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Introduzione a Il Principe di Niccolò Machiavelli

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Introduzione

a

Il Principe

di Niccolò Machiavelli


edizione riveduta e ampliata © 2005





preambolo


Il pensiero e la ura di Machiavelli sono sempre stati controversi nell'arco dei secoli, ma anche in uno stesso periodo di tempo. Privato l'8 novembre 1512 del suo incarico di segretario della seconda Cancelleria, Niccolò, condannato a un anno di confino da scontare comunque nel territorio di Firenze e al versamento di una mallevadoria di 1000 fiorini (che verranno garantiti da tre amici rimasti anonimi), viene costretto a ritirarsi nella Potesteria di San Casciano nel quartiere di Sant'Andrea in Percussina, località La Strada, in un rustico casamento detto L'Albergaccio, dalla fama non proprio rassicurante: i suoi contemporanei credevano, infatti, che nella casa si trovasse il diavolo, così come non pochi suoi commentatori nel corso del Seicento e del Settecento crederanno che le sue opere, soprattutto il Principe, fossero state dettate dal diavolo.



C'è chi considera Machiavelli un grande italiano, e si sente in obbligo di metterlo sotto una luce che lo faccia apparire simpatico agli ipocriti o a coloro che ostentano virtù; c'è chi lo considera un acutissimo segretario politico che ha dato una impronta indelebile al geniale e corrotto Rinascimento e in particolare alla Signoria di Firenze, ma pronuncia la parola «machiavellismo» con oltraggiosa diffidenza. C'è chi lo considera semplicemente il prodotto di un periodo e di una regione, quella fiorentina, in cui le apparenze prendevano il sopravvento sulla sostanza, in cui il senso della morale si era ormai disperso e non trovava più sentimento né applicazione, per cui all'individuo tutto era permesso: o, per meglio dire, l'individuo, chiunque maneggiasse anche solo una fetta di potere, tutto si permetteva. E proprio il concetto di machiavellismo è divenuto nel corso dei secoli un luogo comune per esprimere la diabolica astuzia dei governanti che agiscono con perfido disprezzo degli scrupoli.

Noi crediamo semplicemente che al centro della sua opera storica, politica e letteraria ci sia il Machiavelli uomo, che con una geniale pennellata è stato presentato dal Foscolo come colui che ha svelato 'di che lacrime grondi e di che sangue lo scettro dei regnatori': l'analisi delle sue opere non può che mettere in evidenza quanto l'uomo e il politico Machiavelli sia legato alla realtà senza falsità e senza infingimenti, tanto che possiamo dire correttamente che i tempi moderni cominciano proprio con lui come nel mondo la scienza moderna comincia con Galilei

Il disvelamento dei fondamenti del potere politico operato da Machiavelli avvia il lento processo che porterà alla concezione di un diverso rapporto tra il popolo e il signore: svelando il segreto meccanismo mentale che sta alla base di tante decisioni politiche, di tante fortune e di tanti fallimenti, apparentemente impossibili da capire e determinati solo dalla capricciosa fortuna, comincia a prendere coscienza di essere un uomo che si trova di fronte ad un altro uomo con ruoli che nel corso di circa tre secoli e cruente rivoluzioni e teste coronate tagliate verranno sempre meglio a delinearsi: l'uomo comincia a non essere più un suddito supino ma un cittadino col quale i principi per poter continuare a governare devono venire inevitabilmente a patti.


la composizione


 Con il ritiro all'Albergaccio la sua vita politica attiva sembra definitivamente chiusa, e vani risulteranno tutti gli sforzi per ritornare ad ottenere un posto di rilevante importanza; il ritorno dei Medici a Firenze e il loro predominio sulla scena politica fiorentina renderà tutto vano: perfino il riconoscimento della sua innocenza nella vicenda della congiura di Boscolo e Capponi non avverrà mai e si ricorrerà piuttosto all'espediente dell'amnistia in occasione della salita al trono pontificio di Giovanni dei Medici col nome di Leone X: apparve un atto di magnificenza e perdono ma conteneva una profonda ingiustizia; o meglio: era una decisione politica.

Per oltre un anno, dal momento della destituzione, Machiavelli visse come in trance, ma lentamente cominciò a prendere coscienza della situazione e a reagire cercando di utilizzare sia la sua razionalità intellettiva che le esperienze che era venuto facendo nei lunghi anni come segretario, fino a riacquistare quella visione razionale ma anche ironica e satirica della realtà che lo porterà a firmarsi come 'quondam segretario'. Machiavelli cerca di reagire con grande forza morale alla nuova situazione, rendendosi conto che nulla più potrà essere come prima. Rimane praticamente fuori dalla vita attiva, e risponde alle lettere dei suoi amici e al suo amico Francesco Vettori, solo 'per parere vivo', ben sapendo che egli ormai è 'alieno con l'animo da tucte queste pratiche, come ne fa fede lo essermi riducto in villa, et discosto da ogni viso humano, et per non sapere le cose che vanno adtorno, in modo che io ho ad discorrere al buio'. (a Vettori, 29 aprile 1513)

 Nel 1513 scrive Il Principe, in pochi mesi; il 10 dicembre così scrive all'amico e e Francesco Vettori descrivendo la sua giornata 'in villa' a Sant'Andrea in Percussina::

 'Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto i panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro. E, perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono'.

Il Principe nasce, come abbiamo visto, da un lato dalla viva esperienza di diplomatico e di segretario della seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina e dall'altro dalla cultura di lettore delle opere dell'antichità e di interprete delle azioni dei principi sia dell'antichità che di tempi a lui più vicini o addirittura coevi; l'opera non è da leggere tanto sul piano di una visione morale della società e dello Stato, spesso discutibile in quanto le esigenze del singolo individuo mal si legano in troppi casi alle esigenze dello Stato, o, meglio, del mantenimento del potere da parte del Principe.


Con questa operetta (come mole, non certo come importanza), scritta fra il luglio e il dicembre, e più verosimilmente tra ottobre e novembre (ma la scrittura dell'ultimo modulopotrebbe slittate fino ai primi mesi del 1514), piccola come mole, ma grandissima come teorizzazione politica e per le conseguenze che avrà nei secoli futuri sul piano della politica e della morale, Machiavelli spera d'ingraziarsi le simpatie dei Medici, i nuovi e vecchi padroni di Firenze, dedicandola a Lorenzo II dei Medici, duca di Urbino, detto Lorenzino, nipote di Lorenzo il Magnifico, che l'accoglie con una certa freddezza e un distacco che delude l'ex Segretario della seconda Cancelleria, che capisce di essere ben lontano dal momento in cui potrà realizzare il suo ritorno alla politica attiva, anche perché a Roma esisteva un preciso veto ad utilizzare Machiavelli in qualsiasi tipo di incarico politico; e di questo veto Machiavelli forse non ebbe mai sicura conoscenza. 

Lorenzino, arbitro della politica fiorentina di quegli anni, come narrano certi aneddoti del tempo, fu attratto più dal regalo di una coppia di cani che accomnava il dono di una copia del Principe che dall'operetta politica in sè. Alla dedica è accomnata una esplicita richiesta di aiuto; ma le speranze riposte nel duca verranno ben presto disilluse e la 'malignità di fortuna' che lo aveva colpito, dovrà essere sopportata fino alla fine dei suoi giorni, quando cominciarono ad aprirsi prospettive di nuovi incarichi di una qualche importanza. Anche la morte del duca, che avverrà prematuramente nel 1519 non cambierà sostanzialmente in meglio la sua situazione, anche se il nuovo Machiavelli, quello letterario e soprattutto quello delle lettere a Guicciardini e Vettori, che talvolta venivano fatte leggere al Papa e a 'personaggi importanti' stavano ricreando il personaggio politico capace di analizzare e capire i tempi



lo scopo


 Lo scopo dell'operetta è quello di far intendere 'in brevissimo tempo quello che lui aveva conosciuto e inteso con un lungo studio di anni', unito a una esperienza diretta dei fatti, a lui contemporanei, vissuti talvolta in prima persona. Troviamo in queste parole la certezza che le leggi da lui ricavate dall'analisi dei fatti storici formino 'la scienza della politica' e possano in tal senso regolare in maniera quasi assoluta le azioni del principe in ordine alla conquista e al mantenimento del potere.

