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Catullo - Liber



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Catullo

Liber




A chi donerò questo prezioso novissimo

libretto ancora lucido di pomice?

A te, Cornelio, a te che alle mie cose

attribuivi un senso fin dagli anni



in cui, unico fra noi, tu affrontavi

la storia universale in tre libri

cosí colti e tormentati, mio dio.

Valga quel che valga, il libretto

è tuo:

musa, vergine mia,

fa' che mi possa sopravvivere.





Passero, passero dell'amor mio:

ti tiene in seno, gioca con te,

porge le dita al tuo assalto,

provoca le tue beccate rabbiose.

Come si diverta l'anima mia

in questo gioco, trovando conforto

al suo dolore, non so; ma come lei,

quando si placa l'affanno d'amore,

anch'io vorrei giocare con te

e strapparmi dal cuore la malinconia.



2b


E come dicono piacesse a una fanciulla

svelta il pomo dorato che le tolse

l'impaccio della sua ritrosia, mi piace.





Pianga Venere, piangano Amore

e tutti gli uomini gentili:

è morto il passero del mio amore,

morto il passero che il mio amore

amava piú degli occhi suoi.

Dolcissimo, la riconosceva

come una bambina la madre,

non si staccava dal suo grembo,

le saltellava intorno

e soltanto per lei cinguettava.

Ora se ne va per quella strada oscura

da cui, giurano, non torna nessuno.

Siate maledette, maledette tenebre

dell'Orco che ogni cosa bella divorate:

una delizia di passero m'avete strappato.

Maledette, passerotto infelice:

ora per te gli occhi, perle del mio amore,

si arrossano un poco, gonfi di pianto.





Questo battello che vedete, amici,

si vanta d'essere stato una nave

cosí veloce che mai nessun legno

poté superarlo in gara, volando

con le ali dei remi o delle vele.

Certo ne possono far fede i porti

dell'Adriatico infido o le Cicladi,

la luminosa Rodi, il mar di Marmara

agitato o l'orribile mar Nero

dove fu, prima d'essere battello,

foresta oscura: sul monte Citoro

la sua voce fischiava tra le foglie.

Questo, Amastri, questo tu lo sapevi,

dice a battello, e i bossi del Citoro

lo sanno ancora, sin dal tempo in cui

si alzava sopra la tua cima o quando

immerse i remi dentro le tue acque

e poi di là per mari tempestosi

condusse il suo padrone sulla rotta

dove spirava il vento col favore

che nelle vele v'imprimeva Giove:

nessun voto agli dei dovette rendere

nei porti, navigando da quel mare

del diavolo a questo limpido lago.

Acqua passata: ora solitario

invecchia in pace e si dedica a voi,

a te Castore e al gemello tuo.





Godiamoci la vita, mia Lesbia, l'amore,

e il mormorio dei vecchi inaciditi

consideriamolo un soldo bucato.

I giorni che muoiono possono tornare,

ma se questa nostra breve luce muore

noi dormiremo un'unica notte senza fine.

Dammi mille baci e ancora cento,

dammene altri mille e ancora cento,

sempre, sempre mille e ancora cento.

E quando alla fine saranno migliaia

per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,

perché nessuno possa stringere in malie

un numero di baci cosí grande.





Flavio, se l'amor tuo non fosse privo

di grazia e di finezza lo vorresti dire

a Catullo, non sapresti tacere.

Ma certo tu ami qualche puttana

malandata: per questo ti vergogni.

Che tu non giaccia in solitudine la notte,

anche se tace, lo rivela la tua camera

fragrante di ghirlande e di profumi assiri,

il cuscino gualcito da ogni parte,

lo scricchiolare agitato del letto

che trema tutto e non trova pace.

Inutile tacere: non ti serve.

Non mostreresti fianchi cosí smunti

se non facessi un monte di sciocchezze.

E allora quello che hai, bello o brutto,

dimmelo. Voglio con un gioco di parole

portare te e il tuo amore alle stelle.





Mi chiedi con quanti baci, Lesbia,

tu possa giungere a saziarmi:

quanti sono i granelli di sabbia

che a Cirene assediano i filari di silfio

tra l'oracolo arroventato di Giove

e l'urna sacra dell'antico Batto,

o quante, nel silenzio della notte, le stelle

che vegliano i nostri amori furtivi.

Se tu mi baci con cosí tanti baci

che i curiosi non possano contarli

o le malelingue gettarvi una malia,

allora si placherà il delirio di Catullo.





Povero Catullo, basta con le illusioni:

se muore, credimi, ogni cosa è perduta.

Una fiammata di gioia i tuoi giorni

quando correvi dove lei, l'anima tua voleva,

amata come amata non sarà nessuna:

nascevano allora tutti i giochi d'amore

che tu volevi e lei non si negava.

Una fiammata di gioia quei giorni.

Ora non vuole piú: e tu, coraggio, non volere,

non inseguirla, come un miserabile, se fugge,

ma con tutta la tua volontà resisti, non cedere.

Addio, anima mia. Catullo non cede piú,

non verrà a cercarti, non ti vorrà per forza:

ma tu soffrirai di non essere desiderata.

Guardati, dunque: cosa può darti la vita?

Chi ti vorrà? a chi sembrerai bella?

chi amerai? da chi sarai amata?

E chi bacerai? a chi morderai le labbra?

Ma tu, Catullo, resisti, non cedere.





Veranio, amico piú di tutti i miei amici

(e fossero migliaia), sei tornato?

alla tua casa, ai tuoi Penati,

ai fratelli riuniti, alla tua vecchia madre?

, tornato. Che parola meravigliosa.

Ti rivedrò incolume, ti udrò narrare

dei luoghi dell'Iberia e delle cose, delle genti,

come tu sai: le braccia intorno al collo,

ti bacerò gli occhi, la bocca ridente.

Fra tutti gli uomini felici,

chi piú allegro, piú felice di me?





Dal Foro dove ciondolavo il mio buon Varo

mi porta a casa di una sua ragazza,

una fichina che a prima vista mi parve

non priva di qualche grazia, quasi carina.

Giunti da lei ci si mise a parlare

di tante cose e fra queste della Bitinia,

il suo stato, le sue condizioni politiche,

i guadagni che mi avrebbe fruttato.

Risposi la verità: a nessuno di noi,

pretori o gente del seguito, era toccato

di tornarsene col capo piú profumato,

vedi poi se ti capita in sorte un fottuto

di pretore che del seguito se ne infischia.

'Ma almeno' m'interrompono 'avrai comprato

ciò che dicono la specialità del luogo,

dei portatori di lettiga.' Io per farmi

con la donna un po' piú fortunato degli altri:

'Non mi è andata poi cosí male,' le rispondo

'considerata quella terra maledetta:

ne ho cavato otto uomini robusti.'

In realtà non ne avevo neppure uno,

qui a Roma o laggiù, in grado di reggere

sul collo una vecchia brandina sgangherata.

E quella con la sua facciatosta mi fa:

'Catullo mio, dovresti prestarmeli un attimo,

te ne prego, voglio farmi portare al tempio

di Seràpide.' 'Un momento, dico, ragazza,

ciò che poco fa ho detto di possedere,

m'ero distratto: è un amico mio,

Gaio Cinna, che se l'è procurato.

D'altra parte, suoi o miei, che importa?

Me ne servo come fossero miei.

Ma tu sei proprio sciocca e impertinente

se non ammetti che ci si possa distrarre.'





Furio, Aurelio, che miei comni

sino all'estremo dell'India verreste

alle cui rive lontane batte sonoro

il mare d'Oriente,

tra gli Arabi indolenti, gli Ircani,

gli Sciti, i Parti armati di frecce

o sino alle acque che il Nilo trascolora

con le sue sette foci;

e oltre i monti aspri delle Alpi

per visitare i luoghi dove vinse Cesare,

il Reno di Gallia, i Britanni

orribili e sperduti;

voi che con me, qualunque sia il volere

degli dei, sopportereste ogni mia pena,

ripetete all'amore mio queste poche

parole amare.

Se ne viva felice con i suoi amanti

e in un solo abbraccio, svuotandoli

d'ogni vigore, ne possieda quanti vuole

senza amarne nessuno,

ma non mi chieda l'amore di un tempo:

per colpa sua è caduto come il fiore

al margine di un prato se lo tocca

il vomere passando.





Nell'ebbrezza del vino insinui la tua mano,

Asinio, da Marrucino come tu sei:

fai sparire i fazzoletti a chi si distrae

e la credi una trovata. Vattene, sciocco:

è solo un gesto ignobile e volgare.

E se non credi a me, credi almeno a Pollione,

a tuo fratello che darebbe una fortuna

per nascondere i tuoi furti: lui un giovane

che sa benissimo come scherzare.

Se non vuoi subire la furia dei miei versi,

restituiscimi quel fazzoletto, dunque.

Non te lo chiedo certo per il suo valore,

ma è il ricordo di un amico mio,

uno di quei fazzoletti di Sétabi

che dalla Sna Fabullo e Veranio

mi mandarono in dono: per questo li amo

come amo il mio Fabullo, il dolce Veranio.





Se dio vorrà, uno di questi giorni,

mio Fabullo, da me cenerai bene:

ma con te porta una cena abbondante

e squisita, una ragazza in fiore,

vino, sale e tutta la tua allegria.

Solo cosí, ripeto, amico mio,

cenerai bene, perché il tuo Catullo

ha la borsa piena di ragnatele.

In cambio avrai un affetto sincero

e tutto ciò che è bello e raffinato:

ti darò un profumo che la mia donna

ha avuto in dono da Venere e Amore.

Quando l'odorerai, prega gli dei,

Fabullo mio, di farti tutto naso.





Se non ti amassi piú degli occhi miei,

mio dolcissimo Calvo, per questo tuo dono

ti odierei come ti odia Vatinio:

che ho fatto, cosa ho detto perché tu

mi debba avvelenare con questi poeti?

Sia maledetto dagli dei il cliente

che t'ha mandato un tale branco di canaglie.

Ma se, come sospetto, questo dono insolito

e curioso è di Silla 'il professore',

non me ne dispiace affatto, sono felice

che le tue fatiche non vadano sprecate.

Dio buono, che libercolo di merda!

E tu proprio ai Saturnali, il giorno migliore,

mandi questa diavoleria al tuo Catullo

perché giusto il che segue debba morire.

No, non la passerai liscia, buffone:

appena sorge il sole mi precipito

ai chioschi dei librai e compro tutto,

Cesio, Suffeno, Aquino, tutti i piú letali

e ti riherò cosí con questa croce.

Ed ora via, flagello delle genti, via,

poeti da quattro soldi, tornate là

da dove maledetti siete usciti.



14b


Se per caso lettori voi sarete

di queste mie sciocchezze e non avrete orrore

d'avvicinarmi con le vostre mani






A te come me stesso affido il mio amore,

Aurelio. Un piccolo favore che ti chiedo:

se mai qualcuno amasti in cuore tuo

che tu desiderassi casto e puro,

conservami pulito questo mio ragazzo.

Non dico dalla gente, ché non ho pensiero

di chi corre su e giú per la via

tutto occupato nelle sue faccende;

ma di te ho timore e del tuo cazzo

nemico d'ogni ragazzo, buono o cattivo

che sia. Quando comanda ficcalo dove

e come vuoi, se è ritto e sguainato.

Ti proibisco lui solo, non credo molto.

Ma se la tua pazzia, una passione insana

ti spingesse, scellerato, tanto nel crimine

da insidiare la stessa mia persona,

povero te, la sorte che ti viene:

divaricate le gambe, per quella porta

radici e pesci ti ficcherò dentro.





In bocca e in culo ve lo ficcherò,

Furio ed Aurelio, checché bocchinare

che per due poesiole libertine

quasi un degenerato mi considerate.

Che debba esser pudico il poeta è giusto,

ma perché lo dovrebbero i suoi versi?

Hanno una loro grazia ed eleganza

solo se son lascivi, spudorati

e riescono a svegliare un poco di prurito,

non dico nei fanciulli, ma in qualche caprone

con le reni inchiodate dall'artrite.

E voi, perché leggete nei miei versi baci

su baci, mi ritenete un effeminato?

In bocca e in culo ve lo ficcherò.





Tu desideri far festa, Verona,

sul tuo Pontelungo

e già sei pronta a ballare,

ma le gambe fragili di un ponticello

che si regge su tavolette riparate

ti fan temere che crolli

e precipiti in fondo alla palude.

Sia pure esaudita questa voglia

e tu abbia un ponte cosí solido

da sostenere anche i Salii

nelle loro sarabande sacre,

ma in cambio voglio da te, Verona,

un regalo che mi diverta da morire:

buttami giú da quel tuo ponte

un certo mio concittadino

capofitto nel fango dalla testa ai piedi

là dove l'abisso delle acque

è piú profondo, il piú livido

di tutta questa fetida palude.

È un uomo d'una stupidità tale

che non ha piú giudizio del bambino

cullato tra le braccia di suo padre.

Sposata una fanciulla

in tutto il fiore dei suoi anni,

una fanciulla delicata

e tenera piú d'un agnellino

d'averne tanta cura

come dell'uva che è matura,

lascia che lei si diverta

nel modo preferito

e non gliene importa nulla,

non inalbera il suo diritto,

ma come un ontano, abbattuto

dalla scure di un Ligure,

giace in fondo ad un fossato,

questo mio incredibile stupido,

sensibile a tutto come se non esistesse,

non vede, non sente nulla,

non sa nemmeno chi egli sia

o se per caso sia o non sia.

