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VIRGILIO - Vita di Virgilio, Le Bucoliche, Le Georgiche

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VIRGILIO


Vita di Virgilio

Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, presso Mantova, nel 70 a. C., da un'agiata famiglia di proprietari terrieri. L'ambito di provenienza serve dunque a spiegare l'interesse per la natura e per la vita agreste che puntualmente ritroviamo nelle sue opere, nonché la predilezione accordata ai valori etico-religiosi che caratterizzavano il bagaglio spirituale dei pos­sidenti terrieri dell'Italia settentrionale. Compiuti i primi studi a Cremona e a Milano, si trasferì dapprima a Roma, dove segui le lezioni del greco Partemio di Nicea (già maestro del poeta Cornelio Gallo), poi a Napoli, dove studiò l'epicureismo presso i filosofi Sirone Filodemo di Gadara. Un'importante svolta della sua vita si ebbe nel 41 a.C., quando i con­tadini mantovani furono espropriati delle loro terre che vennero distribuite ai veterani militari che avevano combattuto a Filippi l'anno precedente. Malgrado l'intervento del suo amico Asinio Pollione, governatore della Cisalpina, anche Virgilio si vide confiscare il podere paterno, per cui, dovendosi allontanare definitivamente dai luoghi della sua fanciullezza, soggiornò prima a Roma, dove scrisse, tra il 42 e il 39 a.C. le Bucoliche, poi di nuovo a Napoli dove compose, tra il 37 e il 30 a.C., e le Georgiche. Il successo riscosso con queste due opere gli consentì di far nuovamente ritorno a Roma in veste di trionfatore, tanto da essere accolto con tutti gli onori nel circolo di Mecenate, dove probabilmente gli venne commissionata anche la composizione del suo capolavoro l'Eneide. Un viaggio in Grecia e in Oriente, compiuto per conoscere di persona i luoghi che aveva descritto nella sua opera principale, fu l'ultimo evento saliente della sua esistenza. Sulla via del ritorno, infatti, si sentì male, tanto che, subito dopo essere sbarcato a Brindisi, nel settembre del 19 a.C., morì. La salma venne poi traslata e tumulata a Napoli.





Le Bucoliche

Le Bucoliche (sottinteso Carmina), o Ecloghe pastorali, furono scritte tra il 42 e il 39 a.C. Si tratta di dieci carmi, per lo più in forma dialogata, che hanno per oggetto le storie e i racconti narrati da pastori, presentati come veri e propri creatori di poesia. Il genere bucolico, chiaramente ispi­rato alla semplicità della vita agreste, fu introdotto a Roma proprio da Virgilio, il quale a sua volta, prese ispirazione dalla poesia pastorale contenuta negli idilli di Teocrito, poeta greco nativo di Siracusa, vissuto nel III sec. a.C.. gli omaggi di Virgilio al modello teocriteo sono più formali che sostanziali: le egloghe sono 10 come gli Idilli di Teocrito, teocritei sono la maggior parte dei personaggi e alcune situazioni fisse del mondo pastorale, quali le gare di canto. L'ispirazione è però molto diversa: Teocrito, poeta ellenistico, si rivolgeva ad un pubblico erudito e raffinato, ben lontano dal mondo pastorale; il suo distacco dalle vicende dei personaggi non viene ripreso da Virgilio che è invece partecipe della storia narrata e coinvolge nelle vicende narrate l'intera natura (tema del dolore universale). Altra fondamentale differenza tra l'opera di Teocrito e quella di Virgilio è riscontrabile nel modo di dipingere i paesaggi: alle rigogliose e assolate cam­ne descritte da Teocrito, infatti, subentrano le tristi e malinconiche at­mosfere rurali di Virgilio, tipiche dell'ambiente naturale mantovano ma trapiantate nel nell'indeterminata e utopica Arcadia greca. Pur rinunciando al realismo e all'oggettività descrittiva che contraddistinguevano l'arte di Teocrito, Vir­gilio riuscì da un lato a servirsi delle azioni dei pastori per far riferimento alla ura, alle vicende o ai drammi di personaggi realmente esistiti (Asi­nio Pollione, Cornelio Gallo, Virgilio stesso, ecc.), dall'altro a fare in modo che l'intero mondo pastorale possa presentarsi come mondo se­reno e incantato, un mondo capace di risollevare gli animi umani mediante le bellezze della natura e del canto, ma non per questo immune dall'urto delle passioni e del dolore, capaci di rompere anche l'atmosfera disincan­tata dell'Arcadia mediante la potenza della passione amorosa o l'efferatezza degli accadimenti storici (riferimenti alle guerre civili e alle confische terriere). Di fronte a questa realtà, Virgilio si predisponeva ad accettare pacatamente l'ingiustizia e la fatalità degli eventi, ma non per questo rinunciava a sperare nell'avvento di una nuova età dell'oro, ovvero in una nuova era di pace e prosperità di cui si sarebbe fatto iniziatore il puer cantato nell'ecloga IV. A questo puer miracolosu possono essere attribuite ben cinque identità: può rappresentare allegoricamente l'età dell'oro o identificarsi con il lio del console Asinio Pollione (che si occupò di appianare i dissidi tra Antonio e Ottaviano) o con il nipote di Ottaviano, o con Ottaviano stesso o con uno dei due li nati dall'amore tra Antonio e Cleopatra. Nel Medioevo i Cristiani vollero addirittura vedere nei riferimenti ad una vergine e ad un serpente la predizione della nascita di Cristo. Al di là dell'identificazione del puer rimane immutato l'effetto che questi avrà sul mondo: la lunga ed impari lotta tra uomini e natura finalmente cesserà, la terra offrirà spontaneamente i propri frutti e, in cambio, non sarà più squarciata dai solchi tracciati dall'uomo.



