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LA PRIMA CRISI DELLA TRADIZIONE ELLENISTICA - GLI IMPERATORI ANTONINI, MARCO AURELIO, COMMODO



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la prima crisi della tradizione ellenistica


gli imperatori antonini

Fino agli imperatori Flavi, durante tutto il I secolo d.C., Roma aveva potuto considerarsi l'erede dei regni ellenistici, ed i suoi principi e lo stesso Senato romano avevano potuto considerarsi i continuatori della politica di Alessandro Magno. Con Traiano, la posizione di Roma come centro dell'impero viene sottolineata e rafforzata, anche con la sua nuova monumentalità; ma con Adriano si cerca di cementare Roma e le province di cultura ellenistica in un tutto, dando nuovo impulso alla monumentalità delle antiche città.

La rigorosa amministrazione dette, sotto Traiano e Adriano, nuovo equilibrio economico alle province, nuovo impulso alla loro vitalità, anche se al centro i pro­blemi economici e amministrativi, oltre che militari, andavano aggravandosi. La creazione di un'arte imperiale coincide con una trasformazione nella comine dell'impero, che si andrà accentuando sotto gli imperatori Antonini con una sempre maggiore prevalenza delle province a detrimento dell'Italia. Le province attive in questo tempo sono quelle ellenistico-orientali; sull'altra sponda del Me­diterraneo, soltanto le tre province occidentali dell'Africa settentrionale, l'Africa proconsolare, la Numidia e la Mauritania, si mostrano produt­tive in modo originale nella letteratura, nel pensiero, nell'arte. Tutto quanto pro­viene da queste province, orientali e occidentali, non ha però carattere "pro­vinciale'. Questo termine va riserbato alla produzione dei territori attraversati dal Danubio ed a quelli occidentali, dalla Britannia alle Gallie ed all'Italia settentrionale sino all'arco appenninico. Specialmente le province dell'Oriente ellenistico hanno un forte nesso con Roma e di là vengono spesso gli impulsi culturali più vivaci, e anche gli uomini politici, i funzionari, i militari più attivi.



È una situazione che prelude a quella che determinerà la Constitutio Anto­niniana di Caracalla, nel 212, cioè la legge con la quale a tutti i provinciali venne concessa la cittadinanza romana, con l'intento di rinsaldare l'unità dell'impero. Questo processo di compenetrazione delle province con Roma si accentua nell'età degli Antonini, tanto che dopo questo tempo sarebbe impossibile considerare l'arte romana dal solo angolo visuale di Roma. La trasformazione storica che ha inizio sfocerà nel trasferimento del centro di potere dalla vecchia Roma alla 'Nuova Roma', Costantinopoli (fondazione nel 324, inau­gurazione nel 330). Per il momento è ancora a Roma il centro del potere; ma gli imperatori non si sentono più gli eredi della politica di Alessandro: il loro punto di riferimento è Augusto.

La successione imperiale tramite adozione

Il criterio col quale si sperò di aver risolto il pro­blema della successione di un potere che non si volle mai ammettere esplicitamente come monarchico, fu quello dell'adozione. Esso ebbe effetto da Nerva a Marco Aurelio. Traiano adottò in punto di morte Adriano, suo lontano parente; e fu un'adozione discussa. La Diva Matidia, alla quale Adriano elevò un tempio, aveva avuto due mariti: dal primo le era nata Vibia Sabina, sposa di Adriano; dal secondo Rupilia Faustina. Questa ebbe, dal marito Annius Verus, un lio dello stesso nome e una lia, Fau­stina maggiore, che sposò Hadrianus Antoninus, soprannominato Pius, nato nell'86, che fu adottato da Adriano e gli successe nel 138. Un fratello di Faustina maggiore, che si chiamava Annius Verus come il padre, sposò Domitia Lucilla, al suo secondo matrimonio, e da queste nozze nacque, nel 121, Marco Aurelio Antonino, che sposò la lia di Antonino Pio, Anna Galeria Faustina (Faustina minore). Marco era anche nipote di Faustina maggiore, la moglie di Antonino Pio. La lia di Marco sposò Lucius Aurelius Verus, lio di Lucius Aelius Caesar, che a sua volta era stato, anch'esso, lio adottivo di Adriano: Marco divise con Lucio il principato, iniziato nel 161 alla morte di Antonino Pio. Alla morte di Marco, nel 180, la successione andrà al lio Lucius Aure­lius Commodus, nato nel 161, unico maschio sopravvissuto di una numerosa lio­lanza nella quale prevalevano le femmine. Questa famiglia resse l'impero dal 138 al 192, il cinquantennio nel quale si maturò la prima crisi dell'impero e anche la prima crisi nell'arte della forma tradizionale ellenistico-romana.

