesimo atto la sua unità, il suoi 'io' comune, la sua vita e la sua volontà' (Rousseau, Contratto sociale, I/6).

Come si può notare, la forma del patto proposta da Rousseau rinnova il concetto di sovranità popolare rispetto a Hobbes e Locke. Il potere sovrano non è più un 'terzo' rispetto agli associati, non è la controparte del popolo, esso è il popolo stesso, ovvero la comunità che come ente collettivo esprime ed esercita la sua sovranità - la volontà generale - nell'ambito delle assemblee. I governanti sono semplici funzionari (e non rappresentanti) del popolo sovrano, il loro mandato può essere in ogni momento revocato, poiché la decisione sovrana (indivisibile e inalienabile) spetta al popolo riunito in assemblea, cioè alla comunità stessa, che opera attraverso il principio maggioritario.

Questa sovranità popolare ricompone quella disuguaglianza civile che Rousseau aveva prospettato nel suo secondo Discorso. La volontà generale realizza la volontà della comunità e del popolo nel suo insieme, dunque non può che essere una volontà, uguale e compatta in se stessa ottenuta tramite quel patto fondamentale che

'invece di distruggere l'uguaglianza naturale, sostituisce, al contrario, un'uguaglianza morale e legittima a quel tanto di disuguaglianza fisica che la natura ha potuto mettere tra gli uomini i quali, potendo per natura trovarsi ad essere disuguali per forza o per ingegno, diventano tutti uguali per convenzione e di diritto' (Rousseau, Contratto sociale, I/9).

Ecco adesso l'incipit del trattato:

'L'uomo è nato libero, e dovunque è in catene. C'è chi si crede padrone di altri, ma è più schiavo di loro. Come è avvenuto questo cambiamento ? Lo ignoro. Che cosa può renderlo legittimo ? Ritengo di poter risolvere questo problema.

Se non considerassi che la forza e l'effetto che ne deriva, direi: 'Finché un popolo è costretto ad obbedire ed obbedisce, fa bene; non appena può scuotere il giogo e lo scuote, fa ancor meglio: perché, ricuperando la sua libertà con lo stesso diritto con cui gli è stata tolta, o è giusto che egli la riprenda, o non era nemmeno giusto che altri gliela togliesse'. Ma l'ordine sociale è un diritto sacro che serve di base a tutti gli altri. Tuttavia questo diritto non viene dalla natura; è dunque fondato su delle convenzioni. Si tratta di sapere quali siano. Ma prima di arrivare a ciò, devo dimostrare quanto ho ora affermato".

[Rousseau, Il Contratto sociale, I]



Ecco il testo in cui è descritta la nascita del patto.

'Immagino ora che gli uomini siano arrivati al punto in cui gli ostacoli che nuocciono alla loro conservazione nello stato di natura prevalgono con la loro resistenza sulle forze di cui ciascun individuo può disporre per mantenersi in quello stato. Tale stato primitivo non può più sussistere in questa fase e il genere umano perirebbe, se non cambiasse le condizioni della sua esistenza.
Ora, siccome gli uomini non possono creare nuove forze, ma soltanto unire e dirigere quelle che esistono, essi non hanno altro mezzo per conservarsi che quello di formare per aggregazione una somma di forze che possa prevalere sulla resistenza, mettendole in moto per mezzo di un unico impulso e facendole così agire di concerto.
Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di più uomini; ma, essendo la forza e la libertà di ciascun uomo i primi strumenti per la sua conservazione, come potrà impegnarli senza danneggiarsi e senza trascurare ciò che deve a se stesso ? Questa difficoltà, ricondotta al mio argomento, si può enunciare in questi termini:
'Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima'. Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale dà la soluzione.
Le clausole di questo contratto sono determinate in tal modo dalla natura dell'atto che la minima modifica le renderebbe vane e di nessun effetto; in modo che, sebbene forse non siano mai state formalmente enunciate, esse sono dovunque le stesse, dovunque tacitamente ammesse e riconosciute, almeno fino a quando non venga violato il patto sociale, perché ciascuno allora rientra nei suoi originari diritti, e riprende la sua libertà naturale, perdendo la libertà convenzionale in cambio della quale aveva rinunciato alla prima.
Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a una sola: cioè l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Infatti, innanzi tutto, poiché ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti, ed, essendo la condizione uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri.
Inoltre, essendo l'alienazione fatta senza riserve, l'unione è la più perfetta possibile, e non resta ad alcun associato niente da rivendicare; infatti, se restasse qualche diritto ai singoli, non essendovi nessun superiore comune che possa far da arbitro tra loro e la collettività, ciascuno, essendo in qualche caso il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di esserlo sempre; lo stato di natura si perpetuerebbe, e l'associazione diverrebbe necessariamente tirannica o vana.
Infine, chi si dà a tutti, non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non acquisti un diritto pari a quello che gli cede su di sé, tutti guadagnano l'equivalente di quello che perdono, e una maggiore forza per conservare quello che hanno.
Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce ai termini seguenti: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto.
Al posto della persona singola di ciascun contraente, quest'atto di associazione produce subito un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell'assemblea; da quest'atto tale corpo morale riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre, prendeva una volta il nome di città (9),e adesso quello di repubblica o di corpo politico, il quale a sua volta è chiamato dai suoi membri Stato quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Gli associati poi prendono collettivamente il nome di popolo, e singolarmente si chiamano cittadini in quanto partecipi dell'autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello Stato. Ma questi termini si confondono spesso e si prendono l'uno per l'altro; basta saperli distinguere quando sono impiegati in tutta la loro precisione.'
[Rousseau, Il Contratto sociale, VI]



