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LETTERATURA PATRISTICA



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L E T T E R A T U R A P A T R I S T I C A



Sotto questa denominazione si comprende quella produzione letteraria che è legata al sorgere, alla diffusione, allo sviluppo dottrinale e pratico e al consolidamento del cristianesimo nel mondo greco-romano durante i primi secoli dell'era volgare. Essa comprende due sezioni più importanti (letteratura greca cristiana e letteratura latina cristiana) e alcune minori (siriana, copta, armena, ecc.). Lo studio di questa letteratura, soprattutto nelle sue due espressioni maggiori, latina e greca, è, come disciplina autonoma, piuttosto recente, essendo queste considerate di volta in volta come sezioni delle rispettive letterature classiche oppure come sussidi e documenti per la storia dei dogmi o della chiesa o della teologia. Fu appunto dallo studio della teologia storica che essa si sviluppò all'inizio del sec. XVII nell'ambito della controversia tra cattolici e protestanti, con il nome di Patrologia datole la prima volta dal teologo protestante Giovanni Gerhard (morto nel 1637). Per lungo tempo però rimasero fluttuanti e incerti tanto il suo ambito cronologico quanto i suoi intenti specifici: e se il primo è andato man mano fissandosi su una cronologia convenzionale generalmente accettata (fino all'impero di Giustiniano, per quella greca; fino alla morte di Isidoro di Siviglia, per quella latina), non altrettanto si può dire per il secondo aspetto, in quanto che è facile scorgere nelle varie opere dedicate a questa disciplina la coesistenza di motivi e di criteri di giudizio ispirati dalle sollecitazioni più diverse e dagli interessi più disparati. Il fatto oggi generalmente ammesso da tutti è l'esistenza nell'antichità di una letteratura cristiana con caratteri suoi propri, che si differenzia dalle altre precedenti e contemporanee letterature nazionali per il suo contenuto nuovo che crea spesso un linguaggio nuovo e nuove forme d'espressione.



Se si prescinde dalle prime manifestazioni in dialetto aramaico, la letteratura cristiana nasce nell'ambito della cultura ellenistica, esprimendosi nel linguaggio di questa, la koinè diàlektos, che rimane fino allo scorcio del sec. II l'unica lingua letteraria del cristianesimo. Gli scritti di questo primo periodo non rivelano preoccupazioni d'indole letteraria ma riflettono le necessità pratiche delle comunità che tendono; a organizzarsi su salde basi dottrinali, liturgiche e strutturali: gli stessi scritti neotestamentari canonici, che sono cronologicamente i primi, si possono considerare come il frutto della necessità pratica di fissare la catechesi apostolica orale per metterla al sicuro dalle possibili adulterazioni di carattere eretico o sincretistico.

Ai margini di questi, con intenti di integrazione e più spesso di proanda eterodossa, si sviluppò ben presto la letteratura degli apocrifi che si considerano qui per la loro affinità con i precedenti sebbene in genere le redazioni di essi giunte a noi appartengano a periodi più tardi. Il termine «apocrifo» designava una volta quei libri che erano destinati ad una cerchia particolare di lettori, agli iniziati di una qualche corrente di pensiero, un po' come erano ad es. presso i Romani i libri sibillini e lo ius pontificium. Ma da un certo periodo i cristiani se ne servirono per designare scritti sospetti di eresia, non conformi all'insegnamento ufficiale e quindi, in generale, poco raccomandabili anzi da escludere non solo dalla lettura liturgica, ma anche dalle mani dei fedeli. Molti di questi apocrifi si presentano come rielaborazioni cristiane o ampliamenti di nuclei letterari giudaici preesistenti, come il Libro di Enoc, il Testamento dei 12 Patriarchi, il V libro di Esdra, il III libro dei Maccabei, i 18 Salmi di Salomone, l'Ascensione di Isaia, opera giudaica sul martirio del profeta interpolata da mano cristiana con l'aggiunta di profezie cristologiche, le 42 Odi di Salomone (prima metà del sec. II), forse di origine gnostica, il Testamento di Salomone, trattato di angelologia e di demonologia in forma di romanzo. Va osservato che tutti questi scritti, così come molti degli apocrifi che menzioneremo in seguito, vengono oggi considerati da molti come i depositari più o meno genuini della primitiva forma del cristianesimo, cosiddetto giudeo-cristianesimo. La letteratura apocrifa comprende tutti i generi in cui si divide tradizionalmente quella canonica neotestamentaria: vangeli, atti, epistole e apocalissi.

