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CICERONE



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CICERONE


Marco Tullio Cicerone nasce nel 106 a.C. ad Arpino da agiata famiglia equestre; compie studi di retorica e filosofia a Roma, frequenta il foro sotto la guida di Lucio Licino Crasso e dei due Scevola, l'Augure e il Pnontefice. Stringe amicizia con Tito Pomponio Attico, nell'80 debutta come avvocato, tra il 79 e il 77 studia filosofia e retorica in Grecia e Asia. Sposa Terenzia e ha due li, nel 75 è questore in Sicilia, nel 69 è edile; nel 66 è pretore. Nel 63 è console e reprime la congiura di Catilina. Dopo la formazione del primo triunvirato (Pompeo, Crasso, e Cesare) il suo astro comincia a declinare. Nel 58 va in esilio, nel 57 ritorna a Roma, nel 51 è governatore in Cilicia ma accetta di malavoglia di allontanarsi da Roma. Nel 49 allo scoppio della guerra civile aderisce alla causa di Pompeo, dopo la sua sconfitta ottiene il perdono di Cesare. Il domino di Cesare lo tiene lontano dalla vita politica, dopo la sua morte vi ritorna. Inizia la sua causa contro Antonio (filippiche), dopo il voltafaccia di Ottaviana che si stringe in triunvirato con Antonio e Lepido, Cicerone viene inserito nelle liste di proscrizione e il 7 dicembre 43 viene ucciso dai sicari di Antonio. Opere: orazioni Pro Quinctio (81); Pro Roscio Amerino (80); Pro Roscio comodo (77); Pro Tullio (72 o 71); Divinatio in Q. Caecilium e Verrinae (70); Pro Fonteio (69); Pro Caecina (69 o 68); Pro Cluentio (66); De imperio Cn. Pompei o Pro lege Manilia (66); De lege agraria (63); Pro Rabirio perduellionis reo (63); Pro Murena (63); Catilinariae (63); Pro Sulla (62); Pro Archia poeta (62); Pro Flacco (59); Cum senati gratis (57); Cum populo gratis egit (57); De domo sua (57); De haruspicum responso (56); Pro Sestio (56); in Vatinium (56); . .Philippicae(44-43). Opere retoriche: De invenzione (84) Deoratore (55); Partitiones oratoriae (54); De optimo genere oratorum (52); Brutus (46); Orator (46); Topica (44). Opere politiche: De re publica (54-51); De le gibus (52). Opere filosofiche: Paradoxa Stoicorum (46); Accademica (45); De natura deorum (45), Epistolario: Ad familiares; ad Atticum; ad Quintum fratrem; Ad Marcum Brutum. Opere poetiche; Opere in prosa perdute; traduzioni del Timeo di Platone, del Protagora di platone, dell'Economico di Senofonte.



L'attività retorica di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma nell'ultimo cinquantennio della repubblica. Nell'80 assunse la difesa di un processo di vasta risonanza politica (Pro Roscio Amerino), lo stile non è ancora quello del Cicerone maturo, si mostra legato agli schemi dell'asianesimo già pienamente ciceroniana è la capacità ritrattistica di dipingere personaggi e ambienti inquadri ricchi di colore spesso con una felice vena satirica. Spicca fra tutti il ritratto di Crisogono. Dopo il successo Cicerone si allontanò da Roma per un paio di anni, rientrato a Roma dopo la morte di Silla ricoprì la questura in Sicilia nel 75. nel 70 portò a termine con successo il processo contro l'ex governatore della Sicilia Verre, successivamente pubblicò in cinque libri l'Actio seconda in Verrem. Lo stile delle Verrine è pienamente maturo, il periodare è armonioso, architettonicamente complesso, ma la sintassi è duttile, è qui che Cicerone si mostra maestro del ritratto. Entrato in senato dopo la questura, cicerone nel 66 appoggiò Pomponio per la concessione di poteri straordinari su tutto l'oriente per combattere Mitridate re del Ponto, Cicerone lo fece perché apparteneva al ceto equestre il quale aveva forti interessi ad Oriente. Nel 63 Cicerone diventa console a soffoca la congiura di Ctilina. Le più celebri orazioni consolari di Cicerone sono le quattro Catilinarie, con le quali svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella competizione elettorale. I toni sono veementi, minacciosi e ricchi di pathos. Cicerone si trovò a difendere Lucio Licino Murena da una accusa di corruzione, questa orazione è una fra le più divertenti dove ha saputo trovare quei toni di una satira lieve e arguta, che non scade mai nella derisione o nella beffa volgare. Nel '58 Cicerone andò in esilio per colpa di una legge fatta dal tribuno popolare Clodio che mandava in esilio chi avesse mandato a morte cittadini senza processo. Nel '57 tornò dall'esilio. Nel '56 si trovò a difendere Sestio un tribuno accusato da Clodio di violenza (Pro Sestio). Il periodo di collaborazione con i triunviri è tuttavia un periodo di grosse incertezze e oscillazioni politiche. Fra le orazioni anticlodiane un ruolo particolare occupa la difesa di Marco Celio Rufo, Celio era stato amante di Clodia sorella del tribuno (Lesbia di Catullo), attaccando Clodia, Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del fratello, non solo la felice vena satirica avvicina la Pro Caelio alla Pro Murena ma anche il maturare della proposta di nuovi modelli etici. Pro Milone, gli scontri fra le bande di Clodio e Milone si protrassero a lungo fino a che Clodio non rimase ucciso. Cicerone assunse la difesa di Milone, l'orazione è considerata uno dei suoi capolavori, per l'equilibrio delle parti e l'abilità delle argomentazioni basate sulla tesi legittima della difesa e sulla esaltazione del tirannicido. Di fronte ai giudici Cicerone fece un fiasco e Milone andò in esilio. Nel 49, allo scoppio della guerra civile Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo, dopo la vittoria di Cesare, Cicerone venne perdonato, le orazioni dei pompeniani pentiti sono così dette sesariane (Pro Marcello, Pro Ligario, Pro rege Deiotaro) si collocano tra il 46 e il 45. Queste orazioni abbandonano di elogi a Cesare la cui sincerità è piuttosto difficile ammettere. Dopo l'uccisione di Cesare, Cicerone tornò ad essere uomo politico di primo piano. Cicerone cerò di staccare Ottaviano da Antonio, poi indusse il senato a dichiarare guerra ad Antonio e pronunciò contro di lui nel 44 le orazioni filippiche forse 18 (ne restano 14), sono particolari per la veemenza dell'attacco e i toni di indignata denuncia. Con un voltafaccia Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato e formò un triunvirato con Antonio e Lepido, Cicerone venne iscritto nelle liste di proscrizione, e venne raggiunto dai sicari di Antono a Formia nel 43. Cicerone voleva un riavvicinamento fra senato e equites, voleva che si mantenesse il potere nel solco delle tradizioni repubblicane.