Simbolo dell'accresciuto legame con le province è il fatto che tra i non molti resti monumentali del tempo di Antonino Pio si debbano menzionare per primi i rilievi con personificazione delle Province, provenienti dal tempio del Divo Adriano, dedicato nel 145. Del tempio si vedono undici delle originarie tredici colonne di un fianco sulla Piazza di Pietra, nel centro di Roma. Le ure delle Province dovettero probabilmente ornare uno zoccolo sul quale posavano le semicolonne che ornavano all'interno le pareti della cella del tempio, che aveva copertura a volta con una luce di circa 17 metri. Le ure delle Province, corrispondenti ai plinti, acquistavano un valore simbolico di 'sostegni dell'edificio imperiale". Stilisticamente prevale un classicismo generico e non vi è alcun tentativo di caratterizzare le varie personificazioni con tratti somatici caratteristici delle varie genti. Ma il colorismo adrianeo si accentua mediante il forte solco di contorno che stacca ogni ura dal fondo neutro e l'uso del trapano corrente (in tutto sono state recuperate 20 ure).

Anche le architetture, testimoniate dalle monete, come due templi rotondi, il tempio di Cibele ed il tempio di Bacco al Foro Romano, confermano uno sviluppo in direzione della nuova architettura romana iniziata al tempo di Nerone, anche se con una ripresa di grazie ornamentali ellenistiche.

I ritratti di questo tempo, come quelli di Lucio Vero o di Marco Aurelio gio­vane, accentuano la levigatezza vellutata delle parti nude adottata sotto Adriano, ed il fresco colorismo dei capelli, delle barbe, e del panneggio. Nel rilievo con I'apoteosi di Sabina, il classicismo adrianeo è interamente sulla linea della tradizione delle officine attiche. L'iconografia stessa è di tipo greco, anche se il concetto dell'apoteosi era profondamente radicato nella cultura romana. La ura alata che porta in alto, al disopra del rogo e della ura giovanile che personifica il Campo Marzio, la defunta Sabina, assomiglia ad una Nike; anche la divisione diagonale della compo­sizione ha ritmo classicheggiante. Ma l'intento di rappresentare plasticamente un avvenimento simbolico, lontano dalla tematica di una docu­mentazione storica preferita sino ad allora dall'arte onoraria romana, indica un mutamento concettuale e l'inizio di una tendenza verso il simbolo metafisico, che andrà rafforzandosi negli anni seguenti.

La colonna di Antonino Pio

Un'altra scena di apoteosi seguirà, a distanza di circa 25 anni, sulla base della colonna onoraria innalzata alla memoria di Antonino Pio dai suoi successori Marco e Lucio.

La colonna di Antonino Pio sorgeva in Campo Marzio (dove oggi sorge l'obelisco di Montecitorio, che era stato eretto da Augusto come gnomone di una grande me­ridiana). Era una colonna monolitica di granito rosso, senza decorazioni, sormontata dalla statua dell'imperatore con gli attributi di Giove. Antonino solo è nominato nell'iscrizione dedicatoria; ma sul rilievo l'apoteosi riunisce l'imperatore e la mo­glie Faustina, defunta venti anni prima. L'elemento simbolico si accentua. La ura alata, interpretata come Aeternitas, femminile nel rilievo di Sabina, è qui maschile e da interpretarsi come Aian, personificazione del tempo assoluto. Ma qui probabilmente si trovava già posta, in connessione con religioni misteriosofiche orientali, come attributo della divinità suprema o come essere supremo, primordiale ed eterno.

Stilisticamente, nell'apparente somiglianza col rilievo più antico vi sono delle dif­ferenze significative. Di contro alla fissità che degrada a oggetti le ure sim­boliche sedute in basso (Roma e Campus Martius), il grande genio alato contiene una spinta al suo moto ascendente. Piccoli accorgimenti compositivi fanno uscire la composizione dal suo apparente classici­smo: il fatto che l'ala sinistra superi lo spigolo del fondo, e che lo scudo della ura di Roma sporga fuori dal contorno, e il panneggio oltrepassi in basso l'orlo della base, sono accenni di un fermento di espressione più ricca di mo­vimento e di colore che rompe gli schemi classicistici. Nei lati minori della stessa base, a queste nuove tendenze artistiche viene lasciato più libero corso nella rappresentazione di un carosello di ure a cavallo. Queste rappresentano la decursia, antichissimo rito d'onore, che consisteva nel circoscrivere per tre volte il rogo funebre o il tumulo sepolcrale, da parte degli armati a cavallo (in questo caso i Pre­toriani), seguito da parate, corse, o fantasie di combattimenti da parte dei soldati appiedati. Un accenno a questa seconda parte della cerimonia è da vedersi nel gruppo di ure in piedi al centro del carosello. Sono i modi dell'arte plebea, fondamento del rilievo storico romano, che si riaffacciano in un'elaborazione formale nuova, chiaroscurale, di gusto barocco. Accade, sulla base di questo monumento, che nelle parti secondarie, le predelle, l'artista esprime più liberamente le novità di una problematica artistica che si sta tra­sformando e che potrebbe, con le sue in­novazioni, urtare contro il conformismo del com­mittente.