Tra i Vangeli apocrifi, di cui ci sono giunti soltanto frammenti più o meno ampi e testimonianze, ricordiamo il Vangelo secondo gli Ebrei (prima del 150), forse una rielaborazione ampliata del resto aramaico di Matteo, il Vangelo degli Egiziani (dopo il 150), in uso presso le varie sette gnostiche egiziane (encratiti, naasseni, ecc.); un altro Vangelo degli Egiziani, citato anche come Libro sacro del grande Spirito invisibile, è stato trovato nella biblioteca gnostica di Nag 'Hammadi; il Vangelo degli Ebioniti, forse identico al Vangelo dei Dodici citato da Origene; il Vangelo di Pietro (Siria, prima del 150) che porta tracce di docetismo; il Vangelo di Nicodemo (sec. II), che comprende due parti: gli Atti di Pilato e la Discesa di Cristo agli inferi; esistono poi vangeli sotto il nome di quasi tutti gli altri apostoli, generalmente di origine gnostica, come quelli di Matteo, Tommaso, Filippo, scoperti nella biblioteca di Nag 'Hammadi; di Bartolomeo (sec. III), che contiene le rivelazioni di Gesù dopo la risurrezione e la descrizione della discesa agli inferi; il Vangelo di Giuda Iscariota, quelli di Andrea, di Taddeo, della Verità, di Eva, di Maria, di Basilide di Cerinto, di Valentino, di Apelle, ecc. Il gusto del meraviglioso, caratteristico di questa letteratura, si esplicò in particolar modo nel Protoevangelo di Giacomo (prima del 200), che narra la vita della Madonna fino alla strage degli Innocenti e alla morte di Zaccaria, padre di Giovanni Battista: la narrazione non è priva di un suo candore poetico ed ebbe enorme influsso sulla tradizione posteriore; il Vangelo di Tommaso, forse una redazione purgata del vangelo gnostico di questo nome, racconta con un grande gusto del meraviglioso e del fiabesco i miracoli di Gesù fanciullo; dal vangelo di Giacomo e Tommaso derivano il Vangelo arabico dell'infanzia e La storia arabica di Giuseppe il falegname; alla vita di Gesù si riferiscono inoltre La leggenda di Abgar, che contiene un preteso scambio epistolario tra il re Abgar V di Edessa e Gesù Cristo; vangeli più tardivi e sorti come florilegi da quelli precedenti sono quelli scoperti nella biblioteca di Nag 'Hammadi: La Sapienza di Gesù Cristo, il Dialogo del Salvatore, il Vangelo di verità, il Vangelo secondo Tommaso, il Vangelo secondo Filippo.

Numerosi anche gli Atti apocrifi, improntati anch'essi al gusto del meraviglioso in misura ancora maggiore che non i vangeli, in quanto la varietà e la vastità del teatro del racconto e la persona del protagonista offrivano più ampie possibilità di sviluppo: Atti di Paolo (sec. II), che comprendono 3 parti (gli Atti di Paolo e Tecla, la III Lettera di Paolo ai Corinti e il Martirio di Paolo); gli Atti di Pietro (tra il 180 e il 190), ai quali si collegano la Predicazione di Pietro e gli Atti di Pietro e Paolo; alla ura e alla predicazione di Pietro si ricollegano anche le cosiddette Pseudo-Clementine (sec. III, in Siria), che comprendono 20 Omelie e 10 libri di Recognitiones; gli Atti di Giovanni, di tendenza gnostico-docetistica, rielaborati poi in senso manicheo; gli Atti di Andrea (scritti intorno al 200, forse da un certo Leucius), di cui fanno parte gli Atti di Andrea e Mattia fra gli antropofagi; gli Atti di Tommaso (prima metà del sec. III), racconto della predicazione missionaria e dei miracoli dell'apostolo in India, in cui sono anche contenuti inni liturgici di grande bellezza; di racconti leggendari furono anche oggetto altri apostoli e discepoli: Taddeo (Dottrina di Addai) Filippo, Bartolomeo, Barnaba, Marco, Silvano (gli Atti di quest'ultimo, nella biblioteca gnostica di Nag 'Hammadi).

Tra le Epistole apocrife vanno segnalate quelle di Paolo (ai Laodicesi, agli Alessandrini, la III ai Corinti) e l'Epistolario di Paolo e Seneca, esercitazione retorica del sec. IV, l'Epistola di Barnaba, sul valore e sul significato tipologico dell'Antico Testamento; l'Epistola degli Apostoli (sec. V), contenente le rivelazioni di Gesù dopo la resurrezione, l'Epistola di Tito, sulla verginità; l'Epistola di Pietro a Filippo, ritrovata nella biblioteca di Nag 'Hammadi.

Le Apocalissi più note sono: l'Apocalisse di Pietro (tra il 125 e il 150), molto importante per la descrizione dell'aldilà celeste e infernale, attinta da rappresentazioni giudaiche, orientali, pitagoriche e orfiche; l'Apocalisse di Paolo (sec. IV), sulla visione di Paolo rapito al terzo cielo; le apocalissi di Tommaso, di Bartolomeo, di Maria, di Stefano, ecc.; la biblioteca di Nag 'Hammadi ci ha conservato apocalissi di Giovanni (Apokryphon), di Pietro, di Paolo, di Giacomo, di Dositeo, di Messos e di Zostriano. Al genere apocalittico appartiene anche il Pastore (secc. I-II) di Erma, che contiene 5 visioni, spiegate all'autore in parte da una matrona (la chiesa) e in parte da un angelo in veste di pastore, il quale aggiunge 12 precetti e 10 similitudini.

