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FORSE UN MATTINO. - Eugenio Montale

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FORSE UN MATTINO . - Eugenio Montale


"Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida,rivolgendomi vedró compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sará troppo tardi; ed io me n'andró zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto."


Sono due le ferme intuizioni del Montale:

Ø  la percezione del nulla assoluto, in cui le cose che ci circondano ed accadono sono unicamente insulse illusioni;

Ø  la percezione del male di vivere, che ha una dimensione cosmica, che coinvolge tutti gli esseri viventi e non.



Questa lirica è lo specchio della sua prima "convinzione".

La struttura metrica del poema denota una suddivisione dello stesso in due quartine di versi lunghi (solo il terzo ed il quarto sono veri e propri endecasillabi) con cesura prevalentemente in "A >" ; le strofe sono caratterizzate dall'accostamento, vario, di versi brevi che conferiscono alla poesia anomali ritmi di lettura. Le rime sono alternate secondo la schematizzazione A-B-A-B, C-D-C-D. Da segnalare la presenza di enjeabmeant tra 3° e 4° verso, tra 5° e 6° e tra 7° ed 8° anche se non viene a mancare l'utilizzo di connettivi logici semplici tra un verso e l'altro, come punti, virgole, due punti.

Da un punto di vista lessicale, il poema non presenta parole difficili: ma, per la "natura ermetica" dello stesso, è il significato di fondo delle parole difficile da intendere. Interessante sottolineare, come siano utilizzati in forte contrasto, termini astratti (miracolo, nulla, terrore, vuoto) e concreti (alberi, case, colli). La "vera realtà" non è quella data dai termini concreti, che danno origine "all'inganno consueto" , ma da quelli astratti: il nulla, il vuoto.

Gli aggettivi risultano abbastanza inutilizzati, se non nel momento in cui l'autore vuol dare piena visione del "nulla dietro ogni cosa" definendo "arida" l'aria, e "consueto" l'inganno, l'illusione. I verbi nella lirica sono adoperati in senso urativo. Staticità (il vedere) , ma soprattutto dinamicità (voltarsi, andare, rivolgersi, accampare) e sensazioni intrinseche all'autore stesso, sono strettamente collegate nel complesso metaforico che la poesia assume: difatti, i verbi dinamici sono comunque verbi psicologici, derivanti dallo stato d'animo dell'autore, ma soprattutto, immaginati.

Non sono facilmente deducibili segnali di dimensione spaziale o temporale, anche se il tutto è strettamente condizionato da una supposizione dello scrittore (il "Forse" iniziale): l' "aria di vetro" induce a dedurre che il contesto abbia luogo in una mattinata invernale. Come già detto in precedenza, consueto l'utilizzo di connettivi semplici, che rendono la sintassi poco articolata. La sintassi del poema, presenta varie parafrasi: "nulla alle mie spalle . dietro di me . che non si voltano . " , quasi che gli uomini, nel non volersi voltare, rimanessero sedotti dalle apparenze, non riuscissero ad andare al di là, chiusi nelle loro false certezze. Non sono però presenti, pronomi con funzione anaforica, cataforica o esoforica ed ellissi di tipo nominale, verbale o frasale.

Anche se non sono numerose le ure retoriche, per ciò che riguarda l'analisi semantica della lirica, questa ha un forte valore metaforico:

v  "l'aria di vetro, arida" : un'aria cristallina, asciutta, tipica di una mattina d'inverno. Questa espressione, assume anche la ura d'analogia, in quanto sono messe in relazione due parole dal significato molto distante nel linguaggio comune.

v  "un terrore di un ubriaco" : si dà l'idea di una distorta visione delle cose che ha un uomo in stato di ebbrezza, che vede scomporsi ed alterarsi l'aspetto delle cose.

v  "gli uomini che non si voltano": cioè gli uomini che non guardano in faccia alla vacuità della realtà. E' questa una metafora accostabile a quelle utilizzate dal Vittorini dei "topi scuri" e del "piffero".

Nella parte iniziale del terzo verso ( . il nulla alle mie spalle . ), vi è una ura di suono: la ripetizione costante della stessa consonante in parole consecutive, determina una consonanza, conferendo maggiore risalto al significante della parola.

Il motivo di fondo della poesia di Eugenio Montale è una visione pessimistica e desolata della vita del nostro tempo e che dinanzi al "male di vivere" non c'è alcun altro bene che la "divina indifferenza", ossia un dignitoso distacco dalla realtà. Nella rarefatta atmosfera di una mattinata invernale (aria di vetro) il poeta prende consapevolezza della totale vanità della vita. Nella prima quartina descrive la rivelazione del vuoto: un miracolo spezza "l'inganno consueto" e gli consente di intuire la vacuità dell'esistenza. Nella seconda quartina la folgorazione svanisce ed improvvisamente tornano a profilarsi le cose consuete (alberi, case, colli), ma il poeta ora sa che nella vita tutto è apparenza, come quando su uno schermo si vedono proiettate immagini illusorie.

Il poeta rimane solo nella sua consapevolezza, se ne va zitto: Montale afferma la solitudine esistenziale dell'intellettuale per il quale la consapevolezza del nulla è un privilegio, ma anche una condanna.