Ora io voglio scaraventarlo

giú da quel tuo ponte,

se mai è possibile che d'un colpo

si riscuota dal suo torpore assurdo

e nelle profondità del fango

smarrisca la sua apatia,

come una mula lo zoccolo di ferro

in un pantano scivoloso.





Padre di tutti gli affamati che conosci

e di quelli che furono, sono e saranno

negli anni da venire, tu Aurelio,

desideri inculare l'amor mio

e non ne fai mistero: appiccicato a lui,

giochi, ti strofini, le provi tutte.

Non servirà: mentre mi tendi queste insidie

io prima te lo ficcherò in bocca.

E pace se tu lo facessi a pancia piena,

ma non posso tollerare, accidenti a me,

che il mio ragazzo impari a patir fame e sete.

Piantala dunque, giusto finché sei in tempo,

che tu non debba farlo a cazzo in bocca.





Quel Suffeno, Varo, che tu conosci bene,

è un uomo di spirito, garbato e civile,

ma purtroppo sforna versi su versi.

Io credo che n'abbia già scritti diecimila

o forse piú e non su scartafacci

come usa: la carta è la migliore, i libri

nuovi, nuove le bacchette, di cuoio i lacci

e il tutto squadrato e levigato a dovere.

Se poi li leggi, quel Suffeno spiritoso

e civile ti diventa allora un guardiano

di capre, un villano, tanto è diverso e muta.

È incredibile: quell'uomo di mondo

che ti sembrava tanto raffinato,

appena tocca un verso diventa piú rozzo

di un rozzo contadino; eppure non è mai

cosí felice come quando scrive versi,

tanto è soddisfatto di sé e tanto si ammira.

Del resto tutti sbagliamo: non c'è nessuno

in cui, se ci pensi, tu non possa vedere

Suffeno. Ognuno ha un suo difetto, ma la gobba

che ci sta sulla schiena noi non la vediamo.





Furio mio, tu non hai schiavi, non hai denari,

non hai cimici o ragni, né di che scaldarti,

ma hai un padre e una matrigna che coi denti

potrebbero macinare anche le pietre,

e con questo tuo genitore e la sua donna,

rinsecchita come un legno, tu vivi bene.

Non fa meraviglia: scoppiate di salute,

digerite d'incanto, non temete nulla,

né gli incendi né il crollo della casa

né la malvagità, l'insidia del veleno

o il pericolo di qualche altro incidente.

E in piú, grazie al sole al freddo e alla fame,

avete il corpo piú secco di un corno

o di quanto piú arido vi sia.

Perché mai non dovresti essere felice?

Non sudi, non hai una goccia in piú di saliva,

né un poco di catarro o di moccolo al naso.

E a questo candore aggiungine un altro:

poiché non cachi dieci volte all'anno

il tuo culo è piú lindo di un cristallo

e ciò che fai è piú duro di fave e ghiaia,

tanto che se lo stropicciassi fra le mani

non ti potresti sporcare nemmeno un dito.

Tutte queste comodità non disprezzarle,

Furio mio, non considerarle una sciocchezza

mendicando di continuo quei centomila

sesterzi: smettila, sei ricco quanto basta.





Io avrei voluto che tu, fior fiore

di tutti i Giovenzi che sono, furono

e saranno in tutti gli anni a venire,

avessi donato l'oro di Mida

a costui senza un servo né denari,

piuttosto che piegarti al suo amore.

'Perché? non è affascinante?' Certo,

lo è, ma senza un servo né denari.

Tu puoi minimizzare quanto vuoi,

ma resta senza un servo né denari.





Tallo, Tallo, pederasta molle

piú del pelo di coniglio,

del midollo d'oca

o del lobo di un orecchio,

piú del pene flaccido dei vecchi

o d'una ragnatela muffita,

ma anche piú rapace, Tallo,

d'una tempesta rabbiosa

quando la luna ti offre

un donnaiolo che sbadiglia;

avanti, rendimi il mantello

che m'hai rubato,

e il fazzoletto di Sétabi,

i pizzi di Bitinia,

che tu, sciocco, ostenti

come fossero di casa tua.

Strappali dai tuoi artigli

e ridammeli, ora, subito,

se non vuoi

che sulla tua schiena di velluto,

sulle tue mani mollicce

la sferza t'imprima la vergogna

di un marchio di fuoco

e tu debba agitarti

contro natura

come un guscio di nave

sorpreso nel mare in burrasca

dalla furia del vento.





La vostra casetta, Furio, non è esposta

al vento di scirocco o di ponente,

né di una tramontana gelida o di euro,

ma a quello di quindicimiladuecento sesterzi

ed è vento tremendo, non perdona.





Ragazzo, se versi un vino vecchio

riempine i calici del piú amaro,

come vuole Postumia, la nostra regina

ubriaca piú di un acino ubriaco.

E l'acqua se ne vada dove le pare

a rovinare il vino, lontano,

fra gli astemi: questo è vino puro.





Veranio carissimo e tu Fabullo mio,

che al seguito di Pisone, privi di tutto,

vi portate appresso le vostre quattro cose,

come state? ½ ha fatto sopportare tutto,

il freddo, la fame, vero, quella canaglia?

Dite, segnate pure voi i profitti in perdita,

come ho fatto io, seguendo il mio pretore,

che registro a profitto soltanto le spese?

O Memmio, m'hai proprio fottuto a modo tuo,

supino, con in bocca tutta la tua trave.

Ma a voi non è toccata una sorte migliore,

mi pare: quello che vi opprime non è manico

diverso. Cercali i tuoi amici famosi!

E che tutti gli dei li possano sommergere

di guai, questa vergogna di Romolo e Remo.





Chi se non un ingordo svergognato e baro

potrebbe mai permettere in coscienza

che abbia Mamurra ciò che fu della Gallia

o della lontanissima Britannia?

Lo vedi, no, romolo fottuto, e sopporti?

Cosí questa colomba bianca, questo Adone

passerà con noncuranza da un letto all'altro

vomitando tutta la sua superbia?

Lo vedi, no, romolo fottuto, e sopporti?

Sei uno svergognato ingordo e baro.

E tu, generalissimo, saresti andato

nella piú lontana isola d'occidente

perché questo vostro coglione rammollito

divorasse milioni su milioni?

Non è questa la generosità dei ladri?

O forse non ha dilapidato abbastanza?

Prima si è fatto fuori i beni di suo padre,

poi il bottino dell'Asia e quello di Sna,

testimone il bacino aurifero del Tago.

Ora terrorizza Gallia e Britannia.

E voi proteggete un ribaldo simile?

un tale distruttore di ricchezze?

voi, genero-suocero, padroni di Roma,

in nome suo avete saccheggiato il mondo?





Dimenticàti con fredda falsità i comni fedeli,

non hai pietà, Alfeno, nemmeno dell'amico piú caro?

Col tuo cinismo non esiti a tradirmi, a ingannarmi.

Eppure agli dei ripugna la viltà di chi tradisce:

ma a te che importa se mi lasci con la mia tristezza?

Che fare, che fare, ditemi, a chi si può credere?

Certo tu, tu traditore volevi che mi affidassi a te,

spingendomi ad amarti come se non avessi nulla da temere.

Ora mi eviti e lasci che il vento e le nebbie disperdano

nell'aria, come fossero niente, le parole, ciò che facevi.

Ma se tu dimentichi, ricordano gli dei, ricorda la Fede,

che ti farà pentire di quello che mi hai fatto.





Che allegria piena, distesa, Sirmione,

rivederti piú bella di tutte le isole e penisole

che Nettuno solleva sulle acque diverse

dei laghi trasparenti o del mare immenso.

Quasi non credo d'essere lontano dalla Tinia,

dalle terre bitinie e guardarti sereno.

Vi è felicità piú grande che scordare gli affanni,

quando, stremati da viaggi in terra straniera,

la mente si libera del proprio peso e a casa

si torna per riposare nel letto sospirato?

Di tutte le fatiche questo è l'unico premio.

Sirmione, bellissima mia, rallegrati

e rallegratevi anche voi onde lidie del lago:

risuonino nella casa solo grida di gioia.





Ti prego, mia dolce Ipsililla,

amore mio, cocchina mia,

invitami da te nel pomeriggio.

Ma se decidi cosí, per favore,

non farmi trovare la porta già sprangata

e cerca di non uscire, se puoi,

restatene in casa e preparami

nove scopate senza mai fermarci.

Se ne hai voglia, però, fallo subito:

sto qui disteso sazio dopo pranzo

e pancia all'aria sfondo tunica e mantello.





Di tutti i ladri d'albergo Vibennio è il re,

come lo è di tutti i pederasti il lio:

piú son luride le mani del padre

e piú famelico è il culo del lio.

Perché mai non ve ne andate in esilio,

in terre maledette? Ormai i suoi furti

sono arcinoti e le tue natiche pelose

non valgono un soldo, liolo mio.





Affidàti al nome di Diana

fanciulle e giovani innocenti,

il nome di Diana cantiamo,

fanciulle e giovani innocenti.

O lia di Latona, sangue

grande del grandissimo Giove,

sotto quell'ulivo di Delo

certo ti partorí tua madre

perché signora di montagne,

di boschi verdi diventassi

e delle macchie misteriose,

dei fiumi percorsi di suoni.

Ti chiamano Giuno Lucina

le donne nel loro travaglio,

ti chiamano Luna di luce

riflessa, Trivia onnipotente.

Tu che l'anno in cicli mensili

dividi lungo il suo cammino,

col buon raccolto della terra

riempi le case ai contadini.

Qualunque nome tu assuma,

noi t'invocheremo, ma tu

col tuo aiuto, come un tempo,

proteggi il popolo di Roma.





Al poeta d'amore Cecilio, mio comno,

papiro, questo devi dire:

venga a Verona

e lasci le mura nuove di Como, le rive del Lario:

voglio che ascolti certe fantasie

di un amico suo e mio.

Se ragiona, divorerà la strada

anche se mille volte, quando parte,

la sua dolce innamorata lo richiama

e con le braccia intorno al collo lo scongiura di restare,

vero, come dicono,

che muore per lui d'amore disperato.

Da quando poi ha letto i primi versi

per la signora di Díndimo,

un fuoco consuma quella poveretta in fondo al cuore.

Capisco: tu conosci troppo bene, ragazza,

la poesia di Saffo e questa di Cecilio a Cibele

ha un inizio splendido.





Annali di Volusio, cartacce di merda,

sciogliete la promessa della donna mia,

che a Venere e a Cupido ha fatto voto,

se da lei fossi tornato accettando

una tregua al mio violento sarcasmo,

di sacrificare alle fiamme di Vulcano

i versi migliori di un pessimo poeta

perché bruciassero su maledetta legna.

Quella dolce canaglia sapeva benissimo

di fare voti come fossero uno scherzo.

E allora tu, lia del mare azzurro,

tu che abiti sui monti sacri di Cipro,

nelle baie del Gargano, in Ancona,

nei canneti di Cnido, ad Amatunta e Golgi,

a Durazzo, emporio di tutto l'Adriatico,

se questo voto ha una sua grazia spiritosa,

accettalo e ritienilo ato.

Ma ora tocca a voi: andatevene al rogo,

con tutta la vostra rozza stupidità,

Annali di Volusio, cartacce di merda.





Puttanieri di quell'ignobile taverna

nove colonne oltre il tempio dei Dioscuri,

credete d'avere l'uccello solo voi,

di poter fottere le donne solo voi,



considerandoci tutti cornuti?

O forse perché sedete cento o duecento

in fila come tanti idioti, non credete

che potrei incularvi tutti e duecento?

Credetelo, credetelo: su ogni muro

qui fuori scriverò che avete il culo rotto.

Fuggitami dalle braccia, la donna mia,

amata come amata non sarà nessuna,

anche lei, che mi costrinse a tante battaglie,

siede tra voi. E come se ne foste degni

la chiavate tutti e non siete, maledetti,

che mezze canaglie, puttanieri da strada:

tu piú di tutti, tu Egnazio, capellone

modello, nato fra i conigli della Sna,

che ti fai bello di una barba incolta

e di denti sciacquati con la tua urina.





Sta male, Cornificio, il tuo Catullo,

sta male, mio dio, e soffre

ogni giorno, ogni ora di piú.

E tu nemmeno una parola,

quella che costa meno, la piú facile.

Ti odio. Questo il tuo amore?

Una parola, una parola qualunque

piú triste del pianto di Simonide.





Per mostrare il candore dei suoi denti,

Egnazio ride, ride d'ogni cosa.

Ride mentre l'avvocato strappa le lacrime

davanti alla sbarra degli imputati;

ride quando fra un coro di lamenti

disperatamente una madre piange

di fronte al rogo del suo unico liolo.

In ogni circostanza, in ogni luogo,

qualsiasi cosa faccia, ride, ride.

Ha questa malattia, che certo non è,

io ritengo, civile o di buon gusto.

Dovrò proprio ammonirti, Egnazio mio.