Il De oratore venne composto nel 55 durante un periodo di ritiro dalla scena politica mentre Roma era sconvolta dalle bande di Clodio e Milone in forma di dialogo è ambientato nel 91 al tempo dell'adolescenza di Cicerone. ½ prendono parte i più insigni oratori del tempo: Marco Antonio e Lucio Licinio Crasso, nel libro si dibatte se sia necessaria oltre alla eloquentia la sapientia oppure no. L'anno 91 è lo stesso della morte di Crasso e precede di poco lo strocntro tra Mario e Silla., Cicerone cerca di ricreare l'atmosfera degli ultimi giorni di pace dell'antica repubblica, il modello a cui si ispira è quello del dialogo platonico, la ripresa del modello platonioc per un'opera di retorica costituiva un notevole scarto rispetto agli aridi manuali greci del tempo. Il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi bastevoli per la formazione dell'oratore: si richiede invece una vasta formazione culturale. Nel 54 riprende i temi del De oratore nel più esile Orator in cui sostiene che l'oratore de probare (prospettare la tesi con argomenti validi) delectare (produrre con le parole una piacevole impressione estetica) flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Dopo le accuse mosse a Cicerone di non aver preso le distanze dall'asianesimo, lui scrive il Brutus, assumendosi il ruolo di principale interlocutore (gli altri sono Bruto e Attico), disegna una storia dell'eloquenza greca e romana, il carattere è autoapologetico quindi culmina in una rievocazione delle tappe della carriera di Cicerone, dal ripudio dell'asianesimo giovanile, al raggiungimento della piena maturità dopo la questura siciliana. La sua ottica è una rottura tra la contrapposizione dei due scehmi quello asiano e qullo atticista. Secondo Cicerone le varie esigenze, le diverse situazioni richiedono il ricorso all'alternanza di stili diversi. La grande oratoria senza schemi ha il suo modello in Demostene. Il modello del dialogo platoniano ritorna nel De re publica (54-51) non cercò tuttavia di costruire a tavolino uno stato ideale, come nella Repubblica di Platone, ma si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129 nella villa suburbana di Scipione Emilioano, una parte cospicua del dialogo venne ritrovata agli inizi del secolo scorso dal futuro cardinale Angelo Mai in un palinsesto vaticano, alcuni spezzoni ci sono trasmessi attraverso citazioni come Agostino, mentre indipendente dal testo ci è giunta la sezione finale dell'opera. La teoria del regime misto risaliva attraverso Polibio, al peripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele. L'elogio del regime misto si risolve, pertanto in un'esaltazione della repubblica aristocratica dell'età scipionica. Cicerone rafura il ruolo del priceps sul modello di Scipione Emiliano, l'autorità del princeps non è alternativa a quella del senato, ma è il sostegno necessario per salvare la res publica. Ispirandosi al modello di Platone che alla Repubblica Cicerone scrive il De legibus (le leggi). Nel 45 con la dittatura di Cesare e l'esclusione dalla vita poilitica i lavori filosofici di Cicerone si infittiscono. Il De finibus bonorum et malorum, dedicato a Bruto è considerato da alcuni il capolavoro di Cicerone filosofo. Tratta questioni etiche e cioè il problema del sommo bene e del sommo male affrontato in V libri. Ancora di questioni etiche tratta un'altra tra le maggiori opere filosofiche di Cicerone le Tusculanae disputationes, didcate a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo. L'opera è un dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore, nei singoli libri sono trattati i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell'animo e delle virtù come garanzia della felicità. Si raggiunge in talune ine un'intesità lirica che trova pochi riscontri nella prosa latina. Le sue opere filosofiche sono prese da fonti greche, ma originale è in Cicerone la scelta dei temi, perché nuovi ed originali sono i problemi che la società pone, e nuovi gli interrogativi che egli pone ad essa: si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana. Cicerone aderì nei suoi anni più maturi al probabilismo degli Accademici cioè senza negare l'esistenza di una verità oltre i fenomeni, si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile, utile ad orientare l'azione e ad essa funzionalizzata. L'eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo nel quale sia bandito ogni sforzo polemico. L'eclettismo ciceroniano mostra una chiusura verso l'epicureismo, alla cui esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De finibus bonorum et malorum. Secondo lui la filosofia epicurea conduce al disinteresse per la politica, inoltre l'epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità e indebolisce così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone rimane le basi fondamentali dell'etica. Il confronto fra i diversi sistemi filosofici si esplica nel De finibus bonorum et malorum Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva le basi morali più solide all'impegno dei cittadini verso la collettività ma l'epoca delle grandi conquiste era andata incontri a radicali trasformazioni, l'ecclettismo ciceroniano significa paertura e simpatia verso le filosofie moderatamente aperte al piacere, come quella peripatetica; e il probabilismo accademico forniva la base teoretica al suo tentativo di conciliare tendenze diverse. Le stesura del De officiis venne iniziata nel 44, è un trattato dedicato al lio Marco. Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all'aristocrazia romana di riacquisistare il controllo sulla società. Le basi filosofiche provengono dallo stoicismo moderato di Panezio. Si rivolge in primo luogo ai giovani confermando la funzione pedagogica, il compito che Cicerone si propone fu quello di mostrare come, in tempi profondamente muti, l'assolvimento di quei doveri non fosse possibile senza aver assorbito e meditato la riflessione filosofica dei greci. I tre libri in cui il De officiis è diviso trattano rispettivamente dell'honestum, dell'utile e del conflitto fra di essi. Per i primi due libri la fonte è il trattato sul conveniente di Panezio di Rodi, per il terzo risulta da una compilazione relativamente eclettica da fonti diverse. Per Panezio la virtù fondamentale era la socialità in cui alla virtù cardinale della giustizia si aggiungeva la beneficenza cioè collaborare positivamente al bene della comunità. Però Cicerone sottolinea che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali. Le tradizionali virtù cardinali stoiche sono: giustizia, sapienza, fortezza, temperanza. Alla virtù della fortezza Panezio aveva sostituito la magnanimità (grandezza d'animo) una virtù signorile che scaturisce da un naturale istinto a primeggiare sugli altri, sembrerebbe un paradosso, infatti nel De Officiis c'è un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni, ma nella rielaborazione di Cicerone, è compito della ragione di controllare gli istinti, di trasformarli in virtù, svuotandoli di quanto in essi c'è di egoistico, una volta trasformato in virtù, l'istinto può mettersi al servizio della collettività e dello stato, contribuendo a rendere la patria più grande e gloriosa. La temperanza, essa si manifesta in un'apparenza di appropriata armonia di pensieri, dei gesti, delle parole, che assume il nome di decorum. Ciò significa un ideale quasi di uniformità possibile solo per chi abbia saputo sottomettere i propri istinti al saldo controllo della ragione. Cicerone si addentra in una minuta precettistica relativa ai comportamenti da tenere nella vita quotidiana e nell'abituale commercio con gli altri. Con questi precetti Cicerone dava inizio a una tradizione di galateo. Il concetto di decorum permette di fondare anche la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e di scelte di vita, di qui la legittimazione di scelte di vita anche diverse da quella tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprende non dimentichi i suoi doveri verso la collettività. Come Lucrezio l'opzione di Cicerone era fondamentalmente puristica: evitare il grecismo, risultato di questa sperimentazione fu l'introduzione nel latino di molte parole nuove. Cicerone creò un nuovo tipo di periodo complesso e armonioso, fondato su perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello fin dalle orazioni egli trovò in Isocrate e in Demostene. Le opere poetiche di Cicerone non ebbero molto successo, il Cicerone poeta si può distinguere in due periodi: quello della primissima produzione, di gusto e modi sostanzialmente alessandrini perché dedicato a componimenti brevi e a contenuto erudito o didascalico, e il periodo dei poemi epico-storici di tipo enfiano fra queste due fasi è probabile si debba collocare la traduzione degli eruditissimi Fenomeni di Arato. Egli contribuì a regolarizzare l'esametro latino, favorì la tecnica dell'enjambement e dell'incastro verbale. L'epistolario è composto di 16 libri Ad familiares (parenti e amici dal 62 al 43 a.C.) 16 libri Ad Atticum (dal 68 al 44) 3 libri Ad Quintum fratrem (dal 60 al 54) 2 libri ad Marcum Brutum (di autenticità controversa tutte del 43) le lettere abbondano di grecismi e di colloquialismi; la sintassi denuncia molte paratassi e parentesi, il lessico è costellato di parole pittoresche, come diminutivi e ibridi greco-latini.


