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T E S I N A DI DIRITTO Penale - La pena nel suo sviluppo storico - SANZIONI SOSTITUTIVE DELLE PENE PRINCIPALI - La remissione del debito

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T E S I N A

DI

DIRITTO Penale





La Pena, Caratteristiche E Scopi











PREMESSA

In ogni epoca e in ogni società si è mirato a contrastare e contenere i delitti - le condotte cioè ritenute maggiormente lesive dei principi normativi fondamentali delle singole culture - in quanto è fine precipuo di ogni comunità sociale assicurare, con l'osservanza delle leggi, il mantenimento della conformità dei propri membri e la protezione dell'omogeneità dei valori portanti.

Il principale tra gli strumenti di controllo sociale anticriminoso è sempre stato e continua a essere il sistema delle sanzioni penali.














CAPITOLO I

1. La pena nel suo sviluppo storico

Per tutta l'antichità fu generalmente attribuita alla pena una funzione prevalentemente punitiva, di vendetta ovvero neutralizzatrice, retributiva, di sofferenza o di difesa della società ed aveva (come fine unico) carattere esclusivamente afflittivo e repressivo, in quanto l'unico scopo era quello di annullare il colpevole del reato, isolandolo dal resto della società e rinchiudendolo in edifici senza alcun rispetto della persona umana; la pena quindi, non aveva carattere rieducativo. A tal riguardo si possono ricordare i c.d. "ceppi" (Blocchi di legno per immobilizzare i piedi dei prigionieri ) ed i " terreni chiusi da muri di cinta" dei Cinesi, i luoghi di incatenazione previsti in India dalle leggi di Manu; le prigioni orribili che ebbero gli Assiri, i Babilonesi i Persiani, gli Egizi, gli Etiopi ed i Fenici. Per i Greci, generalmente significava essere "portati in ceppi". Per i Romani, era un luogo tetro e gelido dove si gettavano insieme uomini e donne in attesa di giudizio o condannati; per i germani la privazione della libertà personale avveniva mediante i ceppi.[1]

Non mancarono però eccezioni a tale comune modo di sentire la pena. Nel mondo greco, ad esempio, già Tucidide (storico greco autore dell'opera "guerra del Peloponneso") dubitava della funzione intimidatrice della pena osservando che "è assurdo ed è molto ingenuo pensare che, quando la natura umana è sotto un impulso che prepotentemente la spinge ad agire, si possa trattenerla o con la costrizione delle leggi o con altra minaccia".[2] Fin dalla seconda metà del V secolo a.C., in particolare con i Sofisti, il concetto di pena si fa strada con un suo preciso significato e con una sua determinata funzione anticipando quei concetti propri del periodo illuministico. La pena per i sofisti ha fondamentalmente una duplice funzione: intimidire e migliorare l'uomo delinquente.

Nella filosofia platonico-aristotelica la stessa nozione di legge è quello strumento che ha una duplice finalità precipuamente di carattere morale: "persuadere e istruire"[3], ed in tale prospettiva la pena è considerata una terapia che ha come fine "una integrale rieducazione" che può "dischiudere l'animo dell'uomo al bene".

Per Protagora il concetto della pena è intimamente legato ad un valore sociale: "si punisce per distogliere dal commettere nuove colpe", il valore sociale della pena viene elevato al rango di tema fondamentale del dibattito etico - politico e comincia ad emergere l'esigenza che la società civile si confronta seriamente con questo problema, ponendo attenzione alla personalità del reo, concetto che diventerà uno dei punti fondamentali della celebrata opera di Cesare Beccaria "Dei delitti e delle pene". Nel mondo romano anche Seneca affermerà che nessuno è punito perché ha sbagliato, ma perché non sbagli più.

Costantino il Grande imperatore romano, cercando di umanizzare il trattamento dei ristretti dispose con un'ordinanza dell'anno 320 "la separazione dei sessi, l'alleggerimento delle catene, la possibilità di prendere aria e moto nei cortili"[4]. In seguito, la barbaria mediovale riporto generalmente il concetto di carcere alla concezione della pena come mezzo punitivo, vendicativo e di difesa sociale; per molti secoli i detenuti furono addirittura usati nel campo delle ricerche mediche.

Anche nei sistemi penali dell'<<Ancien règime>> il carcere è inteso come tortura, mutilazione, morte[5]: il carcere, analogamente al concetto di pena, ha solo una funzione punitiva e neutralizzante.

Con l'illuminismo, si volta ina: il concetto di pena in genere e quello di carcere in particolare assumono nuovi connotati. Notevole, in merito, il contributo di Cesare Beccaria e di John Howard. Beccaria con la sua opera "Dei delitti e delle pene" esercitò senza dubbio una forte influenza nel campo del diritto penale, essa rappresenta la più nota espressione della concezione liberale del diritto penale, secondo la quale:

a)    La pena deve avere un significato retributivo e non più di intimidazione e di vendetta;

b)    Il delinquente è visto come un individuo libero nelle sue scelte, indipendente da condizionamenti socio ambientali o patologico individuali.

John Howard, con i suoi due libri "Lo Stato delle prigioni" e "La storia dei Lazzaretti" pose, certamente, i principi basilari ai quali tutte le moderne democrazie si sono ispirate nei loro ordinamenti penitenziari. Infatti, i principi affermati da Howard - secondo cui la pena detentiva deve essere intesa come emenda del reo e a religione ed il lavoro sono gli strumenti per la realizzazione di tale emenda - oggi caratterizzano il diritto penitenziario della maggior parte degli Stati europei, tra cui quello italiano.

Caratteristica fondamentale dell'ideologia illuministica della pena privativa della libertà è che essa è "la pena democratica ed egualitaria per eccellenza: la misura del carcere consente di commisurare la pena alla gravità del crimine consentendo la massima protezione della società con il minimo prezzo in termini di sofferenza per il condannato".[6]

In verità, per quanto concerne la pena della privazione della libertà, il concetto della sua funzione emendativa è certamente già sentito nella pubblica opinione molto tempo prima: di ciò sono tangibili l'istituzione del reclusorio di Amsterdam nel 595, la creazione di istituti analoghi in Brema nel 1609, a Lubecca nel 1616, a Danzica nel 1629 ed infine, la costruzione delle Carceri Nuove in Via Giulia a Roma nel 1655 e quelle del San Michele sempre a Roma nel 1703. Nelle succitate strutture penitenziarie il lavoro, la separazione per categorie dei detenuti sono i mezzi per la realizzazione dell'emenda del reo. Verso la fine del XIX secolo la funzione rieducativa della pena è ormai opinione diffusa in campo internazionale. Ma la sua realizzazione concreta (della funzione "rieducativa" della pena) incontrava comunque, ancora, notevoli difficoltà a causa di due ostacoli: il primo rappresentato dal fatto che, a partire dal XVI secolo, la pena della privazione della libertà era considerata non surrogabile, il secondo consistente nell'isolamento cellulare dei detenuti che, nel sistema filadelphiano si concretizzava nell'isolamento diurno e notturno, e nel sistema di Ausburn (così detto perché sperimentato nel 1820 a Ausburn, New York) nell'isolamento solo notturno.