A questo primo periodo della letteratura cristiana risalgono anche alcune composizioni poetiche, generalmente di carattere liturgico, che raramente seguono gli schemi metrici classici e tradizionali, più spesso invece sono espressioni ritmiche libere, dal tono ora entusiastico, ora solenne e ieratico, secondo i modelli ebraici e siriaci. Esempi di questo genere poetico sono già reperibili negli scritti canonici neotestamentari: il Magnificat, il Benedictus, il Cantico degli angeli, il Nunc dimittis (Lc 1, 46 e segg.; 1, 68 e segg.; 2, 14; 2, 29 e segg.), l'inizio dell'Epistola agli Efesini, il verso 3, 16 della I Tim, il «cantico nuovo» di Apocalisse 5, 9-l0, ecc. Lo stesso carattere presentano alcune preghiere, contenute negli scritti apocrifi (come il Canto dell'anima e l'Inno nuziale degli Atti di Tommaso, il Lamento di Anna del Protoevangelo di Giacomo, ecc.), gli inni gnostici (p. es., l'Inno dei Naasseni, ecc.), le preghiere della Didachè, l'Inno mattutino (Gloria in excelsis), l'Inno lucernare, gli inni liturgici delle Costituzioni apostoliche e dell'Eucologio di Serapione, le anafore eucaristiche, e soprattutto le menzionate Odi di Salomone. Secondo la metrica classica sono invece composti i 14 libri di esametri degli Oracoli Sibillini (sec. II) il cui valore poetico però è molto scarso e in cui molto di rado il sincero sentimento religioso riesce a riscattare la piatta esposizione di un trito contenuto tradizionale, l'Epitaffio di Abercio, un inno in 22 esametri alla chiesa e all'eucaristia, e l'Epitaffio di Pettorio (Autun), in 3 distici greci più 5 esametri.



L'intento pratico che caratterizza più o meno tutta la letteratura cristiana delle origini è reperibile anche negli scritti dei primi autori cristiani dalla personalità storicamente definita che s'incontrano dopo gli scrittori neotestamentari, vale a dire nei Padri apostolici, così chiamati perché ebbero rapporti con gli apostoli oppure intendono riferire la tradizione apostolica orale. Si annoverano tradizionalmente tra questi Clemente, vescovo di Roma (92-l01), autore di una lettera ai cristiani di Corinto per ristabilire in quella comunità la pace e la disciplina, turbate da gravi dissidi; Ignazio di Antiochia, che durante il viaggio da Antiochia a Roma per subirvi il martirio scrisse 7 lettere a comunità cristiane dell'Asia Minore e di Roma, per inculcare le virtù della carità e dell'obbedienza e prevenire la proanda docetistica e giudaizzante; Policarpo, vescovo di Smirne, autore di una Lettera (o meglio, due lettere) ai Filippesi; Papia, vescovo di Gerapoli, che scrisse 5 libri di Esposizioni dei detti del Signore; in questo gruppo si sogliono comprendere anche l'Epitola di Barnaba e il Pastore di Erma, già menzionati, e la Didachè, o Dottrina del Signore alle genti per mezzo dei Dodici Apostoli (intorno al 150), scoperta nel 1883, che ci dà un quadro fedele dell'organizzazione delle comunità cristiane primitive.

Ancora un intento pratico, ma non più rivolto all'interno delle comunità bensì ai contatti del cristianesimo con l'ambiente culturale, politico e sociale che lo circonda, caratterizza la letteratura cristiana della seconda metà del sec. II, nota come apologetica. Il cristianesimo nella sua diffusione aveva dapprima suscitato l'ostilità popolare che accusava gli adepti della nuova religione di colpe atroci (crimina occulta: infanticidio, incesto, iniziazioni cannibalesche, cene tiestee), quindi aveva attirato l'opposizione dell'autorità civile che l'aveva proscritto sulla base di due accuse fondamentali: il crimen religionis e il crimen maiestatis. Nel corso del sec. II si era aggiunta l'opposizione sistematica e dottrinale della cultura ufficiale nella persona di retori e filosofi, tra cui i più noti furono Frontone di Cirta, Luciano di Samosata, Celso, la cui eredità fu raccolta successivamente dai neoplatonici Porfirio, Ierocle di Bitinia, Giuliano l'Apostata, ecc. Sorsero allora dal seno del cristianesimo alcuni scrittori, generalmente filosofi e letterati ani convertiti, i quali intrapresero, sulla base del comune substrato di cultura, la difesa della nuova religione. Il nucleo della loro argomentazione comprende due parti ben distinte: una negativa, intesa a purgare i cristiani dalle varie accuse sia sul piano dottrinale e religioso (ateismo, ecc.), sia sul piano morale, ritorcendo le accuse contro i ani le loro istituzioni e la loro religione (critica del politeismo del fondamento giuridico delle persecuzioni, ecc.), una parte positiva, consistente nella dimostrazione della verità del cristianesimo attraverso molteplici argomenti (avveramento delle profezie messianiche e di quelle di Gesù Cristo, miracoli di Cristo, priorità cronologica della rivelazione sulla cultura ana), e nell'esposizione della nuova dottrina in schemi e formule accessibili alla mentalità greco-romana. Questo secondo aspetto soprattutto, conduceva gli apologeti a mettere in luce nel pensiero ano i molteplici elementi di verità, che trovavano nel cristianesimo il loro naturale punto d'inveramento e di integrazione. Si notano così nella letteratura apologetica, secondo che insiste sul primo o sul secondo aspetto, due correnti destinate a perdurare nel corso dei secoli: per gli uni la cultura ana o «esteriore» non è che una somma di errori e di deviazioni morali, un prodotto demoniaco e, come tale, da rigettare in blocco; per gli altri, invece, si tratta di verità parziali e incomplete che tendono sinceramente e con purità d'intenzioni a ricevere l'illuminazione e l'integrazione da una «parola dall'alto». Tra i fautori della prima tendenza vanno ricordati il siro Taziano (Discorso ai Greci), Ermia (Scherno dei filosofi ani) e per molti aspetti anche Tertulliano; la seconda tendenza, di gran lunga la più diffusa, è rappresentata dall'autore della Epistola a Diogneto, Quadrato e Aristide di Atene, Aristone di Pella, Melitone di Sardi, Milziade di Atene, Teofilo d'Antiochia, Atenagora, e soprattutto da Giustino (morto nel 165), l'autore della teoria del lògos spermatikòs, secondo cui in ogni uomo vive un seme del Lògos universale (manifestatosi nella sua pienezza in Gesù Cristo), in virtù del quale partecipa alla verità e a una rivelazione embrionale naturale. Questa particolare produzione letteraria, dominata com'è dai suoi scopi pratici, non s'innalza molto sopra il livello comune di quei tempi e non brilla generalmente né per originalità di speculazione, né per perfezione formale, ma l'apporto che essa arrecò alla chiarificazione dottrinale del cristianesimo fu certamente cospicuo ed esercitò un grande influsso sugli sviluppi successivi.