Alla stessa coppia imperiale, votato dapprima da Antonino alla sola Faustina, rimase dedicato il tempio che in parte si conserva affacciato sul Foro Romano.

Il gusto per il forte colorismo, risolto con virtuosismi tecnici che trattano il marmo come una materia plastica, si trova espresso in molti ritratti: da quello di uno sconosciuto Volcacius Myropnous, di Ostia, del tempo di Anto­nino Pio, a quello di Commodo giovane e a quello di Commodo negli anni della successione, e a quello dello stesso Com­modo nei suoi ultimi anni, in aspetto di Ercole, preso nella sua follia politico-religiosa. Questo busto, trovato sull'Esquilino in ambienti prospicienti i giardini imperiali, è databile attorno al 190. Commodo non aveva ancora 30 anni; la sua rafurazione come Eracle, con in mano i pomi delle Esperidi, la base con scudo amazonico, cornucopie incrociate sul globo con la fascia zodiacale e le Vittorie inginocchiate ai lati, tutto concorre programmaticamente alla glorificazione di Commodo. A questa barocca fantasia di esaltazione corrisponde il gusto barocco di questa raffinata scultura. Eseguito in marmo greco, la base in alabastro orientale, lucidato nelle parti nude mentre i capelli erano dorati: ideologicamente e formalmente siamo lontani dalla purezza stilistica dell'arte greca.



La pittura

Nella pittura, distrutti i sistemi tradizionali della decorazione parietale, continuano a ripetersi alcuni mo­tivi di ville marine (casa sotto San Sebastiano sull'Appia) di lontana ascen­denza, ma con nuove ricerche prospettiche, che ne accentuano l'ariosità. In generale, tuttavia, vi è una tendenza alla semplificazione dei motivi ornamentali e anche, spes­so, una certa grossolanità artigiana, che porta ad isolare i singoli motivi. Ciò facilita il lavoro, perché rende più agevole l'impiego variato dell'uno o dell'altro soggetto; ma ha anche un valore ornamentale accresciuto, di immediatezza d'effetto, di facile lettura.

Anche nei pavimenti a mosaico si hanno le medesime tendenze; e da esse consegue il distacco dall'imitazione di cartoni pittorici ed il costituirsi e svilupparsi di un particolare stile da mosaico pavimentale. L'architettura in mattoni scoperti, che aveva avuto il suo trionfo in età traianea e adrianea, continua nelle costruzioni sepolcrali, nelle case a più appartamenti, nei magazzini e nei grandi empori. Talora s'inserisce una sobria policromia, ottenuta con l'alternarsi di cotto e di pietra pomice. Le forme, in queste architetture minori, si mantengono semplici, e l'effetto è affidato alla giustezza dei rapporti di proporzioni fra le strutture ed i pieni e i vuoti nelle pareti esterne. Anche la tomba di Annia Regilla, moglie di un uomo straor­dinariamente ricco come fu Erode Attico, mostra questa sobria compostezza di forme.

I sarcofagi

Sui sarcofagi si sviluppa una scultura di grande vivacità, in parte con derivazione da modelli ellenistici, particolarmente dell'arte di Pergamo. Questi prevalgono per le composizioni di battaglie contro Barbari, indicati come Galati, o con adattamenti di 'cartoni' più antichi alla moda del tempo, come in un sarcofago con la storia di Alcesti al Museo Vaticano. Il mito di Alcesti, la sposa che sceglie di morire in luogo del marito e che da Eracle viene riportata al mondo dei vivi, era particolarmente adatto al simbolismo funerario, sia come esaltazione della fedeltà coniugale, sia come simbolo di un'altra vita dopo la morte. Lo troveremo ancora alla metà del IV secolo nel sepolcro della via Latina insieme a soggetti cristiani.

Accanto all'iconografia generica della battaglia contro i Barbari, si sviluppa, negli anni ottanta e novanta del secolo, un nuovo tipo, specificatamente romano, di sarcofago monumentale con scene di battaglia, nelle quali i combattenti sono caratterizzati come Romani da un lato e come Barbari di popolazioni dei confini settentrionali dell'impero. Uno dei maggiori esempi di questo genere è il sarcofago da Portonaccio sulla via Casilina (Museo Nazionale Romano), nel quale è da supporsi fosse stato deposto qualche comandante delle guerre del tempo di Marco Aurelio. Il fatto che in tanto ricco e accurato lavoro solo la testa del prota­gonista sia rimasta non eseguita dimostra che anche in questo caso si trattava di un pezzo di serie, da rifinirsi col ritratto del defunto per il quale sarebbe stato acqui­stato.