Il superamento dei principi succitati inizia dai paesi di diritto anglosassone ove si fanno strada le misure alternative alla privazione della libertà, che, da una parte, segnano la fine del monopolio della pena del carcere e, dall'altra, imprimo alla pena in genere ed a quella detentiva in particolare una funzione segnatamente rieducativa e risocializzante, concetto, oggi, diventato Jus receptum negli ordinamenti penali degli Stati moderni.[7]

Nel secolo XIX si verifica un rapido mutare degli strumenti punitivi. In primo luogo, per l'influenza delle dee illuministiche e in particolare del Beccaria, si generalizza in Europa la redazione di codici penali e di procura penale la cui osservanza è imposta come principio fondamentale e la cui validità è universale, nel senso che non risente più dei privilegi di casta. Vengono poi abbandonate la tortura e le pene corporali; la detenzione in carcere diviene lo strumento fondamentale di punizione, introducendosi il principio della proporzionalità fra gravità del reato e durata della reclusione, il carcere diviene fino alla metà circa del nostro secolo, la chiave di volta del sistema penale.











CAPITOLO II

2. Il fondamento della pena

Prescindendo dal ricordare le teorie utopistiche (Tommaso Moro, Tommaso Campanella ecc.), le quali vagheggiano un tipo di società nella quale la pena non avrebbe più ragione di esistere, a causa della spontanea osservanza delle fondamentali regole di condotta da parte dei cittadini. Una simile società non è mai esistita; e vi sono fondate ragioni per presumere che non esisterà mai. In ogni caso, è sicuro che al giorno d'oggi nessun tipo di comunità statale può prescindere dalle pene. Tutto quello che l'esperienza, a questo riguardo, può rilevare, è un progressivo svuotamento della funzione affittiva della pena, con correlativa accentuazione della finalità di emenda. Ciò premesso, procederemo nel nostro discorso ricordando le principali teorie sul fondamento della pena.

.LA TEORIA DELLA RETRIBUZIONE.

La teoria della retribuzione si può compendiare nell'assunto che "il bene va ricompensato con il bene, il male con il male". Secondo i diversi indirizzi dottrinali, si possono distinguere logicamente tre aspetti della teoria della retribuzione.

a) teoria della retribuzione divina. Chi commette un reato, infrange la legge divina. Perciò, offende Dio e incorre nel castigo divino. Dio ha delegato all'uomo una parte della sua giustizia. La giustizia umana, quando retribuisce il colpevole, attua la giustizia divina.[8]

b)    Teoria della retribuzione morale. E' una esigenza profonda della coscienza umana che il bene sia ricompensato con il bene, e il male con il male. Che lo Stato punisca il colpevole è, dunque, necessario in base a questo imperativo che scaturisce dalla coscienza umana.[9]

c) Teoria della retribuzione giuridica. Non è necessario ricercare il fondamento della pena in elementi (come la giustizia divina o la coscienza umana) al di fuori dell'ordinamento giuridico dello Stato. La retribuzione, secondo la dialettica hegeliana degli opposti, è la negazione e perciò la riaffermazione del diritto dello Stato. A mezzo della retribuzione, lo Stato, dunque, afferma il proprio ordinamento.

.TEORIA DELLA PREVENZIONE GENERALE. Secondo questa dottrina, la comminazione della pena serve a distogliere i consociati dal compiere atti socialmente dannosi. In quanto è un male, la pena agisce psicologicamente come controspinta rispetto al desiderio di procurarsi un piacere, che dà origine alla spinta criminosa. Naturalmente, una volta che un reato sia commesso, la pena deve essere effettivamente applicata: altrimenti la minaccia della pena perderebbe, per il futuro, ogni efficacia dissuasiva, La funzione della pena nel momento dell'applicazione non è diversa, dunque dalla funzione che le è propria nel momento in cui viene comminata.[11]

Questa teoria contiene un momento di verità, in quanto la pena come e altre sanzioni giuridiche, mira a orientare la condotta dei consociati. Tuttavia, questa funzione che, per la parte in cui si vuole impedire il compimento di certe condotte, può essere indicata come prevenzione generale, è comune a tutte le sanzioni giuridiche. Essa riguarda il genus "sanzione sfavorevole", non la species "pena. Inoltre la teoria tradizionale (o"ristretta") della prevenzione generale tiene conto solo della deterrenza (cioè del timore della sanzione), mentre trascura l'effetto culturale e normativo, cioè quella formazione di barriere morali contro il delitto, che consegue alla statuizione e applicazione di sanzioni penali. [12]

.TEORIE DELLA CORRELAZIONE MORALE E DELLA PREVENZIONE SPECIALE.

La dottrina della correzione morale vede nella pena la funzione di purificare lo spirito del male commesso. In quanto un miglioramento morale del soggetto ha per effetto una sua minore propensione a compiere reati, la dottrina in questione sbocca nella teoria della prevenzione speciale in senso etico.

Per prevenzione speciale si intende l'opera diretta a far diminuire il pericolo che il soggetto, al quale si applica la pena, commetta reati in futuro. La prevenzione speciale può essere ottenuta o attraverso una correzione morale del soggetto oppure, in termini naturalistici, attraverso un'opera di riadattamento del soggetto alla vita associata. I due concetti di prevenzione speciale devono essere tenuti distinti: mentre il rimo ha una lunga tradizione, che risale ai giuristi romani - poena costituitur in emendationem hominum:D. 49, 19, 20 e alle dottrine cattoliche [13], il secondo si afferma soltanto nel secolo scorso con la scuola positiva.