Le stesse considerazioni valgono per la letteratura antieretica del sec. II. Essa si rivolse soprattutto contro quel complesso di sette e di dottrine eterodosse che vanno sotto il nome di gnosticismo. La confutazione dello gnosticismo nel suo complesso e nelle sue varie manifestazioni e sette fu fatta da Ireneo di Lione (fine del sec. II), nella sua grandiosa opera Adversus haereses, la cui idea fondamentale è la dimostrazione dell'unicità d'ispirazione divina dei due Testamenti e dello sviluppo armonico e graduale dall'Antico al Nuovo, sul quale è fondato il valore della tradizione ecclesiastica e una visione teologica ottimistica della storia. Contro lo gnosticismo e molte altre eresie (montanismo, encratismo, modalismo sabelliano, ecc.) è diretta anche l'opera di Ippolito di Roma (morto nel 235 circa). Questi due ultimi scrittori (insieme con Clemente Romano, Erma, il presbitero Gaio, ecc.), sebbene di lingua e di cultura greca, rappresentano l'intervento dell'Occidente nel grande travaglio di sistemazione dogmatica e disciplinare del cristianesimo. Quindi anche la lingua greca, rimasta per circa due secoli la lingua ufficiale delle comunità occidentali, a poco a poco cede il posto in Occidente a quella latina, destinata a un rigoglioso sviluppo.

Il bisogno di una lingua latina si fece urgente quando il cristianesimo si diffuse oltre il ristretto cerchio delle colonie giudaiche della diaspora, reclutando i suoi adepti in tutti i ceti sociali del mondo romano. Si ebbero dapprima traduzioni di opere greche (Epistole di Clemente e di Barnaba, il Pastore di Erma, la Didachè, ecc.) e, soprattutto, assai per tempo dovette esser fissata canonicamente una traduzione della Bibbia, che tanto doveva influire sulla costituzione lessicale e sintattica del latino cristiano. Ma è soprattutto in Africa che la letteratura latina cristiana si manifesta con una fisionomia ben distinta raggiungendo in brevissimo tempo una maturità e una dignità letteraria altissima. Inserendosi in una tradizione linguistica e retorica che appunto nell'Africa romana si era iniziata con Frontone e Apuleio, ma nel contempo innovandola arditamente (con influssi forse del dialetto punico e delle traduzioni bibliche) sotto l'aspetto semantico e lessicale, gli scrittori cristiani dell'Africa foggiano uno strumento letterario insieme raffinato ed essenziale, nuovo e permeato intimamente di cultura, destinato a esercitare un influsso sul latino cristiano del resto dell'Occidente e sulla formazione del latino medievale. A prescindere dagli Atti dei martiri Scilitani (180) e dalla Passione di Perpetua e Felicita (203), si può affermare che il latino letterario cristiano nasce con Tertulliano (morto intorno al 220), gigantesca personalità di pensatore e di polemista dall'eloquenza vigorosa e appassionata che conosce tutti i toni, dalla persuasione accorata allo sdegno, dall'entusiasmo all'ironia e al sarcasmo sanguinoso. Grande come apologeta (Ad nationes, Apologeticum, Ad Scapulam, De testimonio animae), sottile dialettico contro le deviazioni ereticali (De praescritione haereticorum, Adversus Marcionem, Adversus Praxean) Tertulliano si mostra però spesso debole nella sua speculazione teologica e troppo rigido e intransigente nell'interpretazione della morale, il che spiega il suo distacco finale dalla chiesa cattolica per aderire al montanismo. Più pacata, trasportata quasi in un ambiente sereno di discussione filosofica, è invece l'apologia dell'Octavius di Minucio Felice; più pensosa e venata d'un pessimismo derivante dalla contemplazione dell'irrompere infrenabile del male nel mondo è quella di Cipriano (Ad Donatum, Ad Demetrianum, Quod idola dii non sint): questa caratteristica d'un maggiore equilibrio e serenità, dovuta anche a contatti più intensi con gli autori classici, e riscontrabile anche nelle altre opere del vescovo cartaginese, soprattutto nel suo trattato più importante, il Die eccelesiae unitate. Il tono violento di condanna e di avversione contro la cultura ana torna a prevalere nei 7 libri dell'Adversus nationes di Arnobio il Vecchio, scrittore non privo, nella sua iconoclastica retorica, di una sua icastica efficacia. Chiudono la schiera degli scrittori cristiani latini del sec. III il retore Lattanzio (morto dopo il 317), il cui ideale consiste nell'attuazione di una impossibile sintesi tra forma classica e contenuto cristiano, Novaziano e Vittorino di Pettau, che cimentano per primi la lingua latina nel difficile campo della teologia dogmatica e dell'esegesi biblica.