La scienza, comunque, non è e non può essere il risultato finale, rappresentato in questo caso dalle regole acquisite, ma è il procedimento stesso della ricerca.

E proprio nella tra scienza e procedimento di ricerca crediamo che stia la confusione di tutto un secolo che con la sua varia precettistica ha creduto di poter regolare ogni cosa, dando ad ogni aspetto della vita umana, dalla politica alla lingua all'amore alla cortigiania ecc., una serie di norme che si pretendeva fossero valide sempre e comunque. Così, nel Cinquecento troviamo precetti sull'amore (Gli Asolani) e sulla lingua (Prose della volgar lingua ed altre opere), sulla politica, sull'uomo pio e sull'uomo di corte (Il cortegiano, Il Galateo, ecc.), perfino le regole (di Pietro Aretino) per fare la cortigiana (la più antica professione della donna).

Ma le regole non possono risolvere tutto e la scienza educa per davvero solo quando approfondisce se stessa e le norme che ha ricavato dall'esperienza e dalla lezione della quotidiana realtà. Lo stesso Machiavelli, pur propugnando norme e precetti, all'atto pratico se ne libera, dandoci una viva rappresentazione della realtà storica nella quale l'uomo non è il freddo esecutore delle regole, ma soprattutto il geniale artefice della propria 'fortuna' attraverso quella virtù, che gli ha donato Madre Natura.



la diffusione


 L'opera manoscritta si diffuse rapidamente anche al di fuori della cerchia degli amici più intimi, suscitando contrastanti sentimenti non solo in coloro che ebbero la ventura di leggerla, ma anche in quello che ne avevano sentito parlare poco e spesso in modo distorto, come sono talvolta le cose riportate; e le interpretazioni faziose del Principe, gli creano intorno una generale avversione, perché, scrive Giovan Battista Busini in una sua lettera a Benedetto Varchi, 'pareva che quel suo Principe fosse stato un documento da insegnare al Duca di tor loro tutta la roba e a' poveri tutta la libertà; ai piagnoni pareva che e' fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi più tristo o più valente di loro; talché ognuno lo odiava'.

Il Principe non venne stampato mentre Machiavelli era ancora in vita, anche se fin dal 1523 era apparsa a Napoli, ad opera di un certo Agostino Nifo, un volumetto dal titolo De regnandi peritia ad Carolum V imperatorem, una traduzione latina con una appendice nella quale 'denique honestum regnandi genus ostenditur', cioè si mostrava infine il modo onesto di regnare dopo aver riportato il modo poco onesto di mantenere il potere illustrato da Machiavelli.

 Il nome e l'opera del Segretario fiorentino si diffondono assai presto anche fuori dei confini italiani, e il primo a trattarne i concetti è il cardinale Reginald Pole, con un'opera, anch'essa rivolta all'imperatore Carlo V, intitolata Apologia ad Carolum V Caesarem; « sostenendo di raccogliere una voce che già circolava a Firenze, egli afferma che l'intenzione del Machiavelli sarebbe stata quella di condurre alla rovina con i suoi efferati consigli il casato dei Medici, svelando nello stesso tempo al popolo fiorentino gli oscuri retroscena del loro potere (Bruscagli) »: interpretazione singolare, che tiene conto più dell'aspetto pratico dell'operetta che della sua profonda validità universale. Comunque proprio con questa opera del Pole si può dire che comincia la fortuna europea del fiorentino, inaugurando quella leggenda diabolica del Machiavelli che poi attecchirà stabilmente anche nell'Europa protestante: il Principe è « opus digito Sathanae scriptum », un'opera scritta col dito di Satana!!!

 La prima stampa avvenne nel 1532 contemporaneamente ad opera del Blado a Roma e dei Giunti a Firenze con l'approvazione rispettivamente di Clemente VII e del cardinale Ridolfi, dando inizio al mito di un Machiavelli caratterizzato da infinita ammirazione e da profonda avversione. Nel 1559, è uno dei primi libri ad essere inserito nell'Index librorum prohibitorum, e gli fanno buona comniautte le altre opere del fiorentino. E ancora oggi, nonostante la traduzione e pubblicazione in molte, nonostante sia una delle opere più diffuse, il Principe è una di quelle opere che viene giudicata poco per i suoi contenuti e molto attraverso parametri moralistici che nulla hanno a che fare con la pratica politica quotidiana. È un fatto comunque che quest'opera, così importante per la creazione della coscienza di cittadino dell'uomo moderno, è conosciuta soprattutto da chi quotidianamente esercita il potere.

Per questo possiamo definire il Principe come il Trattato della regole del potere politico.

L'opera fu accolta con freddezza (anche dal suo amico Francesco Vettori) e non venne valutata con attenzione. Per questo i Governanti, papi e principi e re ecc., lo lasciarono vivere né lo inquisirono (soprattutto la Chiesa), perché le idee di un uomo caduto in disgrazia andavano bene nel generale chiacchiericcio di un salotto (diverso sarà ad esempio l'atteggiamento nei confronti delle idee di Galilei). Quelle idee non avrebbero potuto sovvertire l'ordine costituito delle cose, neanche nel lungo periodo, perché mai il loro autore avrebbe potuto scuotere le coscienze e risvegliare il popolo dal suo torpore.



il metodo


La ricerca machiavelliana volta a enucleare delle regole che possano guidare il Principe nel raggiungimento dei due fini su esposti, non parte dalla realtà, ma dalla capacità dell'individuo di conoscere innanzitutto la realtà, di saperla analizzare per poter adottare i provvedimenti più adatti al bisogno immediato, i quali non devono rispondere a princìpi generali ed astratti e ritenuti universalmente validi, ma a una visione della realtà e degli avvenimenti che sia il più possibile funzionale. Niente immaginazione o invenzione o utopia ma ricerca e attuazione di rimedi a situazioni in atto e misure per creare condizioni favorevoli al proprio mantenimento.

Il Principe deve osservare attentamente la realtà per comprendere e mettere in chiaro una serie di fenomeni omogenei e risalire alle cause che li hanno prima generati e poi regolati, perché la realtà offra quelle indicazioni utili a regolare il proprio comportamento nei vari accadimenti della vita quotidiana e nelle modalità del governare.


Machiavelli capì i problemi del suo tempo sul piano storico-politico, per quindici anni quotidianamente aveva studiato atteggiamenti e atti di principi, re, imperatori, papi, anche attraverso contatti diretti nel corso delle tante legazioni come inviato della Repubblica fiorentina e cercò di evincerne delle linee di tendenza operativa mettendo in evidenza a ciò che avevano fatto i potenti erano riusciti a no a mantenere il potere.

Nei quindici anni di segretariato, e nelle lettere al Vettori del 1514-l515, cercava di capire quali avrebbero potuto essere i rimedi più idonei affinché i potenti potessero mantenere il potere, quali atti e provvedimenti erano atti alle necessità del momento.

Machiavelli non analizza una situazione squisitamente italiana, ma allarga la sua indagine nello spazio e nel tempo a tutti i potenti, a cominciare da Mosè per finire coi tempi suoi. Il Machiavelli analizza i fatti della storia antica, la nascita-vita-morte delle Repubbliche e dei Principati dell'antichità, gli avvenimenti che li hanno caratterizzati con le annesse cause e conseguenze per trarre leggi e principi più o meno universali ai quali uniformare il proprio comportamento e le proprie decisioni.

Machiavelli fu lasciato libero, perché ritenuto innocuo e inoffensivo dal potere politico, che si sentiva sì direttamente messo a nudo nelle sue azioni quotidiane, ma non attaccato nella sua realtà costituita né messo in discussione. Qualsiasi potente, se voleva preservare se stesso, non avrebbe potuto che agire in quel modo, che si presentava come l'idea dominante della necessità quotidiana; il modo del mors tua vita mea, della salvezza possibile solo l'eliminazione dell'avversario.


Anche Savonarola capì i problemi del proprio tempo, soprattutto partendo dallo strato più basso della popolazione, ma i suoi rimedi avrebbero potuto tutt'al più essere riservati a una comunità conventuale, ristretta e senza pretesa e senza collegamenti con la vita vissuta dal popolo.