La funzione di prevenzione speciale, come detto, tende ad impedire che chi si è già reso responsabile di un reato torni a delinquere anche in futuro. Un simile obiettivo può essere perseguito attraverso tecniche sanzionatorie diverse, come dimostra la stessa evoluzione storia del diritto penale. La tecnica più elementare consiste nella neutralizzazione del soggetto potenzialmente pericoloso ottenuta grazie all'impiego della coercizione fisica: ad es. un uomo in carcere è posto in condizioni di non poter compiere almeno determinati tipi di delitti. La neutralizzazione può però essere ottenuta anche attraverso forme di interdizione giuridica, che impediscono al reo di continuare a svolgere attività che hanno occasionato la commissione di delitti: si pensi ad es. al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, come sanzione accessoria inflitta all'autore di certi tipi di reato commessi nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. Un altro tipico modo di operare della prevenzione speciale si manifesta in forma di condizionamento della personalità del reo. La tecnica più antica da questo punto di vista consiste nel perseguire, attraverso la componente affittiva insita nella punizione, l'emenda morale del delinquente: l'idea dell'emenda già presente in molte orazioni ed opere del Seneca, ha ispirato per molto tempo le concezioni della pena legate ad una visione cattolica dell'esistenza. Ma nei tempi moderni la prevenzione speciale assume a criterio-guida la rieducazione concepita come risocializzazione: e in questa ottica - come abbiamo visto - che è stata prevalentemente interpretata la funzione rieducativa della pena solennemente sancita dall'art. 27, comma 3°, Costituzione, ed è sempre in questa ottica che il finalismo rieducativi di fonte costituzionale ha ispirato le più profonde innovazioni del nostro sistema sanzionatorio.

La prospettiva della risocializzazione presiede, ovviamente, alla fase esecutiva della pena, che ne costituisce per così dire la sede naturale: è durante l'esecuzione della pena che si procede (o si dovrebbe procedere) al trattamento individualizzato del colpevole, al fine di favorirne il più possibile riadattamento. L'idea rieducativa svolge un ruolo decisivo anche nella fase antecedente dell'infrazione o commisurazione giudiziale della pena: nella scelta sia del tipo che dell'entità della sanzione il giudice deve, infatti, farsi guida soprattutto dalla preoccupazione di incidere sulla personalità del reo in modo da favorirne il recupero.















CAPITOLO III

3. Aspetti etici della pena: la pena come retribuzione e come emenda

La funzione preventiva (sotto forma di prevenzione generale e di prevenzione special) della pena ha una sua validità etica, che si radica nell'ordinarsi del diritto penale al bene comune, secondo quanto è disposto dalla comunità direttamente o a mezzo dei suoi organi. Questo fondamento comporta n limite etico alla gravità delle pene: la pena, in quanto contiene in sé un elemento di male, è un danno per la società ( si pensi non solo alla pena di morte, ma anche alle pene detentive, che spesso producono danni gravissimi alla psiche di chi vi è assoggettato, nonché danni economici per lo stesso condannato, la sua famiglia, i suoi dipendenti, la società tutta [che, quanto meno, dovrà sopportare larga parte dei costi della carcerazione: investimenti per prigioni ecc., spese per il personale della polizia penitenziaria, spese per il procedimento penale]). Può essere giustificata, se questo male non solo è necessario per ottenere quel bene comune che ci si prege, ma è anche proporzionato a quest'ultimo. Il bene comune non può essere perseguitato arrecando un danno comune maggiore. Qui emerge, dunque, il concetto di retribuzione, come proporzione tra il fatto commesso e la pena.

Si noti, però, che a ben guardare, il rapporto di proporzione non si pone, come per la teoria classica della retribuzione, tra il singolo illecito e la singola sanzione, ma piuttosto tra l'insieme dei danni comuni provocati dalle sanzioni previste dalla norma e l'insieme dei danni comuni che la norma stessa vuole prevenire. Ciò consente di spiegare perché mai, in condizioni di scarsa efficacia di un ordinamento e quindi di più rara applicazione della sanzione, cresca il livello accettato (ed accettabile) di severità. Inoltre, appare nella dovuta chiarezza come il livello giusto di severità sia condizionato non solo dalla gravità del fatto, ma anche, con correlazione inversa, dai livelli di certezza e di prontezza che si riesce ad ottenere.

Sempre all'interno della prevenzione generale, il principio di retribuzione esplica ancora altre importanti funzioni nell'ambito dell'orientamento culturale dei consociati. In quanto il livello di severità sia sufficientemente alto ( e la sanzione sia effettivamente applicata), la sanzione statale sostituisce la vendetta privata, sopprimendone la motivazione: perciò, evita la commissione di ulteriori fatti costituenti reato. In quanto il livello di severità stia al di sotto del limite oltre il quale la sanzione sarebbe considerata ingiusta, sono evitate eventuali reazioni di simpatia verso il delinquente (che, per un facile scambio, possono diventare reazioni di simpatia verso il delitto). In quanto la severità della sanzione sia minore nei confronti degli illeciti ritenuti più gravi, il significato retributivo implicito nel sistema delle sanzioni penali può convalidare una scala di valori già fatta propria dalla comunità oppure può prospettarne una nuova.

All'interno della prevenzione speciale, poi , il principio di retribuzione opera nel senso di rendere possibile l'accettazione della sanzione penale da parte soggetto che ne è destinatario. Solo se la sanzione è proporzionata al fatto commesso, può esservi qualche speranza che essa sia riconosciuta come giusta e porti, quindi, all'emenda morale del reo. Per questi motivi, si deve ritenere che la più alta efficacia preventiva del sistema penale si ottenga dove le sanzioni corrispondano - nella legge, nella commisurazione giudiziale, nella effettiva esecuzione - al senso di giustizia dei consociati.

Retribuzione ed emenda morale del reo, oltre al significato relativo (sono mezzi per perseguire la prevenzione generale e la prevenzione speciale), posseggono anche un valore etico assoluto: sono fini che l'ordinamento etico esige siano perseguiti per sé stessi, a prescindere da ogni effetto che ne possa derivare. In questo senso particolare, la retribuzione ritorna ad essere, come nella concezione classica, la restaurazione dell'ordine etico violato, la emenda morale riacquista il suo originario di esclusiva purificazione interiore del soggetto che ha commesso una colpa. In quanto l'uomo agisce al tempo stesso come operatore giuridico e come soggetto morale, queste componenti penetrano profondamente nella lotta contro il delitto, condizionando la risposta degli ordinamenti giuridici ai fatti illeciti.[15]














CAPITOLO IV

4. La pena secondo la Costituzione

La nostra Carta Costituzionale detta all'art. 27, alcune disposizioni in materia di pena: "La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. La responsabilità penale è personale. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra." La Costituzione fonda pertanto il nostro diritto penale sul principio di responsabilità individuale, il contenuto affittivo della pena non può essere diretto verso soggetti diversi dal reo (ad es. verso i suoi familiari o verso il suo gruppo sociale), in modo da riversarsi solo mediamente verso quest'ultimo soggetto; sull'umanizzazione della pena e la consequenziale inammissibilità della pena di morte (fatta eccezione per i reati previsti dalle leggi militari di guerra) e sul principio per cui la pena deve tendere alla rieducazione.