Verrinae

'Se qualcuno di voi, o giudici, o del pubblico qui presente, per caso si meraviglia che io, mentre da tanti anni mi sono occupato di questioni civili e penali difendendo molti e non attaccando nessuno, ora, all'improvviso, cambiato sistema, mi metta ad accusare, se considererà le profonde ragioni della mia decisione, approverà il mio agire e penserà che, senza dubbio, in questo processo, nessuno dev'essere a me anteposto in qualità di pubblico accusatore. Io fui in Sicilia come questore e ripartii da quella provincia lasciando in tutti i Siciliani un caro, indelebile ricordo della mia questura e del mio nome. Essi pensavano che il più valido appoggio per i loro interessi lo avevano, si, in molti protettori di vecchia data, ma, un po', anche nella mia persona. Ora essi, spogliati e rovinati, più di una volta sono venuti ufficialmente da me a pregarmi di voler accettare il patrocinio dei loro interessi. Mi ricordavano che più di una volta io avevo promesso, più di una volta io avevo assicurato che, se, all'occorrenza, avessero voluto qualcosa da me, non sarei venuto meno ai loro interessi. Dicevano ch'era venuto il momento di difendere non i loro interessi, ma la vita e la salvezza di tutta la provincia; ormai essi, nelle loro città, neppure gli dèi avevano cui ricorrere, dato che le loro sante immagini Gaio Verre le aveva portate via dai santuari più venerati. Ciò che aveva potuto compiere la sua sfrenatezza nella cattiva condotta, la crudeltà nell'eseguire condanne, l'avidità nelle ruberie, la tracotanza nell'offendere, tutto essi, sotto la sua sola pretura, l'avevano subito per tre anni. Vivamente dunque mi pregavano di non respingere le preghiere di quelli che, finché c'ero io, non dovevano a nessuno rivolgere le loro preghiere.



Vivamente mi dispiaceva, o giudici, di essere condotto in quella situazione: o dovevano restare delusi quegli uomini, che si erano rivolti a me per aiuto, oppure, mentre io fin da giovane m'ero dato a difendere, dovevo, per le circostanze e per dovere d'ufficio, mettermi ad accusare. Dicevo che essi avevano già un attore, Quinto Cecilio, tanto più che egli era stato questore in quella stessa provincia, dopo la mia questura. Ma quelle ragioni che pensavo potessero tornare a mio favore per liberarmi da quell'impiccio, presentavano invece contro di me la maggiore difficoltà. Assai più facilmente mi avrebbero risparmiato questa noia se non conoscessero costui, o se costui non fosse stato questore presso di loro. Un senso, dunque, o giudici, di dovere professionale, di lealtà, di compassione, l'esempio di molte persone ragguardevoli, l'antica abituale norma dei nostri antenati mi hanno spinto ad accettare questo gravoso impegno, non nell'interesse mio, ma dei miei clienti.

Nondimeno, o giudici, in questa faccenda un pensiero mi consola: questa mia, che sembra un'accusa, deve essere considerata, non un'accusa, ma una difesa. Molte persone io difendo, molte città, tutta quanta la provincia della Sicilia. Quindi, poiché la mia accusa è rivolta Contro un solo, in un certo senso, mi pare, io rimango nella mia vecchia linea di condotta e non cesso affatto dal difendere ed aiutare. Dirò di più. Se questa causa io non la ritenessi così giusta, così nobile, così importante, se i Siciliani non me ne avessero pregato, se tra me e i Siciliani non ci fossero tanti vincoli, se io dicessi che è nell'interesse dello Stato che io faccio ciò che faccio (chiamare in giudizio, dietro mia denunzia, un uomo straordinariamente avido sfrontato scellerato, un uomo, i cui furti ed infamie, commessi non solo in Sicilia, ma in Acaia, in Asia, in Cilicia, in Panfilia, e, infine, qui a Roma, davanti agli occhi di tutti, noi perfettamente conosciamo nella loro enorme gravità e vergogna), chi potrebbe avere il coraggio di criticare il mio gesto e di criticare la mia decisione? In che cosa, lo giuro davanti agli dèi e agli uomini, io potrei esser più utile allo Stato in questi momenti? Che cosa dovrebbe esser più gradito al popolo romano, più desiderabile ai soci e ai forestieri, più opportuno agli interessi di tutti? Le province saccheggiate, rovinate, distrutte completamente, i soci e i tributari del popolo romano, abbattuti ed avviliti, chiedono, non una speranza di salvezza, ma un conforto alla loro rovina. Quelli che vogliono che l'amministrazione della giustizia rimanga ai senatori, si lamentano che non ci siano buoni accusatori; quelli che potrebbero esser buoni accusatori vedono che non c'è più onestà nei tribunali. Frattanto il popolo romano, pur preoccupato da molte contrarietà politiche e difficoltà economiche, non chiede altro se non che nello Stato la giustizia torni all'energia e serietà di una volta. E un desiderio di giustizia che fa reclamare il ripristino della potestà tribunizia; data la leggerezza dei tribunali si vuole anche un altro ordine per l'amministrazione della giustizia; date le colpe e le vergogne dei giudici, anche il nome di censore, che prima, di solito, suonava odioso al popolo, ora è caro ed è diventato ormai popolare e oggetto di plauso. Marciume di farabutti, continue lagnanze del popolo romano, ignominia dei tribunali, discredito di tutto un ordine! Di fronte a tanta vergogna un solo rimedio penso ci possa essere, che i capaci e gli onesti scendano alla tutela dello Stato e delle leggi. E per il bene di tutti, lo confesso, che mi sono accinto a sorreggere quella parte dello Stato, che traballa di più.