Savonarola fu ucciso perché ritenuto pericoloso e sovversivo, avendo eccitato le masse contro il potere costituito e contro tutto ciò che lo rappresentava: i potenti all'improvviso si sentirono nudi di fronte al popolo che si presentava come la voce di Dio, con al capo un ministro di Dio che si presentava come alter ego dell'altro Ministro di Dio, quello di Roma: il potere costituito si sentì in pericolo, perché le conseguenze di ciò che stava avvenendo intorno al frate domenicano avrebbero potuto diventare esplosive, e lo condannò al rogo e il popolo, esitante tra la ragione e il sentimento, lo abbandonò al suo destino.


Allo stesso modo Martin Lutero non fu abbandonato dai potenti del suo tempo che sfruttarono la sua opera evangelica e sociale per conquistare, essi potenti in Germania, una parte del potere di colui che potente risiedeva in Roma. Il Papa, sentendosi in pericolo, condannò Martin Lutero, ma non potè farlo bruciare perché questi era protetto dalla corazza degli interessi politico-economici di coloro che lo usavano. Martin Lutero si salvò perché l'interesse dei principi tedeschi era in contrasto con quelli del Papa, Savonarola cadde perché gli interessi dei fiorentini potenti coincidevano con quelli del Papa.



nucleo e concetti fondamentali


Tutte le azioni di coloro che vogliono diventare Principi devono essere coordinate al raggiungimento di due fini, cioè:

* la conquista e

* il mantenimento del potere.

Gli elementi fondamentali dell'opera sono:

 *  come si conquista il potere: per virtù, fortuna, colle armi proprie, colle armi altrui;

 * come si mantiene il potere: i provvedimenti che il principe deve adottare: rapporti coi potenti esterni al principato, rapporti coi potenti interni al principato, rapporti col popolo

*  virtù, fortuna, occasione

*  conquista del potere con scelleratezza: il problema della morale

*  le milizie: proprie, mercenarie, ausiliarie, miste

*  la verità effettuale

*  avversione per le congiure

*  posizione critica verso il potere temporale dei papi

*  le qualità del Principe

*  invito a prendere le armi per risolvere i problemi della disunione dell'Italia

In un certo senso possiamo affermare che il Machiavelli porta alle estreme conseguenze:

 a) da un lato sia l'osservazione della realtà storico-politica, durante il suo operato come segretario della seconda cancelleria, di cui ci restano le relazioni, che dei fatti letti e studiati: cioè il guardare le cose nel loro logico evolversi e realizzarsi attestate poi nella immutabilità storica;

 b) dall'altro l'osservazione e l'analisi dell'uomo che con i suoi stratagemmi e la sua virtù conquista ciò che si era prefisso e lo mantiene, con facilità se la conquista è avvenuta con virtù, con difficoltà se è avvenuta con fortuna.

 È questo il primo fondamento della teoria politica: la realtà non deve mai essere travisata o travestita, altrimenti non si raggiungerà mai ciò che si era prefisso: è proprio la piena conoscenza della realtà delle cose che può facilitare l'individuo nel raggiungimento dei propri fini.



La  verità  effettuale


Molti - scrive Machiavelli nel cap. XV - si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero; perchè egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua. Machiavelli, come politico militante durante le sue missioni e nei suoi scritti politici, non va dietro alla immaginazione delle cose, non immagina Repubbliche o Principati che non sono mai esistiti, ma analizza la storia dei popoli e delle istituzioni che questi hanno realizzato per ricavare quelle regole che possono essere utili ancora oggi per realizzare la conquista e il mantenimento del potere: sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa.

L'unica verità che deve esistere per il politico è quella che deriva direttamente dai fatti, la verità effettuale, dove effettuale deriva da effetto ed ogni effetto, come fenomeno, deriva da una precisa causa, e genera una precisa conseguenza. La verità effettuale è il vero motore della sua indagine storico-politica e diventa la materia principale del suo pensiero, che viene inevitabilmente rivolto agli uomini liberi e coloro che vogliono conquistare e mantenere il potere, cioè ai governanti, siano essi tirannici oppressori o democratici politici. Il tiranno come l'uomo libero è una realtà storica, eterna come l'uso buono o cattivo della libertà: solo la grandezza della virtù potrà suggerire all'uomo di governo quella misura nell'esercizio del potere che è contraria alla barbarie scellerata e al dispotismo.

I fatti sono sia le azioni realizzate dagli individui in modo più o meno consapevole e più o meno mirate ad ottenere determinati risultati, sia gli avvenimenti che accadono indipendentemente dalla volontà umana e che coinvolgono gli individui, e possono essere visti in modo soggettivo, oggettivo, secondo precostituite regole morali e religiose o stabilite da autorità che prevedono l'assoluta ubbidienza. È evidente che solo l'oggettività può garantire una visione non precostituita di essi e una visione oggettiva può essere ottenuta solo da un confronto tra fatti similari riguardanti personaggi diversi e gli effetti che ne sono derivati riguardo ai due fondamenti della conquista e del mantenimento del potere.

Solo dai fatti possiamo dedurre se uno Stato ha una sua intima capacità di esistere e di resistere ad agenti distruttori esterni con l'uso di un esercito nazionale anziché mercenario. È proprio nel concetto di verità effettuale che possiamo individuare la netta separazione fra morale e politica perchè la verità è ciò che deriva dalla realtà, è lo studio di effetti determinati da precise cause, mentre la morale è l'insieme delle norme che regolano il comportamento umano, "il codice non scritto della coscienza universale illuminato dalla rettitudine e dall'onestà insieme al senso divino della vita", sul quale resta sempre vigile l'intelligenza umana che porta l'individuo a volgere a proprio profitto le forze e le leggi della natura.

I fatti possono essere visti in modo

* generale, quando non viene estratta l'intima essenza: non è importane il fatto che una persona venga uccisa, ma che sia eliminato un ostacolo per la conquista e il mantenimento del potere, un ostacolo che può oggettivamente rovinare tutto;

* particolare, quando l'avvenimento non è inquadrato in una visione generale delle cose e quando è visto nel suo svolgersi immediato e contingente.



mezzi e fini


Nella scoperta dell'uomo rinascimentale, come individualità assoluta e di per sè tendente all'ideale, si erge questa profonda antinomia tra l'essere e il dover essere che nel caso di Machiavelli si risolve solo nella verità effettuale, il nocciolo duro che attirerà tutta l'esecrazione da parte degli ipocriti, dei servi imbelli e degli adulatori dei potenti ma che, da questo momento in poi, non potrà più non essere presa in considerazione e adeguatamente valutata.

Molti critici, infatti, inventeranno la massima 'il fine giustifica i mezzi' invece di mettere in evidenza la realtà di un principe che molto spesso è necessitato a compiere determinate azioni col fine di salvaguardare non solo se stessi ma lo Stato e la complessità di interessi di una complessità più o meno estesa di individui. Il fine non può giustificare i mezzi né sul piano morale perchè l'uso di certi mezzi è comunque condannabile (come l'uso della frode, della forza, dell'assassinio, ecc.), ne sul piano razionale, in quanto si rovescerebbe il discorso logico delle cause che generano determinati effetti in effetti che giustificano l'esistenza di determinate cause.

L'origine della regola 'il fine giustifica i mezzi' trae origine da quel che scrive nel cap. XVIII "Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati". Machiavelli non fa distinzione tra fini e mezzi, ma mette in evidenza che primo compito del Principe è il mantenimento dello Stato e i mezzi che avrà usato per questo fine saranno sempre lodati dal 'vulgo', cioè dalla generalità delle persone che in questo modo vedono difesi i propri interessi e la propria tranquillità.


 È la causa, come il mezzo, che esiste per sè, come norma generale che viene utilizzata solo se necessitati dal momento e dalla realtà generale. Mutando le cause mutano gli effetti, così mutando i mezzi, mutano i fini e viceversa: il Principe non deve tener conto in primo luogo dei mezzi ma dei fini, all'interno dei quali i mezzi trovano la loro logica collocazione, non giustificazione.