Il problema relativo al fondamento e alla funzione della pena viene a collocarsi in una prospettiva in seguito all'entrata in vigore della Costituzione Repubblicana. Il Legislatore Costituzionale, infatti prende esplicita posizione al riguardo, affermando all'art. 27, comma 3°:"le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"[16]

E'evidente in tutto questo lo sforzo del Legislatore nel passare dalla considerazione del solo valore retributivo della pena e - quindi - da una funzione punitiva custodialistica degli istituti di pena, ad una visione finalistica e appunto alla rieducazione ed al reinserimento sociale.

Tale evoluzione di pensiero trae la sua origine già nel Beccaria, il quale affermava che nel carcere non importa il crimine commesso ma la pena : "entra l'uomo e il reato resta alla porta".

Anche il nostro Ordinamento penitenziario, naturalmente, ha recepito e fatto propri i principi che hanno segnato l'evoluzione della scienza penitenzialistica nonché quelli sanciti a tutela dei diritti fondamentali della persona basandosi principalmente sulle disposizioni contenute del sopracitato articolo della Costituzione. Esso trae le sue origini da alcune leggi fondamentali dello Stato quali ad esempio la Legge 354/75, la legge 663/86, la legge 395/90 e da ultimo il D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230, si fonda sulla rieducazione e sul recupero de condannato o internato, con il pieno rispetto della sua dignità, attraverso il trattamento quale obbligo dell'Amministrazione. Per trattamento si deve intendere quel complesso di attività eseguite a favore dei detenuti svolte a regolare ed assistere la privazione personale durante l'esecuzione di una sanzione penale.























CAPITOLO V

4. Caratteri della pena

Nel nostro ordinamento giuridico, la pena è regolata dai seguenti principi:

la personalità della pena; il corrispettivo del male non può che essere applicato all'autore del reato. Tale principio ha portato così alla abolizione delle primitive o patologie applicazioni della pena a persone estranee al fatto criminoso; alla abolizione delle sanzioni che si ripercuotevano sui congiunti del reo e, da ultimo all'affermazione del principio generale che la pena si estingue con la morte del colpevole.

la proporzionalità della pena; la pena è proporzionata al reato, in quanto il male subito costituisce il corrispettivo del male inflitto se ed in quanto a questo proporzionato. L'idea della proporzione segna il passaggio dalla vendetta, che è emozione non controllata dalla ragione e spesso sproporzionata alla entità del male subito, alla pena, che è atto di ragione e quindi reazione proporzionata. Naturalmente la proporzionalità della commisurazione dell'entità della pena al reato commesso fa eccezione solo a due casi: l'aumento di pena previsto per i recidivi e quello derivante dall'art. 133 che impone al giudice di tenere conto nell'erogare la pena, non solo la gravità del reato ma anche della pericolosità del soggetto desunta anche dal contesto criminale di provenienza.

la legalità e introattività; l'applicazione della pena è regolata dalla legge e può essere inflitta solo nei casi da essa previsti basandosi sul fatto che non si possono irrogare pene se non previste e consentite dalla legge. Inoltre nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso; essa è devoluta all'autorità giudiziaria, la quale la infligge con la garanzia del procedimento penale e può naturalmente essere revocata solo nei casi stabiliti dalla legge.















modulo VI

6. Tipologia della pena

Le pene previste dal nostro ordinamento si distinguono in pene principali, accessorie e sostitutive:

Le pene principali sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna, le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna (come effetti di essa art. 20 c.p.), le pene sostitutive possono essere inflitte al posto delle pene detentive brevi.

LE PENE PRINCIPALI.

Le pene principali si suddividono in pene detentive e sono la pena di morte, l'ergastolo, la reclusione e l'arresto e in pene principali pecuniarie quali la multa e l'ammenda. Naturalmente quelle previste per le contravvenzioni sono l'arresto e l'ammenda. Bisogna anche ricordare che con l'entrata in vigore nello scorso gennaio del D.Lgs. 28.8.2000 n. alcuni reati sono stati devoluti alla competenza del giudice di pace, che ha disposto per essi la sostituzione delle pene privative della libertà personale con sanzioni alternative o pecuniarie; tali misure sono l'obbligo di permanenza domiciliare e la prestazione di lavoro di pubblica utilità.

a) la pena di morte. L'art. 27 ultimo comma della Costituzione, stabilisce: "non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra". La legge ordinaria 3 ottobre 1994 n. 589, ha poi abolito la pena di morte anche rispetto al codice penale militare di guerra e alle altre leggi militari di guerra emanate in precedenza. Nello stesso senso la ratifica del secondo protocollo facoltativo del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, avvenuta con la legge 9 dicembre 1994, n. 734. Nei casi per i quali le norme preesistenti prevedevano la pena di morte, si applica l'ergastolo (d.l. 10.8.1944, n. 224).

b)    L'ergastolo. Consiste nella privazione della libertà personale per tutta la durata della vita. La legge 10 ottobre 1986, n. 663, art, 8, ammette tuttavia in certi casi la liberazione condizionale, dopo che siano stati scontati effettivamente almeno ventisei anni di pena.

c) La reclusione. E' la privazione della libertà personale per un tempo che può estendersi da quindici giorni a ventiquattro anni, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno (art. 23 c.p.).

d)    La multa. Questa pena consiste nel amento allo Stato di una somma non inferiore a euro 5,16, né superiore a euro 5.160,00. Per i delitti determinati da motivi di lucro, se la legge stabilisce la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da euro 5,16 a euro 2065,00.

e) L'arresto. E' la pena detentiva prevista per le contravvenzioni Si estende da cinque giorni a tre anni, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno (art. 25 c.p.);

f)  L'ammenda. E' la pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni. Consiste nel amento allo Stato di una somma non inferiore a euro 2,65, né superiore a euro 1032,00. Come per la multa, il giudice deve tenere conto delle condizioni economiche del reo:perciò, può anche triplicare la misura dell'ammenda, o, al contrario, ridurla a un terzo e/o disporre il amento in rate mensili (artt. 133-bis e 133 ter c.p.). Anche la ammenda può essere proporzionale al danno arrecato (art. 27 c.p.).

