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L'EREDITA' DELLA GRECIA



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L'EREDITA' DELLA GRECIA



La riflessione etica sulla civiltà dell'uomo non può esimerci dal riconoscere che qualsiasi forma di umana convivenza non può fondarsi sulla forza brutale, ma sull'adesione dei cuori. Sulla base di questo principio la civiltà dell'Europa ha percorso un lungo cammino, seguendo le direttrici del pensiero greco e muovendosi nell'ambito dell'etica del diritto romano: "honeste vivere, alterum non laedere, unicuique suum tribuere" . Una civiltà antica, dunque, che nonostante por­ti con sé un bagaglio di errori e di contraddizioni, resta pur sempre una fonte di illuminata saggezza, a cui ci si può rivolgere per attingere nuova forza e per dare significato alla nostra esperienza. Quella civiltà rimane quindi una sorgente ine­sauribile di ammaestramento ,nella quale è possibile riconoscere le radici della nostra storia e della nostra cultura.



Ma ricercare le tracce che la nostra civiltà ha percorso nei secoli ha un senso, se sapremo riconoscerci eredi di quel patrimonio di pensiero che ha fatto di noi non un aggregato di individui, ma una coscienza. Ed è a questa coscienza che dobbiamo richiamarci per riscoprire le ragioni ideali e concrete che debbono spingerci a chiarire il nostro presente e ad orientare il nostro futuro. La coscienza di essere uomini dotati di ra­gione, che ci distingue da ogni altro essere vivente e ci consente di essere - come dicevano i Greci - "mille volte più cari agli dei immor­tali'. Ora il porre l'accento sul valore morale ol­tre che politico della coscienza ha per me il significato di una indicazione che ci porta a scoprire quell'umanesimo espansivo della nostra tradizione, esplicantesi nella obbedienza razionale ad un ordine giuridico-politico di civile convivenza.

Ed ecco allora il ruolo della memoria, senza la quale non può esserci garanzia del presente, né sicurezza d'avvenire. I Greci della memoria avevano fatto addirit­tura una divinità, sacralizzando così il valore di essa. Infatti nel pantheon greco c'è una divinità che porta il nome  di Mnemosyne. Ma che cosa è questa memoria Per i Greci essa era una divinità che presiedeva essenzialmente a una funzione poetica. Nel mondo mitico greco Mnemosyne era la ma­dre delle nove Muse, che ispiravano i poeti, i quali diventavano interpreti della dea, come i profeti che sono gli annunziatori e gli inter­preti della volontà divina. Per noi oggi la memoria ha un senso, non in quanto il ricordo del passato può far rivivere ciò che non è più, ma in quanto ci fa capire che il passato è parte integrante del presente. Quando diciamo che la storia è 'magistra vitae' intendiamo infatti, attribuire al nostro passato, quale che esso sia, un ruolo importante perché esso ci aiuta a meglio comprendere il no­stro operare, e a saper discernere le scelte che quotidianamente siamo chiamati a compiere. La storia dell'uomo sappiamo che non procede per salti, ma si sviluppa seguendo un criterio di conseguenzialità e di continuità. Direi pertanto che essa costituisce il punto di riferimento necessario per il progredire del­la nostra civiltà.


Come un albero non può vegetare, non può fiorire se non affonda le sue radici nel terreno da cui riceve linfa per il suo sostentamento, così la nostra civiltà non può svilupparsi sen­za un legame con il suo passato. E se è vero che la memoria non può ricostruire il tempo, è anche vero che essa non può cancellar­lo ma realizza, per così dire, un ponte che tiene unito il nostro passato ed il nostro presente, un ponte sotto il quale passa il fiume della realtà: la nostra vita. La memoria è quindi - come direbbe il filosofo -'una fontana d1 immortalità in un mondo in cui regna inflessibile la legge del divenire', un divenire che si arricchisce con l'apporto del nostro operare, a volte tormentato da insane passioni, da manie di grandezza, da egoismi spregiudicati e cinici, ma altre volte illuminato dall'agire di spiriti magnanimi e generosi, da intelligen­ze creatrici e libere, da forze virtuose e disponibili che hanno lasciato segni indelebili della loro testimonianza e del loro sacrificio.