HEGEL E MARX


In questo sommario axcursus sulle teorie politiche dello Stato non si può prescindere dal fare riferimento ad Hegel e Marx in quanto i due filosofi considerano il passaggio dalla società civile allo Stato politico come il nodo storico - filosofico da cui la conurazione statale moderna ha preso necessariamente le mosse.

La filosofia del Diritto di Hegel ha lo scopo di ricostruire "per la coscienza" (e cioè per l'uomo moderno oramai capace di pensare liberamente se stesso ed il suo tempo) la forma oggettiva del suo vivere sociale, la forma politica dei rapporti umani, lo Stato. L'età moderna si caratterizza per Hegel proprio per l'uscita definitiva dell'uomo da ogni condizione di minorità ed asservimento, anche teorico, ad elementi esterni al proprio pensiero. Lo Stato, pertanto, è "lo spirito che sa e vuole se stesso", è l'uomo (il genere umano in quanto popolo, cioè storicamente e socialmente determinato) che realizza oggettivamente, in una realtà storica universale, il pieno possesso della sua libertà.

Secondo il giovane Marx, che aspira a rovesciare il metodo speculativo hegeliano, lo Stato moderno aliena l'uomo più che realizzarlo e riprodurlo nella sua consapevolezza etica di genere La riproduzione del genere umano, e del popolo come specificazione storica di esso, non costituisce il fine consapevole della conurazione politica dello stato moderno. L'origine moderna dello Stato, in altri termini, rivela chiaramente la sua profonda mancanza etica: il passaggio hegeliano dalla società civile allo Stato politico sarebbe piuttosto un mancato passaggio, un superamento etico della sfera civile in quella pubblica che lascia dietro di sé un residuo, lasciando insoluto ed aperto il problema della plebe, ossia di quel "popolo massa " costantemente riprodotto nella sua miseria.

La concezione critica e complessa dello Stato, esposta da Marx all'interno della critica dei Lineamenti di Hegel, viene ripresa, sotto altra forma nella sua opera maggiore Il Capitale nel quale l'origine dello Stato moderno viene ricondotta al nuovo rapporto di produzione.

La struttura materiale della società borghese, il rapporto di produzione capitalistico, la polarizzazione sociale tra proprietari terrieri da una parte e proprietari di forza- lavoro dall'altra, costituiscono il quadro complesso in cui si incentra  l'analisi marxiana.

Il problema dello stato borghese - capitalistico si inserisce  all'interno di una problematica più vasta:l'origine del capitalismo in quanto tale.

In questo senso Marx individua un lungo processo storico di connessione fra struttura economica della nascente società borghese e la sovrastruttura politica rappresentata dal potere dello Stato moderno.

Lo stato moderno in quanto tale, secondo Marx nasce contemporaneamente alla moderna società borghese e, quindi, la critica dell'economia politica si presenta anche come critica che tende a separare l'origine economico - strutturale della società borghese dall'origine politico - sovrastrutturale dello Stato moderno. Stato e capitale nascono insieme ed insieme, secondo Marx, vanno indagati.








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