LE PENE ACCESSORIE. A differenza delle pene principali, che devono essere esplicitamente inflitte dal giudice, le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna e, salvo diversa disposizione, hanno durata eguale a quella della pena principale inflitta o che dovrebbe scontarsi per insolvibilità del condannato. Questo termini comincia a decorrere dal momento in cui il condannato ha cessato di scontare la pena detentiva o di essere sottoposto a misura di sicurezza detentiva (art. 37, 139 c.p.). Attualmente, le pene accessorie sono le seguenti:

L'interdizione dai pubblici uffici. Priva il condannato di ogni diritto politico; di ogni pubblico ufficio o incarico non obbligatorio di pubblico servizio; di ogni ufficio attinente alla tutela o alla cura; dei gradi e delle dignità accademiche, delle decorazioni e altre pubbliche insegne onorifiche; degli stipendi, delle pensioni e degli assegni (non derivanti da rapporti di lavoro) a carico dello stato o di altro ente pubblico. L'interdizione può essere perpetua o temporanea. In questo ultimo caso essa non può essere avere una durata inferiore a un anno, né superiore a cinque. La interdizione temporanea per la durata di cinque anni consegue alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni (art. 28 s. c.p.)) Queste disposizioni non si applicano alle condanne per delitto colposo.

La interdizione da una professione o da un'arte. Consiste nella perdita della idoneità ad essere titolare di un permesso, abilitazione, autorizzazione o licenza richiesti per esercitare una professione, un'arte, un'industria, un commercio o un mestiere. Perciò i permessi etc. posseduti decadono in modo definitivo, salva la possibilità di riottenerli trascorso il periodo della pena. Consegue alla condanna per delitti (consumati o anche solo tentati) commessi con abuso di un pubblico ufficio o di una professione o di un'arte (art. 30 s. c.p.). Non può avere durata inferiore a un mese né superiore a cinque anni.

La sospensione dall'esercizio di una professione o arte. A differenza della interdizione, non comporta la decadenza de permesso ecc., ma solo il divieto di esercitare l'attività. Scaduto il termine di sospensione (da quindici gg. a due anni), l'esercizio della professione o arte può essere può essere ripreso senza ulteriori formalità. Consegue alle condanne per contravvenzioni commesse con abuso della professione o arte (at. 35 c.p.).

La interdizione Legale. Segue alla condanna  all'ergastolo e alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni. Si applicano le norme stabilite dalla legge civile per la interdizione giudiziale (art. 32 c.p.).

La interdizione temporanea degli Uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Priva il condannato della capacità di esercitare l'ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore e direttore generale, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'imprenditore. Consegue ad ogni condanna alla reclusione non inferiore a sei mesi per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all'ufficio (art. 32-bis c.p.).

la incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Importa il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo per ottenere la prestazione di un pubblico servizio. Non può avere durata inferiore a un anno, né superiore a tre anni (art. 32- ter c.p.). Segue alla condanna per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione o a suo danno, quando siano stati commessi a causa o nell'occasione dell'esercizio di un'attività imprenditoriale (art. 32-quater c.p.).

La decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà di genitore. Si ha negli stesi casi per cui è prevista la interdizione legale e in altri casi determinati dalla legge. La condanna per delitti commessi con l'abuso della potestà di genitore importa la sospensione dall'esercizio di essa per un tempo pari al doppio della pena inflitta (art. 34 c.p.).

La pubblicazione della sentenza di condanna. Si effettua, di regola per estratto, mediante affissione nel Comune dove è stata pronunciata, in quello ove il delitto fu commesso e in quello dove il condannato aveva l'ultima residenza. Consegue alla condanna alla pena dell'ergastolo. La sentenza viene inoltre pubblica, per una sola volta, in uno o più giornali designati dal giudice e a spese del condannato. Questa forma di pubblicazione si applica anche in alcuni casi particolari, come l'adulterazione di sostanze alimentari o la frode di commercio (art. 36c.p.).

La sospensione degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Priva il condannato della capacità di esercitare l'ufficio di amministrare,sindaco, liquidatore e direttore generale,, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'imprenditore. Non può avere una durata inferiore a quindici giorni, né superiore a due anni e consegue ad ogni condanna all'arresto per contravvenzioni connesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all'ufficio (art. 35-bis c.p.).[19]











CAPITOLO VII

7. SANZIONI SOSTITUTIVE DELLE PENE PRINCIPALI.

Il Giudice, nell'ambito del suo potere discrezionale, oltre alla possibilità di modellare l'entità della pena base, può addirittura sostituire la pena stessa con una delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, cioè quelle che non superano i sei mesi di reclusione o di arresto (due anni per i minori).

Esse in pratica permettono il reinserimento sociale di un condannato ritenuto dal giudice non pericoloso.

Le sanzioni sostitutive previste dalla legge sono:

A)    La semindenzione: può essere concessa nel caso in cui la pena detentiva non supera i sei mesi.

Essa impone al condannato di trascorrere almeno 10 ore al giorno in uno specifico istituto di custodia e comporta vari obblighi (divieto di detenere armi, ritiro del passaporto, sospensione della patente).

B) La libertà controllata: può essere concessa nel caso in cui la pena non supera i tre mesi.

Chi ne beneficia ha l'obbligo di non allontanarsi dal Comune residenza e di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di P.S. o dell'Arma dei Carabinieri.

Comporta, inoltre, gli stessi obblighi accessori della semidetenzione.

Due giorni di libertà controllata equivalgono ad un giorno di detenzione.

C)    La pena pecuniaria: può essere concessa nel caso in cui la pena non supera un mese.

Quando il condannato non ha la possibilità di are, la pena pecuniaria si converte a seconda dei casi, nella libertà controllata o nella sanzione sussidiaria del lavoro sostitutivo.

Ogni giorno mese di libertà controllata è pari a euro 12,91, mentre un giorno di lavoro sostitutivo corrisponde ad euro 25,82.

Le modalità concrete di esecuzione delle misure sostitutive della semidentizione e della libertà vigilata sono fissate dal magistrato di sorveglianza e trasmesse all'ufficio di P.S. o al comando dell'Arma dei Carabinieri competenti.














