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LE FAZIONI POLITICHE, LA HUMANITAS, LA DIPLOMAZIA, INTRODUZIONE ALLE FILIPPICHE, LA SECONDA FILIPPICA, UNA FIRMA SULLA PROPRIA CONDANNA?

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Partito e convinzioni politiche di Cicerone

 





























NOTA SUL TITOLO

Nonostante il titolo sia, di primo acchito, leggermente dissacrante, ho cercato di esprimere con esso una dubbio condiviso da molti.


Non ho mai perso di vista, nel condurre la breve tesi, che Cicerone era lio del suo tempo, e Cicerone viveva in una società dove i giochi di potere erano all'ordine del giorno.


BIBLIOGRAFIA

Letteratura latina, Italo Lana

Le Filippiche, Cicerone

Vivae voces, Luigi Annibaletto

Antologia della letteratura latina, Armando Fellin

www.biblio-net.it

www.latine.it






LE FAZIONI POLITICHE

Degno testimone e protagonista del tramonto della repubblica, Cicerone, nonostante la sua (relativa) chiusura alle esigenze degli strati sociali più disagiati, non può essere definito semplicemente un reazionario, ma più esattamente un conservatore moderato: il progetto politico, che cercherà di difendere nel corso della sua carriera, sarà infatti quello dell'egemonia di un blocco sociale costituito sostanzialmente dalla classe possidente dei senatori e dei cavalieri, allo scopo di porre un argine alle tendenze sovversive che serpeggiavano nella società del tempo: la necessità di consolidare e orientare questo blocco sociale significava di per sé un superamento degli obiettivi tradizionali della politica romana, per lo più prigioniera di una lotta di fazioni e di cricche clientelari. Quindi, l'intero operato di Cicerone si può interpretare come la ricerca di una difficile situazione di equilibrio fra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione delle leggi tradizionali.

La stessa collaborazione con i triumviri fu una risposta al bisogno di un governo autorevole, ma anche in questo caso -coerentemente- egli si preoccupò di mantenere saldo il potere del senato. Tuttavia, mancarono le condizioni per crearsi il seguito clientelare o militare necessario a far trionfare la sua linea politica; inoltre, sottovalutò il peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi; infine, non tenne conto del fatto che i ceti possidenti avrebbero potuto ritenere che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica di Cesare.

Fedele alla tradizione, come visto, Cicerone non può immaginare un mondo dove l'impegno nella gestione della cosa pubblica non sia il valore supremo. Ed è forse qui che si situa il centro e il fine ultimo di tutti i suoi pensieri.


LA HUMANITAS

La misura della sua personalità di uomo di lettere, pensatore, scrittore, va cercata nel nuovo tipo di humanitas che egli a buon diritto incarna. Vissuto nel pieno dell'età più travagliata della storia interna di Roma, svolse un'attività di primaria importanza, sempre mirando al raggiungimento di un equilibrio politico-culturale che saggiamente contemperasse le esigenze dei tempi nuovi con la conservazione del patrimonio della tradizione. Il suo ideale fu il circolo scipionico, di cui in gioventù conobbe e frequentò personalmente alcuni tra i più giovani rappresentanti. Quel circolo, che ai tempi di Catone appariva come audacemente innovativo e rivoluzionario per tendenze e costumi ellenistici, ai tempi di Cicerone (dunque più o meno un secolo dopo) appariva già come qualcosa di lontano, di superato. Ciò dunque può far ben comprendere di quale tipo di mentalità fosse Cicerone: fondamentalmente ancorata alle tradizioni di una società aristocratica e conservatrice.  Durante la conquista per il sommo potere Cicerone è il profeta disarmato che si getta nella mischia e richiama ai concittadini a un ideale civile di concordia, di rispetto della legge, di riconoscimento della superiorità morale: egli colloca al primo posto i valori dello spirito.