 Quando parliamo, quindi, di verità effettuale, parliamo di una verità basata sulle norme che discendono dai fatti e che permettono di raggiungere i fini prefissati; i mezzi possono essere scelti tenendo necessariamente conto dei fini. Quindi, mezzi adeguati per fini voluti.



giustificazione


 Molto si è discusso, a proposito del Principe, del fine che giustifica i mezzi, ma questa affermazione necessita di qualche chiarificazione perché non è del tutto esatta: in Machiavelli dobbiamo innanzitutto mettere in evidenza il concetto di necessità; ogni azione del Principe deve essere necessitata dalle circostanze e deve essere proporzionata al fine da raggiungere. In questo senso è da intendersi nel Machiavelli la giustificazione (o meglio l'accettazione per principio) dell'uso della forza e della violenza: non è un problema morale ma politico, da inserire nel quadro generale del raggiungimento di un obiettivo predeterminato. Niente e nessuno obbliga un individuo a perseguire l'obiettivo della conquista e del mantenimento del potere, ma quando si mette in moto, allora deve prendere tutti quei provvedimenti che sono adatti alla preservazione sua. Sul piano morale l'affermazione riguarda in particolare l'uccisione dei rivali nella corsa al potere e nel suo mantenimento: un assassinio, l'esecuzione di una condanna a morte può trovare la sua accettazione solo nell'esigenza del mantenimento del potere; non è accettabile comunque quando non persegue questo scopo e il suo uso diventa eccessivo.

 L'analisi effettuata porta il Machiavelli a una concezione morale della vita non di tipo religioso, ma sociale e politico. La sfera morale viene separata e tenuta distinta dalla religione e quando viene legata alla politica, diventa l'insieme dei provvedimenti che il principe deve prendere per conquistare e mantenere il potere. Su questo piano la religione assume un valore più ristretto e funzionale ai fini che il Principe si pone, assumendo una particolare importanza: è uno dei modi ausiliari per mantenere il potere sul popolo che bisogna fare in modo che creda in un Ente superiore. Allo stesso modo serve a papi come Alessandro VI, Leone X o Giulio II, a re come Luigi XII o a principi come il duca Valentino o Francesco Sforza: la religione è solo uno strumento, potente perché penetra nel profondo dell'animo umano, lontano da ogni sensibilità spirituale, che serve a costruire il potere e a mantenere sottomesso il popolo.

 Tipico è il comportamento del Duca Valentino (Cesare Borgia), sul caso della Romagna appena conquistata, regione piena di latrocinii e di ogni insolenza, nei confronti di Remirro de Orco, 'uomo crudele ed espedito, al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita Di poi iudicò el duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perchè dubitava non divenissi odiosa E perchè conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita,, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E, presa sopr'a questo occasione, lo fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza, con un pezzo di legno e un coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in un tempo rimanere satisfatti e stupidi'. Con un solo atto Cesare Borgia ottiene due risultati: si libera di Remirro de Orco e intimorisce i romagnoli.

 L'uso della violenza non assume il valore di una teoria fissa e immutabile, ma diventa una necessità che non va sottoposta tanto al vaglio della religione e della morale quanto della ragione e del potere. Machiavelli non giustifica mai l'uso della violenza, ma ne mette in evidenza l'uso che gli uomini ne fanno nella pratica quotidiana, e i Principi in modo particolare, indipendentemente dal fatto che siano laici o cattolici affermando che  'se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono Bisogna, adunque, essere golpe e conoscere e' lacci e lione e sbigottire i lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono', non capiscono cioè le regole per mantenere il potere e quindi non hanno virtù.

 La violenza va usata solo se è necessario e se si è costretti dalla superiore ragion di Stato, perché in qualunque frangente il principe deve mostrare la sua potenza per incutere timore, come il leone, per non essere facilmente attaccato.

Per rendercene meglio conto, basta leggere i casi in cui usa le parole necessità e necessitato:

* cap. II - Perché el principe naturale ha minori cagioni e minore necessità di offendere.

* cap. III - Il che depende da un'altra necessità naturale et ordinaria, quale fa che sempre bisogni offendere

* cap. III - questa merita biasimo, per non essere escusata da quella necessità.

* cap. VIII - con le altre assaltò l'Affrica, et in breve tempo liberò Siracusa dallo assedio e condusse Cartagine in estrema necessità: e furono necessitati accordarsi con quello.

* cap. - VIII Bene usate si possono chiamare quelle (se del male è licito dire bene) che si fanno ad uno tratto, per necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento ma si convertiscono in più utilità de' sudditi che si può.

* cap. VIII - perché, venendo per li tempi avversi le necessità, tu non se' a tempo al male, et il bene che tu fai non ti giova, perché è iudicato forzato, e non te n'è saputo grado alcuno.

* cap. X - cioè, se uno principe ha tanto stato che possa, bisognando, per sé medesimo reggersi, o vero se ha sempre necessità della defensione di altri. E, per chiarire meglio questa parte, dico come io iudico coloro potersi reggere per sé medesimi, che possono, o per abundanzia di uomini, o di denari, mettere insieme un esercito iusto, e fare una giornata con qualunque li viene ad assaltare; e cosí iudico coloro avere sempre necessità di altri, che non possono ire contro al nimico in camna.

* cap. XIII - Carlo VII, conobbe questa necessità di armarsi di arme proprie.

* cap. XV - Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.

* cap. XVIII - e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.

* cap. XX - il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che uno ereditario

* cap. XXI - uno principe debbe avvertire di non fare mai comnia con uno più potente di sé per offendere altri, se non quando la necessità lo stringe.

* cap. XXIII - perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni.

* cap. VII - di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l'amicizia sua.

* cap. VIII - perché io iudico che basti, a chi fussi necessitato, imitargli.

* cap. VIII - Chi fa altrimenti, o per timidità o per mal consiglio, è sempre necessitato tenere el coltello in mano

* cap. IX - È necessitato ancora el principe vivere sempre con quello medesimo populo.

* cap. XVI - a volersi mantenere infra li uomini el nome del liberale, è necessario non lasciare indrieto alcuna qualità di suntuosità; talmente che, sempre uno principe cosí fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà; e sarà necessitato alla fine, se si vorrà mantenere el nome del liberale, gravare e' populi estraordinariamente.

* cap. XVI - che, per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome di rapace, che partorisce una infamia con odio.

* cap. XVIII - Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione.

* cap. XVIII - non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione.

* cap. XVIII - sapere intrare nel male, necessitato.

* cap. XIX - per questo lui era necessitato andare a punire la sua ingratitudine.



nota linguistica


Innanzitutto dobbiamo notare che il Principe è scritto in volgare fiorentino anziché nella lingua ufficiale dei trattati, soprattutto quelli a carattere filosofico, storico-politico e scientifico quasi a sottolineare la magnificenza dell'argomento da un lato perché il latino di Machiavelli non era molto forbito, e poi per dare alla sua operetta un'apparenza volutamente dimessa. L'uso del volgare sicuramente dona all'espressione dei concetti una immediatezza che il latino non avrebbe potuto; non solo, ma Machiavelli usa un volgare che possiamo definire 'popolare', un linguaggio orale che assume la dignità della lingua scritta quasi a voler riprodurre la realtà quotidiana, con metafore e similitudini che riproducono la vita domestica e familiare e quella degli incontri tra amici.

Questo uso linguistico è volutamente cercato dal Machiavelli: 'La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata.'

Nella prosa del segretario ' ritroviamo sempre un tono e una energia popolari, che derivano da una miscela assolutamente straordinaria di linguaggio e sintassi colta e allo stesso tempo popolana ' (Rita Venturelli).


Il contenuto del Principe è espresso con una logica stringente e razionale attraverso due procedimenti:

1) modello dell'antitesi o dell'antinomia:

* I Principati o sono ereditari o sono nuovi.

* Tutti gli stati sono stati e sono o repubbliche o principati - E' principati sono o ereditarii o nuovi - e' nuovi o sono nuovi tutti o membri aggiunti - e acquistonsi o con le armi d'altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù

* Gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere

* Perché li uomini offendono o per paura o per odio.

La vita stessa pone il Principe di fronte a una serie di scelte che sono dei veri e propri autaut: fra le due , e solo due, possibilità che ci vengono date, bisogna scegliere e senza perdere eccessivamente tempo, comunque prima che un altro con la sua scelta possa vanificare la sua.