Questo, dunque, o giudici, voi dovete ben fissare: Quinto Cecilio, visto che nessuno mai ha sentito parlare di lui e nessuno si aspetta un gran che in questo processo, visto ch'egli non ha nessun interesse a conservare alta una qualsiasi fama precedentemente racimolata né ad allargare una base per il suo avvenire, questa causa non la porterà avanti né con troppa severità, né con troppo studio, né con troppo impegno. Nulla ha da perdere, se la cosa va male. Anche nel caso ch'egli vi esca con la vergogna più grande, col disonore più infame, nulla avrà da rimpiangere di una sua gloria passata. Da me, invece, molti pegni ha il popolo romano e io dovrò cercare in tutti i modi di tenerli in vita, difenderli, rassicurarli e riprendermeli. C'è di mezzo la carica, a cui mi presento; c'è la speranza che io ho concepito di me; c'è un nome, che io mi sono fatto con tanto sudore, con tanto lavoro, con le mie veglie. Se, quindi, in questa causa, io metterò in evidenza la mia capacità professionale e il mio impegno, ciò che ho detto sopra, per mezzo del popolo romano, lo potrò riavere sano e salvo; al minimo inciampo, invece, al minimo tentennamento, crollerà in un istante tutto ciò che, a poco a poco e in tanto tempo, ho cercato edificare. Per conseguenza sta a voi, o giudici, indicare chi ritenete capace di sostenere con la maggiore facilità il peso di questa causa e di questo processo con lealtà, con attenzione, con occhio vigile, con senso di responsabilità. Se voi a me anteporrete un Quinto Cecilio, io non penserò di esser menomato nella mia dignità. Il popolo romano, però, non senta che una requisitoria cosi onesta, così chiara ed esauriente non è piaciuta né a voi né all'ordine senatoriale.


'A questo punto ormai chiedo il vostro consiglio, o giudici: che cosa pensate debba fare? Io capisco che debbo necessariamente accettare quel consiglio che voi mi darete col vostro silenzio. Se potrò disporre per la mia arringa del tempo concessomi dalla legge, coglierò il frutto della mia fatica, del mio zelo, della mia scrupolosità e proverò con questa accusa che nessuno mai, a memoria d'uomo, si è presentato in giudizio più preparato, più attento, più agguerrito di me. Ma mentre faccio il panegirico del mio zelo, c'è grave rischio che l'imputato ci sfugga. Che si può fare, dunque? Una cosa, secondo me, semplice e chiara. Codesta gloria, che sarebbe potuta venirmi da un discorso completo, riserviamola ad altra occasione; ora procediamo alla incriminazione di quest'uomo con i registri dei conti, con i testimoni, con i documenti pubblici e privati e con autorevoli prove. Ora tocca a noi due, Ortensio. Ti parlerò con franchezza. Se fossi convinto che in questa causa vieni a competere con me sulla base della discussione e della confutazione delle accuse, mi darei anch'io a formulare e a svolgere accuse; ma, poiché hai preso a combattermi, non tanto secondo le tue naturali inclinazioni, quanto secondo le necessità e gli interessi di costui, mi è giocoforza controbattere una simile tattica con qualche espediente. La tua mira è di cominciare a confutare le mie accuse dopo i primi e i secondi ludi; la mia, di aggiornare la causa non oltre i primi. Così accadrà che la tua condotta verrà considerata frutto di astuzia, il mio espediente, invece, dettato da necessità.

Avevo cominciato a dire che toccava a noi due ed ecco in che senso. Quando, a richiesta dei Siciliani, accettai questa causa, ritenni alto titolo di onore che essi volessero mettere alla prova la mia lealtà e diligenza, dopo aver fatto esperienza della mia onestà e del mio disinteresse. Ma, una volta assunto l'impegno, ho mirato a qualcosa di più alto, che potesse mostrare chiaramente al popolo romano il mio attaccamento alla repubblica. Non mi sarebbe parsa degna del mio interessamento e dei miei sforzi la denuncia di un uomo già da tutti condannato, se la tua intollerabile prepotenza e la faziosità, di cui hai dato prova in questi anni in taluni processi, non si fossero intromesse anche nella causa di questo disperato. Or dunque, giacché ti piace tanto spadroneggiare nei processi e c'è tanta gente che non sente né la vergogna né il disgusto della sua sfrenata ambizione e scelleratezza, anzi pare che voglia trarsi addosso l'antipatia e l'odio dei Romani, confesso d'aver perciò assunto un tale incarico, che forse è troppo grave per me e non privo di rischi, ma degno d'impegnare tutto il vigore della mia età e del mio zelo. E poiché, per la disonestà e la spudoratezza di pochi, l'intera classe è oppressa e schiacciata dal discredito per l'amministrazione giudiziaria, io mi dichiaro nemico personale, accusatore e avversario accanito, implacabile, spietato di questa genìa di uomini. Questo è l'impegno che mi assumo e mi arrogo: lo assolverò nel corso della mia magistratura e proprio da quel seggio, da cui i Romani hanno voluto che dal primo giorno di gennaio io mi occupassi con loro della cosa pubblica e della gente disonesta. Questo è lo spettacolo più grandioso e più bello che io prometto di offrire al popolo romano durante la mia edilità. Avverto, premetto e dichiaro sin da ora: quanti hanno l'abitudine di depositare denaro, riceverne, garantire o promettere, oppure far da mediatori o agenti per corrompere la giustizia, e quanti hanno ostentato in questa faccenda la propria influenza o spudoratezza, tengano lontani da questo processo le mani e l'animo da tale empio misfatto. In quell'epoca Ortensio sarà console, con tutti i poteri civili e militari connessi al suo grado, e io edile, cioè poco più di un privato cittadino; ma la causa che m'impegno a trattare è di tal natura e così accetta e gradita al popolo romano che al mio confronto egli, benché console, sembrerà in questo processo, se pure e possibile, anche meno di un privato cittadino'.