Questo sarcofago è da porsi in connessione con l'officina che operava negli stessi anni alla Colonna Antonina; ma mostra maggiore finezza nell'esecuzione e maggiore qualità nella composizione delle scene. Le ure di Barbari prigionieri in atteggiamento dolente sono un retag­gio dell'età traianea, con una più accentuata pateticità, che corrisponde all'accresciuta tendenza coloristica.


Marco Aurelio

Gli imperatori Adriano e Antonino Pio ave­vano potuto reggere l'impero con un'accorta e vi­gile azione diplomatica. Ma al tempo di Marco Au­relio (che si era associato al potere Lucio Vero) la pressione sui confini orientali e set­tentrionali era divenuta cosi forte, che non sareb­be stato possibile non ricorrere alla guerra senza andare incontro al pericolo di vedersi spezzare la cerniera che teneva insieme le parti occidentali e quelle orientali dell'impero. A oriente l'impero partico, che era sempre stato in grado di tener testa ai Romani, contendeva la supremazia romana in Armenia e rendeva insicure le vie del traffico verso l'interno dell'Asia.

Per Marco Aurelio, la filosofia stoica era divenuta religione. Una religione uma­nissima, nella quale la ragione, emanazione divina, era il metro comune di tutti gli uomini, anche se di condizione e razza diverse, naturalmente attratti attra­verso di essa gli uni verso gli altri, appartenendo tutti alla stessa famiglia umana. La legge morale, come legge divina, è di per se stessa un atto religioso; ed essa, nell'esplicarsi, è ricompensa a se stessa, e deve essere praticata senza alcuna speranza o timore di premio, solo per la contentezza che prova l'uomo nel seguire il sentimento del dovere secondo la propria natura di essere ragionevole e la generale legge del mondo e di Dio. Questi sentimenti sono espressi nelle Memoriae di Marco Aurelio, redatte in greco, la lingua filosofica: diario spirituale scritto per controllo ed orientamento di se stesso.

Nella guerra in Oriente Lucio Vero ha il comando supremo, ma la con­dotta della guerra è in mano di valenti generali. Due armate entrano in Mesopo­tamia nel 165, attraversano l'Eufrate puntando verso Dura, sull'Europo, giungono al Tigri e occupano Seleucia e Ctesifonte, dove viene distrutto il palazzo reale. Vediamo farsi avanti la mentalità di disprezzo dell'avversario che dominerà le scene scolpite sulla Colonna Antonina, a differenza di quella della Co­lonna Traiana, e che annullerà quello spirito di tolleranza e di giu­stizia ancora vivo in Marco Aurelio. Nel 166, le città di Carrhae e di Dura sono ridotte a colonia romana, e il controllo dell'Armenia è assicurato. Nell'ottobre di quello stesso anno, dopo cinque anni di una dispendiosa guerra, i due imperatori celebrarono il trionfo.

Le prime pressioni dei popoli barbari

Già alla fine del 166 avviene la prima invasione dei popoli nordici che iniziano la fase delle loro migrazioni: seimila Longobardi e Obii penetrano nella Pannonia Superiore e sono respinti. Segue un attacco alle miniere d'oro della Dacia. Dietro di essi avanzano i Marcomanni e i Quadi, che rappresentano una grande coalizione di varie stirpi germaniche guidate da Ballomar, re dei Marcomanni.

Dall'Oriente l'esercito riporta un'epidemia, che si spande fino a Roma. All'epidemia furono trovate motivazioni magico-religiose. Per soddisfare l'opinione pubblica, l'urbe venne purificata da parte di sacerdoti di ogni religione.

La spedizione contro i Marcomanni ed i Quadi

Nella primavera del 168, entrambi gli imperatori partono per la spedizione contro i Marcomanni e i Quadi e pongono il campo ad Aquileia. Mentre Marco insiste sulla necessità di partecipare personalmente alla condotta della guerra, Lucio vuole rientrare a Roma, e sulla via presso Altinum perisce in un incidente. Dopo la sua morte, il comando militare viene affidato a Tiberio Claudio Pompeiano, nativo di Antiochia in Siria, di rango equestre, da due anni governatore della Pannonia Inferiore. Pompeiano sposò la vedova di Lucio, Lucilla, lia di Marco.

L'estendersi degli attacchi anche su altri fronti del confine imperiale, una pe­netrazione di Barbari in Italia fino a Verona, l'aggravarsi della situazione finanziaria, e la pressione sui paesi danubiani, risolsero l'imperatore a organizzare una grande spedizione con il programma di costituire una nuova provincia al di là della Dacia. Dal 171 al 173, Marco Aurelio stette personalmente nel campo legionario di Carnuntum presso Vienna. Nel 174, Marcomanni e Quadi erano vinti, e si poteva procedere contro i Sarmati. Un'insurrezione scoppiata in Oriente e guidata da Avidius Cassius, il generale delle guerre partiche, al quale erano stati conferiti poteri amplissimi dopo una sua fortunata spedizione contro una sedizione in Egitto, costrinse Marco Aurelio a recarsi nella Siria, accomnato da Faustina. Per quanto al suo arrivo l'insurrezione fosse stata abbattuta dall'intervento del governatore della Cappadocia, Marco rimase in Oriente sino al 176. Sulla via del ritorno muore Faustina. A Roma, Marco insieme a Commodo, fatto tecipe al potere, celebra il secondo trionfo e il suo ritorno nella capitale.