2) modello dell'analisi, che si conclude quasi sempre con una norma generale; raramente accade il contrario: partire dalla norma per proseguire con l'analisi delle cause dei fatti e delle conseguenze che hanno scatenato.

Dopo aver analizzato l'opera di Luigi XII conclude: ' Di che si cava una regola generale, la quale mai o raro falla: che chi è cagione che uno diventi potente, ruina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria o con forza; e l'una e l'altra di queste dua è sospetta a chi è diventato potente' .


 3) modello della elencazione, strettamente connesso con quello dell'analisi::

* Aveva Luigi fatto questi cinque errori (cap. III)

* A volerli tenere ci sono tre modi (cap. V)

* e pensò farlo in quattro modi: prima, di spegnere tutti e' sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e' gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa in freno; terzio, ridurre el Collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta (cap. VII)

Una elencazione che può anche essere espressa in modo più semplice: 'La prima cosa indebolì le parti dopo questa aspettò spenti adunque' (cap. 7) in cui si mettono in evidenza i due fatti principali e la conclusione che corrisponde alla realtà che si è venuta a creare.


4) modello della struttura del modulo: ogni modulo è caratterizzato da due elementi che richiamano il metodo generale d'indagine critica di Machiavelli:  l'analisi e l'esemplificazione. Ogni affermazione è sempre corredata da esempi tratti dalla storia viva: i provvedimenti adottati dai Principi.



imitazione


 Il potere si può acquistare o per virtù o per fortuna, e tanto più a lungo e con facilità lo si mantiene quanto più lo si è acquistato con difficoltà e in un arco di tempo non breve. Quando lo si acquista con fortuna, e quindi in breve tempo, occorre che il Principe agisca con virtù e apporti quei cambiamenti nell'organizzazione del principato che più gli possono tornare utili nel mantenerlo, e primi fra tutti l'eliminazione di coloro che potrebbero avversarlo (per riconquistare il potere perduto) e il favorire l'ascesa di un gruppo di persone favorevoli e fedeli.

 Uno dei modelli di comportamento per il Principe è l'imitazione dei grandi dell'antichità, di quelli che, come Ciro, Romolo, Teseo e Mosè, hanno costruito un potere durevole nel tempo. L'imitazione non deve essere fredda, precisa e passiva, ma deve tener conto da un lato dei princìpi comuni e generali, dall'altro della realtà concreta in cui il Principe si trova ad agire. In questo senso possiamo capire anche la profonda avversione di Machiavelli per le congiure, perchè lo Stato conquistato in questo modo si perde facilmente, perchè si basa sulla violenza del momento che non garantisce mai stabilità nel tempo, in quanto il nuovo stato manca di solide fondamenta e della concordia di comportamento dei congiurati che pensano più al bene individuale che comune: tutte le azioni dell'uomo devono essere coordinate al raggiungimento del fine prefissato, e nelle congiure manca solitamente l'ubbidienza cieca e fedele a un capo.

Machiavelli mette in luce

la necessità di una storia militante, di una storia che sia lezione perpetua di vita, poiché cielo, il sole, gli elementi, gli uomini. non sono variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che essi erano anticamente, e però è possibile rinnovare, nei tempi nostri, i fasti del passato, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e repubbliche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati » . Vale l'esperienza degli antichi, nelle arti, se spesso si è visto un frammento di antica statua essere stato comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono » vale ancora cotesta esperienza, nel campo del diritto e nel campo della medicina, perché le leggi non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali ridutte in ordine, a' presenti nostri iureconsulti indicare insegnano; ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e medici presenti e loro iudizii »; valgano dunque anche gli esempi degli antichi, se si vuole ordinare repubbliche, mantenere gli Stati, governare i regni, ordinare la milizia ed amministrare la guerra, giudicare i sudditi, accrescere l' imperio

È il principio dell'imitazione, proprio del Rinascimento, trasportato nel campo della politica; però le storie per il M. non potranno essere che dei paradimmi della sua speculazione politica, e la Vita di Castruccio e le Istorie fiorentine saranno una esemplificazione storica dei tipi, delle dottrine, delle regole, transunteggiate precedentemente dallo scrittore nella sua lunga esperienza delle cose moderne e nella continua lezione delle antiche. (Luigi Russo)

Il consiglio ai Principi di battere le vie già battute da altri, di conoscere ciò che altri in similari condizioni hanno fatto e non discostarsene troppo, di passare dall'interpretazione della storia con l'ottica di un ozio piacevole che porta a un certo apamento dello spirito a un utilizzo secondo attivo secondo virtù « onde nasce  che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, indicando la imitazione non solo difficile, ma impossibile»:

Ma quanto allo esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie, et in quelle considerare le azioni delli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre, esaminare le cagioni della vittoria e perdite loro, per potere queste fuggire, e quelle imitare; e sopra tutto fare come ha fatto per l'adrieto qualche uomo eccellente, che ha preso ad imitare se alcuno innanzi a lui è stato laudato e gloriato, e di quello ha tenuto sempre e' gesti et azioni appresso di sé: come si dice che Alessandro Magno imitava Achille; Cesare Alessandro; Scipione Ciro. E qualunque legge la vita di Ciro scritta da Senofonte, riconosce di poi nella vita di Scipione quanto quella imitazione li fu di gloria, e quanto, nella castità, affabilità, umanità, liberalità Scipione si conformassi con quelle cose che di Ciro da Senofonte sono sute scritte. Questi simili modi debbe osservare uno principe savio, e mai ne' tempi pacifici stare ozioso, ma con industria farne capitale, per potersene valere nelle avversità, acciò che, quando si muta la fortuna, lo truovi parato a resisterle. (cap. XIV)



fortuna


 L'altro grande elemento che ha una profonda influenza sull'esistenza umana è la Fortuna, questa dea capricciosa e mutevole che incide spesso in modo decisivo sulle azioni umane, contro la quale però si può lottare perché c'è sempre la speranza di un mutamento. La forza maggiore della Fortuna nasce dall'incapacità dell'uomo a modificare la propria natura. Nella minuta della risposta a Pier Soderini a Ragusa il Machiavelli osserva che, come gli uomini hanno diverso ingegno e diversa fantasia, così i tempi hanno proprie caratteristiche, e fortunato è colui che 'riscontra il modo del procedere suo col tempo',

'Perché i tempi e le cose universalmente e particolarmente si mutano spesso, e gli huomini non mutano le loro fantasie nè i loro modi di procedere, accade che un tempo uno ha buona fortuna e un tempo trista. E veramente chi fosse tanto savio che conoscesse i tempi e l'ordine delle cose, e accomodassisi a quelle, harebbe sempre buona fortuna, o egli si guarderebbe sempre dalla trista, e verrebbe a essere vero che il savio comandasse alle stelle e a' fati. Ma perchè di questi savi non si truova, havendo gli uomini prima la vista corta, e non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortuna varia e comanda agli uomini e tienli sotto il giogo suo'.

Ma il teorico della virtù mai avrebbe potuto abbandonarsi a un senso fatalistico dell'esistenza e dello svolgimento delle azioni umane: in ogni momento per Machiavelli l'uomo ha il potere di dominare una parte delle vicende, sempre che riesca a prevederne in qualche modo la presenza e lo sviluppo. La capacità di previsione è una delle qualità fondamentali del politico: bisogna saper vedere le cose al loro nascere e agire tempestivamente con decisione prima che sia troppo tardi, afferma più volte sia nelle Lettere che nel Principe e nei Discorsi. Di fronte agli avvenimenti non si può temporeggiare: ogni inerzia, come ogni affidamento della soluzione dei problemi a forze esterne o comunque estranee, è colpevole e preannuncia la fine, la perdita del potere, la sconfitta definitiva.

 La fortuna è quella forza misteriosa che agisce al di fuori della volontà umana, dirigendo il corso degli eventi, fino a determinare vittorie e sconfitte dell'individuo, ed è paragonata a un fiume che può straripare travolgendo tutto: l'uomo virtuoso sa che nulla può fare contro un fiume che straripa, ma può costruire argini potenti ed insuperabili nei momenti in cui scorre pacifico nel suo alveo naturale.

