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LE CARATTERISTICHE DEL NUOVO SISTEMA ITALIANO DI DIR. PROCESSUALE CIVILE INTERNAZIONALE

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LE CARATTERISTICHE DEL NUOVO SISTEMA ITALIANO DI DIR. PROCESSUALE CIVILE INTERNAZIONALE





Come già abbiamo detto in sede di presentazione, il legislatore ha opportunamente fatto la scelta di regolamentare nella legge 218 la materia, in passato erroneamente considerata autonoma, del dir. processuale civile, in quanto materia connessa al dir. int. priv. E' chiaro come questa scelta, oltre a comportare una maggiore armonizzazione tra le norme di queste due materie che sono indubbiamente connesse, consente anche una migliore interpretazione. Il metodo adottato dal legislatore nel regolare il dir. processuale civile int. è quello di porre i problemi nello stesso ordine con cui essi si presentano al giudice: prima le norme che delimitano la giurisdizione, poi quelle sui conflitti di legge e infine quelle relative all'efficacia degli atti giurisdizionali stranieri. La riforma del 1995 presenta grosse novità rispetto al sistema del '42. Le norme del 42 si caratterizzavano per il fatto di assegnare alla competenza della giurisdizione italiana una gamma vastissima di fattispecie: in particolare, riteneva il foro competente in ogni caso in cui il convenuto fosse un cittadino italiano e, nel caso che fosse straniero, attraverso il cumulo di una serie di criteri, anche qui quasi sempre.In pratica non si ammettevano ostacoli alla composizione delle liti che avessero rilievo per il nostro ordinamento. Anche in tema di efficacia degli atti giurisdizionali stranieri le cose erano simili: infatti essa era subordinata al previo giudizio (detto di delibazione) di una nostra corte d'appello. Coerente a quanto detto finora era anche la soluzione relativa all'ipotesi che eventuali pendenze giudiziarie all'estero potessero impedire la prosecuzione di processi in Italia: i processi che si svolgevano all'estero erano considerati da questo punto di vista irrilevanti. Su questo sistema, ancor prima dell'intervento legislativo del '95, aveva già avuto modo di agire la convenzione di Bruxelles del '68, mirante a creare uno spazio giurisdizionale europeo in cui operano autonomi criteri di giurisdizione e una disciplina che tende al riconoscimento degli atti giuridici stranieri. Una disciplina, quella convenzionale, di tipo liberista, opposta rispetto a quella del '42 e destinata a fare sentire la sua influenza nella legge di riforma. E di ciò si rendeva conto il legislatore, anche se nella legge delega che assegnava la competenza al governo, in realtà si partorì il classico topolino dalla montagna, prevedendosi rispetto al passato poche modifiche. Opportuna quindi appare la scelta della commissione del governo (in particolare del Ministero di grazia e giustizia) di interpretare in modo ampio il suo mandato.



Il problema dell'ambito della giurisdizione italiana è affrontato negli artt. dal 3 al 12, opportunamente preceduti dalla norma dell'art. 2 che fa salva l'applicazione delle norme convenzionali e quindi della convenzione di Bruxelles. Divengono quindi tacitamente abrogati alcuni artt. del c.p.c. che si occupano della materia in modo incompatibile con la nuova disciplina, in particolare le norme relative alla inderogabilità per convenzione della giurisdizione italiana, quelle relative a giudizi pendenti davanti a giudici stranieri, la giurisdizione rispetto allo straniero .Tra le novità più rilevanti che presenta la legge di riforma, si segnala quella dell'abbandono di una separazione classica tra due gruppi di norme: da una parte le norme che delimitano i poteri dello Stato, cioè dei suoi organi giudiziari in generale; dall'altro quelle che si occupano della ripartizione di questi poteri tra i giudici. Le norme del primo gruppo venivano chiamate norme sulla competenza internazionale, quelle del secondo norme sulla competenza interna. L'abbandono di questo criterio è testimoniato dal fatto che nella legge 218 la competenza della giurisdizione italiana è individuata anche grazie alle norme sulla competenza territoriale, che tradizionalmente si riferivano al secondo gruppo. Questo fatto è reso esplicito nell'art. 3 della legge 218, dove si dice che la giurisdizione italiana vale (oltre che in base all'art. 77 c.p.c.) anche negli altri casi previsti dalla legge: in primo luogo nel 2° comma dello stesso art. 3, dove si legge che la giurisdizione italiana sussiste anche in base ai criteri di competenza territoriale previsti per i giudici per le materie non previste dalla convenzione di Bruxelles; inoltre in materia di giurisdizione volontaria si prevede che la giurisdizione vale, oltre che nei casi indicati nell'art 9, anche quando è prevista la competenza territoriale di un giudice italiano. Dubbi circa l'applicazione di questi principi riguardano le materie della ssa, assenza, morte presunta e la materia successoria: in senso contrario si potrebbe dire che queste materie prevedono dei criteri autonomi per la determinazione della competenza; in senso favorevole si potrebbe dire che l'art. 3 per le materie escluse dalla convenzione di Bruxelles (e queste lo sono) afferma che la giurisdizione viene individuata anche grazie ai criteri di competenza territoriale. Inoltre la ssa, l'assenza e la morte presunta rientrano in quella giurisdizione volontaria per la quale l'art. 9 ha esplicitato il riferimento alla competenza per territorio, mentre per la materia successoria si può richiamare una norma del c.p.c. che fa riferimento alla competenza territoriale e che veniva utilizzata prima della riforma per determinare la giurisdizione del foro.