Nuove difficoltà sul fronte danubiano ricondurranno poi Marco al campo di Carnuntum, dove nel 180 cadde vittima di un'epidemia.



La scultura

Con la cronaca degli anni di Marco sono connessi i problemi di interpretazione e di cronologia delle sculture di soggetto storico che rappresentano a Roma la documentazione dell'arte dell'età degli Antonini e una svolta nel linguaggio formale dell'arte romana.

Nelle province, il monumento di scultura più importante di questo periodo era il fregio che celebrava i fasti degli Antonini, a Efeso. Il fregio, con ure ad altorilievo, grandi al vero, non ci è giunto nella sua originaria composizione, perché fu reimpiegato in età tarda. A questo grande fregio (Vienna, Musei) dovettero collaborare vari maestri, uno dei quali, che trattò le scene di bat­taglia, decisamente innovatore. Anche in questo caso si può notare un contatto formale con le sculture ellenistiche di Pergamo; ma lo si potrebbe dire un continuatore del 'Maestro delle Imprese di Traiano' per la maggiore libertà spa­ziale, l'impeto delle ure, la novità delle inven­zioni iconografiche. Da notarsi una predilezione per l'impostazione obliqua delle u­re, il forte colori­smo, il sobrio uso del trapano.

I rilievi dal Palazzo dei Conservatori e quelli dell'Arco di Costantino

Queste osservazioni vanno tenute presenti nell'affrontare il problema relativo a tre rilievi conservati nella scalinata del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, e a otto rilievi delle stesse dimensioni, inseriti sull'attico dell'Arco di Costantino. Benché in questi la testa dell'imperatore sia stata sostituita, la presenza in tutte nell'immediato seguito dell'imperatore di uno stesso personaggio nel quale si può identificare Tiberio Claudio Pompeiano, assicura l'appartenenza degli undici rilievi a monumenti in onore di Marco Aurelio.

I tre rilievi del Palazzo dei Conservatori provengo­no da una chiesa che sorgeva sul Foro Romano, dove era stato eretto un arco onorario a Marco Aurelio per il suo trionfo del 176. La pertinenza a tale arco appare del tutto probabile. Ma gli otto rilievi dell'Arco di Costantino appartengono ad una maestranza diversamente diretta ed è perciò sorta la questione se si possano rite­nere pertinenti allo stesso arco, oppure se si debba ipotizzare un altro monumento. I soggetti di tutti gli undici rilievi si riferiscono ad avvenimenti databili a dopo la morte di Lucio Vero, cioè alle guerre contro le popolazioni barbariche nordiche, ma forse non an­teriori al trionfo del 176. Altra questione è se sui rilievi fosse stato rafurato Commodo e se, in tal caso, la sua immagine sia stata obliterata dopo la damnatio memoriae, proclamata dal Sena­to subito dopo la sua morte nel 192.

Altro problema storico-artistico è il rapporto fra questa serie di rilievi e la scultura della Colonna Antonina, che nel 193 doveva essere terminata. Fra i tre rilievi del Palazzo dei Conservatori e gli otto dell'Arco di Costantino si pone una svol­ta artistica, che rappresenta l'inizio di un diverso modo di concepire, che proseguirà sino ad una rottura della tradizione nella quale si riconoscerà l'inizio dell'arte tardo-antica e pre-medievale.

La collaborazione di scultori di diversa ten­denza allo stesso monumento è possibile. I tre rilievi appartengono a una fase artistica tradizionale; gli otto a una nuova.

I tre rilievi del Palazzo dei Conservatori rap­presentano Marco Aurelio a cavallo che riceve Barbari vinti, Marco Aurelio sul cocchio trionfale (vi è un vuoto accanto a lui dove avrebbe potuto trovarsi Commodo) , Marco Aurelio che sacrifica dinanzi al Tempio modulino. Questi soggetti, che si potrebbero designare come Clementia, Victoria e Pietas Augusti, e che dovettero esser completati da un quarto, hanno correlazione tema­tica tra loro e stretta affinità stilistica. Sono rilievi d'intonazione ancora classicistica nella com­posizione e di una plastica sobriamente coloristica, che non si distacca dalla scultura del tempo di Antonino Pio.