Queste due discipline intanto avevano raggiunto in Oriente un altissimo grado di elaborazione soprattutto per opera dei maestri del Didaskaleion alessandrino, Clemente (morto prima del 215) e Origene (morto nel 253-254). Il primo, proseguendo nella direzione additata da Giustino, approfondì, con metodo ben altrimenti fondato e con una conoscenza della cultura ana inabilmente più organica e vasta, il dialogo tra ellenismo e cristianesimo; il secondo fu colui che raccolse nella sua opera gigantesca e multiforme tutti i risultati e le esigenze della tradizione cristiana precedente, fondendone tutti gli elementi nel primo tentativo di sintesi dottrinale (Perì archòn, De principiis) e aprendo con il suo molteplice lavoro esegetico nuove vie alla speculazione cristiana. Si attua il fatto nuovo nella storia della letteratura cristiana del costituirsi di una «scuola», con propri indirizzi e metodi di lavoro, che darà i suoi risultati fecondi nelle opere di Dionigi d'Alessandria, di Gregorio il Taumaturgo e Panfilo di Cesarea. Anche il sorgere di altre scuole avversarie, come quella esegetica di Antiochia, che all'allegorismo degli alessandrini contrapponeva un'interpretazione storica e letterale della Bibbia, è ancora un segno della vitalità e della profondità del movimento culturale iniziato dagli alessandrini. Infatti anche gli avversari dichiarati di Origene in questo periodo, come Metodio di Olimpo, Giulio Africano, Luciano d'Antiochia, Pietro d'Alessandria, vivono alla sua ombra e si servono dell'immenso materiale documentario da lui raccolto. La letteratura cristiana greca del sec. III rappresenta un periodo di fermento e di gestazione, i cui frutti matureranno nel secolo successivo. Anche sotto l'aspetto formale esso porta le tracce di un profondo travaglio: se gli intenti pratici soverchiano ancora ogni ricerca di perfezione stilistica nelle opere di Origene, gli effetti di una raffinata educazione retorica alimentata dal contatto con i classici della grecità sono invece evidenti negli scritti di Clemente e Metodio e di qui confluiranno, decantati degli elementi caduchi e fusi con i nuovi contenuti, nelle opere dei grandi scrittori del sec. IV.