Occorre comunque dire che già la convenzione di Bruxelles contiene una chiara rottura rispetto alla tradizionale separazione di cui abbiamo parlato, in quanto in alcuni casi il giudice competente viene trovato individuando la giurisdizione competente, mentre in altri la soluzione in materia di giurisdizione viene individuata determinando il giudice competente. Anche in questo caso il legislatore alla fine non si può certo dire che abbia operata radicali rotture rispetto al passato: infatti ha partorito un sistema misto, con un gruppo di norme dedicato alla soluzione dei problemi di giurisdizione e contemporaneamente prevedendo la soluzione attraverso il ricorso ai criteri della competenza territoriale. E peraltro il ricorso ai criteri della competenza territoriale è alla fine molto ridimensionato rispetto a quanto era previsto nel progetto di legge. Infatti il rinvio che lì si faceva alla competenza territoriale, motivato dalle difficoltà interpretative che derivano dalla presenza di due gruppi di norme assolutamente separate, andò subito a sollevare critiche in dottrina. Infatti la presenza di una disciplina apposita sulla giurisdizione evidenziava che le difficoltà interpretative erano state risolte in altro modo, evidentemente ritenendole eccessive per essere risolte dal criterio della territorialità; inoltre tale criterio finiva con l'estendere a dismisura la giurisdizione interna, visto che il c.p.c. alla fine in qualche modo un giudice competente lo individua sempre. Tenendo conto di questi rilievi assolutamente ineccepibili il legislatore ha ridimensionato le intenzioni originarie e ha relegato il criterio della competenza territoriale a un ruolo subordinato, per altro applicabile evidentemente solo alle materie non previste dalla convenzione di Bruxelles.

Un'altra importante novità della legge di riforma è l'abbandono, almeno in linea di principio, del criterio della cittadinanza del convenuto. Infatti il legislatore ha voluto modificare quello che era il criterio, utilizzato in passato, dell'illimitatezza della giurisdizione in caso di cittadinanza italiana e della presenza di limiti in caso di convenuto cittadino straniero. A questa impostazione generale sono stati sostituiti criteri come la residenza, o il domicilio in Italia del convenuto, o il criterio della presenza in Italia del rappresentante (con capacità di stare in giudizio) del convenuto; a questi criteri si aggiunge quello dell'accettazione della giurisdizione. Questa metamorfosi si ispira in modo palese a quanto contenuto nella convenzione di Bruxelles dove come criterio generale viene adottato quello del domicilio del convenuto. Nonostante quanto detto finora il criterio della cittadinanza rimane applicato per un numero rilevante di ipotesi. Quindi è chiaro come tale criterio non è stato escluso, ma solo limitato, evidentemente a tutti i casi che non rientrano nella convenzione di Bruxelles. Dando ascolto alle critiche relative all'eccessiva dilatazione della giurisdizione italiana derivante dall'applicazione delle norme sulla competenza territoriale, il legislatore ha deciso di utilizzarla solo per i casi che presentano collegamenti significativi con l'ordinamento italiano. Nell'individuare tali collegamenti il legislatore ha voluto tenere conto delle convenzioni internazionali di cui l'Italia è parte e in particolare di quella di Bruxelles. Tenendo presente questo fatto possiamo dire che i criteri di giurisdizione recepiti consistono in una serie di fori alternativi (cioè sceglibili dall'attore che non intende accettare quello del domicilio del convenuto). Questi fori alternativi vengono individuati sulla base di tre tipi di criteri: 1) quelli indicati nella convenzione come criteri di competenza speciali; 2) quelli volti a evitare il sovrapporsi di diverse pendenze aventi il medesimo oggetto; 3) quelli posti a tutela del contraente più debole.