Per valutare la diversità fra questi rilievi e gli otto rilievi dell'Arco di Costantino, si può osservare come è sta­to affrontato e risolto lo stesso tema del sacrificio. Nel rilievo della prima serie la scena è divisa in due parti, un primo piano compatto di fi­gure disposte di profilo e un secondo piano di fondo, in rilievo più basso, con rafurazione architettonica. Lo sche­ma iconografico è quello tradizionale, disposto in modo che la scena scorra dinanzi allo spettatore. Nel rilievo della seconda serie, questo schema viene profondamente modificato: il corteo è presen­tato come procedente dal fondo verso lo spetta­tore; esso avanza da sinistra a destra, oltrepassa la ura dell'imperatore che compie la libagione sacrificale e, descrivendo una curva, rientra verso il fondo. ½ è qui una realistica con­fusione della folla che si muove in uno spazio aperto, ottenuta con un numero limitato di ure, raggiungendo però l'effetto di isolare e far risal­tare in primo piano la persona dell'imperatore. La tendenza a comporre le ure come se si muo­vessero dal fondo verso lo spettatore o dal piano nel quale si trova lo spettatore verso il fondo, era tipica dei rilievi antonini di Efeso, ispirati all'arte di Pergamo. Ma a Roma il riflesso dei rilievi pergameni è meno sentito e vi è qualche adeguamento allo stile nar­rativo del rilievo storico di estrazione plebea.

In altri rilievi della stessa serie c'è una composizione più equilibrata secondo schemi classici, come nel rilievo con una Liberalitas dell'imperatore, diviso in due registri. La posizione quasi frontale dell'imperatore in alto e in particolare la ura del piano inferiore, rivolta di dorso, sono segni di una nuova concezione dello spazio ura­tivo. Si confronti la scena di analogo soggetto dell'Arco di Traiano a Benevento. In questo rilievo antonino, accanto alla ura dell'imperatore rimane il piede di una ura che do­veva riempire lo spazio alla sua sinistra. Era stato proposto di interpretare il frammento come resto della ura di Commodo, elimi­nata in un secondo tempo; ma lo spazio disponibile sembra esiguo per una ura adulta.

In quasi tutte le altre composizioni di questa serie di rilievi, anche se la ura dell'imperatore siede o sta di profilo secondo gli schemi compositivi tradizionali, è stato introdotto qualche motivo di movimento, in modo che lo spettatore non sia estraneo alla composizione, ma ne venga a far parte. Questa tendenza si accomna a un modo di trattare i particolari del rilievo, detto 'illusionistico', nel senso che basa il proprio effetto sopra un'illusione ottica: anziché eseguire una piega del panneggio con un rilievo pari a quello che essa avrebbe in natura, si ottiene il me­desimo effetto con un rilievo minore, ma affondando i contorni della piega con un'ombra profonda ottenuta con una serie di rotondi fori di tra­pano posti uno accanto all'altro, oppure con un profondo solco continuo otte­nuto con il 'trapano corren­te' (questo strumento è rafurato sopra un sarcofago del Museo Arcive­scovile di Urbino che rappresenta Eutropos, lo scultore titolare del se­polcro, il cui nome è scritto in greco, mentre esegue una testa di leone so­pra un sarcofago, assistito da un aiutante che fa girare il trapano, ed è costituito da un ferro a taglio elicoidale mosso da due capi di fune azionati dalle due mani). Questa tecnica viene impiegata dalle maestranze microasiatiche come un mezzo di espressione stilistica almeno a partire dall'età adrianea. Ancora sobriamente usata nelle capigliature delle ure di alcune lastre del fregio di Efeso, diviene, nei rilievi antonini dell'Arco di Costantino, un mezzo di grande effetto. Questo mezzo, che accresce il pittoricismo affacciatosi in età adrianea e accentuatosi al tempo di Antonino Pio, opera nel senso di un distacco dall'oggettivo naturalismo e dalla coesione organica della forma.

Dobbiamo riconoscere nei rilievi antonini dell'Arco di Costantino e nell'età di Commodo, una svolta nell'arte romana, in quanto questo nuovo linguaggio espressivo e formale non rimane un fatto isolato. Esso avrà uno svolgimento accentuando il suo carat­tere illusionistico e di distacco dalla tradizione del naturalismo ellenistico e dalla classica organicità della forma. La via, qui iniziata, conduce alla rottura della tradizione antica, che sarà evidente alla fine del III secolo, nell'età della Tetrarchia.

Si deve riconoscere una connessione con i maestri del fregio antonino di Efeso e che qualcuno degli scultori formatosi in quella officina abbia costituito in Roma una maestranza che realizza quest'arte, nella quale i modi di Pergamo, passati attraverso Efeso, si mutano in una forma nuova, che partecipa dell'insegnamento lasciato in eredità alle mae­stranze romane dalla grande scuola traianea. Di questa si hanno ancora riflessi nella scorrevolezza del disegno e nell'approfondimento patetico delle espressioni.