'Nessuno di voi, credo, o giudici, ignora che in questi giorni si è diffusa tra il popolo romano la voce e l'opinione che Verre non avrebbe risposto all'appello nella seconda azione giudiziaria e non si sarebbe nemmeno presentato in tribunale. Questa voce era nata non solo per il fatto che egli era fermamente deciso a non presentarsi, ma anche perché nessuno credeva che qualcuno potesse essere tanto audace, tanto folle, tanto impudente da avere il coraggio di guardare in viso i giudici o di mostrare il proprio volto al popolo romano, dopo essere stato convinto sotto il peso di tante testimonianze, di colpe così nefande. Ma Verre rimane quello che è sempre stato, pronto ad osare, preparato ad ascoltare. E presente, risponde, si difende; sebbene sia chiaramente colpevole delle azioni più turpi, non si riserva neppure la possibilità, tacendo e non presentandosi, di sembrare di cercare una fine decorosa alla sua vita indegna. Accetto, o giudici, e non mi dispiace di raccogliere il frutto, io della mia fatica, voi della vostra virtù. Infatti, se egli avesse attuato il suo primo proposito di non presentarsi, si conoscerebbe molto meno di quanto mi è necessario quale fatica io abbia sostenuto per predisporre e organizzare questo atto di accusa; il vostro merito poi, o giudici, sarebbe assai scarso ed oscuro. Non questo attende da voi il popolo romano e non può essere contento se viene condannato chi non si è voluto presentare al dibattito e se siete stati energici con colui che nessuno ha osato difendere. Ma anzi si presenti, risponda; sia difeso con ogni mezzo e sommo zelo dagli uomini più potenti; la mia diligenza gareggi con la loro cupidigia, la vostra rettitudine con il suo denaro, il fermo contegno dei testimoni con la potenza minacciosa dei suoi avvocati. Quando queste forze ostili scenderanno in campo per combatterci, proprio allora appariranno tutte sconfitte. Se costui fosse stato condannato in contumacia, sembrerebbe non tanto avere provveduto alla propria salvezza, quanto avere invidiato la vostra gloria. In questi tempi infatti non si può trovare alcun mezzo efficace di salvezza per lo Stato se il popolo romano non comprende che, quando l'accusatore rifiuta i giudici con cura, gli alleati, le leggi, lo Stato possono essere molto ben difesi da una giuria di senatori; e d'altra parte una grande rovina può minacciare i beni di tutti se il popolo romano ritiene che possa essere tolto all'ordine senatorio il diritto di dare un giudizio sulla verità, sulla rettitudine, sulla lealtà, sulla scrupolosità. Cosi credo di aver puntellato un settore importante della vita dello Stato Che era gravemente ammalato e quasi perduto senza rimedio e di non aver servito in ciò più la mia che la vostra gloria e la vostra fama. Infatti mi sono assunto il compito di far diminuire l'ostilità e di togliere dimezzo le critiche rivolte ai tribunali, affinché, quando in questa causa fosse stata data la sentenza secondo la volontà del popolo romano, l'autorità delle giurie apparisse rafforzata in qualche modo per la mia diligenza, affinché insomma si concludesse una buona volta la controversia sulle giurie, qualunque fosse stata la sentenza emessa. Senza dubbio, infatti, o giudici, in questa causa tale polemica giunge al punto risolutivo. L'accusato è un grande malfattore; se sarà condannato, si finirà di affermare che in questi processi grande è la potenza del denaro; se sarà assolto, noi finiremo di opporci al trasferimento dei poteri giudiziari. A dire il vero, né egli stesso più spera né il popolo romano più teme la sua assoluzione. Vi sono però alcuni che si meravigliano per la sua straordinaria impudenza nel presentarsi e nel rispondere. Ma neppure questo mi sembra che debba essere motivò di meraviglia, se si tiene conto di tutte le altre manifestazioni della sua folle audacia. Molti atti di empietà e di scelleratezza infatti egli ha compiuto contro gli dèi e contro gli uomini, perciò è tormentato dai rimorsi e ridotto fuor di senno e di ragione.


"De Officis"

Marco, liuol mio, Publio Scipione, quello che per primo ebbe il soprannome di Africano, era solito dire (come racconta Catone, che gli fu quasi coetaneo), che egli non era mai meno ozioso che quando era ozioso, e non mai meno solo che quando era tutto solo. Parole veramente magnifiche, e degne di un uomo grande e sapiente; parole che dimostrano che egli, lontano dai pubblici affari, pensava ai pubblici affari, e nella solitudine usava parlar con se stesso, sì che non era mai disoccupato, e spesso non sentiva il bisogno di conversar con altri. Così l'ozio e la solitudine, le due cose che agli altri portano fiacchezza, ritempravano il suo spirito. Oh, io vorrei poter dire con verità altrettanto di me; ma se, anche imitandolo, non posso raggiungere tanta altezza d'ingegno, tuttavia, almeno col desiderio, io mi accosto più da vicino a lui. In verità, escluso dalla vita pubblica e dall'attività forense per colpa di un'armata e scellerata violenza, io sono costretto a vivere in un ozio continuo e umiliante, e perciò, abbandonata Roma, trascorrendo di villa in villa, io mi trovo spesso tutto solo. Ma questo mio ozio e questa mia solitudine non sono da paragonarsi con l'ozio e con la solitudine dell'Africano. Egli, infatti, solo per riposarsi dai più alti uffici dello Stato, si concedeva talvolta un po' di svago, e dalla numerosa e faticosa comnia degli uomini si rifugiava talora nella solitudine come in un porto; il mio ozio, invece, è imposto, non già dal desiderio di quiete, ma dal non aver più nulla da fare. Spento il senato e distrutta la giustizia, che cosa c'è che lo possa fare degna di me nella curia o nel foro?




Somnium Scipionis


I 9 (Scipione): Quando giunsi in Africa in qualità di tribuno militare, come sapete, presentandomi agli ordini del console Manio Manilio alla quarta legione, non chiedevo altro che di incontrare Massinissa, un re molto amico della nostra famiglia, per fondati motivi. Non appena mi trovai al suo cospetto, il vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime; poi, dopo qualche attimo, levò gli occhi al cielo e disse: «Sono grato a te, Sole eccelso, come pure a voi, altri dèi celesti, perché, prima di migrare da questa vita, vedo nel mio regno e sotto il mio tetto Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere; a tal punto non è mai svanito dal mio cuore il ricordo di quell'uomo eccezionale e davvero invitto». Quindi io gli chiesi notizie del suo regno, egli mi domandò della nostra repubblica: così, tra le tante parole spese da parte mia e sua, trascorse quella nostra giornata.

10 Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale, prolungammo la nostra conversazione fino a tarda notte, mentre il vecchio non parlava di altro che dell'Africano e ricordava non solo tutte le sue imprese, ma anche i suoi detti. In séguito, quando ci congedammo per andare a dormire, un sonno più profondo del solito s'impadronì di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a notte fonda. Quand'ecco che (credo, a dire il vero, che dipendesse dall'argomento della nostra discussione: accade infatti generalmente che i nostri pensieri e le conversazioni producano durante il sonno un qualcosa di simile a ciò che Ennio dice a proposito di Omero, al quale, è evidente, di solito pensava da sveglio e del quale discuteva) m'apparve l'Africano, nell'aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue fattezze reali; non appena lo riconobbi, un brivido davvero mi percorse; ma quello disse: «Sta' sereno, deponi il tuo timore, Scipione, e tramanda alla memoria le parole che ti dirò».

II 11 «Vedi, laggiù, la città che, costretta per mio tramite a ubbidire al popolo romano, rinnova le guerre d'un tempo e non riesce a rimanere in pace?». (Mi indicava Cartagine dall'alto di un luogo elevatissimo e pieno di stelle, luminoso e nitido.) «Tu adesso vieni ad assediarla quasi come soldato semplice, ma entro i prossimi due anni la abbatterai come console e ne otterrai, per tuo personale merito, quel soprannome che fino a oggi hai ereditato da noi. Quando poi avrai distrutto Cartagine, celebrato il trionfo, rivestito la carica di censore e percorso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l'Asia, la Grecia, verrai scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porterai a termine una guerra importantissima: raderai al suolo Numanzia. Ma, dopo che su un carro trionfale sarai giunto al Campidoglio, troverai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote».

