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Erika De Candido - Recensione de "I ventitrè giorni della città di Alba"



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Erika De Candido


Recensione de "I ventitrè giorni della città di Alba"



"Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell'anno 1944" . ." Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n'era per cento carnevali Fece un'impressione senza pari quel partigiano semplice che passò rivestito dell'uniforme di gala di colonnello d'artiglieria cogli alamari neri e la bande gialle e intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri col grosso gancio tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite. Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare -Ahi povera Italia! -, perché queste ragazze avevano delle facce e un'andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l'occhio."

Da queste poche righe si può ben comprendere come Beppe Fenoglio non fosse stato molto apprezzato dalla critica marxista quando uscì il suo primo libro, " I ventitrè giorni della città di Alba", da cui è tratta questa citazione.



Il tono con cui rievoca gli episodi della Resistenza di cui trattano sei dei dodici racconti che compongono la raccolta è infatti singolarmente ironico, distaccato, ben lontano da quello che avrebbero auspicato i dirigenti comunisti per un romanzo sulla Resistenza. Fenoglio rifiuta ogni enfatizzazione della lotta partigiana e dei suoi protagonisti, in cui non ci sono eroismo o particolare audacia, fermezza, coerenza. Ciò non significa tuttavia che lo scrittore derida l'identità del partigiano, la racconta invece attraverso la memoria della sua esperienza di lotta partigiana, che visse da giovane intellettuale trovatosi in un mondo non proprio, terribilmente e profondamente violento ed inumano. Ne risulta un quadro della Resistenza vivo, semplice ed espressivo ed allo stesso tempo un'indagine penetrante sulla violenza che Fenoglio arriva ad intendere come elemento essenziale e costitutivo della vita degli uomini e dei loro rapporti personali.

Tutto parte, appunto dal racconto della presa e della perdita della città di Alba e delle vicende che ad essa seguirono, per terminare nei sei racconti della seconda parte del libro che narrano invece dei momenti successivi alla fine della guerra partigiana, e descrivono il difficile reinserimento nella società per gli ex - partigiani e la vita dura e aspra della camna langarola.

In primo piano sono sempre i fatti, nudi, semplici, raccontati con estremo realismo, senza indugi su descrizioni paesaggistiche o commenti da parte dell'autore sulle azioni dei personaggi: tutte le parole sono dosate per dare una esposizione il più possibile chiara ed essenziale dei fatti partigiani. La presenza dell'autore è nulla, se si eccettua l'ironia pungente con cui Beppe Fenoglio condisce le proprie storie, ironia che colpisce indistintamente tutti i personaggi dei racconti, che non sono appunto eroi "politici" della liberazione nazionale, o paladini della giustizia, ma uomini semplici, che hanno scelto la lotta non per profonde e sentite motivazioni ideologiche, o politiche appunto, ma per ragioni del tutto personali.

La loro è una guerra contro l'oppressione, contro i soprusi del regime fascista, è una guerra necessaria, per l'affermazione del valore della libertà, è una guerra imposta dai tempi, alla quale si deve partecipare, anche per affermare nella lotta il proprio coraggio ed il proprio essere uomini, o essere adulti, nel caso dei più giovani.  Nessun c'è impegno, quindi, che non sia quello morale, un impegno tutto personale, individuale, e comunque assai confuso: nessuno dei partigiani di Fenoglio potrebbe spiegare con coerenza le ragioni della propria scelta della lotta armata.

E la confusione e il disorientamento dei combattenti della città di Alba si riscontrano anche nell'organizzazione stessa delle brigate e della guerriglia che viene molto spesso improvvisata: appena presa la città di Alba "..nel Civico Collegio Convitto, che era stato adibito a Comando Piazza, i comandanti sedevano a gravi problemi di difesa, di vettovagliamento e di amministrazione civile in genere. Avevano tutta l'aria di non capircene niente, qualche capo anzi lo confessò in apertura di consiglio, segretamente si facevano l'un l'altro una certa pena perchè non sapevano cosa e come deliberare. Comunque deliberarono fino a notte."



I momenti comici, quindi, non mancano affatto nel romanzo, anzi, ne costituiscono forse l'elemento più originale ed interessante, in quanto contribuiscono notevolmente alla costituzione di un quadro quanto più vero e reale della Resistenza. I partigiani di Fenoglio sono in fondo ragazzi semplici, che mescolano alle proprie azioni militari, interessi del tutto "terreni" per le ragazze ed arrivano ad affermare frasi del tipo : "A me non importa proprio niente che abbiamo perso Alba . per me l'unica comodità che valeva era quella del casino." , oppure, di fronte al primo impatto col duro e violento mondo partigiano, non sospettato tale :" Oh mamma, mamma ! . A cosa mi serve aver studiato? Qui per resistere bisogna diventare una bestia ! E io non me la sento, io sono buono !".

"I ventitre giorni della città di Alba" non si esaurisce tuttavia nella descrizione della lotta partigiana e nell'analisi dei suoi protagonisti, e delle loro motivazioni, ma risulta essere altresì un' indagine profonda sulla violenza e sul posto che essa occupa all'interno dell'animo umano . La violenza viene concepita da Fenoglio come una componente ineliminabile dell'uomo, che bisogna saper comprendere ed accettare. Essa conosce la sua brutale esplosione durante la guerra, periodo in cui si registrano dati estremi di crudeltà e dolore, in cui l'unica impellente necessità è l'eliminazione fisica dell'avversario, ma controlla e regola la vita e i rapporti umani anche durante i periodi di pace, durante i quali si fa sentire nella realtà difficile, dura, gravosa della miseria della vita quotidiana.

Beppe Fenoglio sperimentò l'asprezza del vivere nella povera camna langarola, la sua terra, il suo unico mondo che diventò poi la fonte d'ispirazione della sua produzione letteraria. La sua vita fu infatti tutta confinata in quest'ambiente, scrive infatti di sé nel 1952 : "Nato trent'anni fa ad Alba (1° marzo 1922), studente (Ginnasio-liceo, indi Università, ma naturalmente non mi sono laureato), soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota ditta enologica. Credo sia tutto qui. Ti basta, no ? Mi chiedi una fotografia. Ora, sono sette anni circa che non mi faccio fotografare". In queste poche righe c'è già tutto il personaggio Fenoglio, la sua essenza di letterato non-di-professione, formatosi con le letture dei classici inglesi, come Melville, Conrad, Milton e Coleridge (di cui fu anche traduttore e che influenzarono notevolmente il suo stile narrativo), la sua lontananza dai circoli letterari e dal fragore delle grandi città, la sua semplicità ed il suo amore per la camna langarola. Uomo timido, scontroso, di poche parole, naturalmente focalizzò la sua attenzione di scrittore sui temi della Resistenza e della vita nella camna che conosceva, e così giustifica la propria "inclinazione" letteraria:

"Scrivo per un'infinità di ragioni. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate: per un'infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie ine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti . Considero la letteratura lo strumento migliore che io abbia per giustificarmi. Mi costa una fatica tremenda e gravi rinunce".






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