CAPITOLO VIII

8. MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE

Nel nostro ordinamento poi la pena è anche vista in termini di flessibilità, potendosi infatti modificare nel corso della sua esecuzione; infatti, il carcere, sebbene costituisca ancora oggi l'unico rimedio per coloro che sono considerati socialmente pericolosi tanto per coloro che sono stati condannati ad una pena detentiva breve quanto per quelli condannati a lunghe pene detentive ma che, durante l'espiazione della pena hanno dato prova di ravvedimento e pertanto meritevoli di particolare considerazione ai fini della risocializzazione, permettono i contatti tra il condannato ed il mondo esterno, rendendo più spedita l'opera del suo reinserimento nella società libera.

Esse, senza dubbio, sono un momento peculiare e saliente dell'ordinamento penitenziario. Il Legislatore, con l'introduzione delle misure alternative, si è posto all'avanguardia dei moderni sistemi penitenziari tanto da porre il nostro ordinamento tra i più avanzati non solo d'Europa, ma del mondo.

Esse incidono solo sulla fase esecutiva della pena e possono consistere in:

affidamento in prova al servizio sociale;

detenzione domiciliare;

Semilibertà;

liberazione anticipata;

liberazione condizionale;

Remissione del debito.

8.1 Affidamento in prova al servizio sociale L'affidamento in prova al servizio sociale ripete i caratteri essenziali del "probation system", introdotto per la prima volta in Inghilterra.

L'affidamento in prova al servizio sociale, secondo la struttura che ne aveva delineate la legge di riforma penitenziaria del 1975, prima delle modifiche apportate dalla 663/86 e fino all'entrata in vigore della 165/98 era una misura alternativa alla detenzione che operava nella fase di esecuzione penale dopo che l'espiazione della pena detentiva avesse avuto inizio. Essa è di competenza del Tribunale di Sorveglianza.

Il beneficio si presenta in una duplice forma: la prima, c.d. ordinaria, ha il suo fondamento nell'art. 47 O.P., la seconda "affidamento in casi particolari" per tossicodipendenti ed alcooldipendenti è - dopo la legge Simeone che ha abrogato l'art. 47 bis dell'O.P. - riferita alle previsioni normative si cui all'art. 94 del T.U. 309/90.

La formulazione complessiva dell'art. 47 O.P. e successive modificazioni, da ultimo dalla l. 27.5.1998 n. 165 può essere così riassunta.

    L'affidamento può essere consesso a colui cui sia stata inflitta una pena detentiva non superiore a tre anni, anche se costituente residuo maggiore di pena (può essere concesso anche a colui che oltre alla pena detentiva ha avuto inflitta una misura di sicurezza (art. 47 co 1 O.P.);

    Se il soggetto la cui pena detentiva, anche costituente residuo maggiore di pena, non è superiore a tre anni, non è detenuto, il P.M. sospende automaticamente l'esecuzione della pena, il decreto relativo viene consegnato nelle mani del condannato che avrà trenta giorni di tempo per presentare al P.M. istanza di ammissione all'affidamento in prova al servizio sociale. L'istanza viene trasmessa al Tribunale di Sorveglianza competente, che decide entro quarantacinque giorni. Se l'istanza viene dichiarata inammissibile e viene respinta il P.M: revoca la sospensione dell'esecuzione (art. 1, commi 5, 6, 7,8, legge Simeone);

    La sospensione dell'esecuzione per la stessa condanna non può essere disposta più di una volta.

    L'affidamento in prova di un condannato in stato detentivo può essere disposto senza procedere all'osservazione in istituto quando il condannato, dopo commissione del reato, ha serbato comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2° art. 47 O.P. comma 3° (come sostituito dall'art. 2 comma 1° Legge Simeone) cioè ove si possa ritenere che il provvedimento di affidamento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.

Analizziamo ora la forma speciale ovvero l'affidamento in casi particolari così come previsto dall'art. 94 del T.U. 309/90 ripristinato a seguito dell'abrogazione dell'art. 47 bis ex art. 3 della legge Simeone.

Essa consente ad un tossicodipendente o alcooldipendente, sottoposto o che intende sottoporsi ad un programma di recupero, di poter chiedere in ogni momento di beneficiare dell'affidamento in prova al servizio sociale senza la necessità di essere privato della sua libertà al fine di essere sottoposto al periodo di osservazione in istituto per un mese.

I punti più salienti riguardano:

    I soggetti tossicodipendenti o alcooldipendenti con pena detentiva inflitta nel limite di anni quattro, o ancora da scontare nella stessa misura, possono proporre in qualsiasi momento purché abbiano in corso un programma di recupero o ad esso intendano sottoporsi (art. 94 Comma 1° T.U. 309/90).

    Il programma dir recupero deve essere concordato con un ASL o con uno degli Enti previsti dall'art 115 o privati allegando certificazione attestato lo stato di tossicodipendenza e da alcoolipendenza (art. 92 comma 2° T.U. 309/90).

    L'affidamento nei casi particolari non può essere disposto più di due volte (art. 94, comma 5° T.U. 309/90);

    Il Tribunale di sorveglianza, nominato un difensore al condannato che ne sia privo, fissa senza indugio la data della trattazione, disponendo gli opportuni accertamenti; se l'istanza è rigettata scatta l'ordine di carcerazione.

    Nei confronti di soggetti tossico o alcooldipendenti non detenuti la cui pena detentiva, anche costituente residuo di maggior pena, non è superiore ad anni quattro e il soggetto non è detenuto, il P.M. sospende automaticamente l'esecuzione della pena;il decreto relativo viene consegnato nelle mani del condannato che avrà trenta giorni di tempo per presentare al P.M. istanza di ammissione all'affidamento in prova ex art. 94 T.U. 309/90. L'istanza viene trasmessa al Tribunale di Sorveglianza competente, che deciderà entro quarantacinque giorni. Se l'istanza viene dichiarata inammissibile e viene respinta, il P.M. revoca la sospensione dell'esecuzione in oggetto (art. 2. commi 5, 6, 7 e 8 Legge Simeone).

    La sospensione dell'esecuzione non può essere disposta dal P.M. più di una volta.

Se il periodo di affidamento in prova ha esito favorevole, ne consegue l'estinzione della pena e degli altri effetti penali.

All'atto dell'affidamento è redatto verbale in cui sono dettate le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla liberta di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed al lavoro. Può essere disposto altresì che, durante tutto o parte del periodo di affidamento in prova, il condannato non soggiorni in uno o più comuni, o soggiorni in un comune determinato.