Queste considerazioni mi inducono a riconoscere che la civiltà europea deve molto al mondo greco, da cui ha tratto le direttrici del pensiero logico, i modelli della virtù etica e politica, l'impulso alla libertà e alla giustizia, che sono le idee-forza su cui si fonda la pace tra i popoli. La pace, che non è quella che cerca l'individuo fiacco ansioso di trovare un luogo per ripararsi dalle tempeste, ma la pace operosa, comunicata tra gli uomini e consacrata nell'osservanza delle leggi e delle istituzioni civili. La pace greca, la pace panellenica, ci indica infatti che nella concordia i piccoli stati cre­scono, mentre nella discordia anche gli stati più grandi e più potenti sono destinati alla rovina.

In questo orizzonte di pensiero i Greci hanno impiantato la finalità morale del vivere civile, tanto da essere considerati maestri di virtù. E uno di questi maestri è senza dubbio Aristotele, il quale dimostra che politica ed etica sono complementari, in quanto la virtù è il prodotto dell'educazione, l'educazione non può che essere regolamentata dalle leggi, e il fare le leggi non può che spettare alla politica. La politica diventa quindi ancella dell'etica.


Alla luce di questo originale pensiero del fi­losofo greco si chiarisce la concezione moderna dello stato etico, dello stato in cui non ci siano cittadini senza doveri, né soldati politici senza diritti, ma uomini che sappiano ciò che devono agli altri e ciò che devono a se stessi. La famosa sentenza di Protagora, secondo cui l'uomo è misura di tutte le cose, anche se può es­sere interpretata come canone di relativismo etico, penso che possa essere considerata da noi oggi come fondamento di virtù civica su cui si costrui­sce lo stato democratico. La nozione di democrazia, infatti, il mondo occidentale la eredita dal mondo greco.

Sappiamo che fu Clistene, nel 508 a.C ad indicare, con la sua riforma, un percorso verso l'assetto democratico della polis. Possiamo ricordare, a questo proposito, che nelle antiche città~stato i contrasti tra la classe aristocratica ed il popolo venivano superati dalle riforme politiche, studiate da autorevoli personaggi, i cosiddetti legislatori, che ponevano per iscritto le leggi. Pensiamo, ad esempio, a Solone che propose la can­cellazione dei debiti dei contadini e l'abolizione della schiavitù per debiti. Questa è una norma giuridica con cui si affer­ma il principio della uguaglianza tra tutti i cittadini, e che comporta il diritto alla libertà personale.

L'affermazione di questo principio politico trova poi la sua consacrazione nel messaggio del Cristianesimo, che ha innalzato il valore dell'uomo a dignità di lio di Dio. Ecco perché Leone XIII soleva affermare che  'la democrazia o sarà cri­stiana o non sarà', come dire che non può esserci una vera democrazia se al suo interno non esiste il principio della uguaglianza  di tutti i cittadini. Uguaglianza solennemente affermata nel secolo dei  'lumi' come principio basilare di tutta la filosofia illuministica, e che fino ai giorni no­stri costituisce la ragione d'essere del vivere sociale.




So che si potrebbe obbiettare che le città greche conobbero anche forme tiranniche di governo. Ma bisogna dire che in questi casi si è trattato di soluzioni politiche transitorie, di emergenza temporanea, che non potevano avere prospettive durature, giacché i Greci avevano una concezione politica ben lontana dall'idea che un solo uomo potesse avere nelle sue mani tutto il potere.

E infatti, in seguito al rovesciamento della tirannide di Pisistrato, in Atene fu proprio Clistene che avviò l'assetto democratico con la sua riforma basata non più sul possesso della terra, come aveva indicato Solone, ma sul criterio territoriale, secondo il quale i gruppi sociali, i demi, venivano classificati in tre tipi: cittadini del­l'area urbana, cittadini della fascia costiera, e cittadini dell'entroterra, in modo tale che le tribù che ragruppavano contadini, artigiani e marinai partecipassero alla vita dello stato. E al fine di impedire il ritorno alla tirannide fu introdotto il sistema dell'ostracismo, e cioè l'allontanamento dalla città, per dieci anni, della persona che fosse sospettata di aspirare al­la tirannide, o più semplicemente fosse ritenuta pe­ricolosa per gli equilibri politici della polis. Solo Sparta ebbe ordinamenti rigidi e inalterati, prescritti da Licurgo. Ma in tutta la storia della Grecia l'organizzazione politica di Sparta rimane un caso unico.

