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RIFORMA ECCLESIASTICA



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RIFORMA ECCLESIASTICA


L'alba del secondo millennio spuntò tra nubi e tempeste: in Germania, dove fu difficile trovare un accordo per eleggere a successore di Ottone III un suo collaterale, Enrico II (1002-l024) e in Italia, dove si ripeté la situazione di anarchia feudale verificatasi dopo la deposizione di Carlo III il Grosso. Roma e il papato sfuggirono al controllo imperiale; nell'alta Italia, sorretto da una fazione di grandi e medi signori laici, e osteggiato da una fazione di grandi e medi signori ecclesiastici, Arduino marchese di Ivrea si fece coronare re in Pavia, e vagheggiò un regno italico indipendente (1002); nel Mezzogiorno, Bizantini e Arabi si rafforzavano.

Enrico II sconfisse una prima volta Arduino, prese la corona d'Italia e diede alle fiamme Pavia che l'aveva contrastato (1004); Arduino non si riprese più, e due suoi successivi tentativi di riconquistarsi la corona fallirono (1014). A Roma, dopo vari papi di parte crescenziana (antimperiale) e tusculana (imperiale), Enrico II riuscì a imporre un certo ordine, e a consolidare il tusculano Benedetto VIII (1012-l024) che gli diede la corona imperiale (1014) e gli riconobbe il titolo di re dei Romani, rimasto poi a tutti i re di Germania ai quali spettava la promozione all'Impero. Nel Mezzogiorno, intervenne d'intesa col papa per rianimare violenti, ma sterili tentativi locali di ribellione alla sovranità bizantina (rivolta di Melo di Bari [1019], espansione bizantina nel Beneventano e nel Salernitano); ebbe qualche successo in Campania, ma fu arrestato nella Puglia dalla resistenza bizantina e da un'epidemia (1022), e morì poco dopo. Ma, nel bilancio complessivo dell'attività italiana dell'ultimo imperatore della dinastia di Sassonia, va ascritta la sua fattiva collaborazione col papa, sia per restituirgli la libertà dalle fazioni romane, sia per favorire l'azione appena avviata di riforma dei costumi ecclesiastici, sia infine per concorrere alla lotta contro i musulmani che infestavano il Tirreno.



I tempi di Enrico II coincidono d'altronde con gli albori di rinascita che fu propria del Mille. Infatti l'  xi fu il secolo, anzitutto, di un risveglio religioso senza precedenti: la lezione dei monaci borgognoni di Cluny si proò anche in Italia, e dai monasteri riformati, da Camaldoli a Vallombrosa, dalla Fruttuaria a Fonte Avellana, penetrò nel popolo e salì ai potenti, ecclesiastici o laici che fossero. ½ portò fermenti nuovi: si manifestarono, nel nome di Dio e per la salvezza dell'anima, un'intensificazione del lavoro in ogni sua forma, uno sforzo di riordinare le strutture del reggimento politico e religioso e dei complessi associativi, una combattiva insofferenza dell'avanzata musulmana, non mai arrestata, nel mondo cristiano. Su questo terreno si verificarono, profondamente connessi, eventi apparentemente estranei tra loro: una salita verticale delle curve della popolazione e della produzione, un'accelerazione degli scambi, una ricomposizione della società nella cornice della città serrata entro le sue mura e sempre più nettamente individuata; e d'altra parte, disagio e resistenza di grandi privilegiati, conti, vescovi-conti, vescovi quasi-conti, in posizioni di potere più o meno compatibili con una società in evoluzione verso forme nuove, in parte simili, in parte affatto estranee a quelle feudali. Papato e Impero furono sorpresi dalla crisi. Corrado II di Franconia il Salico (1024-l039), successore di Enrico II, seguendo la linea tradizionale, si adoperò per ricomporre nella piramide gerarchica feudale l'Impero, rotto in grandi feudi avidi d'indipendenza, e fece assegnamento a questo fine sul papa Giovanni XIX (1024-l032), dal quale fu incoronato nel 1027 alla presenza di due re, a spettacolare conferma dell'unità e universalità della Santa romana repubblica. Ma quando s'illuse di regnare di fatto, e non solo di diritto, sul Regnum Italiae, incontrò la resistenza armata di Milano, rapidamente cresciuta, col vescovo Ariberto alla testa (1038); Ariberto, spinto dalle circostanze a scegliere tra l'imperatore e i concittadini, aveva infatti preferito questi ultimi, chiamandoli a raccolta intorno a sé per l'affermazione di una civitas autonoma, solidale e ambiziosa di espansione e di predominio in terra lombarda. E fu appunto durante l'assedio di Milano che Corrado II, sperando di seminare la discordia tra i cittadini, della cui solidarietà aveva fondatissimi motivi di dubitare, legiferò l'irrevocabilità e l'ereditarietà dei feudi minori (Constitutio de feudis, 1037).