Le Georgiche

Le Georgiche, composte fra il 37 e il 30 a.C., sono un poema didasca­lico in quattro libri, in cui Virgilio intendeva celebrare l'ambiente agreste e le attività agricole. E probabile che l'opera, dopo il successo riscosso da Virgilio con le Bucoliche, sia stata scritta dietro pressanti incoraggiamenti di Mecenate, anche se non si trattò di un'ordinazione vera e propria, dal momento che l'intento di Virgilio di celebrare le antiche e sane tradizioni italiche, con specifico riferimento a quelle agresti, collimava perfettamente con l'ideologia augustea, ovvero con i proclami proandistici di Ottavia­no in merito all'ormai obsoleto recupero degli antichi costumi agricoli de­gli Italici. Occorre sottolineare che, a dispetto dell'impegno educativo che si vorrebbe attribuire al poema, le Georgiche non si proponevano af­fatto d'insegnare ai contadini come lavorare i campi né tanto meno inten­devano suggerire ai lettori di dedicarsi alle attività agricole di vecchio stampo. Al contrario, l'intento prioritario del poeta fu quello di esaltare la sanità morale della vita agreste col preciso scopo d'idealizzarla, contrap­ponendola alla mondanità, alla violenza, alla dissolutezza e alla decadenza dei costumi che contraddistinguevano la realtà sociale ed economica del tempo. Per quanto concerne i modelli, Virgilio prese certamente spunto dai poemi didascalici alessandrini che avevano trattato una materia abbastanza simile, con particolare riferimento alle Georgiche di Nicandro di Colofone e ai Fenomeni di Arato. Ancora più marcati, però, furono gli influssi dei contenuti di trattati tecnici, quali il De re Rustica di Varrone, e filosofici, come il perì fuseos di Empedocle di Agrigento nonché delle opere di Lucrezio (De Rerum Natura) e di Esiodo. Di quest'ultimo autore bisogna ricordare in particolare Le opere e i giorni, considerato il primo poema didascalico e quindi, a buon diritto, il modello sui cui Virgilio si basò per scrivere le Georgiche.

Rispetto ai paesaggi soffusi ed astratti delle Bucoliche, pervasi da un velo di tenue malinconia, nelle Georgiche l'interesse di Virgilio si sposta sul ben più concreto problema del lavoro nei campi, che, pur essendo ac­cettato come strumento di rafforzamento morale, oltre che come mezzo necessario per la sopravvivenza del contadino, resta comunque sinonimo di fatiche e privazioni e, in quanto tale, viene contrapposto alla condizione degli uomini nella mitica età dell'oro, quando i contadini non erano co­stretti a lavorare per vivere. È interessante mettere a conforto le tre diverse concezioni del lavoro presenti in Esiodo, Lucrezio e Virgilio. Esiodo conferisce dignità e valore morale al lavoro ma lo considera un'imposizione divina, la pena per una colpa commessa; Lucrezio, invece, vede l'essere umano fortemente contrapposto alla natura: essa e l'uomo sono due vis che si scontrano; per Virgilio, infine, il lavoro è un dono degli dei: Zeus vuole che gli uomini si risveglino e progrediscano e, inviando loro il lavoro, li fa avanzare nel cammino della civiltà e del progresso.




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