In verità un ulteriore impulso al processo di democratizzazione in Grecia si ebbe con Pericle, che rese accessibili le cariche pubbliche anche ai cittadini meno abbienti. In tal modo l'assemblea popolare, l'ecclesia, assumeva sempre più importanza nelle decisioni di interesse comune. Si può dire quindi che fu proprio nell'età di Pericle che alla isonomia (uguaglianza di fronte alla legge) voluta da Clistene, si sosti­tuisce il termine democrazia, proprio per indicare che l'uguaglianza dei diritti politici non fosse una affermazione teorica di principio, ma la traduzione nella pratica dell'esercizio effettivo di tali diritti. Questo riconoscimento dei diritti politici del cittadino si è consolidato nel tempo ed ha avuto una grande convalida nel periodo illumini­stico, fino a rappresentare nei tempi moderni una conquista irreversibile.

Tutto ciò dimostra quanto la cultura greca abbia inciso nel pensiero politico europeo, e ci fa comprendere il legame indissolubile del pre­sente con il passato, la quasi connessione causale degli avvenimenti, il loro intrecciarsi e svilupparsi in forme sempre nuove per meglio corrispon­dere alle esigenze del mondo moderno. Questo legame temporale dotato di senso, che noi oggi chiamiamo coscienza storica, guida ed illumina il nostro cammino, che dovrà sempre porsi in un rapporto dialettico con il passato per trarne una interazione dinamica, che mentre da una parte assicuri la salvaguardia della spiritualità dell'uomo, dall'altra parte sia generatrice di efficienza e di spinta all'autoregolazione del vivere sociale. Storicità ed evoluzione  sono dunque termini complementari, perché chiariscono il lavoro dell'uomo, il quale, per orientarsi, ha bisogno di appoggiarsi a qualcosa di dato, di conosciuto, e per questo non può che far leva sul proprio passato. Così se noi Europei vogliamo chiederci chi siamo, la risposta la troviamo nel riconoscerci li di quella cultura greca, che ha conquista­to la potenza di Roma. Ecco perché  Orazio poté dire: 'Graecia capta ferum victorem cepit'.


In questa indagine sulle radici della civiltà europea emerge quindi l'importanza del mon­do greco, che ha saputo esprimere, in immagini di straordinaria bellezza, il sentire dell'uomo, anche attraverso forme di arte perfetta; una civil­tà che ha saputo tracciare la via del pensiero, con un metodo che da Talete, Socrate, Platone fino ad Aristotele, ha fornito modelli di ragionamento filosofico atto a raggiungere quella conoscenza, che per i Greci costituisce l'unica via per pene­trare i misteri dell'essere e scrutare il perfetto ordine che regola l'universo.

La conoscenza, che per il mondo greco era norma di vita, è diventata legge insostituibile per comprendere   il significato dell'esistenza che si schiude avanti ai nostri occhi. Questa conoscenza come legge, che è ragione senza  passione, come afferma Aristote­le, ha infatti prodotto la scoperta delle onde elettromagnetiche, l'infinito matematico, gli elementi principali senza i quali l'uomo non è pensabile, il valore della giustizia e della libertà che ha riscattato l'uomo dall'antico servaggio. La conoscenza come legge, che fa dire a Dante:

Considerate la vostra semenza:

 fatti non foste a viver come bruti,

 ma per seguir virtute e canoscenza.

Certo, 1'esaltazione del coraggio di Ulisse, eroe greco che sfida i pericoli dell'ignoto, osando perfino trasgredire il divieto della divinità, non è senza ragione per il sommo poeta, che è in cerca di quella via smarrita, che doveva condurlo alla salvezza.

Ma si dirà che nell'eroe omerico la coscien­za scientifica non coincide con la coscienza morale, come avviene per Dante. Tuttavia, per il nostro Poeta, Ulisse rappresenta il simbolo, la trasurazione di una umanità che aspira alla conoscenza delle strutture segre­te del cosmo.  Una umanità che, incamminandosi per quella via, è destinata a raggiungere la suprema conoscenza, che è Dio. Tutta la vita dell'uomo è infatti, per Dante, un  itinerarium  mentis  in Deum. Per questo, dunque, Dante sente simpatia per l'eroe ano,  avventuroso ma non empio;  temerario, ma non sacrilego;  disancorato dai sentimenti familia­ri e patrii, ma fornito di quella virtù eroica, che è propria dell'esploratore, ansioso di immergersi nella luce della conoscenza.