Esiste un nesso fra naturalismo e forma orga­nica da un lato e concezione del mondo su fondo razionale, disfacimento della for­ma organica e astrazione formale dall'altro, in connessione con una ten­denza verso l'irrazionalismo e le risoluzioni metafisiche del mondo. L'ansito religioso sfocia in superstizione già nella prima età antonina e si accentuerà sotto Commodo, col dilagare di sette misteriosofiche orientali e di attese quotidiane del miracolo. E il mira­colo irà per la prima volta nell'arte dell'Antichità, in due episodi, sulla Colonna Antonina: il miracolo del fulmine (scena XI) e il miracolo della pioggia (scena XVI).

La Colonna Antonina

La Colonna Antonina è dedicata alla comme­morazione delle guerre di Marco Aurelio sulla frontiera danubiana, contro Marcomanni, Quadi, Sarmati. Essa è un'imitazione della Colonna Traiana, ma gli ottant'anni che la separano da quella hanno prodotto un mutamento profondo nel linguaggio artistico dei rilievi.



I rilievi della Colonna Antonina sono legati alla nuova concezione artistica documentata dai rilievi antonini dell'Arco di Costantino, ma vi è meno riflesso ellenistico, meno arditezza di composizione e vigore di struttura. Nella Colonna Traiana, un gran­de maestro concepisce e disegna tutto il fregio. Nella Co­lonna Antonina sono all'opera delle maestranze. Sono maestri meno colti e di minore personalità, legati alla tradizione romana plebea della narrazione storica, che troviamo attivi sulla Colonna di Marco. Manca, a differenza da quella Traiana, l'unità di concezione come l'unità di forma, il fluire ininterrotto e sempre nuovo della narrazione. La narrazione degli avvenimenti non sembra seguire l'ordine cronologico dei fatti e vi è motivo di credere che alcune scene, alle quali si voleva dare particolare risalto, siano state anticipate, cioè poste più in basso, in una situazione di mi­gliore visibilità.

Il basamento

Il basamento originario della colonna è riconoscibile in antiche incisioni; nel 1589 i blocchi urati furono scalpellati e ridotti all'attuale basamento con le iscri­zioni papali di Sisto V. La colonna è formata da 19 blocchi, comprendenti base e capitello, e da un blocco cilindrico che serviva di sostegno alla statua dell'imperatore posta in cima. La colonna misurava cento piedi romani di altezza. Il rilievo corre su 21 giri, due meno che nella Colonna Traiana, con la conseguenza che le ure sono più grandi; anche il rilievo è più forte, il che nuoce alla forma architettonica della colonna, che è priva anche del tradizionale rigonfiamento (entasi) a due terzi d'altezza, che la Colonna Traiana conservava ancora.

Un segno caratteristico della svolta artistica e concettuale è il fatto che, a diffe­renza delle immagini di Traiano sulla sua colonna, che assumevano gli atteg­giamenti più confacenti all'azione rappresentata e in tutte le scene di marcia o di udienza erano sempre viste di profilo, sulla Colonna di Marco la ura dell'imperato­re è più spesso rappresentata frontalmente. Ciò corrisponde sia alla nuova concezione dello spazio u­rativo, contenuta nei rilievi aureliani dell'Arco di Costantino, sia ad un'iconografia della maestà imperiale, che diverrà regola fissa dopo la crisi del III secolo e che è in connessione col concetto di 'divina maestà' dell'imperatore che si fa strada.

All'imperatore si attribuiscono doti soprannaturali: il miracolo del fulmine, datato al 172, è attribuito all'effetto delle preghiere dell'imperatore. Sulla colonna, alla scena del fulmine se­gue quella del miracolo della pioggia, la cui datazione oscilla fra il 171 e il 174 e che è incerto se sia da situare nel paese dei Cottini o in quello dei Quadi, salvezza per i Romani assetati e rovina per gli avversari travolti dalle acque. La rappresentazione trova una sua iconografia: una grande immagine alata, che appare attraverso il velo di un fitto ruscello di pioggia, che non emana dalla sua ura, ma continua anche oltre ad essa, mentre in primo piano scorgiamo gli animali e i corpi travolti, mentre avanzano i rinfrancati soldati romani.

Siamo lontani dalla drammaticità descrittiva delle scene della Colonna Traiana; qui l'efficacia è raggiunta con alcuni mezzi: l'iterazione di un gesto, di un movimento, di uno stesso schema. Questi mezzi, come quello del muovere le ure partendo dal piano dello spettatore, caratteristico degli otto rilievi e che anche sulla colonna trova applicazione, semplificano le composizioni e le rendono d'immediata percezione. Non si tratta di una personale maniera artistica, ma dell'espressione di nuove richieste di una società nella quale stanno avvenendo profondi mutamenti.

La scena della decapitazione dei prigionieri; la scena di incendio dei villaggi di capanne; la composizione dell'imperatore affacciato ad un fortino entro la porta del quale, più in basso, entra un messaggero, sono tutte com­posizioni dalle iconografie nuovamente inventate, che pongono i Maestri della Co­lonna Antonina fra gli artisti più originali dell'arte romana. Tra le scene di morte e di distruzione, emerge il volto segnato dall'ango­scia, dalla fatica e dall'età, dell'imperatore Marco, allora sui 54 anni: non un volto di trionfatore esaltato dalle vittorie, ma quello che doveva essere nella verità dell'adempimento del suo dovere.