Se tu fossi romano, sabino o di Tivoli,

un umbro grasso o un etrusco obeso,

un lanuvino bruno e tutto denti,

uno dell'oltrepò, per metterci anche i miei,

cioè uno dei tanti che con acqua pura

si lava i denti, anche allora vorrei che tu

non ridessi continuamente d'ogni cosa:

niente è piú sciocco di un modo sciocco di ridere.

Ma tu sei snolo e in terra di Sna

la mattina tutti si strofinano a sangue

gengive e denti con la propria urina.

Cosí piú bianchi sono questi vostri denti

e piú rivelano il piscio che hai bevuto.





Quale strana pazzia ti getta, Ràvido,

come uno sciocco in bocca alla mia collera?

Quale dio invocato malamente

ti spinge a questa stupida contesa?

per correre sulle labbra di tutti?

Che vuoi? esser famoso ad ogni costo?

Lo sarai, ma per la follia d'amare

chi amo, tu lo sarai con infamia.





Diecimila sesterzi tondi m'ha chiesto

Ameana, quella puttanella fottuta,

quella puttanella dal naso deforme

mammola del gran fallito di Formia.

Parenti che l'avete in tutela,

convocate i medici e gli amici:

quella è matta. Non si guarda mai

in uno specchio? Farnetica.





Avanti, endecasillabi, accorrete,

tutti, tutti quanti, dovunque siete, tutti.

Beffandosi di me questa puttana infame

non vuole piú restituirmi i taccuini

che mi appartengono: non permettetelo.

Non diamole respiro, li rivoglio.

Se vi preme saperlo, è questa che dimena

il culo e ride sguaiata mostrando i denti

come una baldracca, un cane randagio.

Circondatela e gridatele addosso:

'Lurida puttana, restituiscili,

restituiscili, puttana lurida'.

Te ne freghi? Sei una fogna, una troia,

la carogna piú infame che ci sia.

Ma questo evidentemente non basta.

Se non altro, che bruci di vergogna,

femmina di bronzo, muso di cagna.

Gridatele addosso ancora piú forte:

'Lurida puttana, restituiscili,

restituiscili, puttana lurida'.

Non si ottiene niente, niente la scuote.

Bisognerà proprio cambiare tono,

se vogliamo ottenere qualcosa: 'Di grazia,

fiore d'ogni virtú, rendimi i taccuini'.





Buon dio, ragazza, con quel nasone,

quei piedacci, con gli occhi spenti,

quelle dita tozze e la bocca molle,

con quel tuo linguaggio volgare,

proprio te, puttanella di quel fallito

di Formia, dicono bella i provinciali?

e ti paragonano alla mia Lesbia?

O società imbecille e senza gusto.





Camna mia, sabina o tiburtina

(ma chi non ha cuore di ferirmi sostiene

che tu sei tiburtina, anche se gli altri

per dirti sabina darebbero ogni cosa),

sabina dunque o tiburtina come è vero,

con gioia sono stato nella tua villa

fuori Roma a liberarmi di quella tosse

maledetta che certo ho ben meritato

per l'ingordigia di gustare un pranzo splendido.

Volevo godermi la tavola di Sestio:

mi son dovuto leggere un discorso livido

e velenoso contro Anzio, suo rivale.

Di colpo mi scoppia un raffreddore, una tosse

secca, finché non son fuggito qui da te

per curarmi con riposo e decotti.

Ora sto bene e posso quindi ringraziarti

di non aver punito la mia colpa.

Se dovessi subire ancora i suoi libelli,

voglio che il loro lievore procuri a lui,

non a me, brividi e tosse: quello m'invita

solo per leggere i suoi maledetti scritti.





Stringendosi fra le braccia Acme, Settimio

sussurra al suo amore: 'Acme, Acme mia,

se da morirne non ti amo o t'amerò

per tutti, tutti gli anni da venire

come chi amando d'amore può morire,

gettatemi in Libia, nei deserti dell'India,

solo davanti agli occhi verdi di un leone'.

Quando tacque, come prima a sinistra,

a destra starnutí Amore il suo consenso.

Acme allora, piegando leggermente il capo,

con le sue labbra di rosa bacia sugli occhi

inebriati d'amore il suo dolce amante:

'Sempre,' gli dice 'Settimillo anima mia,

dovremo servire quest'unico signore,

come sempre piú forte e violento mi brucia

in corpo un desiderio senza freni'.

Quando tacque, a sinistra, come prima

a destra, starnutí Amore il suo consenso.

Ora spinti da cosí buoni auspici,

un'anima sola, amano, sono amati.

Piú di tutte le Sirie e le Britannie

il povero Settimio vuole solo Acme;

la fedele Acme solo in Settimio

trova piacere e la voglia d'amare.

Chi ha mai visto coppia piú felice,

un amore sotto migliori auspici?





È primavera, tornano i giorni miti

e la brezza leggera dello zefiro

spegne nel cielo la furia dell'inverno.

Lasciamo i campi della Frigia, Catullo,

le pianure fertili e afose di Nicea;

via in volo per le città luminose dell'Asia.

Irrequieto ti brucia una febbre di andare

e nel desiderio ritrovi la tua forza.

Addio, dolce comnia di amici:

partiti insieme dalla patria lontana,

ognuno per strade diverse ritorneremo.





Voi mani ladre di Pisone, Porcio,

Socrazio, rogna e flagello del mondo,

quel lurido Priapo ha preferito

al mio dolce Veranio, al mio Fabullo?

Voi, quando ancora è giorno, imbandite

banchetti prelibati; i miei amici

mendicano un invito per le strade.





Se i tuoi occhi di miele, Giovenzio,

mi fosse lecito baciare,

migliaia di volte io li bacerei

e non potrei esserne mai sazio,

anche se piú fitta di spighe mature

fosse la messe dei miei baci.





Verbosissimo fra tutti i romani

che a Roma sono, furono e saranno,

Marco Tullio, in tutti gli anni a venire,

a te porge il suo grazie piú sentito

Catullo, il peggior poeta del mondo,

il peggior poeta del mondo come

tu del mondo sei il migliore avvocato.





Ieri, Licinio, per passare il tempo

ci siamo divertiti a improvvisare

sui miei quaderni in delizioso accordo.

Scrivendo versi abbiamo perso l'anima

a misurarci su questo o quel metro,

uno dopo l'altro, nell'allegria del vino.

E me ne sono andato di là incantato,

Licinio, dalla grazia del tuo spirito,

cosí stranito da scordarmi di cenare,

da non riuscire nemmeno a chiudere occhio:

vinto dall'emozione mi son rivoltato

dentro il letto smaniando che facesse giorno

per poterti parlare, per stare con te.

Ma ora che, morto di stanchezza, il mio corpo

senza piú forze sul letto ha trovato pace,

ho scritto per te, amico mio, questi versi,

perché tu potessi capire la mia pena.

Non essere sprezzante, non respingere

di grazia, occhi miei, le mie preghiere:

provocheresti il castigo di Nemesi.

È una dea terribile, non offenderla.





Simile a un dio mi sembra che sia

e forse piú di un dio, vorrei dire,

chi, sedendoti accanto, gli occhi fissi

ti ascolta ridere

dolcemente; ed io mi sento morire

d'invidia: quando ti guardo io, Lesbia,

a me non rimane in cuore nemmeno

un po' di voce,

la lingua si secca e un fuoco sottile

mi scorre nelle ossa, le orecchie

mi ronzano dentro e su questi occhi

scende la notte.



51b


L'ozio, Catullo, questo è il tuo pericolo,

nell'ozio ti esalti sino a goderne;

l'ozio che anche re e città potenti

portò a rovina.





Che vuoi, Catullo? meglio morire.

Scrofola Nonio è magistrato,

Vatinio giura il falso per un consolato.

Che vuoi, Catullo? meglio morire.





Vuoi ridere? poco fa, accusandolo

in tribunale, il mio Calvo inchioda

Vatinio ai suoi delitti: entusiasta

uno del pubblico si sbraccia e grida:

'Gran dio, che oratore quel cazzetto!'





Il miserabile cazzo di Ottone,

le gambe sporche e rozze d'Erio, il peto

sinistramente lieve di Libone,

a te e a Sufficio, quel vecchio rifatto,

almeno questo dovrebbe spiacere.

E torna pure ad incazzarti Cesare

generalissimo, contro i miei versi

innocenti.





Se non ti dispiace troppo, ti prego,

dimmi in quali tenebre ti nascondi.

Ti ho cercato al piccolo Campo Marzio,

al Circo, in tutti i buchi dei librai,

nel tempio consacrato a Giove Massimo.

E poi sotto i portici di Pompeo

ho fermato, amico, tutte le femmine

che vedevo col volto soddisfatto.

Urlavo cosí, chiedendo di te:

'Ridatemi Camerio, malefemmine'.

'Scoprimi il petto,' mi risponde una

'l'ho qui fra le rose dei miei capezzoli.'

Certo trovarti è una fatica d'Ercole.

Perché ti nascondi con tanto sdegno?

Avanti, amico, dove sei finito?

Coraggio, rischia, esci allo scoperto.

Ti attira il latte di bambina, ora?

Ma se tieni la bocca suggellata

perdi tutti i piaceri dell'amore.

Venere ama chi non sa tacere.

Se vuoi però, serra pure la bocca,

purché anch'io divida il vostro amore.





Scherzo cosí divertente, Catone,

è giusto che tu lo sappia e ne rida.

Ridine per l'amore che mi porti:

credi, è uno scherzo troppo divertente.

Sorpreso un ragazzino che si fotte

una fanciulla, io, Venere mia,

col cazzo ritto, un fulmine, l'inculo.





Una bella coppia di canaglie fottute

quel finocchio di Mamurra e tu, Cesare.

Non è strano: macchiati delle stesse infamie,

a Formia o qui a Roma, se le portano

impresse e niente potrà cancellarle:

due gemelli infarciti di letteratura

sui vizi comuni allo stesso letto,

l'uno piú avido dell'altro nel corrompere,

rivali e soci delle ragazzine.

Una bella coppia di canaglie fottute.





Celio, la mia Lesbia, quella Lesbia,

quella sola Lesbia che amavo

piú di ogni cosa e di me stesso,

ora all'angolo dei vicoli spreme

questa gioventú dorata di Remo.



58b


Nemmeno se diventassi il custode

di Creta, l'alato Perseo o Ladas,

nemmeno se fossi portato in volo

da Pegaso o dai candidi cavalli

di Reso e tu, Camerio, mi offrissi

in aiuto chiunque abbia ali,

gli uccelli o l'impeto stesso dei venti,

riuscirei a non essere distrutto

di stanchezza, sfinito di fatica

a furia di cercarti, amico mio.





Si succhia il cazzo di un tribuno

la rossa bolognese moglie di Menenio,

quella che nei cimiteri vedi ogni giorno

rubare il cibo ai roghi

e mentre si getta sul pane

che rotola dal fuoco,

frustata da un crematore rasato

per punizione.





Una leonessa sui monti di Libia o Scilla

che dentro ringhia sordamente, chi,

chi t'ha generato con l'animo cosí inumano

e duro da disprezzare il grido che t'implora

nella sventura estrema, cuore, cuore selvaggio?





Tu che vivi, lio d'Urania,

sol colle d'Elicona e affidi

all'uomo la tenera vergine

rapita, o Imeneo Imen,

o Imen Imeneo,

cingi le tempie con i fiori

di maggiorana profumata,

prendi il velo di fiamma e qui

lieto, qui vieni col tuo piede

bianco fasciato d'oro:

eccitato dall'allegria

del giorno, con voce squillante

canta gli inni nuziali, batti

coi piedi la terra e impugna

la fiaccola di pino.

Oggi Vinia a Manlio va sposa,

bella come la dea di Cipro

quando andò al giudizio di Paride,

vergine che si sposa

con gli auspici migliori,

splendente come nella Misia

ramoscello di mirto in fiore,

che le dee degli alberi nutrono

con gocce di rugiada

per poterne godere.

Vieni dunque e senza fermarti

lascia le grotte delle Muse

sulla montagna di Tespie,

bagnate dalle fresche acque

della fonte Aganippe,

e chiama a casa la padrona,

stringendo in un nodo d'amore

il desiderio dello sposo,

come intorno al tronco si avvinghia

con la sua forza l'edera.

E anche voi, candide vergini,

che avrete un giorno come questo,

seguendo il ritmo cantate

in coro 'o Imeneo Imen,

o Imen Imeneo',

perché piú volentieri,

sentendosi chiamare al rito,

lui che ispira onesti piaceri,

che ogni amore onesto annoda,

accorra qui fra noi.

Nessun dio è piú implorato

da un amante riamato,

nessuno è piú onorato in cielo

da noi, o Imeneo Imen,

o Imen Imeneo.

Per i li t'invoca il padre

tremando, in tuo onore sciolgono

le vergini la loro veste,

col timore del desiderio

ti ascoltano i mariti.

E tu, strappandola dal grembo

della madre, abbandoni a un giovane

brutale una fanciulla appena

in fiore, o Imeneo Imen,

o Imen Imeneo.

Nessun piacere che sia lecito

può prendere senza di te

l'amore: solo se tu vuoi

è possibile. Non è facile

essere come te.

Senza di te nessuna casa

può dare li che sostengano

il padre: solo se tu vuoi

è possibile. Non è facile

essere come te.

Una terra senza i tuoi riti

non avrà difensori ai suoi

confini: solo se tu vuoi

potrà averli. Non è facile

essere come te.