E' questo il sentiero su cui si è incamminata la civiltà dell'Europa, il sentiero dell'esplora­zione possibile, della ricerca dell'utile, dell'individuazione di un metodo per giungere alla scoper­ta delle leggi che regolano la natura delle cose. A questo proposito risulta molto interessante vedere come i Greci, nell'individuazione di un me­todo, siano riusciti a proiettare lontano nel futu­ro la loro sete di conoscenza.

Socrate riferendosi ad una situazione di pensie­ro chiuso, l'aporia, cioè assenza di via, proponeva la scelta di un metodo per uscire dal problema. In tal modo egli instaurava una nuova tradizione, secondo la quale l'uomo non era più soggetto alla guida sicura della divinità nell'atto del suo pensare. Ma la necessità di uscire dal problema poneva poi l'uomo di fronte ad un bivio, che impli­cava una scelta. E per i Greci, nel cammino della vita, non esistevano infatti che due sole vie: la via della virtù, o la via del vizio. Va da sé che per Socrate la scelta non poteva che essere la via della virtù.

Sono degne di rilevanza etica le parole che Esiodo rivolge al dissoluto fratello Perse, sulla via del bene e del male. Egli afferma che la via della virtù è quella del lavoro, che conduce l'uomo alla felicità, mentre la via del vizio è quella che conduce alla rovina. Queste metafore richiamano alla mente i precet­ti carichi di contenuto morale, che ritroviamo nel­le ine evangeliche, dove la via della virtù e quella del vizio sono indicate come la via della luce e la via delle tenebre, la via della vita e la via della morte, la via angusta che porta alla beatitudine e alla salvezza, e la via facile che conduce alla perdizione. In effetti sappiamo che Esiodo, rivolgendosi al fratello, non parlava in nome di una rivelazione religiosa, ma le sue parole erano tanto più sicure e convinte proprio perché suggerite dall'esperienza, la quale insegna come l'applicazione della mente dell'uomo in opere utili serva ad orientare la vita verso la prosperità, mentre al contrario il poltrire nella pigrizia generi l'annullamento del­la persona.

Oggi, di fronte al dramma della disoccupazione, la scelta del lavoro appare tuttavia fortemente condizionata non solo da vincoli ambientali, ma anche da rapporti economici, politici e sociali non facili. Direi che perfino gli influssi segreti della nostra anima, talvolta, si trovano esposti a dura prova in questa difficile transizione epocale. Ed ecco allora che il riferimento alla scelta della via della virtù, che ci è stata indicata dal mondo greco, può rappresentare la via maestra per la sicurezza del nostro futuro.

Ed è bene osservare che il grande insegnamento che ci viene dalla cultura greca non si limita a semplici indicazioni metodologiche. Basti consi­derare l'immenso patrimonio di arte che la civiltà greca ha saputo produrre, per dimostrare la ricchezza di pensiero e di sensibilità, che ha ispirato nel corso dei secoli intere generazioni. Il culto che i Greci hanno avuto per la Bellezza, intesa come pienezza di vita, con il suo pathos, con il suo lirismo, con la sua armonia serenatrice, è riconosciuto ancora oggi come uno dei sentimenti più nobili dell'animo umano. Di enorme efficacia risulta la definizione che lo studioso del mondo greco, G. Winckelmann, ha dato dell'arte greca, riconoscendola come immagine di "calma grandezza e nobile semplicità". Credo che il nostro poeta Foscolo abbia ereditato proprio dalla sensibilità greca la sua idea della bellezza civilizzatrice;  e ciò non solo e non tanto perché era  'pien del natio aer sacro' era nato a Zacinto, un'isola del mare Ionio), quanto perché invaghito dal fascino che esercitava su di lui la bellezza greca.


E veniamo ora a considerare che cosa era l'uomo per i Greci, allargando l'indagine non più nel cam­po del pensiero e del sentimento, ma nel campo del­l'azione, dell'azione come diritto. Sappiamo che l'organizzazione politica in Grecia, basandosi sul criterio della divisione dei cittadi­ni in classi, riconosceva di fatto il diritto di partecipazione alla vita dello stato. Essere cittadini comportava già l'essere desti­natari di diritti e doveri, pur rimanendo ciascuno nell'ambito di classi sociali differenti. I rapporti tra aristocrazia e popolo erano regolati dagli organismi istituzionali, che le poleis si erano date, attraverso l'opera dei loro legislatori.