12 «Allora occorrerà che tu, Africano, mostri alla patria la luce del tuo coraggio, della tua indole, del tuo senno. Ma per quel frangente vedo un bivio, per così dire, sulla strada del tuo destino. Quando la tua età avrà infatti compiuto per otto volte sette giri di andata e ritorno del sole e questi due numeri - ciascuno dei quali, per ragioni diverse, è considerato perfetto - avranno segnato, nel volgere naturale del tempo, la somma d'anni per te fatale, tutta la città a te solo e al tuo nome si rivolgerà, su di te il senato, su di te tutti gli uomini perbene, su di te gli alleati, su di te i Latini poseranno lo sguardo, tu sarai il solo nel quale possa trovare sostegno la salvezza della città; insomma, tu dovrai, nelle vesti di dittatore, rendere stabile lo Stato, a patto che tu riesca a sottrarti alle empie mani dei tuoi parenti».

A questo punto, poiché Lelio aveva levato un grido e tutti gli altri avevano cominciato a gemere più vivamente, Scipione, sorridendo: «St! Vi prego», disse, «non risvegliatemi dal mio sonno e ascoltate ancora per un momento il resto».

III 13 «Ma perché tu, Africano, sia più sollecito nel difendere lo Stato, tieni ben presente quanto segue: per tutti gli uomini che abbiano conservato gli ordinamenti della patria, si siano adoperati per essa, l'abbiano resa potente, è assicurato in cielo un luogo ben definito, dove da beati fruiscono di una vita sempiterna. A quel sommo dio che regge tutto l'universo, nulla di ciò che accade in terra è infatti più caro delle unioni e aggregazioni di uomini, associate sulla base del diritto, che vanno sotto il nome di città: coloro che le reggono e ne custodiscono gli ordinamenti partono da questa zona del cielo e poi vi ritornano».

14 A questo punto io, anche se ero rimasto atterrito non tanto dal timore della morte, quanto dall'idea del tradimento dei miei, gli chiesi tuttavia se fosse ancora in vita egli stesso e mio padre Paolo e gli altri che noi riteniamo estinti. «Al contrario», disse, «sono costoro i vivi, costoro che sono volati via dalle catene del corpo come da una prigione, mentre la vostra, che ha nome vita, è in realtà una morte. Non scorgi tuo padre Paolo, che ti viene incontro?». Non appena lo vidi, versai davvero un fiume di lacrime, mentre egli, abbracciandomi e baciandomi, cercava di frenare il mio pianto.

15 E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime e potei riprendere a parlare: «Ti prego», dissi, «padre mio santissimo e ottimo: se questa è la vera vita, a quanto sento dire dall'Africano, come mai indugio sulla terra? Perché non mi affretto a raggiungervi qui?». «No», rispose. «Se non ti avrà liberato dal carcere del corpo quel dio cui appartiene tutto lo spazio celeste che vedi, non può accadere che per te sia praticabile l'accesso a questo luogo. Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l'anima dai fuochi sempiterni cui voi date nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente. Anche tu, dunque, Publio, come tutti gli uomini pii, devi tenere l'anima sotto la sorveglianza del corpo, né sei tenuto a migrare dalla vita degli uomini senza il consenso del dio da cui l'avete ricevuta, perché non sembri che intendiate esimervi dal compito umano assegnato dalla divinità.

16 Ma allo stesso modo, Scipione, sull'esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» - si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.

IV 17 Poiché guardavo la terra con più attenzione, l'Africano mi disse: «Posso sapere fino a quando la tua mente rimarrà fissa a terra? Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto? Eccoti sotto gli occhi tutto l'universo cominato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse è celeste, la più esterna, che abbraccia tutte le altre: è il dio sommo che racchiude e contiene in sé le restanti. In essa sono confitte le sempiterne orbite circolari delle stelle, cui sottostanno sette sfere che ruotano in direzione opposta, con moto contrario all'orbita del cielo. Di tali sfere una è occupata dal pianeta chiamato, sulla terra, Saturno. Quindi si trova quel fulgido astro - propizio e apportatore di salute per il genere umano - che è detto Giove. Poi, in quei bagliori rossastri che tanto fanno tremare la terra, c'è il pianeta che chiamate Marte. Sotto, quindi, il Sole occupa la regione all'incirca centrale: è guida, sovrano e regolatore degli altri astri, mente e misura dell'universo, di tale grandezza, che illumina e avvolge con la sua luce tutti gli altri corpi celesti. Lo seguono, come comni di viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, mentre nell'orbita più bassa ruota la Luna, infiammata dai raggi del Sole. Al di sotto, poi, non c'è ormai più nulla, se non mortale e caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale e nona, ossia la Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona più bassa e verso di essa sono attratti tutti i pesi, per una forza che è loro propria».

V 18 Dopo aver osservato questo spettacolo, non appena mi riebbi, esclamai: «Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?». «È il suono», rispose, «che sull'accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona, poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli altri che, grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza terrena hanno coltivato gli studi divini.

19 Le orecchie degli uomini, riempite da tale suono, sono diventate sorde. Nessun organo di senso, in voi mortali, è più debole: allo stesso modo, là dove il Nilo, da monti altissimi, si getta a precipizio nella regione chiamata Catadupa, abita un popolo che, per l'intensità del rumore, manca dell'udito. Il suono, per la rotazione vorticosa di tutto l'universo, è talmente forte, che le orecchie umane non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai suoi raggi».

VI 20 Io, pur osservando stupito tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi verso la terra. Allora l'Africano disse: «Mi accorgo che contempli ancora la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sembra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo sguardo fisso sul mondo celeste e non dar conto alle vicende umane. Tu infatti quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi della gente, quale gloria che valga la pena di essere ricercata? Vedi che sulla terra si abita in zone sparse e ristrette e che questa sorta di macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi deserti; inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra di loro, nulla può diffondersi dagli uni agli altri, ma alcuni sono disposti, rispetto a voi, in senso obliquo, altri trasversalmente, altri ancora si trovano addirittura agli antipodi. Da essi, gloria non potete di certo attendervene.

21 Nota, inoltre, che la terra è in un certo senso incoronata e avvolta da fasce: due di esse, diametralmente opposte e appoggiate, sui rispettivi lati, ai vertici stessi del cielo, s'irrigidiscono per la brina, mentre la fascia centrale, laggiù, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Al suo interno, due sono le zone abitabili: la regione australe, là, nella quale gli abitanti lasciano impronte opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza; quanto a quest'altra, invece, che abitate voi, esposta ad aquilone, guarda come vi tocchi solo in misura minima. Nel suo complesso infatti la terra che è da voi abitata, stretta ai vertici, più larga ai lati, è, come dire, una piccola isola circondata da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico, Mare Magno, Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo.

22 Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute il nome tuo o di qualcun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso, che scorgi qui, oppure oltrepassare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo nome nelle restanti, remote regioni dell'oriente e dell'occidente oppure a settentrione o a meridione? Se le escludi, ti accorgi senz'altro di quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra gloria vuole espandersi. E la gente che parla di noi, fino a quando ne parlerà?

VII 23 E anche nel caso che quella progenie di uomini futuri desideri tramandare, di generazione in generazione, gli elogi di ciascuno di noi dopo averli appresi dai padri, tuttavia, a causa delle inondazioni e degli incendi che devono inevitabilmente prodursi sulla terra in un tempo determinato, non siamo in grado di conseguire una gloria non dico eterna, ma neppure duratura. Cosa importa, dunque, che discuta sul tuo conto chi nascerà dopo di te, se riguardo a te non parlava la gente nata prima? E questi uomini furono non meno numerosi e, senza dubbio, migliori.