Spalancate le porte: vieni,

fanciulla, e guarda come splende

la fiamma delle torce al vento.





Il suo pudore la trattiene e,

sentendone il richiamo, piange

ora che deve andare.

Non piangere, non c'è pericolo

che una donna piú bella

di te, Aurunculeia,

veda sorgere dall'Oceano

i bagliori del giorno.

Bella come un giacinto

fra i mille colori dei fiori

in uno splendido giardino,

dove sei? il giorno se ne va:

esci, sposa bambina.

Esci, esci bambina. Ascoltami,

se credi che sia giunto il tempo.

Guarda come s'è fatta d'oro

la fiamma delle torce al vento:

esci, esci bambina.

Non hai un marito irrequieto

che per cercare in qualche avventura

il piacere del tradimento,

voglia riposare lontano

dal tuo giovane seno.

E come la vite flessuosa

si avvince agli alberi vicini,

lui dal tuo abbraccio sarà

vinto. Ma il giorno se ne va:

esci, esci bambina.

O letto, letto dell'amore




letto bianco d'avorio,

quanta gioia procurerai

al tuo padrone e quanta lui

ne godrà nel volo di notti e

giorni. Ma il giorno se ne va:

esci, esci bambina.

Alzate le torce, fanciulli,

ecco, viene il velo di fiamma.

Cantate, cantate con noi

'Io Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo'.

Scoppieranno tutti gli scherzi

pungenti del canto di nozze

e tu, ragazzo, lascia, lascia

le noci ai bambini: l'amore

del padrone è finito.

Su, dà queste noci ai bambini,

languido amico: hai giocato

fin troppo con le noci: ora

dovrai adattarti a Talasio.

Dai le noci, ragazzo.

Sino ad oggi, ragazzo mio,

disprezzavi le contadine:

ora chi ti faceva i riccioli

te li taglia. Povero, povero

ragazzo, dà le noci.

Si dice, sposo profumato,

che tu non sappia rinunciare

ai ragazzi; ma devi farlo.

Io Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo.

Certo, solo piaceri leciti

erano i tuoi, ma ad un marito

nemmeno questi sono leciti.

Io Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo.

E tu, sposa, non rifiutare

a tuo marito ciò che chiede,

mai o andrà a cercarselo altrove.

lo Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo.

Ecco la casa del tuo uomo,

cosí potente e fortunata:

lascia che sia come desideri,

lo Imeneo Imen lo,

Io Imen Imeneo,

finché la candida vecchiaia

con il tremito delle tempie

dica di a tutti, a tutto.

Io Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo.

Varcando questa porta liscia,

per augurio, oltre la soglia

posa il tuo piedino dorato.

Io Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo.

Vedi, in casa c'è tuo marito

sdraiato sul letto di porpora

e ti tende le braccia.

Io Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo.

Anche dentro il suo petto brucia

la stessa fiamma che ti brucia,

ma piú profondamente.

O Imeneo Imen Io,

o Imen Imeneo.

Lascia libero il braccio morbido

di questa bambina, ragazzo:

il letto nuziale l'attende.

Io Imeneo Imen Io,

Io Imen Imeneo.

E voi che siete state amate

solo dai vostri vecchi sposi,

coricatela nel suo letto.

Io Imeneo Imen lo,

Io Imen Imeneo.

Ora può venire lo sposo:

tua moglie è nel letto nuziale

e il suo viso in fiore risplende

bianco come una margherita,

rosso come il papavero.

E tu (mi assistano gli dei)

sei ugualmente bello: Venere

non si è certo dimenticata

di te. Ma il giorno se ne va:

avanti, non tardare.

No, tu non hai tardato molto:

sei qui. Venere sarà dolce

con te, perché ciò che tu vuoi

lo vuoi al sole e il tuo amore

non nascondi a nessuno.

Si provi a sommare i granelli

di sabbia nei deserti d'Africa,

le stelle che brillano in cielo,

chi vuol contare i vostri mille e

mille giochi d'amore.

Godetevi il piacere e presto

fate lioli. Una famiglia

cosí antica non può vivere

senza li, ma dal suo sangue

sempre deve rinascere.

Voglio che un piccolo Torquato,

tendendogli le mani

dal grembo della madre,

dolcemente, le labbra schiuse,

al padre suo sorrida.

E somigli tanto a suo padre,

a Manlio, che senza fatica

tutti lo riconoscano,

e rispecchi nel volto

l'onestà della madre.

E per virtú di madre

abbia sempre lode il suo sangue,

come eternamente a Telemaco

per la purezza di sua madre

rimane onore raro.

Sprangate le porte, fanciulle:

lo scherzo è finito. Ma voi,

dolci sposi, siate felici:

godetevi la giovinezza

nei piaceri d'amore.





Viene la sera e Vespero nel cielo

dopo estenuante attesa accende la sua luce.

In piedi, in piedi, ragazzi; via dalle mense:

qui verrà la vergine, si canterà l'imeneo.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Guardateli, ragazze, alzatevi con loro;

sull'Eta brilla di luce la stella della sera.

, è cosí, sono balzati in piedi;

in piedi canteranno e dovremo ascoltarli.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Non avremo vittoria facile, comni.

Osservate come ripetono e ripetono

il loro canto: sarà memorabile,

v'impegnano tutte le loro forze.

E noi abbiamo la mente rivolta altrove:

vinceranno, meritano questa vittoria.

Ma almeno ora prestate un po' d'attenzione:

cominciano a cantare, dovremo rispondere.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Non vola in cielo stella piú crudele, Espero,

se puoi strappare una lia all'abbraccio di sua madre,

strapparla a quell'abbraccio che non vuol lasciare,

per abbandonarla innocente all'ardore di un giovane.

Un nemico non è piú crudele coi vinti.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Non splende in cielo stella piú gentile, Espero,

se con la tua luce suggelli quelle nozze

che sposo e genitori avevano deciso,

ma non strinsero prima che si alzasse la tua fiamma.

Puoi chiedere al cielo un'ora piú felice di questa?

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Espero ha rapito una di noi, comne.

Al tuo apparire vegliano i custodi.

La notte cela i ladri, ma tu, Espero,

rispuntando al mattino, li sorprendi.

E le ragazze in pianto fingono di maledirti,

anche se maledicono chi invocano in segreto.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Come in un giardino germoglia solitario un fiore

sfuggito al gregge e mai sfiorato dall'aratro,

e il vento lo accarezza, lo nutrono sole e pioggia,

tutti i giovani vorrebbero coglierlo;

ma se sfiorisce divelto da un'unghia aguzza,

di tutti loro non lo desidera piú nessuno:

cosí una vergine è cara finché rimane pura,

ma quando violata perde il suo primo fiore,

non è piú gradita e cara a nessuno.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Come la vite che nasce isolata in terra spoglia

non riesce ad alzarsi né a maturare l'uva,

ma piegandosi sotto il peso del tenero fusto

quasi sfiora con le sue radici il tralcio piú alto

e da nessuno, contadini o buoi, è presa a cuore,

se per caso si lega in matrimonio all'olmo

tutti, contadini o buoi, l'hanno a cuore;

cosí invecchia trascurata una fanciulla vergine,

ma se a tempo debito stringe giuste nozze,

eluso l'odio del padre, avrà l'amore di un uomo.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.

Dunque non opporti, vergine, a questo sposo

che ti ha dato tuo padre, non opporti:

a padre e madre si deve obbedire.

La verginità non è solo e tutta tua:

un terzo è del padre, un terzo della madre,

solo un terzo è tuo: non puoi opporti a loro

che con la dote al genero ti hanno data.

Imen o Imeneo, Imen vieni o Imeneo.





Solcato in fuga a vele spiegate il mare profondo,

Attis correndo raggiunse d'impeto il bosco frigio

e in mezzo alla foresta i luoghi oscuri della dea;

fuori di sé, in preda a una furia rabbiosa,

si recise il sesso con una pietra aguzza.

Sentì cosí ogni forza d'uomo sfuggirgli dal corpo

(goccia a goccia il suo sangue bagnava la terra);

strinse nelle mani candide il piccolo tamburo

di Cibele (il tuo tamburo, dei tuoi misteri, madre)

e battendo con dita delicate la sua pelle

in un tremito si rivolse alle comne:

'Venite, Galle, venite tra i boschi di Cibele,

venite tutte, gregge errante della dea di Dindimo:

cercando esuli terre lontane, al mio comando

per seguirmi vi siete affidate, voi mie comne,

che avete sfidato la furia rabbiosa del mare

e per orrore di Venere vi siete evirate,

rallegrate di corse pazze il cuore della dea.

No, no, nessun indugio, venite tutte, seguitemi

alla casa frigia di Cibele, alle sue foreste,

dove rombano i tamburi, dove squillano i cembali,

dove risuonano cupe le melodie del flauto,

dove, cinte d'edera, si dimenano le Mènadi,

dove con acute grida si celebrano i riti,

dove svolazza l'orda vagabonda della dea:

là con le nostre danze impetuose dobbiamo andare'.



Il canto di Attis ermafrodito alle comne

provoca nella schiera un urlo scomposto di voci,

brontolano i tamburi, strepitano i cembali,

e corrono tutte al verde Ida come impazzite.

Perduta in un delirio se ne va Attis affannata,

guidandole tra boschi oscuri al suono del tamburo,

come una giovenca selvaggia che rifiuti il giogo:

dietro la sua furia si precipitano le Galle.

Raggiunto il tempio di Cibele cadono sfinite

e morte di fatica si addormentano digiune.

Languidamente un torpore suggella i loro occhi

e spegne nel sonno la furia rabbiosa del cuore.

Ma quando i raggi dorati del sole si diffusero

nell'alba livida sulla terra e il mare in tempesta,

diradando in un baleno le ombre della notte,

Attis si scuote e il sonno veloce s'allontana

fuggendo tra le braccia impazienti di Pasitea.

Svanito nelle nebbie del riposo il suo furore,

Attis rimugina in cuore ciò che aveva fatto

e a mente fredda comprende come s'era ridotto:

con l'animo in tumulto allora ritorna alla spiaggia.

E guardando il mare immenso, gli occhi pieni di lacrime,

con voce affranta si rivolge in pianto alla sua terra:

'Patria che m'hai creato, patria che m'hai generato,

come uno schiavo dannato che fugge dal padrone

t'ho abbandonato fuggendo ai boschi dell'Ida

per vivere tra la neve, in tane di belve

cacciandomi furiosa in ogni loro covo:

dove, dove potrò cercarti, patria mia?

Verso di te corrono gli occhi a volgere lo sguardo

se per un attimo questa rabbia mi dà respiro.

E dovrò dunque vivere in questi luoghi sperduti,

senza piú casa patria beni amici genitori,

senza piú fori palestre stadi e ginnasi?

Maledetta, lamentati piangi, anima mia.

Non c'è un aspetto che io, io non abbia assunto: donna,

uomo, giovinetto, ragazzo, tutto sono stato,

il fiore dei ginnasi, la gloria delle palestre.

Il calore della gente riempiva la mia casa

e quando al sorgere del sole lasciavo il mio letto

tutte le stanze erano ornate di fiori. Ora,

ordinata schiava di Cibele, questo sarò,

una Mènade, un rottame d'uomo, un eunuco

che vive tra le nevi gelide del verde Ida.

E trascinerò la vita sui monti della Frigia

tra cerve di foresta e cinghiali selvatici.

E piango, piango, mi dispero: non l'avessi fatto'.

Quando il grido sfuggitogli dalle labbra di rosa

giunse alle orecchie degli dei come una folgore,

subito sciolse Cibele i suoi leoni, aizzando

quello alla sua sinistra, quel predatore d'agnelli:

'Via, gettati contro di lui, che senta il tuo furore,

che costretto dalla tua furia ritorni nei boschi,

quello sciocco che sogna di sfuggire al mio potere.

Via, sfèrzati il dorso con la coda, battiti, battiti,

che tutta la terra sia assordata dal tuo ruggito,

atterrita dal fiammeggiare della tua criniera'.

Dopo le minacce Cibele libera la belva

e quella fulminea, scatenando la sua ferocia,

si getta alla caccia, ruggisce, fa strage di piante.

Giunta sulla riva umida e bianca della spiaggia

scorge il tenero Attis nel riverbero del mare

e scatta: quello impazzito fugge nella foresta.

schiava rimase per tutto il resto della vita.

O dea, dea grande, dea Cibele, dea di Díndimo,

signora, allontana dalla mia casa il tuo furore:

scatena altri ai tuoi deliri, altri alla tua rabbia.





Un tempo i pini cresciuti in vetta al Pelio solcarono,

si dice, le onde limpide di Nettuno

sino alla foce del Fasi, alle terre di Eète,

quando un pugno di giovani, i piú forti degli Argivi,

decisi a sottrarre il vello d'oro ai Colchi,

affrontarono a forza il mare con la loro nave

battendo l'azzurra distesa coi remi d'abete.

La dea che abita sulle acropoli costruí

per loro una macchina che volava al primo vento,

fissò ai fianchi dello scafo il fasciame di pino

e battezzò la prora affidandola ad Anfitrite.

Cosí il giorno che il suo rostro solcò nel vento il mare

e sui remi le onde scintillarono di spuma,

dai gorghi abbaglianti sollevarono il volto fiero

le Nereidi marine stupite per il prodigio.