Milano dei tempi di Ariberto offre un esempio insigne, ma non unico, della conurazione nuova che veniva assumendo l'Italia come terra di città, costellazione di centri politico-sociali, culturali, economici aventi ciascuno un proprio volto e proprie istanze di autonomia, avviata a concretarsi nell'ordinamento comunale. Ma anche Firenze, sotto l'egida non di un prelato, ma di un marchese, Ugo di Toscana, e della sua discendenza, aveva già tolto a Lucca il rango di polo d'attrazione delle forze più vive della Toscana; e Pisa e Genova, Amalfi e Venezia si comportavano come Stati indipendenti sia negli ordinamenti interni sia nelle iniziative esterne, cioè nella politica marinara, che per le prime tre significava cacciata dei musulmani dal Tirreno e condominio o predominio sulle sue acque e isole, e, per Venezia, conquista dell'Adriatico.

Un altro mondo conviveva con questo, in una simbiosi quanto mai precaria: quello dei grandi feudi come le grandi marche piemontesi d'Italia (unite ai feudi transalpini dei Savoia) e del Monferrato, le venete di Verona e del Friuli (quest'ultima soggetta al patriarca d'Aquileia), le tosco-umbre di Toscana, di Camerino e di Spoleto; qui la tradizione feudale prevaleva sull'innovazione cittadina, come la componente rurale della popolazione prevaleva su quella urbana. E un terzo mondo, infine, era costituito dal Mezzogiorno, a sua volta dissociato in organismi instabili: la Sicilia musulmana, divisa in principati discordi, la Calabria e la Puglia bizantine, in guerra cronica, coi musulmani dell'isola; i principati di Benevento, di Salerno e di Capua, frammenti dell'antico ducato longobardo; i ducati di Napoli, Gaeta e Sorrento, isole di una vitalità economica, sociale e culturale diversa e più intensa di quella dell'ambiente circostante. Su questo terzo mondo, poi, cominciava a proarsi e a imporsi l'elemento immigrato che nel giro di meno di un secolo ne avrebbe radicalmente mutato e fissato per oltre ottocento anni il destino: i Normanni.

La storia d'Italia, fino a ora frammentaria e dissociata, se non si compose secondo una linea unitaria s'inserì però in un più ampio e coerente quadro ideale con lo sviluppo della riforma ecclesiastica, che fu un evento religioso, morale, politico e altresì economico- sociale di portata europea. A produrla concorse anzitutto il movimento monastico di Cluny; ma a dargli forma e vitalità fu la successiva collaborazione del papato e dell'Impero, che sensibilizzò tutti i ceti sociali, dai più elevati ai più umili. Enrico III (1039- 1056), convinto assertore della causa della riforma, fece eleggere i primi papi riformatori, vale a dire i precursori di Gregorio VII, da cui la riforma si suol chiamare nel suo complesso gregoriana: Clemente II, Damaso II e, dopo i brevissimi regni di questi, Leone IX (1049-l054) e Vittore II (1055-l057), nella cui cerchia operarono i grandi teorici della riforma stessa, Umberto di Silvacandida, Pier Damiani e Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII. Papa e imperatore erano certi che un radicale rinnovamento della vita ecclesiastica fosse la premessa per l'instaurazione della Sancta romana republica, cioè di quella ideale unità religiosa e politica del mondo sotto la guida dei due sommi poteri, per la salute dei popoli affidati da Dio alle loro cure, che è l'idea-madre di tutto il pensiero medievale.