La giustizia era al centro dell'azione, e in questo modo emergeva il valore etico dell'agire politico. Il rispetto della legge diventava la nuova virtù civica, di cui Socrate ha dato un chia­ro ed intramontabile esempio. Infatti, nonostante l'orgoglio della classe di appartenenza e il livello della propria cultura, gli uomini colti in Grecia ritenevano dovere civi­co rispettare la legge. Essi inoltre avevano un alto senso della dignità e del valore della perso­na umana. Questo sentimento possiamo riscontrarlo nelle parole che lo storico Senofonte riporta a proposi­to del re di Sparta, Agesilao, il quale raccomanda­va ai propri soldati di trattare i prigionieri non come schiavi, ma di considerarli come uomini. Egli era solito affermare che le popolazioni che non riusciva a domare con la forza, le avrebbe conquistate con la filantropia, con l'umanità. Ecco quello che noi chiamiamo umanesimo etico nella Grecia antica, un umanesimo filantropico che implica condiscendenza e rispetto della persona. Ora se è vero che questi termini non possono essere considerati termini giuridici, bisogna ammettere che il loro intrinseco significato entra nella sfera del diritto. E' questa fede laica nei valori dell'uomo che fa dire al poeta Menandro:  'Quanto è piacevole l'uomo, quando è veramente uomo'. Come non vedere in questa stupenda affermazio­ne l'equivalente legge cristiana dell'amore del prossimo, che nel volger dei secoli in Europa si è trasformata ed ha trovato la sua collocazione nel­le forme giuridiche delle Costituzioni varie. Chiediamoci allora che cosa erano i Greci, se vogliamo essere Europei, se vogliamo cioè conser­vare quel patrimonio ideale di pensiero che ha reso l'Europa maestra di civiltà, anima et ratio mundi.




A questo punto possiamo comprendere anche il fervore e l'entusiasmo dei nostri umanisti del Quattrocento, che nelle polverose biblioteche di antichi conventi riscoprivano quelle opere nelle quali gli autori classici avevano celebrato ed esaltato i valori dell'uomo. I valori della famiglia, della patria, della libertà, della giustizia, della pace, della compassione, dell'ospitalità, dell'amicizia, della fedeltà, dell'amore, della bellezza sono stati ampiamente trattati ed esaltati dalla saggezza del pensiero antico, del pensiero positivo dei Greci, e restano ancora oggi come il grande retaggio cui hanno attinto milioni di uomini, e a cui l'Europa può guardare con serena fiducia, per continuare a ri­conoscersi fonte di civiltà e di ammaestramento, pur nelle tormentate vicende della sua storia, passata e recente, e per recuperare le fede nel­la verità, nella giustizia e nel diritto, che sono appunto i valori perenni ed universali dell'uomo. Questi valori oggi nel nostro mondo appaiono sbiaditi, ed è per questo che ci corre l'obbligo del loro recupero, puntando il nostro sguardo al­le sorgenti di quella civiltà millenaria, che an­cora oggi conserva tutta la sua forza. E non si tratta certamente di imitare l'anti­ca virtù greca, per riprodurre forme e miti impos­sibili nel mondo moderno. Del resto penso che nessuno ai giorni nostri raccomanderebbe una imi­tazione, quasi fotografica, del pensiero greco, perché ciò significherebbe bloccare quel processo dinamico della vita civile, della spiritualità dell'uomo, che proprio i Greci hanno introdotto nella storia del pensiero.


Se veramente vogliamo riconoscerci eredi e con­tinuatori della civiltà e della spiritualità greca, se vogliamo essere testimoni delle grandi idealità, che per secoli hanno illuminato la nostra storia, non possiamo divergere dalla strada che il mondo greco ha tracciato. Ma quando nei popoli si insinua la pretesa della supremazia e l'orgoglio della propria poten­za; quando per altro verso si fa strada la smania di voler essere indipendenti ed originali, allora veramente si corre il rischio di cadere nel baratro e nella barbarie. L'eredità che ci proviene dalla cultura greca ci insegna che le relazioni tra gli uomini si ba­sano sul rispetto e la tolleranza reciproca. Ma non basta però affermare di voler seguire la tradizione, se non si possiede quella carica ideale che spinge ad agire in nome del bene comune.