La splendida fioritura letteraria di questo secolo, che viene spesso definita l'età d'oro della Patristica, fu resa possibile, oltre che dalla preparazione del periodo precedente, anche dalle mutate condizioni storiche dell'ambiente: il cristianesimo uscito vittorioso e rinvigorito dalle sanguinose persecuzioni, l'ultima delle quali infierì proprio alle soglie del sec IV, si erge sicuro di sé e cosciente della sua immensa forza di espansione di fronte all'impero, che passa rapidamente dall'atteggiamento di tolleranza (editto di Milano del 313) al riconoscimento ufficiale e alla protezione aperta della nuova religione, restandone profondamente influenzato nelle sue manifestazioni esteriori e condizionandone a sua volta sempre più pesantemente l'evoluzione dottrinale e l'organizzazione interna (cesaropapismo). La chiesa, uscita dalla clandestinità, convoglia tutte le sue energie alla realizzazione pratica del suo carattere universale oltrepassando ben presto anche i confini tradizionali dell'impero: provvede in pari tempo ad attuare concretamente il messaggio evangelico di carità, con provvide istituzioni a favore dei poveri e dei malati. Anche la vita spirituale è in fiore, nonostante il pericolo rappresentato dalla protezione politica e dalle conversioni in massa: in questo secolo avviene l'organizzazione su solide basi di quell'importante fenomeno che è il monachesimo. E questo fervore di vita e di opere si manifesta anche nella produzione letteraria che vede la fioritura mirabile di tutti i suoi generi tradizionali, ai quali se ne affiancano di nuovi. Strettamente collegato alla coscienza dell'importanza della vittoria riportata dal cristianesimo è lo sviluppo della storiografia: si moltiplicano, soprattutto a scopo liturgico, edificatorio e celebrativo, gli Atti dei martiri e le Passioni, da cui si svilupperanno successivamente le leggende intorno ai martiri e prenderà le mosse l'agiografia, che ha il suo capostipite nella Vita di S Antonio di Atanasio, i suoi esemplari più cospicui nella Vita di S. Melania del presbitero Geronzio, nella Vita di S. Ipazio e il suo capolavoro nella celebre Historia Lausiaca di Palladio. L'intento di celebrare la vittoria del cristianesimo è evidente anche nella Storia ecclesiastica di Eusebio (morto nel 339 circa), che è senz'altro il capolavoro della storiografia ecclesiastica antica, un'opera esemplare per rigore di metodo critico, apertura di prospettiva e ampiezza di documentazione, caratteri che non sempre è dato di riscontrare nelle opere dei continuatori: Gelasio di Cesarea, Filippo di Side, Filostorgio, Sozomeno, Teodoreto di Ciro (morto nel 466) e Socrate (morto dopo il 439), il migliore di tutti. Il contributo recato dall'Occidente alla storiografia in questo periodo si muove anch'esso nella scia di Eusebio: Rufino d'Aquileia ne tradusse in latino l'opera, continuandola fino al 395 con l'aggiunta di altri due libri Gerolamo scrisse il De viris illustribus, attingendo il materiale dalla biblioteca di Cesarea; Sulpicio Severo (morto nel 420 circa) scrisse una cronaca universale che giunge fino all'anno 400 e diede nella Vita S. Martini un modello di agiografia letterariamente di gran lunga superiore ai tentativi precedenti di Ponzio (Vita Cypriani), di Paolino di Milano (Vita Ambrosii) e a quello di poco posteriore di Possidio (Vita Augustini). Carattere storico ha anche in parte, l'opera di Epifanio di Salamina (morto nel 403), il Panarion o Haereses, che c'informa sulle varie eresie cristiane. Alla storiografia si ricollegano inoltre, per il loro carattere documentario, alcuni resoconti di pellegrinaggi in Terra Santa, alcuni dei quali presentano un notevole interesse sotto l'aspetto letterario e linguistico, come la Peregrinatio Egeriae (o Aetherias), l'Itinerarium a Burdigala Hierusalem usque, il De situ terrae sanctae, il Breviarius de Hierosolyma, ecc. Nella esegesi biblica si ha il prevalere momentaneo della scuola antiochena e del suo metodo: rappresentanti insigni ne sono Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia e soprattutto Giovanni Crisostomo (morto nel 407) che dall'esegesi trasse la sostanza e l'ispirazione per le sue mirabili Omelie, rimaste modello insuperato di eloquenza cristiana: in essa i dettami della retorica vengono rivissuti intensamente da una fantasia fervida ed esuberante che ravviva le formule e gli artifizi con le risorse di immagini, paragoni e descrizioni di intensa potenza evocativa ed emotiva. A Crisostomo si ricollegano, per motivi di polemica o di apologia, un gruppo di altri «antiocheni»: Severiano di Cabala, Isidoro di Pelusio, Nilo di Galazia e Teodoreto di Ciro. Lo sviluppo della teologia dogmatica in questo periodo è condizionato in gran parte dalle vicende della controversia cristologica suscitata dall'eresia ariana, che fa passare in secondo piano la lotta contro altre eresie (macedonianismo, donatismo, pelagianesimo, priscillianismo) ramificandosi in tendenze e correnti varie (semiarianesimo, anomeismo) e determinando il sorgere delle eresie cristologiche successive (nestorianesimo e monofisismo). La reazione dei cattolici ortodossi capitanati da Alessandro di Alessandria, Eustazio d'Antiochia e, per l'Occidente, da Osio di Córdoba portò nel 325 alla riunione del primo concilio ecumenico di Nicea, dove le dottrine di Ario vennero condannate. Alla difesa dell'ortodossia nicena dedicarono tutte le loro forze in Oriente Atanasio (295-373), nelle sue orazioni Contro i Greci, Sull'incarnazione del Verbo e nei 3 Discorsi contro gli Ariani, in cui il sincero e appassionato sentimento religioso ha spesso ragione della raffinata preparazione retorica e detta ine vibranti e altissime anche nell'esposizione di un contenuto dottrinale, Didimo il Cieco, scrittore mediocre, ma grandissimo teologo, soprattutto nel De Trinitate a lui attribuito dalla tradizione: nell'Occidente i corifei della dottrina nicena furono: Lucifero di Cagliari, personalissimo scrittore che si avvicina agli africani per il suo stile nervoso e aggressivo e per il suo linguaggio popolareggiante; Ilario di Poitiers (morto nel 367) nel suo De Trinitate, nei sermoni e nei numerosi scritti esegetici, che rivelano la sua grande conoscenza della letteratura classica e Patristica, tanto latina quanto greca, e la sua tempra di scrittore tendente a una solennità ieratica dal linguaggio arcaizzante e dallo stile paludato e involuto; Ambrogio di Milano (339-397), la cui personalità storica supera di gran lunga quella dello scrittore, che pure è vivo e grande, soprattutto là dove la sua vasta conoscenza della letteratura classica e la sua sincera fede cristiana si armonizzano in un equilibrio veramente romano che si traduce anche nello stile limpido e solenne, come nel De officiis, o là dove la sua squisita sensibilità si espande nella contemplazione della natura, nell'espressione dei teneri sentimenti familiari e dell'amicizia, come nelle Omelie in Hexaemeron, nel De excessu fratris, nel De obitu Valentiniani, nel De obitu Theodosii e negli Inni. Alla controversia ariana, trascesa però nei suoi motivi contingenti per assurgere alla contemplazione serena dei principi fondamentali e a un tentativo di sintesi costruttiva, si collega in parte anche la produzione letteraria dei cosiddetti «cappadoci», Gregorio di Nazianzo (ca. 329-390), Basilio (morto nel 379) e Gregorio di Nissa (morto nel 395 circa), che rappresentano il culmine della speculazione teologica orientale di questo periodo. E se Gregorio di Nissa, che è dei tre il pensatore più profondo e più sistematico (Contro Eunomio, Omelie sul Cantico dei Cantici, Grande discorso catechetico, Dell'anima e della resurrezione), si presenta come scrittore piuttosto arido e interamente dominato dalla retorica della seconda sofistica, il fratello Basilio e più ancora Gregorio di Nazianzo si collocano tra gli scrittori più compiuti della grecità in quel periodo: più composto, il primo, e più pensoso delle necessità pratiche e immediate della chiesa e del gregge affidato alle sue cure, sa contenere in limiti essenziali anche la discussione teologica, sfrondandola di tutto ciò che gli sembra «polemica di parole o di sillabe» (Contro Eunomio, Intorno allo Spirito Santo, Epitole), materiando l'esposizione del dogma e l'esegesi biblica con la contemplazione degli spettacoli naturali e con l'osservazione acuta degli aspetti della vita quotidiana, familiari ai suoi uditori (Omelie sull'Esamerone) e risolvendo con il buon senso di uomo di governo e con la finezza di colto intenditore i discussi rapporti tra cultura ana e formazione cristiana (Discorso ai giovani sul modo di trar profitto dalla letteratura ana). Gregorio di Nazianzo è invece una ura molto più complessa e con aspetti contraddittori: portato dalle circostanze nel fervore della vita pratica e della lotta, egli non anela ad altro che alla quiete dello studio e della contemplazione, pur non negando il suo generoso apporto alla causa della verità e dell'ortodossia al cui servizio egli mise le risorse della sua raffinata educazione umanistica e retorica. Quest'ultimo aspetto brilla specialmente nelle sue splendide 45 Orazioni, tra le quali sono giustamente celebri l'Elogio di Basilio per l'espressione commossa di teneri sensi di amicizia e di ammirazione, l'Apologetico per la sua fuga, le 2 Invettive contro Giuliano per il loro impeto appassionato e soprattutto le 5 Orazioni teologiche, in cui l'autore non soltanto riesce a innalzare ad altissima dignità letteraria il contenuto dottrinale, ma gli apre anche arditamente nuove prospettive di sviluppo, attingendo dalla sistemazione filosofica del neoplatonismo. L'intimo dissidio del suo animo si esplica invece nelle sue poesie, in cui tra i numerosi versi di maniera e di derivazione letteraria spiccano come gemme i momenti dettati da un malinconico ideale idilliaco o dall'empito del sentimento religioso.