24 A maggior ragione accade ciò, se è vero che perfino tra la gente in grado di udire il nostro nome, nessuno può lasciare di sé un ricordo che duri più di un anno. Gli uomini, a dire il vero, misurano ordinariamente l'anno solo con il volgere ciclico del sole, cioè con il ritorno di un'unica stella; quando, invece, tutti quanti gli astri saranno ritornati nell'identico punto da cui sono partiti e avranno nuovamente tracciato, dopo lunghi intervalli di tempo, il disegno di tutta la volta celeste, solo allora lo si potrà definire, a ragione, il volgere di un anno; a fatica oserei dire quante generazioni di uomini siano in esso contenute. Come un tempo il sole sembrò agli uomini venir meno e spegnersi, allorché l'anima di Romolo entrò in questi stessi spazi celesti, così, quando per la seconda volta, dalla stessa parte del cielo e nel medesimo istante, il sole verrà meno, in quell'istante, una volta che saranno ricondotte al punto di partenza tutte le costellazioni e le stelle, considera compiuto l'anno; sappi, comunque, che non ne è ancora trascorsa la ventesima parte.

25 Di conseguenza, se perderai la speranza di tornare in questo luogo, verso cui tendono le aspirazioni degli uomini grandi e illustri, quale valore ha mai la vostra gloria umana, che a mala pena può riguardare una minima parte di un solo anno? Se intendi, pertanto, mirare in alto e fissare il tuo sguardo su questa sede e dimora eterna, non concederti alla mentalità comune e non riporre le speranze della tua vita nelle ricompense umane: la virtù stessa, con le sue attrattive, deve condurti verso il vero onore. Quali parole gli altri pronunceranno su di te non ti riguarda, eppure parleranno; ogni discorso, comunque, è delimitato dallo spazio ristretto delle regioni che vedi e non è stato mai, sul conto di nessuno, durevole negli anni: è sepolto con la morte degli uomini e si spegne con l'oblio dei posteri».

VIII 26 Dopo che ebbe così parlato, gli dissi: «Allora, o Africano, se davvero per chi vanta dei meriti verso la patria si apre una sorta di sentiero per l'accesso al cielo, io, sebbene fin dall'infanzia, calcando le orme di mio padre e le tue, non sia mai venuto meno al vostro decoro, adesso tuttavia, di fronte a una ricompensa così grande, mi impegnerò con attenzione molto maggiore». Ed egli: «Sì, impegnati e tieni sempre per certo che non tu sei mortale, ma lo è questo tuo corpo: non rappresenti infatti ciò che la tua ura esterna manifesta, ma l'essere di ciascuno di noi è la mente, non certo l'aspetto esteriore che si può indicare col dito. Sappi, dunque, che tu sei un dio, se davvero è un dio colui che vive, percepisce, ricorda, prevede, regge e regola e muove il corpo cui è preposto, negli stessi termini in cui quel dio sommo governa questo universo; e come quel dio eterno dà movimento all'universo, mortale sotto un certo aspetto, così l'anima sempiterna muove il fragile corpo.

27 Ciò che muove se stesso incessantemente, è eterno; ciò che, invece, trasmette il moto ad altro e a sua volta trae impulso da una forza esterna, poiché ha un termine del movimento, deve avere necessariamente un termine della vita. Pertanto, solo ciò che muove se stesso, in quanto da se stesso non viene mai abbandonato, non cessa mai neppure di muoversi; anzi, per tutte le altre cose che si muovono è la fonte, è il principio del moto. Non vi è origine per tale principio; dal principio si genera ogni cosa, ma esso non può nascere da null'altro; se fosse generato dall'esterno non potrebbe infatti essere il principio; e come non è mai nato, così non muore mai. Il principio infatti, una volta estinto, non rinascerà da altro né creerà altro da sé, se è vero che da un principio deve nascere ogni cosa. Ne consegue che il principio del moto deriva da ciò che si muove da sé; non può, quindi, né nascere né morire, altrimenti è inevitabile che tutto il cielo crolli e che tutta la natura, da un lato, si fermi e, dall'altro, non trovi alcuna forza da cui ricevere l'impulso iniziale per il movimento.

IX 28 Siccome, quindi, risulta evidente che è eterno ciò che si muove da sé, chi potrebbe sostenere che questa natura non è stata attribuita all'anima? È inanimato infatti tutto ciò che trae impulso da un urto esterno; ciò che è animato, invece, viene sospinto da un moto interiore e proprio; tale è infatti la natura peculiare dell'anima, la sua essenza; se, dunque, tra tutte le cose l'anima è l'unica a muoversi da sé, significa certamente che non è nata ed è eterna. 29 Tu esercitala nelle attività più nobili. Ora, le occupazioni più nobili riguardano il bene della patria: se la tua anima trarrà stimolo ed esercizio da esse, volerà più rapidamente verso questa sede e dimora a lei propria; e lo farà con velocità ancor maggiore, se, già da quando si troverà chiusa nel corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la contemplazione della realtà esterna, si distaccherà il più possibile dal corpo. Quanto agli uomini che si sono dati ai piaceri del corpo, che si sono offerti, per così dire, come loro mezzani e che hanno violato le leggi divine e umane sotto la spinta delle passioni schiave dei piaceri, la loro anima, abbandonato il corpo, si aggira in volo attorno alla terra, e non ritorna in questo luogo, se non dopo aver vagato tra i travagli per molte generazioni».

Se ne andò; io mi riscossi dal sonno.