La legge 218 ha in realtà ampliato l'ambito di applicazione della convenzione di Bruxelles in riferimento all'applicabilità dei criteri alternativi al principio del domicilio del convenuto, poiché consente la loro applicazione anche per l'ipotesi che il convenuto non sia domiciliato in uno degli stati che hanno aderito alla convenzione, naturalmente nell'ambito delle materie previste dalla convenzione stessa. Lo scopo di questa estensione è quello di rimuover le situazioni di indubbio svantaggio di cui sarebbero stati vittima i soggetti domiciliati in stati terzi. Infatti a costoro sarebbe stato impossibile sottrarsi al criterio del domicilio del convenuto , mentre i domiciliati nei paesi aderenti avrebbero potuto usare i criteri alternativi di cui abbiamo detto. Rendendo applicabile (per le materie previste dalla convenzione) i criteri convenzionali anche al convenuto domiciliato in paesi terzi, tali discriminazioni sono state eliminate.Secondo una parte della dottrina da tutto questo ragionamento resterebbero escluse le norme relative alla protezione del contraente più debole nei rapporti di assicurazione,in quanto concepite dalla convenzione di Bruxelles come autonome; ma questa idea è spazzata via dall'art 3 comma 2 della legge 218 in cui l'applicabilità di tali norme anche al convenuto straniero è affermata in modo esplicito. Lo stesso art 3 non consente di superare un'altra discriminazione nei confronti di soggetti che non hanno il loro domicilio sul territorio di uno stato aderente. Questa discriminazione è determinata dal fatto che non c'è corrispondenza tra le norme in materia di giurisdizione e quelle relative al riconoscimento degli atti stranieri (sentenze in particolare). Le controversie in cui sia convenuto un soggetto non domiciliato in uno stato contraente non vengono regolate secondo le norme convenzionali, per cui vengono in questi casi applicati quei criteri nazionali che invece la convenzione esclude nelle controversie in cui è convenuto un domiciliato in un paese aderente. A differenza delle norme sulla giurisdizione, applicabili solo nei casi già visti, le norme sul riconoscimento delle sentenze verranno applicate sempre, anche quando esse sono emanate da giudici individuati in base ai criteri nazionali eventualmente esorbitanti nei confronti di soggetti non domiciliati. Il risultato di tutto questo è uno squilibrio tra le norme giurisdizionali, dove il nostro legislatore ha allargato l'ambito di applicazione delle norme convenzionali e le norme sul riconoscimento delle sentenze straniere, che devono essere sempre applicate, anche quando si tratterà di riconoscere le sentenze di un giudice individuato con l'applicazione di criteri nazionali.

Per le materie non ricomprese nella convenzione il legislatore non ha creato norme particolari, per cui si applicheranno i criteri di competenza territoriale.

In materia di giurisdizione la legge 218 non si è limitata a trasformare da generale in speciale il criterio della cittadinanza del convenuto, ma ha eliminato i criteri della connessione di cause e della reciprocità. Proprio in riferimento alla reciprocità, esso era un criterio che consentiva eccezionalmente al cittadino italiano di agire contro uno straniero, quando non era possibile usare altri criteri, per proteggersi da situazioni pregiudizievoli date da norme straniere esorbitanti. Il carattere di ritorsione che aveva questo criterio, più il fatto che esso era esercitatile dal cittadino e non dallo straniero e quindi contraddiceva il principio della parità di condizione spiegano perché il legislatore si è sbarazzato di esso.

Quanto al principio della connessione di cause, esso ha subito un progressivo ridimensionamento durante ,l'iter della legge: presentato non come criterio autonomo, bensì come un elemento coadiuvante nella determinazione della competenza territoriale, ha finito con l'avere un'applicazione residuale alle materie escluse dalla convenzione di Bruxelles, visto che per le materie da essa previste si è disposto l'applicazione dei criteri in essi contenuti.Resta il fatto che proprio nelle materie previste dalla convenzione la connessione delle diverse cause è possibile non certo con il criterio in oggetto, quanto con i criteri alternativi previsti dalla convenzione stessa.