Quel giorno e mai piú dopo le Ninfe del mare

apparvero agli occhi dei mortali

nude sino al petto fuori dai gorghi spumeggianti.

Fu allora che Peleo s'innamorò di Teti

e Teti accettò di sposare un uomo:

allora Giove permise a Peleo di unirsi a Teti.

O eroi nati in secoli avvolti di nostalgia,

salute a voi, stirpe di dei, frutto divino

del grembo materno, salute:

io nel mio canto voi invocherò,

e piú di tutti te, Peleo, nobilitato

dalle nozze, te, colonna di Tessaglia, a cui Giove,

il padre degli dei, donò la sua amata.

E tua fu Teti, la piú bella lia di Nereo:

Oceano, che cinge di mare la terra, e sua moglie

acconsentirono che tu sposassi la nipote.

Giunto infine il giorno tanto desiderato,

tutta la Tessaglia si riversa nella tua casa,

la reggia si riempie di una folla festosa,

tutti portano doni e in volto mostrano la gioia.

Lasciata Sciro, abbandonate Tempe in Tessaglia,

le case e le mura di Crannone e Larissa,

tutti corrono a Fàrsalo, una folla in ogni luogo.

Nessuno va piú nei campi: gli animali impigriscono,

i denti dei rastrelli non rimondano le viti,

il toro non dissoda piú col vomere la terra,

la falce non sfronda gli alberi attenuandone l'ombra:

in squallido abbandono arrugginiscono gli aratri.

Ma in ogni angolo la reggia dove lui viveva

risplende in uno sfolgorio di ori e argenti.

L'avorio bianco dei seggi, lo scintillio dei calici,

tutto il palazzo si accende del tesoro reale.

E nel cuore della casa è pronto il letto nuziale

della dea: inciso in avorio indiano, lo ricopre

una coltre tinta con la porpora rosa

delle conchiglie: le sue ure mostrano gesta

di eroi antichi con arte stupenda.

Ed ecco sulla riva di Dia fra scrosci di onde

Arianna vede fuggire Teseo all'orizzonte

sulla nave che veloce s'allontana e in cuore

presa dal delirio non vuol credere ai propri occhi,

ora che strappata alle illusioni del sonno

si ritrova abbandonata sulla spiaggia deserta.

Batte coi remi il mare, l'ha dimenticata, fugge,

lasciando che i venti disperdano le sue promesse.

E con sguardo disperato la lia di Minosse

lo segue da lontano, tra le alghe, una baccante

di marmo, travolta da un'ondata d'angoscia;

lo segue, i biondi capelli scomposti, senza nastri,

il petto scoperto, senza che lo veli una veste,

senza un laccio che leghi il suo seno di latte:

scivolate dal corpo quelle vesti giacciono

sparse ai suoi piedi: un gioco per le onde del mare.

Ma lei non si cura di nastri o di veli che cadono:

a te con tutto il cuore, Teseo, con tutta l'anima,

a te con tutta la sua mente si avvinghia perduta.

Sventurata: con le sue continue torture,

seminandole il cuore di spine, Ericina

l'ha fatta impazzire il giorno che Teseo, lasciato

il golfo del Pireo, giunse arditamente

a Gortina nel palazzo di un re iniquo.

Costretta, sembra, da una spaventosa epidemia,

per espiare l'uccisione di Androgeo

la città di Cècrope immolava al Minotauro

i giovani migliori, il fiore delle vergini.

Di fronte al dolore che tormentava quelle mura

Teseo decise di sacrificare se stesso,

perché cessassero dalla sua cara Atene a Creta

quei lugubri convogli di morti viventi:

sulle ali del vento con una nave da corsa

approdò alla reggia dell'implacabile Minosse.

Qui tra i profumi soavi del suo letto di vergine,

con un desiderio improvviso negli occhi lo guarda

la lia del re, sbocciata in braccio a sua madre

come i mirti nutriti dalle acque dell'Eurota

o i colori vivaci che inventa la primavera;

e da lui non riesce a distogliere lo sguardo

in fiamme, tutto il suo corpo è un inferno

che arde fin dentro le ossa, in tutte le viscere.

Tu, cuore crudele, che procuri questi tormenti,

che mescoli gioie a dolori, divino fanciullo,

e tu, regina di Golgi, dei boschi sull'Idalio,

in che tempeste l'avete gettata: tutta un fuoco,

per il biondo straniero lei ora si strugge

e che vuoti di paura si porta in cuore.

Come impallidí con i riflessi dell'oro in viso,

quando Teseo, rischiando la gloria o la morte,

si accinse a combattere contro quel mostro spietato.

Ma i suoi piccoli, inutili doni agli dei, i voti

sussurrati a fior di labbra non furono respinti.

Come tempesta selvaggia sulla cima del Tauro

piega una quercia che agita le braccia o un abete

che suda resina carico di pigne e ne scalza

di furia il tronco, che divelto dalle sue radici

cade riverso distruggendo tutto quanto incontra,

Teseo spezzandogli la schiena vinse quel mostro

che al vuoto scagliava cornate senza senso.

E di là avvolto di gloria ritorna incolume

seguendo con un filo sottile i passi perduti,

perché il groviglio inestricabile del labirinto

non gli impedisca d'uscire dal fondo del palazzo.

Ma basta divagare: devo dire altro:

fuggendo lo sguardo di suo padre, l'abbraccio

della sorella e della madre che l'amava

perdutamente, quella liuola impazzita

a tutti preferisce il dolce amore di Teseo

e va per mare alla riva spumeggiante di Dia;

qui vinta dal sonno chiude gli occhi; l'amante,

che l'ha dimenticata, fugge, l'abbandona.

E lei sconvolta dal fuoco che ha in cuore

con tutta la voce grida la sua disperazione,

cupa si arrampica sulle scogliere a picco

per spingere lo sguardo oltre la distesa infinita

del mare o corre incontro alle sue onde inquiete

alzando la veste leggera sulle gambe ignude

e nello sgomento del suo dolore si lamenta,

singhiozza, un gelo dentro, il viso bagnato di lacrime.

'Tu, tu perfido, tu Teseo, dal mio focolare

m'hai strappato per lasciarmi su una spiaggia deserta'

Fuggi; non pensi, hai dimenticato i giuramenti,

le leggi divine, la maledizione che porti?

Niente dunque ha potuto distoglierti da un proposito

cosí crudele? Nessuna dolcezza che insinuasse

nella ferocia del tuo cuore un poco di pietà?

Un tempo la tua voce suadente mi accarezzava

di speranze, non mi prometteva l'inferno,

ma la gioia delle nozze, l'amore che sognavo:

ora tutto è svanito, lo disperde il vento.

No, nessuna donna creda ai giuramenti di un uomo,

nessuna s'illuda che sia sincero quando parla:

se in cuore li rode il desiderio di possedere,

non temono giuramenti, promettono, promettono,

e sfogata la furia della loro voglia,

impassibili scordano promesse e giuramenti.

Ma io ti salvai mentre ti dibattevi nel vortice

della morte, lasciando che morisse mio fratello

piuttosto che abbandonarti a te stesso, traditore.

In cambio sarò gettata da sbranare a rapaci

e belve, e non avrò un pugno di terra sulla tomba.

Chi, forse una leonessa su una rupe deserta,

chi t'ha generato? il rigurgito bianco del mare?

le Sirti, la furia di Scilla, il gorgo di Cariddi?

È questo il premio per la vita che t'ho regalato?

Se in cuor tuo non pensavi di farmi tua sposa

perché temevi il severo giudizio di tuo padre,

avresti potuto almeno condurmi a casa tua

come schiava: ti avrei servito con gioia, in ginocchio,

accarezzando con acqua fresca i tuoi piedi candidi

o stendendo sul tuo letto una coperta di porpora.

Ma perché, perché pazza di dolore, mi lamento

col vento che non sa nulla? non ha sensi, non può

udire le parole che grido, non può rispondermi.

Ormai lui ha quasi raggiunto il mare aperto

e qui fra queste alghe non vedo nessuno.

Con scherno feroce la sorte mi nega in quest'ora

disperata anche chi possa ascoltare i miei lamenti.

Non fosse mai venuto il giorno, Giove onnipotente,

in cui le navi di Atene approdarono a Cnosso:

quel marinaio infido non sarebbe sceso a Creta

portando al Minotauro il suo maledetto tributo,

e non l'avremmo ospitato se in un viso gentile

non avesse nascosto l'infamia dei suoi propositi.

Che fare? non ho speranza, nulla, sono perduta.

Tornare ai monti di Creta dai quali mi divide

coi suoi gorghi la distesa minacciosa del mare?

E sperare in mio padre? l'ho lasciato per seguire

un giovane coperto del sangue di mio fratello.

Consolarmi nell'amore fedele dello sposo?

è in fuga: i remi si curvano docili nell'acqua.

E questa è un'isola deserta, senza un rifugio,

circondata dal mare, non ha vie d'uscita:

nessuna speranza di fuggire: tutto è silenzio,

solitudine, tutto mi parla di morte.

Ma prima che nella morte si spengano i miei occhi

e la vita abbandoni il mio corpo stremato,

io chiedo agli dei vendetta per questo tradimento

e imploro nell'ora estrema la loro protezione.

Voi, voi che colpite di vendetta i crimini umani,

voi, Eumènidi, che avete serpenti per capelli

a mostrare l'ira che prorompe dal petto,

venite, venite qui, ascoltate i lamenti

che l'infelicità mi strappa dalle viscere:

impotente, il cuore in fiamme, cieca di rabbia.

È un grido che mi nasce dentro, vero, giusto:

non lasciate che il mio dolore resti invendicato:

col cuore che gli consentí d'abbandonarmi, o dee,

Teseo precipiti se stesso e i suoi nel lutto.'

Quando il grido della sua disperazione si spense

con la supplica di punire quel crimine odioso,

il re dei celesti annuí con gesto irrevocabile

e a questo tremò la terra, tremarono le onde

increspate del mare e in cielo le stelle lucenti.

La mente di Teseo fu annebbiata dalle tenebre

e tutti gli ordini che egli custodiva con cura

dentro di sé, gli caddero dal cuore smemorato:

cosí dimentica di segnalare al padre in ansia

che tornava incolume al porto di Eretteo.

A suo tempo Egeo, affidando ai venti il lio

che lasciava con le sue navi le mura di Atene,

gli aveva dato abbracciandolo questi ordini:

'liolo, unica gioia di tutta la mia vita,

ora che alla fine dei miei giorni io t'ho riavuto,

lio mio, ti devo abbandonare a questo rischio:

la mia sventura e il tuo coraggio ti strappano a me

senza rimedio e i miei occhi indeboliti

non potranno saziarsi del tuo volto amato;

no, non ti lascerò partire con animo lieto,

non permetterò che tu innalzi insegne di gioia;

devo prima sfogare il cuore di tutto il suo pianto,

sporcare di terra e polvere i miei capelli bianchi;

poi alzerò sul tuo albero vele nere al vento,

perché il loro colore lugubre come la ruggine

ricordi il mio dolore, il fuoco che mi brucia.

Ma se la dea, che abita la sacra Itono e giura

di difendere il popolo e la città di Eretteo,

ti lascerà affondare il polso nel sangue del toro,

cerca che questi ordini, nascosti in fondo al cuore,

rimangano vivi e che mai il tempo li cancelli:

appena scorgerai lontano i nostri colli

ammaina dagli alberi le insegne di lutto

e con solide funi alza vele candide,

perché vedendole a festa io riconosca subito

i segnali che annunciano il tuo felice ritorno'.

Ma questi ordini che custodiva a forza in cuore

fuggirono da Teseo come nubi disperse

dal vento sulla cima di un monte bianco di neve.

E il padre che scrutava l'orizzonte dall'acropoli

struggendo gli occhi angosciati in continuo pianto,

all'apparire delle vele gonfiate dal vento,

certo che il destino gli avesse tolto il lio,

si gettò impazzito dall'alto della rupe.

Cosí dentro la sua casa in lutto per questa morte

il crudele Teseo provò su di sé il dolore

che aveva inflitto ad Arianna dimenticandola.

E lei guarda tristemente la nave allontanarsi

trafitta in cuore dai mille affanni che la tormentano.

Ma dall'altro lato scende a volo il giovane Iacco

con il suo seguito di Satiri e Sileni,

cercando te, acceso d'amore per te, Arianna.

E con lui, in preda a pazzia, eccitate si agitano,

dimenando la testa al grido evoè, le Baccanti.

Alcune scuotono i pampini in cima ai tirsi,

altre spargono le membra di un vitello squartato,

si cingono la fronte di serpenti attorcigliati

o celebrano con riti oscuri quel culto

misterioso che i profani vorrebbero conoscere.

Battono a mani aperte i loro timpani,

traggono squilli acuti dal bronzo dei cembali

o soffiano dai corni boati profondi,

mentre il flauto barbaro stride rumori terribili.

Con queste splendide immagini era decorata

la coltre che copriva a drappeggio il letto nuziale.

Quando la gioventú di Tessaglia si fu stancata

di ammirarla, cedette il posto agli ospiti divini.