Ecco il ritratto impietoso e sarcastico che Gadda ha tracciato del famoso oratore. Esso può servire a simboleggiare l'insofferenza a cui oggi molti guardano al grande "conservatore":

Quando, alle idi di Marzo del 44 a.C., quella mattina che i tragici nodi della contraddizione romana erano venuti al pettine, mezz'ora dopo, la notizia gli arrivò a casa, fu come una scarica elettrica traverso tutti i suoi nervi legalitari. Il mortificato non si tenne più nella pelle: telegrafò a Basilo un "tibi gradior! Mihi gaudeo . ", tutto fremente di contentezza, saltò quasi la colazione, la lettiga galoppò in Campidoglio. Dove gli eroi del giorno si erano asserragliati con le ginocchia tremanti. In Campidoglio cinguettò nuove e e più fervorose congratulazioni: abbracciò tirannicidi a destra e a sinistra, cupi nell'ombra dello sgomento. La capinera delle belle lettere li distrasse, un attimo, dall'angoscia, con le sue gorgheggianti effusioni. ( . )


In effetti questa descrizione rivela tutto un altro Cicerone: non un uomo riflessivo e dalla visione oggettiva del mondo, bensì una persona in carne ed ossa, fatta di convinzioni politiche e antipatie anche molto forti. Ci si presenta un uomo che, seppur nel torto a gioire della morte di un altro, non è "venduto" negli ideali al miglior cliente disposto a arlo per discutere una causa, e non esita a schierarsi (anche piuttosto impulsivamente) dalla parte di coloro che hanno avverato i suoi desideri più vivi.

D'altro canto, c'è da dire che il grande retore aveva una pecca agli occhi dei concittadini: la sua origine. Egli era un homus novus, nessuno cioè nella sua famiglia aveva avuto incarichi politici di prestigio prima di lui. Tutto il suo moralismo, il perbenismo e la volontà di riprendere chiunque cercasse un'innovazione, probabilmente furono il sintomo di quanto egli avesse dentro: era frustrato dal fatto di non poter appigliarsi in alcun modo ai suoi avi per avere una "credenziale", e in mancanza di tale fece più volte ricorso alle origini della Roma repubblicana, facendole come un suo ideale di antenato.






LA DIPLOMAZIA

Questo è un altro punto interessante per comprendere il profilo morale di Cicerone: questo grande avvocato fu davvero un uomo diplomatico?

Certamente non si può dire che fu abile nei giochi di potere: era un uomo schietto, denunciava in senato qualunque fatto mettesse, a suo avviso, in pericolo la repubblica. Non fu abile nemmeno nel prevedere il corso degli eventi che, in quei brevi anni, precipitarono, né a scegliere alleati e nemici.

Proprio per questa sua schiettezza e in genuinità si mise talvolta in soluzioni estreme, come l'esilio, nel 58, e infine la morte a causa delle liste di proscrizione del secondo triumvirato. Non è da dimenticare che diede la sua benedizione a Ottaviano, che seppe guadagnarsi la sua benevolenza, pur essendo nipote del Cesare che aveva tanto odiato.

Dunque Cicerone aveva un forte senso della giustizia, e ribrezzo per le ingiustizie. C'è però da dire che vide i fatto da un unico punto di vista: il suo, il punto di vista di un aristocratico conservatore che, pur di non tradire i suoi ideali, fu disposto a mettersi in gioco più volte davanti a tutti -non sempre però, come si dice, il gioco valeva la candela- e rischiare la sua integrità fisica, senza però compromettere quella morale. Egli adoperava un buonismo disarmante nei confronti dei suoi clienti, ma denunciava senza pietà i nemici.






INTRODUZIONE ALLE FILIPPICHE

Furono così chiamate da Cicerone stesso le 14 orazioni che, dopo la morte di Cesare, nel giro di 8 mesi, egli pronunciò contro Marco Antonio, per lo più in senato, talvolta davanti al popolo, ai Rostri. L'uccisione di Cesare era stato un episodio sanguinoso, niente di più: nulla era cambiato nella vita pubblica di Roma, nulla nella vita privata; solo che l'eredità del dittatore era stata arbitrariamente assunta da un individuo, Marco Antonio, che, pure fornito di non trascurabili doti, non aveva certo l'intelligenza politica e il cuore di colui che sarebbe rimasto nei secoli come simbolo di grandezza e di potenza. I congiurati, che erano stati forti davanti a Cesare vivo, si smarrirono davanti al ricordo, allo spirito di lui, e si dispersero; mentre in Italia spadroneggiavano uomini come Antonio, e il diciannovenne Ottaviano faceva i primi passi per riguadagnare il terreno perduto per la sua giovane età e per la lontananza.