L'alleanza tra il papa e l'imperatore provocò violente reazioni. Reagirono i Normanni anzitutto, che sotto l'audace condotta degli Altavilla, fra il 1040 e il 1050 circa, si erano saldamente piantati in Puglia e in Campania, aspirando alla conquista del Mezzogiorno, dove i papi avevano imponenti interessi; il possesso di Benevento diede luogo a una guerra, in cui Leone IX, alleato ma non soccorso da Enrico III, fu sconfitto e catturato da Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo (Civitate, 1053), e indotto a riconoscere la preminenza normanna nel Mezzogiorno. Contemporaneamente la grande marca di Toscana, per la morte del marchese Bonifacio, e per il matrimonio della vedova Beatrice col duca Goffredo II, duca della Bassa Lorena (1053), vassallo e nemico di Enrico III, nonché del pontefice, rendeva vulnerabile Roma anche da nord. L'anno seguente, infine, lo scisma di Michele Cerulario, sottraendo il mondo greco all'obbedienza romana (1054) aggravava ancora la situazione del papa. La morte di Enrico III, che lasciava un erede in minore età, Enrico IV (1056-l106), mentre era papa Vittore II (1054-l057), dissipò in parte le difficoltà: salì al papato Niccolò II (1059-l061), che, con l'assistenza di Ildebrando, iniziò una politica intesa ad attuare, senza il concorso o la tutela dell'imperatore (che praticamente non c'era), ma con l'appoggio di potenti e di umili, acquisiti alla causa della riforma, la piena indipendenza della Chiesa da qualsiasi ingerenza laica, quella libertas Ecclesiae, che equivaleva alla supremazia assoluta. Niccolò II, infatti, non solo rinnovò la condanna della simonia e del concubinato, ma decretò che, per l'avvenire, l'elezione del papa fosse riservata ai cardinali romani e sottoposta all'approvazione del clero e del popolo romano, senza alcun intervento esterno, nemmeno da parte dell'imperatore, a cui era richiesto solo un atto formale di gradimento (1059). Il papa si cautelò dalle conseguenze di questo gesto, che in Germania fu accolto con sdegno, riconoscendo Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero come signori, e suoi vassalli, per tutte le terre che avessero sottratto ai Bizantini scismatici e ai musulmani infedeli e ricondotte alla Chiesa; come a dire, non solo il Mezzogiorno, ma anche la Sicilia, di cui Roberto iniziò subito la conquista (Messina, 1061). Al tempo stesso, la causa papale trovava crescenti consensi nei domini dei marchesi di Toscana e in Lombardia, dove s'accendevano violenti conflitti, specie a Firenze e a Milano, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari; vescovi o prelati simoniaci (o presunti tali) questi, popolani quelli (detti a Milano patarini), confortati e controllati insieme da grandi assertori della riforma: Pier Damiani, Anselmo da Baggio, Giovanni Gualberto.

Alla morte di Niccolò II, la corte imperiale tentò d'impedire, facendo leva sui fautori italiani, che gli succedesse un nuovo papa riformatore, e subì lo scacco di vedere eletto, secondo le norme di Niccolò II, Anselmo da Baggio col nome di Alessandro II (1061-l073). Non vi si adattò, ruppe col papa, gli contrappose un antipapa, Cadalo di Parma (Onorio II), intrigò con Bisanzio per creare difficoltà ai Normanni alleati con lui, accese defezioni, tumulti e guerre in Lombardia, in Toscana, a Roma. Con tutto ciò, nel 1065, Alessandro II poteva considerarsi vincitore, e ritenere perfino opportuno frenare i movimenti popolari lombardi e toscani in suo favore, grazie a una serie di fatti che consentivano di sperare giorni meno tempestosi: la ssa dell'antipapa, la fine della reggenza e l'assunzione diretta del potere da parte del giovane Enrico IV, che sotto certi aspetti si presentava come incline a riprendere la politica del padre, una più risoluta adesione del marchesato di Toscana alla Santa Sede (specialmente, dopo la morte di Goffredo, da parte della vedova Beatrice), una cauta ma fruttuosa politica di conservazione e di consolidamento dell'alleanza coi Normanni, proprio nel momento dei loro maggiori successi, la conquista di Bari, per opera di Roberto il Guiscardo, che segnò la fine della dominazione bizantina in Italia (1071) e di Catania e di Palermo (1071-l072), per opera di Ruggero, fratello di Roberto, che inferse un colpo mortale alla dominazione musulmana nell'isola. Montecassino e i territori liberati dagli Arabi in Sicilia divennero centri di proazione della riforma in ambienti insidiati rispettivamente da scismatici e da infedeli, e di influenza del papato, che per il tramite dei principi normanni vassalli vi imponeva (sia pure facendo molte larghe concessioni) la sua alta sovranità.