Come zefiro, mentre alle porte del sole a volo

sorge l'aurora, increspa con la brezza del mattino

il mare tranquillo e alza una ad una le onde,

che prima sospinte da un soffio leggero si muovono

pigre e risuonano appena con sussurri di risa,

poi col crescere del vento via via s'infittiscono

e lontano si accendono di riflessi vermigli,

cosí lasciando il palazzo reale, in fretta

ciascuno per vie diverse ritorna a casa.

Dopo la loro partenza, dalla cima del Pelio

prima arriva Chirone coi doni della foresta:

sono fiori di campo, tutti quelli che in Tessaglia

nascono sui monti, i fiori che il tepore fecondo

del favonio fa sbocciare sulla riva dei fiumi:

li porta intrecciati in ghirlande alla rinfusa

e alla carezza di quei profumi ride la casa.

Poi dalla verde valle di Tempe, da quella valle

tutta circondata a monte di foreste e lasciata

alle danze sacre delle ninfe, viene Peneo

a mani colme: porta strappati dalle radici

faggi altissimi e lauri dal tronco dritto e slanciato,

un platano che vibra, l'agile pianta sorella

di Fetonte arso vivo, e un alto cipresso.

Tutto intorno alla reggia intreccia i loro rami

perché il verde delle foghe veli l'atrio di fresco.

Lo segue Prometeo, quell'ingegno sottile,

con ancora qualche segno del castigo subíto

quando un tempo lontano fu stretto in catene

ad una roccia sospesa sull'orlo di un abisso.

Poi il padre degli dei con la sua sposa divina

e tutti i li: lascia nel cielo te solo, Febo,

e tua sorella che abita sui monti dell'Idro:

lei, che come te disprezza Peleo,

non può onorare le fiaccole nuziali di Teti.

Assisi gli dei in seggi bianchi come la neve

e imbandite le mense con ogni sorta di cibi,

le Parche, scosse in corpo da un brivido incerto,

intonarono il canto delle loro profezie.

Una veste candida orlata di porpora ai piedi

avvolgeva come un manto il loro corpo tremante,

bende rosa incoronavano le tempie di neve,

le mani ripetevano il loro eterno lavoro.

La sinistra stringeva la rocca avvolta di lana,

la destra, tirando piano i fili, li lavorava

fra le dita torcendoli col pollice abbassato

e girava il fuso equilibrato dalla sua ruota;

coi denti toglievano ogni imperfezione al lavoro

e i bioccoli strappati alla superficie dei fili

pendevano dalle sottili labbra rinsecchite;

ai loro piedi cesti di vimini raccoglievano

in matasse morbide il candido filato.

E filando le loro matasse, con voce chiara

rivelavano in un canto profetico destini

che nessun futuro potrà accusare di menzogna.

'O tu che esalti di virtú la nobiltà del nome,

baluardo di Tessaglia, tu carissimo a Giove,

ascolta le profezie che in questa festa ti svelano

le tre sorelle. E voi, che ordite di trame il destino,

girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Ora Espero verrà a portarti ciò che desiderano

i mariti e con la dolce stella verrà la sposa

a colmare d'amore il tuo cuore indifeso,

a confondere il tuo sonno col suo languore

stringendoti intorno al collo le sue braccia sottili.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Nessuna casa mai vide un amore come questo,

nessun amore uní due amanti con la passione

di questo che lega l'uno all'altra Peleo e Teti.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Da voi nascerà Achille, incapace di paura,

di lui il nemico vedrà solo il petto, mai la schiena;

cosí veloce nella corsa da vincere sempre

e precedere il lampo di una cerva in fuga.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Nessun guerriero si potrà misurare con lui

quando la Frigia sarà un lago di sangue troiano

e il terzo erede di Pèlope lo spergiuro

devasterà, dopo l'assedio, le mura di Troia.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Quante madri dovranno sulla tomba dei lioli

riconoscergli gesta e valore incredibili,

strappandosi dal capo i grigi capelli scomposti,

graffiandosi il petto avvizzito con mani tremanti.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Come un mietitore falciando la messe di spighe

spoglia i campi ingialliti sotto la sferza del sole

lui abbatterà i Troiani col suo ferro implacabile.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Testimone delle sue gesta sarà lo Scamandro

che da piú bocche si getta nei flutti d'Ellesponto:

Achille coprirà il suo letto di cadaveri

riscaldando col sangue le acque profonde.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

E lo attesterà la vittima offerta alla sua morte,

quando in cima al suo tumulo, una montagna di terra,

cadrà il pallido corpo della vergine immolata.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Appena il destino avrà concesso agli stanchi Achei

di abbattere le mura di Nettuno intorno a Troia,

il grande tumulo berrà il sangue di Polissena,

che vittima stroncata da un colpo di scure

s'affloscerà sulle ginocchia, un tronco senza vita.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Ma ora stringete il vostro desiderio d'amore:

accolga lo sposo con patto fecondo la dea,

si dia la sposa al marito impaziente.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.

Rivedendola il mattino dopo la sua nutrice

non potrà piú cingerle il collo col filo di ieri

(girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate),

e la madre, preoccupata che la sua liola

dormisse sola, potrà sperare in cari nipoti.

Girate avvolgendo i vostri fili, fusi girate.'

Questo l'augurio di felicità che rivelarono,

cantando con voce divina, le Parche a Peleo.

Un tempo, quando non si spregiava la fede,

i celesti visitavano le case onorate

degli eroi, si mostravano ai convegni degli uomini.

E nei giorni sacri delle feste annuali

piú volte il padre degli dei, tornando nel suo tempio

splendente di luce, vide un'ecatombe di tori.

Cosí Libero, errando sulla cima del Parnaso,

guidò le Tíadi che urlano a capelli sciolti

e la gente di Delfi accorrendo dalla città

l'accolse felice tra il fumo degli altari.

Un tempo nei rischi mortali della guerra Marte,

la signora del violento Tritone e Nemesi

incitarono con la loro presenza gli eserciti.

Ma poi la terra si macchiò di crimini incredibili,

le passioni bandirono dal cuore la giustizia

e di sangue fraterno si bagnarono i fratelli,

i li non piansero piú i loro genitori.

il padre si augurò la morte del suo primogenito

per cogliere in pace il fiore di una matrigna vergine,

la madre piegandosi alle voglie inconsce del lio

non si curò di profanare il ricordo dei morti:

e mescolare il bene al male con furore infame

ci alienò la misericordia degli dei.

Cosí piú non si avventurano in mezzo a noi,

non sopportano che la luce del giorno li sfiori.





L'angoscia sfibrante di un dolore senza tregua

mi distoglie, Òrtalo, da ogni volontà di vivere

e nell'incertezza di questa sofferenza non penso piú

di trovare nelle parole il conforto della poesia:

l'onda che nasce dal gorgo di Lete ora, ora

bagna il piede pallido ora di mio fratello:

strappato ai miei occhi, la terra di Troia

ora lo dissolve sotto il peso della sua collina.

Ti parlerò e non ti sentirò parlare,

mai, mai piú ti rivedrò, fratello mio:

amato piú della mia vita, sempre ti amerò,

sempre mi terrò in cuore il pianto per la tua morte,

come l'usignolo tra le ombre piú folte dei rami

piange nel suo canto la sorte straziante di Iti.

Ma anche in cosí grande tristezza, Òrtalo,

eccoti questi versi tradotti da Callimaco,

perché tu non creda che, disperse nel vento,

le tue parole mi siano sfuggite dalla mente,

come scivola dal grembo di una ragazzina

il pomo che in segreto le donò l'innamorato,

quando, scordatasi d'averlo fra le pieghe della veste,

sussulta trasognata all'arrivo della madre

e le sguscia via: cade in terra il pomo rotolando

e il suo viso afflitto avvampa di vergogna.





Chi dell'universo distinse tutte le luci

e scoprí il sorgere e il tramontare delle stelle,

come si oscura in un lampo la fiamma del sole

e in che giorni dell'anno si nascondono gli astri,

come per tenero amore la luna dall'orbita

tra le rupi di Latmo furtiva s'allontana;

proprio quello, grazie agli dei, Conone mi vide,

staccata dal capo di Berenice, brillare

di luce, la chioma che lei, tendendo le braccia

morbide, promise in voto ad ogni dea del cielo,

quando il suo re, reso piú grande da queste nozze,

partí per devastare le terre degli Assiri,

col ricordo in cuore della lotta sostenuta

per vincere la sua verginità quella notte.

Ma detestano l'amore queste spose o frustrano

la gioia dei genitori con tutte le lacrime

false che spargono davanti al letto nuziale?

Testimonino gli dei, se quel pianto è vero.

Me lo rivelò coi suoi lamenti la regina,

quando il marito si accinse ad una guerra atroce.

Certo non piangevi solo per un letto vuoto,

ma per l'angoscia che ti lasciasse il tuo amore.

Un'ansia senza fine ti divorava dentro

e ti tremava il cuore, ti sentivi svenire,

impazzivi. Ma fin da quando eri bambina

io ti ritenevo coraggiosa: non ricordi

dunque l'impresa che nessun uomo avrebbe osato,

quella che ti permise di essere regina?

Come ti lamentavi salutando il marito

mio dio, quante lacrime asciugò la tua mano.

Ma chi degli dei ti ha cosí mutata? O forse

gli amanti non sanno proprio vivere lontani?

Sacrificando un toro mi promettesti allora

a tutti quanti gli dei, se fosse ritornato

il tuo amato sposo. E lui poco tempo dopo,

conquistata l'Asia, l'uní al regno egiziano.

Ora per questa impresa accolta in mezzo ai celesti,

sciolgo con un dono insolito il voto promesso.

Non volevo, regina, lasciare la tua fronte,

non volevo: lo giuro su di te, sul tuo capo

e chi giura il falso abbia la pena che si merita:

ma chi può pretendere d'essere uguale al ferro?

Anche quel monte, il piú alto su cui batte il lio

luminoso di Thia, fu spezzato dal ferro,

quando i Medi crearono un nuovo mare e i barbari

passarono con le loro navi in mezzo all'Athos.

Come resistere, se anche i monti si arrendono

al ferro? Stermina, Giove, il popolo dei Càlibi,

che per primi cercarono il ferro sottoterra

tentando ostinati di piegarne la durezza.

I capelli da cui ero recisa piangevano

la mia sorte, quando il cavallo alato di Arsínoe,

nato con l'etiope Mèmnone da stessa madre,

battendo le ali a fendere l'aria, mi prese

e sollevandomi in volo attraverso le tenebre

celesti, mi pose nel grembo casto di Venere.

La greca abitatrice dei lidi di Canòpo,

Venere Zefirítide stessa l'ha mandato,

perché fra tutte le stelle del cielo divino

non fosse posta soltanto la corona d'oro

tolta alle tempie di Arianna, ma anch'io risplendessi,

chioma recisa per voto da una testa bionda.

E ancora umida di pianto la dea mi pose

nel firmamento, nuova stella fra quelle antiche.

Io, sfiorando le costellazioni della Vergine

e dell'ardente Leone, insieme con Callisto

volgo ad occidente guidando il lento Boòte,

che solo all'alba s'immerge nel profondo Oceano.

Ma benché di notte senta il passo degli dei

e l'alba mi restituisca alla bianca Teti,

questo non mi rallegra: sapermi ormai lontana

(lasciami parlare, ti prego, vergine Nemesi:

non so tacere la mia verità per paura,

gli astri possono coprirmi di maledizioni,

ripeterò la verità che nascondo in cuore),

sapermi lontana dal capo di Berenice,

questo mi angoscia: quand'era fanciulla i profumi

non servivano, anche se poi ne provai migliaia.

E voi, giunte alle nozze com'era il desiderio,

non offrite allo sposo adorato il vostro corpo

lasciando cadere la veste a scoprire il seno,

prima di donare a me la gioia di un profumo,

il vostro profumo, voi che onorate l'amore.

Ma i doni nefasti di chi commette adulterio

li beva senza frutto la polvere leggera:

io certo non chiedo nulla a chi non ne sia degno.

Voglio piuttosto che la concordia dell'amore

in eterno sempre, sempre abiti con voi.

E se guardando le stelle placherai, regina,

nelle notti di festa la tua divina Venere,

non lasciarla senza sacrifici, perché tua

per le tue offerte io possa essere ancora.

Tornino com'erano le stelle ed io regina

con Berenice, o splenda Orione dentro l'Aquario.





Salute a te, porta,

cosí cara a un buon marito,

a un padre:

ti benedica Giove.

Si dice che un tempo

tu abbia servito onestamente

il vecchio Balbo

finché visse in questa casa,

ma anche che tu abbia poi

disonorato questa fede,

quando, stecchito il vecchio,

hai stretto un altro vincolo.

Avanti, dimmi tutto.

Tu sei cambiata:

dov'è finita

la tua proverbiale fedeltà

al padrone?

La colpa non è mia,

anche se dicono cosí

(mi perdoni Cecilio

a cui ora appartengo).

Nessuno può dire

che io abbia sulla coscienza

qualche peccato.

Ma per certa gente

è sempre la porta

la causa di tutto

e qualunque malefatta si scopra

tutti mi gridano:

'porta, la colpa è tua'.

Non basta dirlo:

è una parola.

Dovresti fare in modo

che ognuno se ne rendesse conto.

E come?

Non gliene frega a nessuno

di saperlo.

Ma a me :

avanti, dimmi come stanno le cose.