Pro Milone

Fate bene attenzione, giudici. Rappresentatevi nella mente- i nostri pensieri sono liberi e scorgono gli oggetti che desiderano contemplare così come noi distinguiamo gli oggetti che vediamo-, rappresentatevi dunque col pensiero la condizione che io immagino: se potessi ottenere da voi l'assoluzione di Milone, ma a condizione che Publio Clodio ritorni in vita Che è mai quel terrore sui vostri volti? Quale impressione vi farebbe da vivo, se da morto, all'illogico pensiero della sua presenza, ha prodotto in voi un turbamento simile? E ancora: se Gneo Pompeo in persona, dotato com'è di valore e fortuna tali da riuscire sempre in imprese per tutti impossibili, se egli, dico, avesse avuto il potere di'istruire il processo relativo alla morte di Publio Clodio oppure di richiamarlo dagli inferi, secondo voi quale delle due alternative avrebbe scelto? Ammesso che per motivi di amicizia avesse voluto richiamarlo dagli inferi, non l'avrebbe fatto per il bene dello stato. Voi dunque, giudici, sedete qui per vendicare la morte di un uomo, a cui non vorreste restituire la vita se vi giudicaste capaci di farlo; per di più per la sua morte si è stabilita una procedura che non sarebbe mai stata proposta se avesse avuto l'effetto di farlo resuscitare. Se, dunque, fosse stato l'assassino di costui, nell'ammetterlo avrebbe motivo di temere la punizione da parte di quelli che lo hanno liberato? I Greci accordano onori divini ai tirannicidi: quali onoranze io in persona ho visto ad Atene e quali nelle altre città greche, quali cerimonie religiose istituite per uomini simili, quali canti, quali inni! Sono consacrati quasi al culto divino e alla memoria eterna. Voi, invece, non solo non accorderete onori a chi ha salvato un così grande popolo e ha vendicato tanta scelleratezza, ma permetterete addirittura che subisca una condanna? Confesserebbe, sì, confesserebbe con orgoglio e gioia, se avesse premeditato il delitto, di aver compiuto per la libertà di tutti un atto che non dovrebbe semplicemente confessare, ma addirittura sbandierare. Fate bene attenzione, giudici. Rappresentatevi nella mente- i nostri pensieri sono liberi e scorgono gli oggetti che desiderano contemplare così come noi distinguiamo gli oggetti che vediamo-, rappresentatevi dunque col pensiero la condizione che io immagino: se potessi ottenere da voi l'assoluzione di Milone, ma a condizione che Publio Clodio ritorni in vita Che è mai quel terrore sui vostri volti? Quale impressione vi farebbe da vivo, se da morto, all'illogico pensiero della sua presenza, ha prodotto in voi un turbamento simile? E ancora: se Gneo Pompeo in persona, dotato com'è di valore e fortuna tali da riuscire sempre in imprese per tutti impossibili, se egli, dico, avesse avuto il potere di'istruire il processo relativo alla morte di Publio Clodio oppure di richiamarlo dagli inferi, secondo voi quale delle due alternative avrebbe scelto? Ammesso che per motivi di amicizia avesse voluto richiamarlo dagli inferi, non l'avrebbe fatto per il bene dello stato. Voi dunque, giudici, sedete qui per vendicare la morte di un uomo, a cui non vorreste restituire la vita se vi giudicaste capaci di farlo; per di più per la sua morte si è stabilita una procedura che non sarebbe mai stata proposta se avesse avuto l'effetto di farlo resuscitare. Se, dunque, fosse stato l'assassino di costui, nell'ammetterlo avrebbe motivo di temere la punizione da parte di quelli che lo hanno liberato? I Greci accordano onori divini ai tirannicidi: quali onoranze io in persona ho visto ad Atene e quali nelle altre città greche, quali cerimonie religiose istituite per uomini simili, quali canti, quali inni! Sono consacrati quasi al culto divino e alla memoria eterna. Voi, invece, non solo non accorderete onori a chi ha salvato un così grande popolo e ha vendicato tanta scelleratezza, ma permetterete addirittura che subisca una condanna? Confesserebbe, sì, confesserebbe con orgoglio e gioia, se avesse premeditato il delitto, di aver compiuto per la libertà di tutti un atto che non dovrebbe semplicemente confessare, ma addirittura sbandierare.


La condanna di Socrate

Socrate, essendo il più sapiente degli uomini e avendo vissuto in modo molto giusto, nel processo capitale proprio lui parlò per sè cosicché sembrasse che fosse non supplice o imputato ma maestro e signore dei giudici. Ché anzi, dopo che l'eloquentissimo oratore Lisia gli aveva portato l'orazione scritta, che, se lo riteneva opportuno, imparasse a memoria perché la usasse per sè nel processo, la lesse ben volentieri e disse che era stata composta abilmente: 'Ma' disse 'come se mi avessi portato le scarpe di Sicione non le userei nonostante fossero comode e adatte al piede, perché non sono virili', e gli parve che questo discorso fosse eloquente e degno di un oratore, ma non sembrò potente e masculino. Dunque egli fu anche condannato: e non solo nelle prime frasi, nelle quali i giudici decidevano se condannarlo o assolverlo, ma anche in quelle che dovevano condurre un'altra volta secondo le leggi. Infatti ad Atene, condannato un colpevole, se la colpa non era capitale, c'era per così dire una determinazione della pena: e quando veniva data la sentenza dai giudici, il colpevole era interrogato quasi che riconoscesse quale pena meritava di più. Perciò, quando Socrate fu interrogato rispose che meritava di ricevere grandissimi onori e premi e che gli fosse particolarmente fornito il vitto quotidiano nel Pritaneo, che è ritenuto il massimo onore presso i Greci. Alla risposta di questo i giudici si adirarono tanto che condannarono a morte un uomo del tutto innocente.


Catilinarie IV, 20-22

Ora, prima di ritornare all'oggetto della discussione, dirò alcune cose che riguardano me. So di essermi fatto una schiera di nemici grande quanto è quella dei congiurati, che avete visto essere immensa; ma la considero infame, spregevole, vile. E anche se un giorno, mossa dall'odio e dalla scellerata follia di qualcuno, questa schiera sarà più forte di quanto non sia il sentimento della dignità vostra e dello stato, io non mi pentirò mai, senatori, delle mie azioni e delle decisioni che ho preso. Infatti la morte, che essi forse mi minacciano, è destinata a tutti, mentre ricevere in vita una lode grande quanto quella con cui voi, con i vostri decreti, mi avete onorato, non l'ha mai conseguito nessuno. Ad altri infatti l'avete decretata per vittoriose imprese militari, ma soltanto a me per aver salvato lo Stato. Sia dunque famoso Scipione, la cui decisione e il cui valore costrinsero Annibale a fare ritorno in Africa e a abbandonare l'Italia; ottenga grande lode anche l'altro Africano, che rase al suolo Cartagine e Numanzia, due città acerrime nemiche del nostro Stato; abbia lode anche quell'uomo egregio, Paolo, il cui carro trionfale fu ornato da un re un tempo di grande potenza e nobiltà, Perseo; sia gloria eterna a Mario, che per due volte liberò l'Italia dall'invasione e dal timore della schiavitù; davanti a tutti si collochi Pompeo, le cui imprese gloriose possono essere circoscritte solo dai confini di quelle stesse regioni che il sole tocca nel suo corso; certamente tra le lodi di questi ci sarà un po' di spazio per la mia gloria, a meno che non sia ritenuto più meritorio conquistare province nelle quali possiamo riversarci, che non preparare un luogo dove anche quanti sono lontani tornino vincitori. Del resto, per un solo aspetto la condizione di una vittoria all'estero è migliore di una vittoria interna: i nemici stranieri, sconfitti diventano schiavi, o, se abbiamo instaurato con loro dei legami di amicizia, si ritengono obbligati; invece i cittadini che, resi malvagi da una qualche forma di pazzia, siano divenuti nemici della patria, se anche riesci a distoglierli dall'ordire trame contro lo stato non li potresti mai sottomettere con la forza né placarli con la benevolenza. Per questo motivo io mi rendo conto che la guerra tra me e questi depravati non avrà fine. Grazie al vostro aiuto e a quello di tutti i cittadini perbene, grazie al ricordo degl'immani pericoli che abbiamo corso, ricordo che rimarrà sempre vivo non solo in questa popolo che fu salvato ma nei discorsi e nella memoria di tutti, io confido che questa guerra possa essere facilmente vinta da me e dai miei. E senza dubbio non si troverà una forza così perversa da poter struggere o soltanto indebolire l'alleanza fra voi e i cavalieri romani e una così grande concordia di tutti i buoni.




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