 La metà degli avvenimenti, afferma Machiavelli, è retta dalla fortuna, mentre sull'altra metà la fortuna può può influire positivamente o negativamente: su questa metà l'uomo può agire con la sua virtù fino a cambiare il corso degli eventi. La fortuna pone, quindi, dei limiti all'agire umano e può condizionarlo pesantemente. È il caso brutale e improvviso che può distruggere le azioni dell'uomo fino ad impedirgli di raggiungere i propri fini, come nel caso della malattia di Cesare Borgia negli stessi giorni della morte del padre Alessandro VI, per cui non potè assicurarsi l'elezione di un papa amico e fu costretto dalla sua momentanea debolezza ad accettare quella di un suo mortale nemico, Giuliano della Rovere, di cui aveva in quei momenti sottovalutato l'inimicizia.


l'occasione - La fortuna, come elemento modificatore assoluto, si realizza all'interno dell'occasione, la condizione generale in cui versa una nazione, nella quale esistono le condizioni per un cambiamento radicale del potere, dalle quali sono partiti i fondatori di Stati: la condizione generale di schiavitù del popolo israelita in Egitto era l'occasione sfruttata da Mosè, ispirato e guidato da Jahvè, per portare il suo popolo alla liberazione dalla schiavitù; l'occasione di Ciro è stata quella di trovare i Persiani malcontenti del dominio dei Medi e i Medi stessi molli ed effeminati per la lunga pace.



virtù


 L'imitazione, la verità effettuale, l'uso della forza, la concezione dello stato e delle milizie cittadine al posto di quelle mercenarie, l'occasione e la fortuna, insieme alla virtù sono i fondamentali concetti teorici della prassi politica machiavelliana. La virtù, nel senso non dell'etica morale e religiosa, ma in quello di capacità di usare i mezzi adatti per raggiungere un fine sfruttando l'occasione propizia e battendo la fortuna avversa che tende a distruggere ciò che l'individuo crea.

 Le azioni dei Principi non valgono in se stesse, ma in quanto rivolte alla creazione e al mantenimento dello Stato, che è il vero elemento centrale della teoria machiavelliana. Il Principe che vuole mantenere lo Stato deve agire in modo che le decisioni che prende siano coerenti con il fine da raggiungere e solo il fine raggiunto può far accettare le decisioni, anche se non giustificarle sul piano morale.

 La virtù è, quindi, la capacità intellettiva del Principe, o di chi a qualunque titolo detiene il potere politico, sociale, economico, ecc., di adottare la decisione più opportuna, il provvedimento più idoneo per risolvere determinate situazioni. Il provvedimento deve ripondere a queste componenti:

* la soluzione del problema;

* la conquista e il mantenimento del potere;

* la creazione di condizioni per una esistenza duratura dello Stato.

Senza avere la presunzione di aver preso l'unica decisione possibile, ma almeno

 Romolo e Ciro sono stati virtuosi perchè le loro decisioni erano coerenti con il fine proposto, allo stesso modo possiamo ritenere Alessandro vinto dalla fortuna in quanto la sua morte precoce e inevitabile ha disintegrato uno Stato che non aveva ancora salde radici perchè Alessandro Magmo non aveva avuto il tempo per prendere tutti quei provvedimenti adatti al consolidamento dello Stato: la stessa cosa accadrà a Cesare Borgia, l'esempio più grande ed evidente di virtù non supportata dalla fortuna.

 La virtù è un elemento a carattere universale, perchè risponde a norme comportamentali che sono

* valide per chiunque voglia conquistare o mantenere il potere,

* desunte dall'esperienza del passato, da analoghi fatti che hanno avuto per protagonisti i grandi della storia;

e soprattutto dona reputazione, una reputazione che però non è un valore morale, ma la conseguenza della forza che incute rispetto e timore, non stima ma paura e coscienza della forza altrui e della propria debolezza. E qui bisogna che la paura sia più forte della malvagità, che dagli individui che ne sono assoggettati non potrà mai essere messa a nudo.

Per questo l'energia della virtù, unita alla risolutezza della difesa della propria esistenza, non può e non deve mai mancare al Principe Principe e alla conduzione del potere, tenendo presente che infinite sono le difficoltà:

« Virtù, dunque necessità spirituale nell'arte dello Stato

Quest'arte è terribilmente complicata e difficile. La storia serve, ma sino a un certo punto. Essa è una grande maestra, ma nei popoli come negli individui non potrà mai sostituire l'insegnamento più grande, più tragico, e più degno della vita, che è l'esperienza diretta.

« Né creda mai - dice nel Principe - alcuno stato potere pigliare partiti securi, anzi pensi di avere a prenderli tutti dubii; perché si truova questo nell'ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro; ma la prudenzia consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti, e pigliare il men tristo per buono. » Chi perde, e si perde di sicuro, è l'irresoluto, cioè chi manca dell'energia che è essenziale nell'arte dello Stato. (Ettore Janni)

La forza delle idee di Machiavelli consiste proprio nel fatto che esse si poggiano sull'analisi dell'anima umana, di un uomo che è inclinato pià a far il male che il bene, per cui è necessario, per salvaguardare se stessi, pensare proprio a rispondere al male col male visto che tutti siamo capaci di fare il male e pochi sono ponti ad operare nel bene.

Ma, dice coscientemente il Guicciardini, la pratica è diversa dalla teoria: «Quanto è diversa la pratica dalla teorica! Quanti sono che intendono le cose bene, che o non si ricordano o non sanno metterle in atto! »

Machiavelli si rende ben conto delle difficoltà e la forza delle sue argomentazioni consiste proprio sul fatto che dà più peso alla natura dell'uomo che alle circostanze varie in cui si trova ad agire: lampante ne è l'esempio del concetto di occasione: solo l'uomo virtuoso può coglierla: l'occasione senza la virtù è nulla e la virtù senza l'occasione non può mettersi in mostra. E il privilegiare l'uomo rispetto ai principi generali (religiosi e morali) è un concetto nuovissimo non solo nei discorsi politici, ma più in generale nei discorsi che riguardano l'uomo.



alcune regole di comportamento


*  cap. XV - non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà et il bene essere su

*  cap XVI - intra tutte le cose di che uno principe si debbe guardare, è lo essere contennendo et odioso; e la liberalità all'una e l'altra cosa ti conduce. Per tanto è più sapienzia tenersi el nome del misero, che partorisce una infamia sanza odio, che, per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome di rapace, che partorisce una infamia con odio

*  cap. XVII - Debbe, per tanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e' sudditi sua uniti et in fede; perché, con pochissimi esempli sarà più pietoso che quelli e' quali, per troppa pietà, lasciono seguire e' disordini, di che ne nasca occisioni o rapine

*  cap. XVII - s'elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell'uno de' dua

*  cap. XVIII sono dua generazioni di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo

*  cap. XVIII - Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono

*  cap. XVIII - ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione

*  cap. XIX il principe pensi, come di sopra in parte è detto, di fuggire quelle cose che lo faccino odioso e contennendo; . Odioso lo fa, sopr'a tutto, come io dissi, lo essere rapace et usurpatore della roba e delle donne de' sudditi: . Contennendo lo fa esser tenuto vario, leggieri, effeminato, pusillanime, irresoluto

*  cap. XIX - uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto de' sudditi; l'altra di fuora, per conto de' potentati esterni

* Cap. XXI - È ancora stimato uno principe, quando elli è vero amico e vero inimico, cioè quando sanza alcuno respetto si scuopre in favore di alcuno contro ad un altro . E sempre interverrà che colui che non è amico ti ricercherà della neutralità, e quello che ti è amico ti richiederà che ti scuopra con le arme. E li principi mal resoluti per fuggire e' presenti periculi, seguono el più delle volte quella via neutrale, e il più delle volte rovinano

* la scelta del segretario: * cap. XXII E perché sono di tre generazione cervelli, l'uno intende da sé, l'altro discerne quello che altri intende, el terzo non intende né sé né altri, quel primo è eccellentissimo, el secondo eccellente, el terzo inutile

cap. XXII -[tenersi lontani da]  li adulatori, delli quali le corti sono piene; perché li uomini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie et in modo vi si ingannono, che con difficultà si difendano da questa peste; et a volersene defendere, si porta periculo di non diventare contennendo. Perché non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che li uomini intendino che non ti offendino a dirti el vero; ma, quando ciascuno può dirti el vero, ti manca la reverenzia. Per tanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda, e non d'altro;

* cap. XXIII - uno principe, il quale non sia savio per sé stesso, non può essere consigliato bene, se già a sorte non si rimettessi in uno solo che al tutto lo governassi, che fussi uomo prudentissimo



 la religione


 Machiavelli non ha uno spirito religioso, e la sua sincerità lo fa apparire ancor più irreligioso di altri uomini del suo tempo; un sentimento diffuso in Europa contro la Chiesa e il Papato in particolare è abbastanza diffuso già nella seconda metà del Quattrocento e sfocerà nel 1517 quando Martin Lutero afgerà alla porta della Cattedrale di Wittenberg le sue 95 tesi con le quali cominciava di fatto la Riforma protestante. La cultura europea era pronta a voltare ina, ad uscire dai ristretti ambiti medievali, in cui prevaleva il comune con il suo contado, per distendere lo sguardo verso spazi sempre più vasti mentre la mente si rivolgeva sempre più verso una concezione universalistica che metteva comunque al centro l'uomo coi suoi pregi e i suoi difetti.