La pittura parietale

La pittura parietale di carattere ornamentale partecipa, in età antonina, alla perdita di quel naturalismo che era sempre stato al fondo dei sistemi decorativi. Se confrontiamo una parete neroniana, della Domus Aurea, con una parete ostiense del tempo di Antonino Pio e una parete dell'età di Commodo (Ostia, Casa dei Dipinti, sala gialla), si nota come del tradizionale sistema architettonico non rimane, in quest'ultima, niente altro che un riflesso nella distribuzione di uno schema lineare. La pittura di grandi compo­sizioni urate trova esempi di affreschi di largo respiro, come in alcune pitture di mitrei, i luoghi di culto della religione iranica, che si andava affermando in questo tempo specialmente tra l'elemento militare (mitreo di Marino presso Roma). Una scena mitologica diver­samente interpretata, nella quale ure di tipo eroico si trovano su un'isola circon­data da un mare popolato di varie ure, ha il suo migliore esemplare al disopra di una fontana nella casa del Celio, che fu di Pammachio e che fu dedicata alla memoria dei martiri Giovanni e Paolo.

Un concentrato delle tendenze dell'arte tardo-antonina è un rilievo votivo di Ostia, nel quale lo stile pittorico della scultura si unisce alla noncuranza per le proporzioni e le rafurazioni naturalistiche proprie dei rilievi della corrente plebea, della quale viene ad accentuarsi il momento tendente al simbolo, che si ma­nifesta nel grande occhio apotropaico che sorge nel rilievo senza connessione formale col resto. Nel rilievo si vede il faro di Ostia e una nave, dalle vele istoriate, con ure di uomini che lavorano su di essa; si vede il simulacro di Nettuno ed un'altra nave ed altre statue che dovevano indicare luoghi caratteristici di Ostia; ma si vede, nello sfondo di secondo piano, l'attico sormontato da una qua­driga di elefanti, che caratterizza la porta triumphalis di Roma, l'aditus urbis, la porta della capitale che si incontrava arrivando da Ostia, che era situata presso il Foro Boario, ma che da Ostia non era visibile.


COMMODO

Il principato di Commodo

La crisi della società antica si manifesta al tempo del principato di Commodo. Dopo l'attentato contro di lui del 188, egli si pose sotto la protezione di Cibele, la Grande Madre frigia, e uno schiavo frigio, affrancato, divenne il suo prefetto del pretorio. Poi si dette alla devozione di Nettuno-Serapide, di Dolicheno, di Mitra, tutte divinità orientali dai culti mi­steriosofici, che promettevano la salvezza e la rinascita. Si rifugiò sotto la prote­zione di Iside, ed egiziano fu il nuovo prefetto del pretorio. Irrazionalismo mistico e condotta politica si mescolano di continuo, mentre sono noti i suoi travestimenti da Eracle e la sua partecipazione ai combattimenti dei gladiatori. Pochi anni dopo troveremo, nei mosaici delle Terme di Caracalla, i ritratti dei gladiatori, esaltati come i nuovi idoli della folla. Siamo ben lontani dal classico ideale di coro­posta bellezza dell'atleta greco. Irrazionalismo e compiacenza per quanto vi è di primitivo, di brutale e immediato nell'uomo sono quasi una reazione al modello della riservatezza di Augusto e della clemenza di Tito e di Traiano o della disciplina di Marco.

Con Commodo aveva avuto inizio un'epoca nuova nella concezione della sovranità: il principe romano si trasforma in un sovrano-dio di tipo orientale.

I primi martiri cristiani

Fra le religioni orientali che fioriscono in quel tempo e che promet­tono una salvezza individuale in una vita oltre la morte, anche la religione cristiana avanzava. Essa era l'unica perseguitata, perché era la sola che poneva in questione l'eternità e l'assolutezza dell'im­pero di Roma e aveva come meta un'altra eternità ed un'altra universalità. I cristiani erano i soli che rifiutavano il culto della persona dell'imperatore. La grande forza del cristianesimo era, oltre alla capillare organizzazione, l'aver respinto ogni deviazione ed ogni allettamento intellettualistico, e di possedere una larga base popolare, di massa.

Callisto era uno schiavo che conduceva una banca per conto del suo padrone. Accusato dagli ebrei, fu condannato fra il 186 e il 189 alle miniere della Sardegna. Era cristiano, ma cristiana era anche la concubina preferita di Commodo, Marcia, che chiese e ottenne (190 o 192) la liberazione di Callisto, e il suo ritorno a Roma, dove, nel 218, venne eletto capo della comunità romana. Un vetro dorato del IV secolo ne conserva il ritratto, che mostra di risalire a un modello del III secolo.






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