COLLOCAZIONE DELL'AUTORE NELLA "DIMENSIONE FASCISTA"


Montale ed il contesto storico-politico - Alcuni sostengono che anche se si fossero verificati dal punto di vista storico eventi diversi, cioè anche se il fascismo non avesse turbato fin dal profondo le coscienze degli italiani e dell'Europa tutta, l'uomo degli inizi del '900, ed il poeta stesso, avrebbe in ogni caso scritto versi così duri come pietra, avrebbe sentito l'angoscia e il dolore di una vita così diversa dalle aspettative, perché questa angoscia aveva radici profonde nel suo animo e la storia non aveva fatto altro che evidenziare un processo già in atto. A conferma di ciò, viè un'intervista fatta ad Eugenio Montale da un giornalista intorno agli anni '50. Montale, alle provocazioni del giornalista che voleva veder la sua poesia come frutto bacato di un'epoca di sofferenze, si ribella e rinforza il concetto del suo dolore quale dolore generazionale e non solo storico.

Alcuni studiosi hanno invece voluto sottolineare come il primo "input" alla poesia ermetica venga proprio dato dalla raltà storico-politica di quegli anni.

Mentre Mussolini iniziò la scalata verso il potere, nasce in parallelo una nuova relazione con la cultura. Essa non deve essere di ostacolo al regime, non abituare le menti alla confutazione, deve bensì stimolare alla conferma ed all'assenso.

Contrariamente a quanto si pensi, eventi così dolorosi non poterono non lasciar segno nella vita e nella produzione letteraria di uno scrittore. Infatti nelle poesie di Ungaretti il peso di quella guerra inutile è il vero ispiratore di ogni verso. L'ermetismo di Ungaretti, è tutto racchiuso nell'espressione "allegria di un naufrago" e le parole si rincorrono incalzante e poi si fermano in lunghi spazi bianchi proprio come si era fermata la vita di tanti giovani.

Ancora, Quasimodo, avverte profondamente nei suoi versi l'urlo della madre che va incontro al lio "crocifisso" sul palo del telegrafo e sente l'angoscia per quei morti che gridano vendetta. Ora egli chiede solo il silenzio, e quel silenzio diventa la logica della sua . . .., del suo ermetismo.

Infine, lo stesso Montale, che aveva asserito il contrario, in più punti vuole porre le distanze tra la sua poesia umile, che utilizza versi secchi e parole aspre, e quello dei poeti laureati come D'Annunzio che avevano servito con i loro versi il regime.

Così, l'assunzione di una poetica, diventa l'assunzione anche di una posizione politica. Se non ci fosse stato il dolore della guerra, della sofferenza data dal fascismo, "il male di vivere" arebbe avuto toni più smorzati e meno intensi.

In conclusione, è difficile separare il pensiero del letterato dall'origine storica e dall'ideologia politica. Ogni poeta, in ogni epoca resta il segno più profondo della sua realtà storica e sociale.


Vittorini ed il contesto storico-politico - La più volte rivendicata autonomia espressiva vede Vittorini contrapposto alla linea comunista di Zidanov, il ministro della proanda sovietica. Entrando nel merito, diciamo che nel 1945 fonda "Il Politecnico", rivista di cultura che però spazia anche su temi sociali, politici, economici. La veste grafica innovativa e la semplicità espressiva catturano l'attenzione anche delle masse; ma il punto su cui si aprono le ostilità è un'affermazione scritta da Vittorini sul primo numero del 29-9-l945, che diceva: "Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l'uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti ad eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura". Proponendo un intervento politico della cultura, Vittorini si mette in contrapposizione con il dirigismo del PCI, che tendeva ad inglobare gli intellettuali nelle direttive del partito. Poco tempo dopo, Mario Alicata, intellettuale comunista, dichiara il fallimento del Politecnico su due fronti: quello sociale, avendo deviato la letteratura dall'impegno nell'analisi dei problemi delle masse; quello politico, non essendo riuscito a coinvolgere nel dibattito i ceti medi, partecipazione che avrebbe favorito il dialogo. Nel Luglio-Agosto 1946, Vittorini risponde rivendicando l'autonomia della cultura rispetto alla politica, sostenendo anche la sua universalità, contrapposta alla particolarità della politica. La voce di Togliatti si fa sentire presto ed è una critica all'uso che i redattori del Politecnico fanno dell'informazione, sostituendola all'educazione, di gran lunga più importante. Vittorini si rifiuta di "suonare il piffero" per la rivoluzione, e non è disposto a rinunciare alla proposta di nuovi autori nelle colonne del suo mensile, aggiungendo che la cultura può produrre i migliori effetti, solo se assolutamente spoliticizzata ed estranea alle logiche di partito. Pomo della discordia furono quasi sicuramente le diverse formazioni dei due dibattenti, aperta ed avanguardista quella di Vittorini, classica ed ottocentesca quella di Togliatti.

Nel 1947, data l'inconciliabilità di queste due vedute, "Il Politecnico" chiude le pubblicazioni. Ma il problema dei rapporti tra partito ed intellettuali rimarrà una faccenda scottante per tutto il dopoguerra, aggravato dalle posizioni filosovietiche acquisite dal PCI, che gli alieneranno l'appoggio di moltissimi letterati.






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