Cicerone, che aveva sopportato a malincuore lo strapotere di Cesare, si sentì ribollire di sdegno davanti ai soprusi, alle prepotenze, alla crudeltà di Antonio e parlò con la foga di chi si sente mortalmente ferito nel più intimo dei sentimenti, con l'intelligenza di chi ha dedicato tutta una vita ad arricchire il suo spirito; e così uscirono dalle sue labbra le "Filippiche", alcune delle quali meravigliose come la II e la XIV: ma tutte belle smaglianti, piene di passione, di vita e di sincerità traboccante, tanto che non a torto presero nome da quelle orazioni che Demostene pronunciò contro Filippo di Macedonia e che furono l'estremo, nobile tentativo di un grande cuore per scongiurare la schiavitù della Grecia, condannata ormai a seguire il carro del vincitore Macedone.




LA SECONDA FILIPPICA

L'esordio si apre con un'interrogazione solenne: quale fatum ha voluto che da vent'anni ogni membro della respublica fosse pure nemico di Cicerone? Tutti però hanno ato il fio alla patria, come Catilina e Clodio. E Antonio non teme di fare la stessa fine? L'oratore prima si difenderà dalle accuse mossegli, poi sferrerà il suo attacco all'avversario.

Anzitutto l'oratore non ha mai violato l'amicizia con Antonio, che invece si è sempre dimostrato ingrato privo di discrezione, perché ha mostrato ai quattro venti la lettera di un amico; né Cicerone gli deve riconoscenza per essere stato da lui ucciso a Brindisi: era lo stesso victor che lo voleva salvo! Anche il consolato del 63 gli viene rimproverato da Antonio: ma quello è stato il periodo più glorioso della sua vita, poiché con la sua azione decisa egli diede la salvezza alla patria; e non è vero che allora il senato venne costretto a decretare la morte dei catilinari da bande di schiavi, né è vero che il console negò l'inumazione di P.Lentulo Sura, patrigno di Antonio: una calunnia che nemmeno Clodio aveva osato inventare, quello stesso Clodio che, secondo Antonio, sarebbe stato ucciso su istigazione dell'oratore. No, egli provò la stessa letizia di tutta la città per la fine di quel furfante. Così pure è falso che egli abbia contribuito con la sua incertezza e la sua posizione equivoca allo scoppio della guerra tra Pompeo e Cesare: egli è stato sempre sostenitore della pace; ed è pure una scandalosa menzogna che fosse malvisto nel campo di Pompeo per le sue critiche e i suoi scherzi inopportuni.

Quanto al cesaricidio , l'oratore rifiuta la sua responsabilità diretta, né può accettare una simile accusa da chi ha cercato per ben due volte di uccidere il suo padrone. Ma ammette la propria responsabilità morale, poiché è una gloria essere il vessillo della libertà.

E conclude la prima parte accennando ai numerosi lasciti testamentari di parenti e amici, che testimoniano la benevolenza che lo ha sempre circondato e cercando di coprire di ridicolo Antonio per la povera capacità oratoria: uno che a tanto il suo maestro di retorica per imparare a . nihil sapere!

Ha inizio poi la seconda parte, che ha per la violenza toni accesi. Vengono bollati a fuoco i vizi privati di Antonio, la sua libidinosa giovinezza; poi i suoi crimini politici: l'intimità con Clodio, che pure aveva cercato di uccidere, la questura venduta a Cesare, il tribunato diventato fomite di guerra civile attraverso l'uso fazioso del veto, la nomina a magister equitum in Italia, ottenuta per gli intrallazzi dei suoi amici ed esercitata con la violenza e l'illegalità. E che dire della dilapidazione dei beni di Pompeo da parte di questo spietatissimo e voracissimo sector? Come può trovarsi a suo agio un uomo corrotto come Antonio nella casa di Pompeo, dove tutto parla della sua gloria e della sua onestà? In fondo non è che un vile se non osò seguire Cesare in Africa e in Sna, fermandosi invece a complottare a Narbona. Mendica poi il consolato per l'anno successivo tornandosene a Roma come un marito innamorato, ma in realtà per impedire la vendita all'asta dei suoi beni.