Alla splendida fioritura della Patristica greca si accomna da una parte lo sviluppo rigoglioso letteratura cristiana siriaca, che presenta nelle poesie ritmiche (mimre e madrashe) di Efrem Siro (morto nel 373) la più alta espressione di poesia religiosa di quel periodo; dall'altra parte, l'apogeo della letteratura cristiana latina, che nei suoi tre massimi esponenti, Girolamo (morto nel 420), Agostino (354 - 430) e Prudenzio (348 - dopo il 405), dimostra di aver raggiunto la maturità piena e una totale autonomia culturale, sì da porre le premesse feconde di una ancor lunga stagione letteraria che non si spegnerà del tutto neanche sotto la calamità delle invasioni barbariche. Girolamo, con la sua diuturna fatica di traduttore assicurò all'Occidente per i secoli a venire il meglio della tradizione letteraria dell'Oriente patristico e lasciò nei suoi scritti il modello di una letteratura cristiana che ha operato la sintesi tra cultura classica e cristianesimo, intrisa di spirito umanistico e formalmente di gusto squisito Letterariamente meno sorvegliato, ma scrittore ben altrimenti personale e significativo, Agostino è colui che raccoglie nella sua opera immensa e multiforme tutta la tradizione letteraria e culturale cristiana precedente, fondendola in una sintesi che influì in modo decisivo sulla formazione della civiltà medievale dell'Occidente, lievitando ben oltre con i suoi fermenti e le sue suggestioni. Teologo profondissimo e sfumato insieme egli portò a definitiva chiarificazione, linguistica e concettuale, i dogmi trinitario e cristologico (De Trinitate), impresse il marchio della propria personalità alla soluzione del problema della grazia (De natura et gratia, De gratia Christi et de peccato originali, De gratia et libero arbitrio, Contra Julianum libri IV, ecc.), sviluppò le premesse dell'apologetica precedente convogliandole in una grandiosa visione teologica della storia (De civitate Dei), ma soprattutto ci lasciò nelle Confessioni il documento unico e insuperato del travaglio di un'anima sul cammino periglioso della verità. Solo di rado la raffinata educazione retorica è d'ingombro ad Agostino scrittore, più spesso l'intima convinzione e il calore comunicativo riescono a piegare ai propri intenti anche i più vieti artifizi e a rinnovarli nella loro intima struttura originaria fino a renderli strumento di una comunicazione immediata in un linguaggio popolareggiante, come nei Sermoni. Statura più modesta è quella di Prudenzio, il maggiore fra i poeti latini cristiani: rinnovando sugli schemi classici la tradizione poetica precedente (Commodiano, Giovenco e soprattutto Damaso) egli dedicò la sua ispirazione serena a cantare la gloria di Dio, rivelantesi nella bellezza della natura e nell'economia della salvezza (Inni della giornata) e a celebrare l'eroica costanza e la fermezza dei martiri che hanno reso possibile il trionfo radioso del cristianesimo (Peristephanon). Dopo di lui la poesia cristiana annovera i carmi soavi e malinconici di Paolino da Nola, i tentativi epici di Sedulio (Paschale carmen), di Draconzio (De laudibus Dei) e di Cipriano Gallo (Heptateuchos), l'arido poemetto didattico di Mario Vittone (Alethia) e i carmi di Orienzio (Commonitorium) e di Paolino di Pella (Eucharisticos), nei quali ultimi già si esprime il senso luttuoso del tramonto di una civiltà sotto i colpi dei barbari.