Nel verbale deve anche stabilirsi che l'affidato si adoperi in quanto possibile a favore della vittima del suo reato ed adempia puntualmente agli obblighi di assistenza familiare. Naturalmente, nel corso dell'affidamento le prescrizione possono subire modificazioni dal magistrato di sorveglianza.

Il servizio sociale controlla il comportamento del soggetto e lo aiuta al reinserimento nella vita sociale, riferendo periodicamente al magistrato di sorveglianza. L'affidamento è revocato qualora il comportamento dell'affidato si mostri incompatibile con la prosecuzione della pena.

L'affidamento in prova al servizio sociale non può esser disposta più di due volte.

8.2 La semilibertà. Diversamente dall'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà è misura "parzialmente" alternativa alla detenzione, applicabile anche agl'internati.

Essa consiste - come recita l'art. 48 Ord. Pen. - nella concessione al condannato ed all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attività lavorative lavative, istruttive comunque utili al reinserimento sociale.

L'ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società.

La semilibertà non può essere concessa ai condannati per reati particolarmente gravi, quando risultino attuali i collegamenti con la criminalità organizzata.

Sono ammessi a godere del regime de quo:

il condannato alla pena dell'arresto o alla reclusione non superiore a sei mesi, nel caso in cui non sia affidato in prova al servizio sociale; per effetto della L. 25 maggio 1998 n. 165 in questo caso la semilibertà può essere disposta anche successivamente all'inizio dell'esecuzione della pena se il condannato ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale;

il condannato che ha espiato almeno meta della pena (fuori dalle ipotesi precedentemente previste);

l'internato in ogni tempo;

al condannato all'ergastolo che abbia scontato almeno venti anni di pena;

ai condannati per taluni gravi delitti, fra cui quelli commessi per finalità di terrorismo od eversione, commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni mafiose, di cui agli artt. 416 bis e 630 , di cui agli artt.73 limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 80, comma 2 e 74, T.U. 309/90; di cui agli artt. 575, 628, comma 3, 629 comma 2, dopo l'espiazione di almeno due tersi della pena; solo per i collaboratori della giustizia ammessi allo speciale programma di protezione la concessione della semilibertà può avvenire, a mente dell'art. 13 ter, comma 2, del D.L. n. 8/1991, anche in deroga ai normali presupposti (perciò anche temporali); ciò vale anche per le altre misure alternative, il lavoro all'esterno, e permessi premio.

Tale disposizione è applicabile solo ai condannati per i delitti commessi dopo il 13.5.1991.

In condannati e gli internati ammessi al regime della semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome annesse ad istituti ordinari.

La semilibertà può essere revocata se il condannata si dimostra inidoneo al trattamento e deve essere revocata se il condannata rimane assente dall'istituto per più di dodici ore o non vi faccia ritorno.


8.3 La liberazione anticipata. Collocata sistematicamente tra le misure alternative alla detenzione, ma che non può considerarsi tale in quanto fa cessare il rapporto sanzionatorio, consiste i una pura e semplice riduzione della pena e ha l'effetto di anticipare il termine finale della pena stessa.[20]

Ai sensi dell'art. 54 della L. 354/75, come sostituito dalla L. 10.10.1986 n. 663, al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione, è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società,una riduzione di pena di quarantacinque giorni per ciascun semestre di pena detentiva scontata. A tal fine è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare.

Come ha previsto la giurisprudenza, in concetto di partecipazione all'opera di rieducazione non va inteso semplicemente come "buona condotta" bensì come una fattiva e convinta partecipazione all'opera di rieducazione, desumibile da fatti positivi rilevatori dell'evolversi della personalità de soggetto verso il suo reinserimento sociale.[21]

Tale beneficio è applicabile anche agli ergastolani, ai soli fini del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.[22]

Agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione anticipata, la parte di pena detratta si considera come scontata.

La concessione del beneficio è comunicata all'ufficio del pubblico ministero presso la Corte d'appello o il tribunale che emesso il provvedimento di esecuzione.

La condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell'esecuzione successivamente alla concessione del beneficio ne comporta la revoca.

8.4 La detenzione domiciliare

Questo istituto previsto dall'art. 47 ter prevede che la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggiore pena, e la pena dell'arresto possono essere espiate nella propria abitazione, in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo esterno di cura o assistenza, quando trattasi:

di donna cinta, o che allatta la prole, ovvero di madre con prole di età inferiore a dieci anni con lui convivente;

di padre esercente la potestà di prole inferiore di età inferiore a dieci anni con lui convivente, quando la madre si deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

di persona in condizioni di salute particolarmente gravi;

di persona ultrasessantenne, se inabile anche parzialmente;

di persona minore di ventuno anni, per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro o di famiglia.

La detenzione domiciliare può essere, altresì, applicata per l'espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni suddette quando ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati.

Il tribunale di sorveglianza può, poi, disporre la detenzione domiciliare anche se la pena supera i limiti prima indicati, quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione della pena nei casi previsti dagli artt. 146 e 147 del codice penale; in tal caso il tribunale stabilisce un termine di durata di tale applicazione, termine che può essere prorogato; l'esecuzione della pena, in questo caso, prosegue durante l'esecuzione della detenzione domiciliare e, quindi, non si fa più luogo al rinvio.

A seguito delle modifiche apportate alla disciplina in esame dal D.L. 24.11.2000,n. 341, convertito in legge 19 gennaio 2001, n. 4, è previsto che, nel disporre la detenzione domiciliare il tribunale di sorveglianza, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte delle autorità preposte al controllo, può prevedere modalità di verifica per l'osservanza delle prescrizioni imposte anche mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, rinviando alla disciplina dell'art. 275bis del c.p.p., relativamente alla misura cautelare degli arresti domiciliari.

L'art. 47quinquies della L. 26 luglio 1975, n. 354, inserito dall'art. 3 della L. 8 marzo 2001, n. 40, ha introdotto l'istituto della detenzione domiciliare speciale. Nel dettaglio, in mancanza delle condizioni generali per l'applicabilità della detenzione domiciliare, le condannate madri di prole non superiore ad anni dieci, e non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i li, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei li, dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l'espiazione di almeno quindi anni nel caso di condanna l'ergastolo. All'atto della scarcerazione è redatto verbale in cui sono dettare le prescrizioni che il soggetto deve seguire nei rapporti con il servizio sociale. La detenzione domiciliare speciale è revocata se il comportamento del soggetto,contrario alla legge o alle prescrizioni dettare, appare incompatibile con la prosecuzione della misura. La condannata ammessa al regime della detenzione domiciliare speciale che rimane assente dal proprio domicilio, senza giustificato motivo, per non più di dodici ore, può essere proposta la revoca della misura.