 Machiavelli appare più irreligioso di tanti suoi contemporanei, perché talvolta non ha la prudenza di andare a messa e talaltra quella di tacere soprattutto quelle cose che rappresentano i retroscena del potere. Ma non è un ateo che si affida tutto alla ragione o un incredulo per mancanza di fede; è piuttosto un uomo che disprezza le falsità che si sono andate mescolando con la religione per fini politici o mercantilistici e che hanno fomentato una grossolana ignoranza non solo nel popolino ma molto spesso anche nelle classi elevate: gli uomini vivono avendo presente più la potenza di chi sta sopra sul piano politico-economico che il timore di Dio, perché la paura del male che può fare il potente è presente come lontano è il timore della condanna di Dio.

 È su questa terra che gli uomini possono fare del male e si dimostrano più inclini a fare il male che il bene; ma se Dio è escluso dalla politica, la stessa cosa non avviene per la religione, che però non viene sentita come atto di fede, ma declassata a evento storico e storicamente studiabile, perché si può vedere come principi e popoli che si sono mantenuti incorrotti hanno mantenuto incorrotte e in grande venerazione le cerimonie della religione: l'indizio della crisi di un popolo è proprio il disprezzo del culto divino. I Prìncipi passano ma Dio resta, e il timore verso un Dio che non passa diventa la garanzia più salda del quieto vivere contro gli sconvolgimenti politici e sociali.

 Per questo in Machiavelli diventa veemente e profonda l'avversione per l'azione del Papato nella storia d'Italia, un Papato che ha avuto la colpa di aver provocato in gran parte le guerre dei barbari in Italia dal Medioevo al Rinascimento, sciupando spesso in una cattiva politica mondana la grande potenza spirituale che solo la religione e la fede in un Dio eterno poteva garantire (pensiamo ad esempio all'episodio di Gregorio VII ed Enrico IV e a quello successivo di Filippo IV il Bello e del diverso fine raggiunto dalle due scomuniche comminate dai due Papi).

 Proprio sul rapporto tra le vicende italiane e la presenza della Chiesa così scrive Machiavelli nel XII cap. del Libro I dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio:

 E perché molti sono d'opinione, che il bene essere delle città d'Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me, non hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come dove è religione si presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Sna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e farsene principe; e non è stata, dall'altra parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne cacciò i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri.

 Tutte le volte che la Chiesa si è mescolata alle passioni sociali e politiche degli uomini, fondando l'autorità sulla forza materiale, smarrisce il suo fine perché costretta ad adattare i suoi princìpi con le mutevoli circostanze politiche, per cui la religiosità diventa un fatto puramente esteriore e di parata. Tutto questo l'uomo del Rinascimento, che non si faceva più educare attraverso le favole gentili che raccontavano di Numa Pompilio re-sacerdote, lo ha capito molto bene distinguendo ciò che un principe fa realmente durante l'esercizio del suo potere da ciò che appare all'esterno, quando si mette in parata davanti al suo popolo.

La religione è esclusa dalla politica, il papato è visto prima di tutto nella sua veste di potere temporale, troppo forte per permettere a un principe di unificare la penisola in una sola nazione, come stava avvenendo in Francia e Sna, e al contempo troppo debole per riunificare sotto la sua sovranità tutto il territorio. Ed è visto anche come fonte di gran parte delle guerre in Italia dall'alto Medioevo al Rinascimento: una responsabilità pesante che deriva dalla cattiva condotta dei preti e dall'uso del potere temporale.

Machiavelli è comunque cosciente che il bisogno di religione e l'ascendente che questa ha sulle persone è un fatto politicamente rilevante in politica e che avrebbe potuto essere un bene per la civiltà e per l'intera collettività perché in suo nome si rispettavano i giuramenti, in suo nome avevano forza e bigore le norme morali e il rispetto per l'uomo spesso aveva il sopravvento, soprattutto perché possono passare i Prìncipi, ma i princìpi morali restano nelle coscienze e il culto  di un Dio al di sopra di tutto può diventare garanzia della stessa vita delle società umane.

Machiavelli coglie l'ipocrisia nel concetto di una religione come strumento di regno e di potere



l'uomo


L'uomo è fondamentalmente cattivo: è questo il fondo del pessimismo machiavelliano, la sintesi della sua esperienza non solo come Segretario inviato in tante missioni diplomatiche nelle quali ha conosciuto una grande varietà di atteggiamenti  e di comportamenti, ma anche come uomo abbandonato da tutti al momento della sua cacciata dall'ufficio di segreteria così onorevolmente tenuto per quindici anni. Questo, probabilmente, gli darà una forza nuova e cosciente, priva di ripicche meschine, che gli permetterà di considerare senza cadere in patetiche illusioni, l'uomo e la sua natura.

Questi i poco lusinghieri pensieri sull'uomo:

* per essere li uomini tristi

* se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro.

* li uomini non sono mai sí disonesti, che con tanto esemplo di ingratitudine ti opprimessino.

* perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni.

* li uomini mutano volentieri signore, credendo migliorare;

* incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza.

* li uomini offendono o per paura o per odio

* Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de'pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e' liuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano.

 Sono queste le frasi più importanti del Machiavelli sulla natura umana nel Principe. La concezione dell'uomo si pone al di fuori della religione e della morale, perché ancora una volta importante è ciò che si vive su questa terra, ciò che si conquista o si perde con le proprie azioni che devono essere improntate a una lucida energia, lontano dalla rassegnazione a patire, in cui la prudenza non è l'eccessiva cautela ma la previdenza.

 L'uomo di cuore, cioè l'uomo coraggioso e fiero devono possedere la riputazione e far di tutto per mantenerla, sapendo che essa non deriva da una concezione morale ma dal dispiegamento della forza che impedisce agli altri di nuocere.

 L'uomo è fondamentalmente cattivo (per essere li uomini tristi), afferma anche nei Discorsi (vedi l'esordio del cap. 3 del Libro 1), per cui deve comportarsi, e approntare anche le leggi, sapendo che tutti gli uomini sono cattivi e che useranno sempre la malignità del loro animo ogni volta che ne avranno occasione: è questa una realtà che il tempo, che si dice essere il padre di ogni verità, fa scoprire come profondamente vera. Perché gli uomini sono ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno (cap. 17).

 Machiavelli non dice che l'uomo per natura cerca di fare il male sempre e senza profitto (anche se questi mostri o bestie esistono e sono molti), ma che per natura l'uomo cerca di fare il male quando vi trova o crede di trovarvi un qualche profitto; quando l'occasione lo mette di fronte a un guadagno o a una rivincita che non presenta pericoli, allora la bontà si rivelerà per quello che effettivamente è: un aspetto esteriore. E chi nega questo lo fa solo per negare di essere anche della stessa pasta: Non si dice infatti, con un certo ammiccamento, che l'occasione fa l'uomo ladro? Approfondendo la natura dell'uomo non ne esce che una trama crudamente vile e malvagia, e la politica rivela con maggiore frequenza e vastità o profondità questa natura malvagia soprattutto perché la realtà vera è ammantata dai politici di parole che crediamo venerande e sentimenti che sembrano sacri a prima vista: la politica rivela gli uomini come sono fatti nella varietà reale dei loro vizi e dei loro desideri, gli stessi che in scala ridotta riveliamo nella nostra esistenza quotidiana.



i principati


Tutti gli Stati sono o Repubbliche o Principati.