L'ultimo periodo della letteratura Patristica, che comprende buona parte del sec. V fino al sec. VIII, vede in Oriente un progressivo affievolirsi delle varie manifestazioni letterarie a vantaggio della letteratura dogmatico-speculativa e ascetica. Le controversie cristologiche di questo periodo (nestorianesimo, monofisismo, monotelismo) sembrano assorbire tutto l'interesse degli scrittori cristiani di lingua greca e mentre in Occidente la letteratura cristiana continua in profondità e in estensione il processo innovativo della struttura e delle forme del linguaggio, in Oriente la lingua greca tende sempre più a fissarsi su posizioni conservatrici, tecnicamente perfette ma rigide e immobili, quasi fuori del tempo. Contro la dottrina di Nestorio, tendente a razionalizzare il cristianesimo negando la divinità di Gesù Cristo, insorse la vigorosa personalità di Cirillo d'Alessandria (morto nel 444), la cui opera vasta è multiforme briga per vigore dialettico e per chiarezza di concetti ma è quasi nulla quanto alla forma, che è fiacca, prolissa e ampollosa. Alla controversia monofisitica è indirettamente legato il misterioso Pseudo-Dionigi, che tentò nella sua opera un'audace rielaborazione di tutto il conenuto dogmatico del cristianesimo in schemi neoplatonici, una sintesi destinata a influire in modo decisivo sulla sistemazione teologica posteriore. Da lui infatti dipende la speculazione di Massimo il Confessore (morto nel 622), il più grande teologo del sec. VII, e quella di Giovanni Damasceno (morto nel 749), l'ultimo dei grandi Padri greci. La letteratura spirituale e ascetica diventa in questo periodo sempre più limitata nell'ambiente monastico: Macario l'Egizio, Orsiesi, Isidoro di Pelusio, Evagrio Pontico sono i primi rappresentanti di una copiosa letteratura monastica di carattere ascetico, che in questo periodo ha i suoi documenti negli scritti del monaco Barsanufio (Lettere), Doroteo (Lettere), Giovanni Climaco (La scala del paradiso), Giovanni Mosco (Il prato spirituale) e che troverà il terreno propizio per un rigoglioso sviluppo nella civiltà bizantina.

In Occidente la letteratura cristiana tra i secc. V-VII è caratterizzata da intenti pratici derivanti dalle gravi circostanze storiche di questo periodo, che vede il tramonto dell'impero romano e il costituirsi dei nuovi stati barbarici. Il problema dell'inserimento delle nuove popolazioni nel seno della chiesa e della loro integrazione nell'ambito della civiltà romano-cristiana fu sentito subito in modo drammatico dagli spiriti più avvertiti, dagli uomini responsabili e impronta di sé quasi ogni manifestazione letteraria. La storiografia fu la prima a tiare la giustificazione ideale di uno sviluppo in atto dall'antico al nuovo: le Storie di Paolo Orosio, il De gubernatione Dei di Salviano di Marsiglia e soprattutto la Historia Francorum di Gregorio di Tours stanno a dimostrare come la coscienza cristiana fosse pronta ad adattarsi alle nuove circostanze. E non soltanto come accettazione passiva di un aspetto ineluttabile degli accadimenti umani: l'atteggiamento di Gregorio di Tours (538 - 594), che coscientemente rinnova in modo temerario il linguaggio, è documento dalla mentalità realistica e operosa della chiesa e della cultura d'Occidente. Lo stesso spirito d'adattamento si nota nella speculazione teologica che lascia da parte le sottili discussioni dogmatiche per guardare alle necessità pratiche dei nuovi fedeli, alla riforma interiore della chiesa e del clero: questo si può dire tanto dei sermoni dei predicatori (S. Massimo di Torino, S. Pietro Crisologo, S. Leone Magno), quanto dei trattati dogmatici ed esegetici di un Cesario di Arles (morto nel 542), della produzione letteraria di Gregorio Magno (morto nel 604). Naturalmente non si deve cercare l'originalità speculativa né la novità degli sviluppi, poiché la grande eredità agostiniana, ancora tutta da assimilare, non permetteva di andare oltre: del resto, ciò che importava era di tradurla, insieme con il rimanente della tradizione ecclesiastica, in formule e in un linguaggio accessibili alla nuova mentalità. Questo intento di sistemazione e di divulgazione è appunto quello che caratterizza l'opera enciclopedica dell'ultimo grande Padre della chiesa latina: Isidoro di Siviglia (morto nel 636), la cui importante missione storica fu appunto di raccogliere nei vari campi della cultura (grammatica, storia, scienze naturali, esegesi biblica, teologia, liturgia) quel patrimonio spirituale, da cui trasse alimento la civiltà nei tempi oscuri del Medioevo.






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