Ma attenzione a non scambiare la vocazione uma­nitaria con la pretesa di incarnare l'assoluto, poiché quando crediamo di agire come se noi fossimo l'assoluto, allora sì che la morale diventa dinamite, la ragione va in crisi, il rispetto e la tolleranza verso il nostro prossimo si dissolvono e il cammino della civiltà subisce una brusca bat­tuta d'arresto. Ricordiamoci che tutte le volte in cui un sistema politico ha creduto di incarnare l'assolu­to, puntuale si è manifestata la catastrofe. L'antica civiltà della Grecia insegna che ogni uomo ha il diritto alla dignità e alla libertà, e che soltanto il coraggio della concordia tra i popoli costituisce la garanzia del progresso, del benessere e della pace. Possano gli uomini del nostro tempo ricor­darsi di essere fratelli in ogni angolo della terra - come soleva affermare il filosofo illuminista Voltaire - e meritare il credito di es­sersi adoperati per garantire la continuità del­la storia e i diritti della persona umana.




La filosofia dunque non può fare a meno di fondarsi sulle conquiste dei grandi pensatori che ci hanno preceduto. Il patrimonio di razionalità di cui possiamo godere noi oggi non è scaturito immediatamente, non germoglia soltanto dal terreno del presente, ma è un'eredità, il risultato del lavoro di tutte le generazioni che furono, come afferma Hegel.
La funzione dell'età nostra, come di ogni altra, è di impadronirsi della scienza, del patrimonio di conoscenze già esistente, di assimilarla, e di portarla a un grado più elevato.
Anche le scienze particolari procedono sulla base dell'ampliamento di quanto si è già raggiunto nei vari campi, ma nella filosofia quelli che sono gli stadi precedenti di sviluppo sono vivi e presenti nella comprensione attuale del mondo. E questo proprio perché la filosofia è sforzo di cogliere con la nostra ragione la razionalità presente nella realtà.

La filosofia, si diceva, coincide con la propria storia. E questa storia inizia in Grecia.
L'uomo greco dona all'umanità 1a consapevolezza di essere portatrice della cultura, cioè della possibilità di «coltivarsi», di crescere (a differenza delle specie animali, imbrigliate in meccanismi automatici e sempre identici, senza sviluppo se non nei tempi lunghi dell'evoluzione biologica): l'uomo è portatore di una possibilità di autoperfezionamento, di progresso, in contrapposizione alla natura, immobile nella sua ciclicità, ferma al ripetersi di meccanismi fissi. La cultura è per i Greci paideia (da  παιδεύω = educare, formarsi): fu all'idea greca della cultura che Augusto riallacciò la missione dell'Impero romano. Senza l'idea greca della cultura non vi sarebbe un'antichità classica quale unità storica densa di messaggi per l'umanità successiva, non vi sarebbe stata una civiltà rinascimentale, mancherebbe ogni fondamento al «mondo civile».
Il netto distacco della civiltà greca dall'immobile mondo orientale subordinato al mito, è, come si è detto nel primo incontro, la scoperta greca del logos. Si è proceduto a specificare i vari ambiti di applicazione di questo concetto così importante per la filosofia greca.
Il logos (in greco = parola, ragione: il verbo λέγω
significa «dire», «parlare», ma c'è anche un verbo λέγω usato da Omero nel senso di «mettere insieme», «raccogliere», «scegliere») sta prima di tutto ad indicare la legge logica, la legge della ragione umana, che corrisponde alla legge di natura. La natura per i greci non è caos, disordine, bensì un tutto ordinato, armonioso, dotato di razionalità, di una logica interna, di leggi appunto. Al cosmo naturale deve corrispondere il cosmo umano: anche i rapporti fra gli uomini dovranno rispondere al logos, dovranno cioè essere ordinati secondo leggi (a questo punto è stato discusso il tema della giustizia nel mondo greco e si sono commentati brani di Esiodo, Solone, Teognide ed Eschilo. Un ordine, un'armonia dovranno anche essere presenti nel comportamento dell'individuo. Ci sarà dunque una legge morale, che consisterà anch'essa in una legge di armonia, di proporzione.«Sempre il giusto mezzo prevalga», dice Eschilo in un passo delle Eumenidi: l'errore consisterà nella «tracotanza», nella ύβρις, cioè nell'uscire dai giusti limiti.


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