Tutti i Principati s'acquistano o con virtù, o con fortuna, o con le armi proprie o con le armi altrui e sono o ereditari o nuovi.


Dopo aver considerato i Principati ereditari nel c. II, tratta il principato misto, cioè quei territori che vengono conquistati e aggiunti allo stato del conquistatore, come Napoli per la Sna o Milano per la Francia, (III-IV) in base alla loro costituzione etnica, linguistica e alla generale affinità; più semplice mantenere quegli stati che presentano analogie linguistiche, di costumi e di ordini; più difficile è mantenere un un principato misto quando i suddetti elementi sono differenti, anche perché è più difficile vedere a tempo i mali e quindi porvi rimedio prima che diventi troppo tardi. Tre sono i rimedi più sicuri:

* andarvi ad abitare

* mandarvi colonie

* mandarvi un esercito permanente,

ma quest'ultimo è vivamente sconsigliato, perché costa troppo (consuma quasi tutte le entrate) e molesta e offende molto la popolazione diventando fonte di odiosità continua. Le colonie, al contrario, offendono all'inizio (togliendo terre e potere a una piccola parte della popolazione,) ma sono subito autosufficienti e consumano solo una piccola parte delle entrate

Nel cap. IV vengono trattati due principati assoluti:

1) uno principe, e tutti li altri servi, e' quali come ministri per grazia e concessione sua, aiutono governare quello regno principe con più autorità; perché in tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; (es. Turchia) - difficile da conquistare, facile da mantenere; perché il principe domina su ogni elemento costitutivo dello Stato e ogni potente gli presta obbedienza illimitata e continuata, in quanto il suo potere deriva dalla concessione del principe stesso; ma scongendo il principe assoluto ed eliminandolo insieme alla sua stessa discendenza, diventa facile di poi mantenere il principato non essendoci nessun altro che lo possa reclamare

2) uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per antiquità di sangue tengano quel grado. Questi tali baroni hanno stati e sudditi proprii, li quali ricognoscono per signori et hanno in loro naturale affezione (es. Francia) - facile da conquistare (per la disunione tra i baroni) ma difficile da mantenere, in quanto il loro potere deriva dalla ereditarietà del loro feudo, per cui facilmente si può fare affidamento su qualche malcontento, che sempre e dovunque esiste, perché ambiziosamente spera di migliorare ancora di più la sua condizione; ma questa conquista comporta dopo numerose difficoltà difficili da gestire se non si possiede una grande virtù, perché è difficile contentare tutti in una volta quei nobili che hanno permesso la conquista stessa del potere

Il cap. V è dedicato al mantenimento de città e principati abituati a vivere secondo proprie leggi e in libertà. In questo terzo caso le difficoltà si incontrano sia durante la conquista del potere, che dopo, nel suo mantenimento, perché la città o lo stato con tutti i suoi abitanti sono gelosi delle proprie leggi e dei propri ordinamenti, sia perché il ricordo dei tempi della libertà soffocata e vinta e degli ordinamenti distrutti è sempre fonte di disordini e di ribellioni. Tre i modi per mantenerli:


ruinarlo (l'unico modo sicuro per possederle)

andarvi a vivere personalmente

lasciarlo vivere con le proprie leggi, creando un potere retto da un gruppo di persone del luogo che lo tengono amico e quindi assoggettato perché sanno che non possono fare a meno della sua amicizia.


Fino al modulo XI Machiavelli tratta del principato, distinguendo:

* principati nuovi che s'acquistano con armi proprie e con virtù

* principati nuovi che s'acquistano con armi e fortuna d'altri

* principati che s'acquistano con scelleratezza

* principati civili(quando uno diventa principe col favore popolare)

* Principati ecclesiastici, che sono difficili da conquistare ma facili da mantenere perché sostentati dagli ordini antichi della religione.



le milizie


Fino al modulo XI Machiavelli tratta del principato e delle sue qualità; nei moduli XII - XIV abbiamo invece la trattazione del problema delle milizie.

Due sono i fondamenti su cui deve poggiare ogni principato o Stato, e sono 'le buone leggi e le buone arme'; se esse non sono buone 'conviene che ruini': i due fondamenti si condizionano vicendevolmente, nel senso che dove le buone leggi possono essere mantenute in vigore solo dalla presenza di buone armi, e le le buone armi possono essere ordinate e organizzate solo dove esiste un ordine civile retto da buone leggi.

Delle buone leggi parla nei Discorsi, delle armi qui delinea i concetti più importanti e caratterizzanti.

Le milizie sono:

proprie:  formate da o da sudditi o da cittadini o da persone scelte e fedeli; con esse «per esperienzia si vede a'principi soli e repubbliche armate fare progressi grandissimi»; con esse lo stato o il Principe acquista molta reputazione: esempio classico il Duca Valentino, che «mai fu stimato assai, se non quando ciascuno vidde che lui era intero possessore delle sue arme»

mercenarie, che sono pericolose in quanto «disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra 'li amici; fra 'nimici, vile; non timore di Dio, non fede con li uomini, e tanto si differisce la ruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se' spogliato da loro, nella guerra da'nimici» perché sono attaccate solo allo stipendio che non è comunque sufficiente perché uno sacrifichi la propria vita per un altro;

ausiliarie, «che sono l'altre armi inutili, sono quando si chiama uno potente che con le arme sue ti venga ad aiutare e defendere Queste arme possono essere utile e buone per loro medesime, ma sono, per chi le chiama, quasi sempre dannose: perché, perdendo rimani disfatto, vincendo, resti loro prigione»; queste sono molto più pericolose delle armi mercenarie;

miste, quando uno stato è difeso da armi mercenarie e ausiliarie.


Un Principe acquista fiducia nei suoi sudditi e nelle armi che gli sono fedeli, e acquista reputazione presso gli altri stati che difficilmente lo attaccheranno perché sanno che è molto difficile scongere un esercito che combatte unito e fedele; deve essere inoltre sempre pronto alla guerra, e deve prepararsi ed esercitarsi

*  sia sul piano fisico (per «assuefare el corpo a' disagi »)

* che su quello mentale attraverso lo studio che permette di «imparare la natura de' siti, e conoscere come surgono e' monti, come imboccano le valle, come iacciono e' piani, et intendere la natura de' fiumi e de' paduli, et in questo porre grandissima cura» e soprattutto «quanto allo esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie, et in quelle considerare le azioni delli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre, esaminare le cagioni della vittoria e perdite loro, per potere queste fuggire, e quelle imitare; e sopra tutto fare come ha fatto per l'adrieto qualche uomo eccellente, che ha preso ad imitare se alcuno innanzi a lui è stato laudato e gloriato, e di quello ha tenuto sempre e' gesti et azioni appresso di sé»


Riepilogando, Machiavelli giudica negativamente l'uso degli eserciti mercenari, abituale nell'Italia del tempo, perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani. La forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa.



la lettera al Vettori


 È la famosa lettera in cui Machiavelli parla non solo del suo stato d'animo e delle sue attività di esiliato a San Casciano, dopo essere stato addirittura incarcerato e torturato perché sospettato di aver partecipato alla congiura antimedicea di Pier Paolo Boscolo; ma accenna anche alla composizione del Principe, al contenuto fondamentale (che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono) e alla consapevolezza che l'opera può essere di valido aiuto soprattutto a quei 'principi nuovi' che hanno un principato non ancora del tutto consolidato. Francesco Vettori (1474-l539) era molto amico di Machiavelli (si erano conosciuti nel 1508 in occasione di una ambasceria presso l'imperatore) e nel 1513 si trovava in Roma come ambasciatore (o di oratore, come allora si diceva) della repubblica fiorentina presso il Papa Leone X. Tra Machiavelli e Vettori ci fu un ricco scambio epistolare, soprattutto negli anni 1513-l4, nel quale i due amici si raccontavano non solo le loro avventure galanti, ma si scambiavano anche osservazioni sugli avvenimenti politici di Roma e di Firenze anche in relazione all'Italia e all'Europa.



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