Primo: se dicono che quella

mi è stata affidata vergine,

è falso.

Non può certo averla toccata

per primo il marito

con quel cosino pendente,

piú moscio di una bietola lessa,

che non ha mai sollevato

di tanto la sua tunica.

Sembra piuttosto

che sia stato il padre

a violare il letto del lio,

disonorando

quella gente disgraziata.

Forse una passione insana

ardeva nel suo cuore sciagurato

o forse l'impotenza,

che rendeva sterile il lio,

l'indusse a credere

che fosse necessario un piolo

capace di sciogliere

il nodo della vergine.

Un padre straordinario,

mi dici,

di una bontà cosí incredibile

da bagnare lui stesso

l'orto del liolo.

Non è tutto.

Sembra che sotto il castello chineo,

a Brescia,

attraversata pigramente

dalle acque gialle del Mella,

a Brescia,

l'amata madre della mia Verona,

si sappia ben altro;

di Postumio,

della passione di Cornelio,

coi quali, si mormora,

lei avrebbe consumato

infami adulteri.

'E tu come lo sai?'

si dirà.

'Una porta non può staccarsi

dalla soglia del padrone,

né origliare ciò che dice la gente;

infissa nell'architrave

non fa altro

che aprire o chiudere la casa.'

Lo so, perché l'ho sentita parlare

a bassa voce, in un canto

con le sue servette

di queste vergogne,



e faceva i nomi

di quelli che ho detto,

convinta che non avessi

né orecchie né lingua.

Ed anche di un altro,

del quale non faccio il nome,

perché non aggrotti

le sue rosse sopracciglia.

È un tipo alto,

che un tempo ha subíto

un processo famoso

per il lio inventato

da una falsa gestante.





Che tu sconvolto dal dolore della tua sventura

mi scriva questa lettera impregnata di lacrime,

perché come un naufrago travolto dalla violenza

del mare io ti soccorra e ti salvi in punto di morte,

ora che nella solitudine del letto Venere

non ti concede di trovare la pace del sonno

e le Muse piú non ti rallegrano nell'angoscia

della veglia con la dolcezza dei poeti antichi,

mi è caro, caro che a me, come amico sincero,

tu chieda il conforto affettuoso della poesia.

Ma perché anche tu, Allio, conosca le mie amarezze

e non creda che io rinneghi i doveri dell'ospite,

ascolta in che traversie io stesso sono immerso

e non chiedere a un infelice di donarti gioia.

Al tempo della mia prima toga candida, quando

l'età fiorita si godeva la sua primavera,

mi abbandonai a vivere e certo lo sa la dea

che dolce e amaro mescola in ogni affanno d'amore,

ma tutto, tutto nel pianto la morte del fratello

ha cancellato. Ahimè fratello, fratello mio,

tu con la tua morte tu ogni gioia m'hai spezzato,

con te tutta la nostra casa con te hai sepolto,

con te ogni mia felicità, che nella tua vita

tu di dolce amore ti nutrivi, con te è finita.

E con la sua morte io ho bandito dalla mente

le mie fantasie, ogni piacere dello spirito.

Ora tu mi scrivi 'è indegno restare a Verona,

Catullo, mentre qui uno dei tuoi piú vecchi amici

cerca calore nella solitudine di un letto';

no, Allio, non è indegno, ma triste, questo .

Mi perdonerai dunque se non ti offro quei doni

che il lutto anche a me ha tolto, ma non mi è possibile.

E poi non ho con me i miei libri, le mie poesie,

perché io vivo a Roma, lo sai, e è la casa

dove abito, dove si consuma la mia vita:

qui di tanti libri non ne ho che una dozzina.

Stando cosí le cose, non vorrei che tu pensassi

ad una forma di grettezza o di falsa amicizia,

se non ti mando nessuno dei doni che mi chiedi:

ti donerei anche di piú, se mi fosse possibile.

Ma non posso certo tacere, o dee, quanto, come

e con quale tenerezza Allio m'abbia aiutato,

e perché il tempo fuggendo verso l'oblio dei secoli

non ricopra di nera notte questo suo affetto,

io lo dirò a voi e voi dovrete dirlo a tutti:

fate che queste sectiune continuino a parlarne


e sempre, sempre piú in morte diventi famoso,

non lasciate che tessendo la sua trama sottile

il ragno avvolga di indifferenza il nome di Albo.

E voi sapete che tormenti m'abbia dato Venere

con la sua ambiguità, a che punto m'abbia ridotto,

quando io bruciavo come la rupe di Sicilia

o la sorgente Màlia alle Termopili dell'Eta,

o gli occhi dolenti si consumavano nel pianto

bagnando le guance di una amara pioggia di lacrime,

come dalla cima di un monte che si perde in cielo

sgorga limpido un ruscello tra i muschi delle rocce

che, precipitando a valle lungo tutto il pendio,

penetra attraverso le strade affollate di gente,

alleviando la stanchezza e il sudore dei viandanti

quando il caldo opprimente screpola i campi riarsi.

E come nel buio della tempesta i marinai

sentono arrivare in un soffio il vento favorevole

invocato nelle preghiere a Castore e Polluce,

cosí fu per me l'aiuto che mi venne da Allio.

Egli mi aprì davanti un campo che m'era vietato:

a me, alla mia donna egli diede la sua casa,

perché vivessimo il nostro reciproco amore.

E entrando con passo leggero la mia dea

si fermò bianca di luce sulla soglia consunta,

puntando il suo piede nel sandalo con un fruscio;

cosí un tempo bruciando per lui d'amore entrò

Laodamía nella casa di Protesilào,

una casa costruita invano perché col sangue

mai vittima aveva conciliato gli dei del cielo.

Nessun desiderio, vergine Nemesi, mi spinga

a rischiare tanto contro il volere degli dei.

Che sete abbia di sangue un altare senza vittime

l'apprese Laodamía perdendo suo marito,

quando dovette staccarsi dal collo dello sposo

prima che inverno dopo inverno potesse saziarne

nelle sue notti interminabili l'ansia d'amore,

perché riuscisse a vivere separata da lui

(ma le Parche sapevano che fine avrebbe fatto,

se fosse andato in armi sotto le mura di Troia).

Allora, per il ratto di Elena, proprio allora

Troia chiamava a sé i migliori uomini di Grecia,

Troia, infame, fossa comune d'Asia e d'Europa,

Troia, cenere amara d'eroi e d'ogni eroismo,

quella, quella che anche mio fratello ha spinto a morte

senza perdono. Ahimè fratello, fratello mio,

persa anche la gioia della luce, fratello mio,

con te tutta la nostra casa con te hai sepolto,

con te ogni mia felicità, che nella tua vita

tu di dolce amore ti nutrivi, con te è finita.

Ed ora lui fra sepolcri sconosciuti lontano,

composto lontano dalle ceneri dei parenti,

in questa Troia oscena, in questa Troia maledetta,

terra straniera lo incatena ai confini del mondo.

Là da ogni parte accorse tutta la gioventú greca

abbandonando il proprio focolare, perché Paride

non trascorresse indisturbato in un letto tranquillo

i suoi ozi, godendosi la femmina rapita.

E per questa sventura, Laodamía bellissima,

ti fu strappato uno sposo piú dolce della vita,

del tuo stesso respiro: inghiottendoti nel suo vortice

la passione ti gettò in un baratro senza fondo,

come quello che a Fèneo sotto il Cillène prosciuga,

secondo i Greci, il terreno assorbendone gli umori,

quello che si dice abbia scavato il falso lio

di Anfitrione attraverso le viscere del monte,

nei giorni in cui abbatté con le sue frecce infallibili

i mostri di Stínfalo per ordine di un tiranno,

perché alle porte del cielo salissero altri dei

ed Ebe non rimanesse vergine eternamente.

Ma piú profondo d'ogni baratro fu il tuo amore,

che t'insegnò a sopportare mansueta quel giogo:

niente è cosí caro a un padre incalzato dagli anni

come il nipote inatteso nato alla sua liola,

che riconosciuto erede di tutte le ricchezze

e incluso col suo nome nel testamento del nonno,

troncando la turpe gioia del parente deriso,

dal capo bianco fa volar via quell'avvoltoio;

né mai del suo candido comno prende piacere

cosí grande la colomba, che a furia di beccate

strappa un bacio dopo l'altro con un'avidità

che non possiede la piú insaziabile delle donne;

ma tu, tu da sola hai superato l'intensità

del loro amore, quando abbracciasti il tuo biondo eroe.

E affascinante o quasi come te in quegli istanti,

la luce mia in un abbraccio si strinse al mio grembo,

e volandole tutto intorno candido di luce

risplendeva Amore nella sua tunica di croco.

Anche se non le basta Catullo, sopporterò,

purché sia donna discreta, qualche amore furtivo

per non rendermi noioso come fanno gli sciocchi.

Giunone stessa, regina dei cieli, seppe vincere,

abituata com'era all'infedeltà di Giove,

l'ira per le colpe del suo capriccioso marito.

Ma non si può paragonare gli uomini agli dei:

smettila con queste pose da vecchio rimbambito,

non fu certo la mano del padre che la condusse,

avvolta di profumi orientali, nella mia casa,

ma lei stessa, fuggendo dalle braccia del marito,

a me si donò furtiva in una notte di sogno.

E questo mi basta, se lei ricorderà felici

quegli istanti che solo a me, a me solo ha donato.

Per tutto quello che m'hai dato dunque, accetta in dono

questi versi, Allio, scritti come meglio ho potuto,

perché in tutto il tempo a venire nessun giorno mai

possa corrodere di ruggine nera il tuo nome.

Ed infiniti vi aggiungeranno gli dei quei doni,

che Temi dava un tempo in premio agli uomini giusti.

Siate felici, tu e l'anima della tua vita,

e la casa in cui ci amammo io e la donna mia,

e chi da allora mi concede e mi nega rifugio

perché da lui viene la ragione d'ogni mio bene,

ma innanzi a tutti lei, piú cara di me stesso, lei,

la luce mia, che con la sua mi fa dolce la vita.





Non ti stupire se nessuna donna, Rufo,

vuol concederti il suo tenero corpo,

nemmeno se la tenti col dono prezioso

di una veste o la malia di un gioiello.

Hai una triste fama: sotto le tue ascelle

pare che viva un orrido caprone.

Questo il timore. Certo: è una mala bestia

e le belle donne con lei non dormono.

Allontana l'incubo di questo fetore

o non stupirti se quelle ti fuggono.





Solo con te farei l'amore, dice la donna mia,

solo con te, anche se mi volesse Giove.

Dice: ma ciò che dice una donna a un amante impazzito

devi scriverlo sul vento, sull'acqua che scorre.





Se è giusto che un fetore animale l'affligga nelle ascelle

o che il torpore della gotta a ragione lo tormenti,

questo tuo rivale, che si fotte la tua amante,

per un prodigio ha contratto da te tutti e due i malanni.

Cosí tutte le volte che chiava, ti vendica d'entrambi:

col fetore appesta lei e lui di gotta se ne muore.





Dicevi di far l'amore solo con me, una volta,

e di non aver voglia, Lesbia, neppure di Giove.

E io ti ho amato non come tutti un'amante,

ma come un padre ama ognuno dei suoi li.

Ora so chi sei: e anche se piú intenso è il desiderio

ti sei ridotta per me sempre piú insignificante e vile.

Come mai, mi chiedi? Queste offese costringono,

vedi, ad amare di piú, ma con minore amore.





Non credere piú che l'affetto meriti qualcosa

o che qualcuno possa mai esserti grato.

L'ingratitudine è di tutti; e il bene fatto nulla

anzi fonte di amarezze e di mali peggiori.

Nessuno ora mi odia con piú crudele accanimento

di chi ieri mi considerava l'unico vero amico.





Gellio udiva sempre lo zio riprendere

chi parlasse o godesse d'amore.

Per evitarlo gli chiavò la moglie

rendendolo immagine stessa del silenzio.

Era il suo scopo: ora potrebbe anche

ficcarglielo in bocca, lo zio non fiaterebbe.





Cosí per colpa tua, mia Lesbia,

mi è caduto il cuore

e cosí si è logorato nella sua fedeltà,

che ormai non potrebbe piú volerti bene

anche se fossi migliore

o cessare d'amarti

per quanto tu faccia.





Se per l'uomo che ritiene di essere devoto,

di non aver tradito la parola data, né giurato

in nome degli dei per ingannare la fiducia

nei rapporti umani, è fonte di gioia il ricordo

del bene compiuto; gli anni futuri ti riservano

molte gioie, Catullo, per questo amore ingrato.

Tutto il bene che a un essere umano è possibile

fare o dire, tu l'hai detto e fatto: e tutto

si è perduto nell'ingratitudine di un cuore.

Perché dunque continui a tormentarti?

e non cerchi con tutta la volontà di liberarti

di una infelicità che gli dei non vogliono?

Difficile troncare a un tratto un lungo amore,

difficile certo, ma in qualche modo devi riuscire.

È l'unica salvezza, quindi devi ottenerla:

che sia possibile o no, lo devi fare.

Se vi è pietà in voi, dei, se in punto di morte,

nell'ora estrema, recaste mai aiuto a qualcuno,

guardate la mia infelicità e se ho vissuto onestamente

strappatemi da questo male che mi consuma,

che insinuatosi dentro di me nel piú profondo

come un torpore ha cancellato ogni gioia dal mio cuore.