Come si potrebbe dimenticare la sua adulazione, da console, verso Cesare? E l'uso illegale degli auspici per opporsi all'elezione di Dolabella a console? E l'offerta a Cesare del diadema regale durante i Lupercali?

E dopo la morte di Cesare prima si mostra, ma per pura viltà, accomodante, poi viene perfidamente meno alle sue promesse e si abbandona ai suoi loschi traffici. Si mette così a distribuire terre, impone a Roma il regno del terrore e della violenza, sovvertendo gli atti stessi di Cesare e impossessandosi dei beni lasciati in eredità al popolo. Il culto di Cesare, che vuole imporre, è dettato solo dal suo interesse personale, ma i cittadini romani non sopporteranno a lungo la servitù.

Cessi una buona volta Antonio -e si è alla perorazione- di comportarsi così, pensi alle benemerenze che pure ha, ricordi la fine di Cesare, uomo di ben altra statura, sia degno dei suoi antenati, si riconcili con la repubblica.

L'oratore ha finito: non gli resta che affermare la sua decisa volontà di difendere la libertà della patria, anche a costo della vita, come in realtà ha sempre fatto.

Il perfetto equilibrio fra le due parti è prova di una abilissima tessitura, che non scende mai nel banale, che contribuisce a dare valore di universalità ad esperienze dirette e private e sofferto è il tono della personale partecipazione a fatti ed episodi che coinvolgono nella sua interezza la vita, il destino di Roma.

In Antonio c'è il nobilis che parla e che risponde con sussiegoso cipiglio all'homo novus che vuole dargli insegnamenti sul modo di governare la cosa pubblica. La risposta di Cicerone è, nella forma, un ultimo appello ad Antonio, ma come era possibile che lo accogliesse chi era stato presentato come il peggiore dei mostri, come un avventuriero senza scrupoli ne' ideali, come un volgare approfittatore e sfruttatore di uno stato di crisi?











UNA FIRMA SULLA PROPRIA CONDANNA?

In questa orazione Cicerone ora si eleva ad altezze liriche, ora scende fino al linguaggio plebeo, per sottolineare la vergognosa bassezza del suo avversario. Non manca l'ironia sottile e insinuante, il sarcasmo pungente e violento, e non manca neppure il gusto del frizzo, della battuta salace, proprio di uno smaliziatissimo narratore comico che sa attingere anche, ma sempre con finezza di gusto, al ricchissimo e vivacissimo patrimonio del linguaggio familiare.

A torto quindi, la II Filippica è stata ritenuta, perché fatta a tavolino, tra le più artificiose, asianeggianti, pomposamente barocche delle orazioni ciceroniane; in realtà, se è vero che i canoni retorici della brevitas, e dell'equilibrio sintattico e stilistico fanno sì che la II Filippica non sia isolata dalle altre, anche se è la più vibrante e frenetica.

In questa orazione predomina l'uomo, il civis, non il letterato, e sotto lo sdegno si intravede il pianto, sotto l'esecrazione l'amore appassionato di un vecchio che raccoglie tutte le sue forze per farle servire ancora una volta allo spirito: purchè i Romani sappiano ascoltare il suo ammonimento, purchè sappiano rifiutare la patientia servilis, abbattendo il dominatus di un Antonio assolutamente imparagonabile con Cesare.

L'"essenzialità" è la caratteristica predominante delle quattordici Filippiche e costituisce perciò la più alta conquista artistica dell'eloquenza ciceroniana, dove i tre fini ultimi dell'eloquenza, docere, delectare, permovere.





CONCLUSIONE

Per non scadere nella retorica -arte nella quale tutti conosciamo il vero maestro-, non infarcirò questa parte della tesina con commenti melensi.

Riassumendo i punti che simboleggiano la ricerca da me condotta, sono arrivata a che:

Cicerone fu indubbiamente il primo grande avvocato della storia

Non esitò a farsi defensor patris, anche a discapito della propria incolumità

Spesso fu poco diplomatico

Cercò dar vita alla sua utopia: la correttezza politica




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