Con riguardo alle materie escluse dalla convenzione bisogna individuare le ipotesi di connessione rilevante, secondo quanto disposto nell'ultima frase dell'art. 3 comma 2. Già con riguardo a quanto disposto nel c.p.c. la dottrina aveva dubbi che potessero rientrare tutte le ipotesi di connessione previste nello stesso c.p.c. Secondo una parte, la connessione era rilevante solo quando aveva riflessi sulla giurisdizione interna, mentre restavano escluse tutte le ipotesi di connessione per motivi di opportunità. Altri autori erano ancora più drastici, escludendo che nella connessione potessero farsi rientrare tutte le ipotesi che portavano a escludere la competenza di un giudice che altrimenti sarebbe stato adito. Altri autori ancora, argomentando sulla distinzione tra giurisdizione e competenza territoriale, ritenevano che il c.p.c. si riferisse a ogni ipotesi di connessione, senza alcun riguardo alle conseguenze giuridiche. Però le interpretazioni restrittive sembrano potersi escludere visto che il testo della parte finale del 2° comma dell'art. 3 dice che per le materie escluse dalla convenzione la giurisdizione viene determinata anche in base ai criteri territoriali, senza alcuna menzione delle conseguenze che su di essa (giurisdizione) derivano dalle varie connessioni. Da ciò deriva una diversa estensione della giurisdizione italiana, minore per le materie della convenzione, maggiore per le materie in essa non comprese. Sempre in materia di connessine bisogna considerare il disposto dell'art. 6, che attribuisce al giudice italiano la capacità di conoscere "incidentalmente" controversie che, se sottoposte a giudizio, non gli competerebbero: è evidente la scelta di evitare di bloccare i processi per questioni pregiudiziali che non dovrebbero competere al giudice nazionale, dandogli la possibilità di risolvere tali questioni, ma solo in via incidentale, cioè con decisione che vale solo con riferimento al caso di specie.

In tema di misure cautelari la legge 218 ripropone i principi che caratterizzano il c.p.c.: 1) l'esecuzione della misura cautelare in Italia; 2) che il rapporto al quale si riferisce la misura cautelare sia soggetto alla giurisdizione italiana.

Come durante la vigenza dell'art. 4 c.p.c., , anche la legge 218 non si occupa della giurisdizione italiana con riferimento ai procedimenti esecutivi, né a quelli fallimentari. Durante la vigenza dell'art 4 c.p.c. si è esclusa la possibilità di estendere analogicamente ai procedimenti fallimentari tale norma, ritenuta applicabile solo ai procedimenti cognitivi, per cui ne è derivata l'illimitatezza della nostra giurisdizione in materia. Gli unici limiti che possono essere individuati derivano dall'impossibilità di eseguire espropriazioni su beni che non si trovano sul suolo nazionale. Per ciò che riguarda le procedure fallimentari, ricordando che esse sono regolate da una apposita legge (r.d. del '42), i dubbi in materia di giurisdizione sembrano superati dalla legge 218, in cui si afferma come per le materie escluse dalla convenzione di Bruxelles (come le procedure fallimentari) la giurisdizione è determinata in base alla competenza per territorio: per cui la giurisdizione italiana sarà competente ogni qual volta un giudice italiano sarà competente per territorio. Sempre in materia fallimentare un problema di compatibilità si pone tra la legge fallimentare e la legge 218 a proposito del fatto che la legge fallimentare non ritiene impeditivo della dichiarazione di fallimento il fatto che lo stesso sia già stato dichiarato all'estero. E' chiaro come questa norma determina il non riconoscimento di una sentenza straniera (in questo caso la sentenza dichiarativa di fallimento) e quindi è incompatibile con l'automatico riconoscimento delle sentenze straniere stabilito dalla legge 218. Quindi due sono le possibili soluzioni: o si ritiene che la legge 218 abbia tacitamente abrogato la legge fallimentare; o che questa, in quanto speciale, sia ancora in vigore e quindi applicabile.

Una svolta in materia di rilevanza della volontà delle parti nella determinazione della giurisdizione è impressa, rispetto al passato, dalla legge 218. La volontà delle parti rispetto alla giurisdizione può avere un duplice effetto: uno positivo, che consente di attribuire la competenza anche quando essa manchi, e uno negativo atto a togliere la competenza lì dove essa è presente.