Non chiedo piú che lei ricambi il mio amore,

né l'impossibile, che mi rimanga fedele:

voglio solo guarire e scordarmi di questo male oscuro.

O dei, per la mia devozione, accordatemi questo.





Per un trascurabile errore ti ho creduto amico.

Trascurabile, Rufo? e il prezzo del dolore?

Sei scivolato in me bruciandomi le viscere,

strappandomi ogni miserabile bene che avevo.

Ogni bene, tu che spietato mi avveleni la vita,

male incurabile della nostra amicizia.





Gallo ha due fratelli:

con una moglie adorabile il primo,

l'altro con un amore di liolo.

Gallo è un uomo tenero:

intreccia il loro dolce amore

e quel ragazzo tenero

la donna tenera si gode.

Gallo è un uomo sciocco:

non ricorda piú d'aver moglie

e a suo nipote insegna

come cornificar lo zio.



78b


Ma questo ora m'addolora, che le labbra pure

di una bambina il tuo sudicio sperma abbia macchiato.

Avrai il tuo castigo: ti ricorderanno nei secoli

e anche decrepita la fama griderà chi sei.





Lesbio deve esser proprio bello.

Certo: Lesbia lo preferisce

a Catullo e a tutti i suoi amici.

Ma questo bello

venda schiavi Catullo e i suoi amici,

se rimedia anche solo un bacio

fra tre che lo conoscono.





Come mai, Gellio queste tue labbrucce di rosa

si fan piú bianche della neve d'inverno,

quando il mattino esci di casa o quando verso sera

nei giorni d'estate ti scuoti dal tuo dolce riposo?

Non capisco. O forse è vero, come si mormora,

che sei ginocchioni un divoratore di cazzi?

Certo è cosí: lo gridano le reni rotte di Vittorio,

poveretto, e le tue labbra macchiate dello sperma succhiato.





Possibile che fra tanti non vi fosse, Giovenzio,

un uomo garbato che tu desiderassi amare,

se non questo tuo ospite giunto da quel sepolcro

di Pesaro, piú pallido di una statua dorata?

Ora lo tieni in cuore e ormai piú di me stesso tu,

tu lo desideri: non sai che delitto commetti.





Se vuoi, Quinzio, che Catullo ti debba gli occhi

o cosa vi sia piú caro degli occhi,

non togliergli ciò che piú, piú degli occhi

o di cosa vi sia piú caro degli occhi, gli è caro.





Col marito Lesbia mi travolge d'ingiurie

e quello sciocco ne trae una gioia profonda.

Stronzo, non capisci? tacesse, m'avrebbe dimenticato,

sarebbe guarita, invece sbraita e m'insulta:

non solo ricorda, ma cosa ben piú grave

è furente. Brucia d'amore, per questo parla.





Volendo dire comodi Arrio diceva

homodi e in luogo d'insidie hinsidie,

convinto di parlare a perfezione

quando con tutto il fiato urlava hinsidie.

Credo proprio che sua madre, lo zio materno

ed anche i suoi nonni parlassero cosí.

Mandato in Siria, riposavano le orecchie

e riudivan le parole col giusto suono

senza piú temere d'ascoltarle storpiate.

D'un tratto ecco la notizia orribile:

Arrio ha solcato i flutti dello Ionio

e Ionio questo piú non è, ma Hionio.





Odio e amo. Me ne chiedi la ragione?

Non so, cosí accade e mi tormento.





Per molti Quinzia è bella, per me bianca, dritta,

slanciata. Questi pregi li riconosco,

ma non dirò certo che è bella: non ha grazia,

né un pizzico di sale in quel corpo superbo.

Bella è Lesbia, bellissima tutta fra tutte

a ognuna ha rapito ogni possibile grazia.





Nessuna donna potrà dire 'sono stata amata'

piú di quanto io ti ho amato, Lesbia mia.

Nessun legame avrà mai quella fedeltà

che nel mio amore io ti ho portato.





Come chiamare, Gellio, chi passa le sue notti

a chiavarsi, tutto nudo, madre e sorella?

Come chiamare chi vieta allo zio d'essere marito?

Senti l'enormità dell'infamia che commette?

Un'infamia che nemmeno Teti ai confini del mondo

o il padre delle ninfe Oceano potrebbe lavare.

Non vi è infamia che vada oltre questa,

nemmeno se piegato il capo divorassi te stesso.





Gellio è ridotto uno scheletro. Certo, con una madre

cosí attraente e sfrenata, quell'incantevole sorella,

con uno zio tanto accomodante e tutta quella schiera

di ragazze sue parenti, che sia stremato è naturale.

Anche se non toccasse niente oltre ciò che è proibito,

vi son fin troppe ragioni perché sia cosí stremato.





Un mago nasca dall'unione nefanda di Gellio

con la madre e apprenda l'arte persiana dei presagi.

Se l'infame religione dei Persiani è vera,

solo da madre e lio potrà nascere un mago

che con i suoi scongiuri ottenga il favore degli dei

sciogliendo tra le fiamme il grasso delle viscere.





Nel mio infelice, nel disperato amore mio

certo non speravo, Gellio, che tu mi fossi amico

perché ti leggessi nel cuore o ti ritenessi fedele

e incapace di tramare le infamie piú turpi,

ma perché, pensavo, non ti è né madre né sorella

questa donna che d'amore forsennato mi divora.

E malgrado lunga consuetudine mi legasse a te,

non credevo che ciò fosse per te sufficiente.

Ma lo è stato: tanto è il piacere che tu provi

in ogni colpa dove vi sia un margine d'orrore.





Lesbia sparla sempre di me, senza respiro

di me: morissi se Lesbia non mi ama.

Lo so, son come lei: la copro ogni giorno

d'insulti, ma morissi se io non l'amo.





Non me ne importa niente di piacerti, Cesare,

né di sapere se sei bianco o nero.





Cazzo chiava, chiava cazzo; cosí

dev'essere: ad ogni erba la sua pentola.





Dopo nove inverni e nove estati di lavoro

finalmente la Zmyrna del mio Cinna è pubblicata,

mentre Ortensio mezzo milione di versi scrive

all'anno

La Zmyrna arriverà sino alle acque profonde

del Sàtraco e ancora in secoli lontani sarà letta.

Gli Annali di Volusio invece moriranno a Padova

o forniranno cartaccia per avvolgere gli sgombri.



95b


Mi rimanga dunque in cuore il suo piccolo gioiello

e i profani si godano pure l'enfasi di Antímaco.





Se mai la tenerezza di un conforto può giungere

alle tombe silenziose, Calvo, dal nostro dolore,

dal rimpianto che rivive l'amore passato

e lamenta l'affetto perdutosi nel tempo,

certo Quintilia tanto s'incanta al tuo amore,

che piú non si dispera della sua vita breve.





Non è, buon dio, che credessi differente

l'odore della bocca e del culo di Emilio.

L'una non è piú pulita o sporca dell'altro,

ma forse è meglio e piú pulito il culo:

se non altro è senza denti: la bocca ha zanne

enormi e le gengive come un carro vecchio,

spalancata poi sembra la fica slabbrata

di una mula in calore quando piscia.

E lui ne fotte molte, si crede stupendo:

ma mandatelo a far l'asino nei mulini.

Quella che va con lui si leccherebbe

anche il culo di un boia appestato.





A nessuno peggiore di te, o schifoso, si può dire

quel che si dice a ciarlatani e sciocchi:

se mai ne avessi bisogno, potresti leccar culi

e scarponi con questa tua linguaccia.

E se in un colpo, o, vorrai ammazzarci tutti,

apri la bocca: otterrai in un colpo ciò che tu vuoi.





Mentre tu giocavi, dolcissimo Giovenzio,

io t'ho rubato un bacio piú dolce del miele.

Ma l'ho ato caro: crocifisso

per piú di un'ora sono rimasto, ricordo,

a scusarmi con te senza che le mie lacrime

potessero spegnere la tua collera.

Subito ti sei asciugato le labbra umide

d'ogni goccia con tutte e due le mani,

perché non restasse traccia della mia bocca

quasi fosse la sborrata d'una puttana.

E m'hai fatto subire tutte le torture

d'amore, ogni supplizio possibile:

cosí quel bacio che m'era sembrato tanto

dolce, si è rivelato piú amaro del fiele.

Se questa è la pena a cui condanni un amore

infelice, mai piú ti ruberò un bacio.





Per Aufileno e Aufilena, fratello e sorella,

muoion d'amore i piú bei giovani di Verona,

per lui Celio, per lei Quinzio: puoi dirlo,

certo, un sodalizio dolcemente fraterno.

Chi preferire? te, Celio, che senza riserve

m'hai offerto la tua straordinaria amicizia

quando una fiamma feroce mi bruciava il cuore:

sii felice, Celio, e possa arriderti l'amore.





Di mare in mare, da un popolo all'altro

vengo a queste tue misere esequie, fratello,

per donarti l'ultima offerta che si deve ai morti

e invano parlare alle tue ceneri mute:

ora che la sorte a me ti ha strappato,

cosí crudelmente strappato, fratello infelice.

Pure, amaro dono per un rito estremo,

nell'uso antico dei padri accogli l'offerta

che ora ti affido: cosí intrisa del mio pianto.

E in eterno riposa, fratello mio, addio.





Se fiducioso un amico poté affidare all'altro

un segreto, sicuro della sua discreta fedeltà,

me stesso vedrai consacrato a questo giuramento

e credimi, Cornelio, muto come una statua.





Se vuoi, rendimi quei diecimila sesterzi, Silone,

e poi inalbera pure tutta la tua arroganza;

ma se a te piace il denaro, non fare il ruffiano

e smettila con tutta quella tua arroganza.





Come avrei potuto maledire la mia vita

se degli stessi occhi mi è piú cara?

Fosse cosí non ti amerei con questa rabbia:

ma tu d'ogni sciocchezza fai un dramma.





Fa di tutto quello stronzo per montare sul Pimpleo,

ma a colpi di forca giú lo precipitano le Muse.





Quando col banditore vedi un bel ragazzo,

cosa credi, che rifiuti di vendersi?





Se contro ogni speranza ottieni

ciò che desideravi in cuore,

una gioia insolita ti prende.

E questa è la mia gioia,

piú preziosa dell'oro:

a me tu ritorni, a me, Lesbia,

a un desiderio ormai senza speranza,

al mio desiderio ritorni,

a me, a me tu ti ridai.

O giorno luminoso!

Chi vivrà piú felice?

chi potrà mai pensare vita

piú, piú desiderabile di questa?





Se la tua bianca vecchiaia,

sporcata da vizi immondi,

dovesse, Cominio, essere troncata

per giudizio di popolo,

ti mozzerebbero questa tua lingua disonesta

per gettarla a un avvoltoio ingordo,

ti caverebbero gli occhi

perché li divorasse un corvo

nella sua gola nera,

ai cani lascerebbero i visceri,

ai lupi il resto.





Eterno, anima mia, senza ombre

mi prometti questo nostro amore.

Mio dio, fa' che prometta il vero

e lo dica sinceramente, col cuore.

Potesse durare tutta la vita

questo eterno giuramento d'amore.





Le buone femmine, Aufilena, son sempre da lodare:

accettano denaro per ciò che decidono di fare.

Ma tu prometti sapendo di mentire: non sei un'amica,

prendi solo e non la dai: sei una vergogna.

Concedersi è leale, non promettere sarebbe stato

da virtuosa; ma impadronirsi del denaro

con la frode, è peggio di quanto farebbe una puttana

che con tutto il suo corpo si prostituisce.





Accontentarsi di un uomo solo, Aufilena,

è fra le lodi la lode d'ogni donna;

ma meglio è concedersi come e a chi tu vuoi

che partorire cugini al proprio zio.





Grand'uomo, Nasone; ma un grand'uomo non è

chi ti fotte: che gran finocchio sei, Nasone.





Nel primo consolato di Pompeo due, Cinna,

scopavano Mecilia: ora console di nuovo

due sono rimasti, ma cresciuti ognuno

sino a mille: buon seme l'adulterio.





La tenuta di Fermo

non è considerata ricca a torto,

Cazzomamurra

piena com'è di cose singolari:

cacciagione, pesci d'ogni specie,

prati, campi e selvaggina.

Non conta nulla:

con le spese si mangia il reddito.

Ammetto anche che sia ricca,

ma vi manca tutto.

Una bella tenuta,

ma col padrone in miseria.





Cazzomamurra ha circa trenta iugeri di prato

e quaranta di campi: il resto è mare.

E perché non potrebbe superare Creso in ricchezza

chi in un fondo solo possiede tutte queste meraviglie,

prati, campi, boschi immensi, pascoli e acquitrini

dai popoli del Nord sino al mare Oceano?

Tutte cose grandi, ma lui è piú grande ancora,

non è un uomo, è un grande cazzo minaccioso.





Con tutta la mia attenzione ho sperimentato

la forma in cui offrirti i canti di Callimaco

per renderti piú dolce e toglierti il desiderio

di colpirmi con le tue frecce rabbiose.

Ma vedo l'inutilità di questa fatica,

Gellio, e di averti pregato invano.

Con un mantello dunque eviterò i tuoi colpi,

ma i miei ti inchioderanno alla morte.


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