Se l'assenza si protae per un tempo maggiore, la condannata è punita ai sensi dell'articolo 385, primo comma, del codice penale ed è applicabile la disposizione dell'ultimo comma dello stesso articolo. La condanna per il delitto di evasione comporta la revoca del beneficio.[23]


8.5 La liberazione condizionale. La concessione di tale liberazione rappresenta un premio concesso al condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.

La ratio dell'istituto è duplice:

da un lato premiare il detenuto che ha dato prova di ravvedimento;

dall'altro incitare gli altri detenuti a seguirne l'esempio.

Condizioni

v   il detenuto deve avere tenuto durante i periodo di carcerazione un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento;

v   abbia scontato almeno trenta mesi o metà della pena, se la pena residua non superi i cinque anni (nel caso di prima condanna o recidiva semplice).

v   Abbia scontata almeno quattro anni e non meno di tre quarti della pena nel caso di recidiva aggravata o reiterata. Il condannato all'ergastolo deve avere scontato almeno ventisei anni.

v   Per i condannati che commisero il delitto da minori di diciotto anni, la liberazione è consentita in qualunque momento dell'esecuzione.

La concessione del beneficio è di competenza del Tribunale di sorveglianza nel cui distretto, al momento della domanda, il condannato espia la pena;

La liberazione condizionale può essere revocata se la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole, ovvero se trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata, disposta ai sensi dell'art. 230 n. 2 c.p.

La liberazione condizionale sospende l'esecuzione della parte di pena che rimane ancora da scontare. Se però tutto il tempo della pena inflitta ovvero cinque anni (nel caso di ergastolo) decorre senza alcuna causa di revoca, la pena rimane estinta e sono revocate le misure di sicurezza personale.

Tutti gli altri effetti penali, comprese le pene accessorie, sopravvivono.

Nei confronti del liberato è sempre ordinata la libertà vigilata.


8.6 La remissione del debito. Tra le misure alternative alla detenzione è stata inserita anche la remissione del debito per le spese del procedimento e di mantenimento in carcere, prevista nei confronti dei condannati e degli internati che versano in disagiate condizioni economiche e si siano distinti per regolare condotta.

Tale misura, a differenza delle altre, non è caratterizzata dall'elemento "libertà", non potendo il debito per le spese di procedimento e di mantenimento in carcere dare luogo ad esecuzione di pena detentiva, bensì dall'elemento "patrimoniale" incidendo positivamente sulla situazione finanziaria del soggetto, esonerandolo dall'adempimento di un'obbligazione pecuniaria da lui ancora non assolta.

I presupposti per la concessione del beneficio sono:

o   Un'attuale situazione di disagiate condizioni economiche. Occorre cioè che le spese di procedimento e di mantenimento non si siano potute adempiere perché, indipendentemente dalla volontà del soggetto, a lui sia mancata, in tutto o in parte, la possibilità di guadagno attraverso il lavoro, sia perché l'ammontare dal debito risulti eccedente rispetto alla sua capacità di assolvimento con i proventi del lavoro;

o   Una regolare condotta. La condotta si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, abbiano manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative e culturali.[24]

La richiesta o la proposta della remissione del debito può essere presentata fino a che non è conclusa la procedura per il recupero delle spese.

Competente a provvedere è il magistrato di sorveglianza.


















INDICE

Premessa

modulo 1. La pena nel suo sviluppo storico

modulo 2. Il fondamento della pena

modulo 3. Aspetti etici della pena: la pena come retribuzione e come

emenda

modulo 4. La pena secondo la Costituzione

modulo 5. Caratteri della pena

modulo 6. Tipologia della pena

modulo 7. Sanzioni sostitutive delle pene principali.

modulo 8. Misure alternative alla detenzione






G. Bertolini, "Le origini del carcere", in Principi fondamentali di medicina penitenziaria, . 43, Pisa, 1988

Tucidide, La Storia

Platone, De Legibus

G. Bertolini, Le origini del carcere,

Cfr L. Daga, Cenni storici sui sistemi penitenziari, in Principi fondamentali di medicina penitenziaria, di F. Cerando, Pag. 773.

L. Daga, Cenni storici sui sistemi penitenziari, in Principi fondamentali di medicina penitenziari

B. Battilia - S. Cirignotta Elementi di Diritto Penitenziario e di ordinamento dell'Amministrazione penitenziaria per adulti e minorile Ed. Laurus Robuffo Roma

Maggiore, Diritto penale, I, cit. p. 682 ss. (in part., p. 684)

Pettoello Mantovani, Diritto penae, cit. p. 797 ss.

Pessina, Elementi di diritto penale, I Napoli 1882 p. 37 ss; Mathieu, Perché punire? Il collasso della giustizia penale, Milano, 1979.

Antolisei, Manuale, cit. p. 687 s.

A. Pagliaro Principi di Diritto Penale Parte Generale Sesta edizione Giuffrè Editore1998.

Cfr. ad es. S. Tommaso, Summa Theologiae, q.92, a. 2.

G. Fiandaca - E. Musco, "Diritto Penale Parte Generale Quarta edizione" , Zanichelli Editore 2002

A. Pagliaro, Principi di Diritto Penale Parte Generale (Giuffrè Editore) 1998

G.Fiandaca - E. Musco "Diritto Penale Parte generale" quarta edizione Zanichelli Editore 2002

Beccarla C. "dei delitti e delle pene" g. 33 e ss

F. Mantovani, in Diritto Penale Parte Generale Ed. Cedam

A. Pagliaro Principi di Diritto Penale Parte Generale Sesta edizione Giuffrè Editore1998.

B. Battilia - S. Cirignotta Elementi di Diritto Penitenziario e di ordinamento dell'Amministrazione penitenziaria per adulti e minorile Ed. Laurus Robuffo Roma

Cassazione, 14 aprile 1978

Compendio di Diritto Penale - Parte generale e speciale - Ed. Simone 2001

Compendio di Diritto Penale Parte generale e speciale - Ed Simone 2001

Elementi di diritto penitenziario - Ed. Simone




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