Ma, in questi stessi anni, Enrico IV aveva cercato di imporre quanto più possibile la sua autorità all'episcopato e alla feudalità della Germania, aveva sposato Berta di Savoia, per mettere radici in Piemonte, s'era fatto difensore, nei moti patarinici di Milano, della parte avversa, e tutto ciò evitando una rottura con Alessandro II, che a sua volta usò con lui la massima prudenza. Questo fragile equilibrio si spezzò quando ad Alessandro II succedette Gregorio VII (1073-l085), Ildebrando di Soana, che da un trentennio esercitava alla corte pontificia una coerente, costante, irresistibile attività di consigliere e stimolatore della riforma, da lui concepita come premessa della definitiva conquista di una libertas Ecclesiae, coincidente con la supremazia assoluta del papato sul mondo, quale risulta dalle lapidarie espressioni del suo Dictatus papae. La rottura tra Gregorio VII ed Enrico IV aprì una guerra quasi semisecolare, la cosiddetta lotta delle investiture (1075-l122), che interessò tutta la cristianità, ma ebbe in Italia i suoi momenti più drammatici. Poiché Gregorio esigeva ed Enrico rifiutava la rinuncia, da parte imperiale, al tradizionale diritto di conferire investiture ecclesiastiche, episcopali e abbaziali, il papa scomunicò e dichiarò deposto l'imperatore, e sciolti i suoi vassalli e sudditi da ogni dovere di obbedienza (1076). A Enrico IV mancò la solidarietà di gran parte dei principi germanici, i quali gli contrapposero Rodolfo di Svevia. L'imperatore allora imboccò l'unica via di salvezza che gli restava e accettò di venire in Italia per chiedere il perdono del papa, che gli fu concesso, dopo i rituali atti di contrizione e di umiltà, nel castello di Canossa (1077), dove i due sovrani furono ospitati per l'incontro dalla contessa Matilde, lia ed erede di Bonifacio e Beatrice di Toscana, la maggiore potenza feudale d'Italia e la più fedele al papato. La calcolata umiliazione fruttò a Enrico IV la ripresa del controllo, almeno parziale, della Germania e un riacquisto di potenza tale da indurlo a venir meno agli impegni presi col papa in materia di investiture. Donde una nuova scomunica, a cui l'imperatore rispose con la deposizione del papa, l'elezione di un antipapa (Clemente III, arcivescovo di Ravenna, eletto a Bressanone nel 1080) e una spedizione in Italia. Enrico IV mosse verso Roma e, dopo un lungo assedio, vi entrò a forza, insediò in Laterano l'antipapa e ricevette da lui la corona imperiale (1084). Gregorio VII, rinserrato in Castel Sant'Angelo, attendeva i soccorsi normanni. Roberto giunse infine con uno stuolo di soldati; ma Enrico IV evitò lo scontro e, allontanatosi con l'antipapa, il seguito e l'esercito, ripassò le Alpi, mentre i Normanni riconducevano bensì Gregorio VII in Laterano, ma mettevano a sacco Roma; tanto che il papa, profondamente turbato, lasciò poi la città insieme col Guiscardo e andò a morire a Salerno (1085). Vittore III (1086-l087) e Urbano II (1088-l099) ebbero pontificati difficili, contrastati dall'antipapa Clemente e dall'imperatore. Per questo i successi italiani rimasero infruttuosi; senza pace in Germania, battuto in Italia in una nuova spedizione dalle forze matildine, insidiato dai li Corrado ed Enrico, che gli contesero la corona, Enrico IV, nel ventennio in cui regnò dopo l'incoronazione romana, declinò continuamente, e precipitò da ultimo verso una fine (1106), da vinto e da esule, non meno triste di quella di Gregorio VII. Intanto il papato riprendeva quota, e col bando (1096) e il trionfo della prima @19Crociata#4344181Z3ZZ@*19, polarizzava ancora una volta intorno a sé il mondo cristiano e l'Italia: in particolare, l'Italia marinara, quella che faceva capo a Pisa, a Genova, ai porti normanni del Mezzogiorno, a Venezia, interessata all'impresa da incomprimibili esigenze di espansione. Qui erano le punte più avanzate di aree economicamente e socialmente in processo di rapido sviluppo, la valle del Po, la Toscana, la Campania, in misura minore la Puglia, per cui i grandi porti italiani venivano affermandosi sempre più come mediatori di correnti di traffico tra i paesi d'oltremare e l'Europa continentale e settentrionale. Venezia aveva già la signoria dell'Adriatico, e in concorrenza coi Normanni, divenuti padroni della Puglia, svolgeva un'irruente politica di espansione economica nel mondo bizantino, favorita da larghi privilegi imperiali; Genova, Pisa, Amalfi avevano conquistato il controllo del Tirreno combattendo i musulmani e tenendoli lontani dalle isole e dalle coste. Alle loro spalle, sorgevano nuove condizioni di vita: favorevoli nel territorio padano e toscano, dove i Comuni erano espressione di un'intensa vitalità economica e politica; meno favorevoli nel Mezzogiorno, dove l'azione unificatrice dei Normanni contrastava lo sviluppo delle città marinare.








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