Per quanto concerne l'effetto positivo: rispetto a quanto previsto in precedenza nel c.p.c., nella legge 218 l'accettazione del convenuto, oltre che come atto unilaterale, è vista anche nella sua valenza bilaterale, in considerazione del fatto che i medesimi effetti (anzi forse ancor più) deve averli se espressa come volontà contrattuale. Inoltre, rispetto al passato, la legge di riforma ha imposto in questo caso la forma scritta a maggiore garanzia del convenuto. Come atto unilaterale, l'accettazione può essere espressa o tacita: è tacita quando il convenuto non faccia rilevare il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo. Al di là di questo caso, il difetto è rilevato d'ufficio sempre in qualunque stato e grado del processo in tre casi: 1) se il convenuto è contumace; 2) se, in base all'art. 5, si tratta di azioni reali con oggetto immobili siti all'estero, rispetto alle quali non vale la giurisdizione italiana; 3) se la giurisdizione italiana è esclusa da una norma internazionale. Solo quest'ultimo caso rappresenta una novità rispetto al passato. Il caso di cui al numero 2 merita di essere approfondito, anche perché occorre metterlo in relazione alle norme della convenzione di Bruxelles. La convenzione dice che per determinate materie, caratterizzate da una stretta connessione tra i motivi del contendere e il territorio di uno stato contraente, la giurisdizione spetti a tale stato indipendentemente dal domicilio del convenuto. Nulla si dice per l'ipotesi che l'elemento di collegamento sia collocato nel territorio di uno stato terzo.Da ciò possono derivare due conseguenze: o si interpreta la cosa come una mancanza di limiti nell'applicazione della convenzione verso l'esterno e quindi le limitazioni poste dalla legge 218 alla giurisdizione nazionale in materia di diritti reali su immobili siti all'estero viene a essere ridimensionata; o si accoglie la teoria degli effetti riflessi e si esclude l'applicazione della convenzione al di fuori dei casi da essa richiamati e quindi si da spazio alle norme interne sulla giurisdizione, compreso l'art. 5 della legge 218 e i suoi effetti limitativi.

Avevamo accennato nel precedente paragrafo a due effetti che la volontà delle parti può avere sulla giurisdizione: dopo avere approfondito quello positivo andiamo a parlare di quello negativo. Parlare della capacità delle parti di escludere la competenza giurisdizionale dello stato lì dove essa esiste è una questione delicata, visto che la giurisdizione è considerata uno dei presupposti della sovranità; tuttavia tutti gli stati a condizioni diverse ammettono deroghe e limitazioni di natura convenzionale, in modo da dare alle parti la possibilità di derogare al foro naturale. Il c.p.c. all'art.2 sanciva l'inderogabilità della giurisdizione nazionale, visto che i presupposti per la deroga erano veramente molto stretti: doveva trattarsi di una causa con obbligazioni tra stranieri, o fra uno straniero e un italiano non domiciliato, o residente nella Repubblica. E' chiaro come questa scelta estremamente nazionalista del nostro legislatore ben presto sarebbe apparsa inopportuna soprattutto con riferimento alle relazioni commerciali internazionali. Ciò spiega non solo la soddisfazione con cui sono state accolte le convenzioni stipulate dall'Italia nel senso di ammettere la capacità delle parti di derogare la giurisdizione naturale, ma la necessità di una vera e propria riforma, compiuta dal legislatore del '95. Pur mantenendo alcune limitazioni, nella legge 218 sono sse tutte quelle relative alla cittadinanza o alla residenza delle parti, mentre è rimasto l'obbligo della forma scritta in merito a queste scelte; quindi le deroghe alla giurisdizione nazionale sono possibili anche nelle cause tra cittadini italiani anche per fattispecie che non riguardano le obbligazioni. Alcune questioni: circa l'applicabilità per analogia degli artt. 1341 e 1342 c.c. la questione è ormai risolta dal nuovo art 833 c.p.c. (introdotto nel '94) che esclude l'applicabilità di queste norme; nel caso in cui in materia di deroga alla giurisdizione naturale sia applicabile la convenzione di Bruxelles, questa va applicata rispetto alle normative nazionali; infine la questione posta dal 3° comma dell'art. 4 della legge di riforma. Esso prevede che, per evitare un possibile conflitto negativo di giurisdizione, nonostante la validità del patto con il quale le parti intendono derogare alla giurisdizione nazionale, il giudice straniero (o l'arbitro) devono valutare la loro capacità di giudicare in materia, onde evitare possibili vuoti di giurisdizione. Nella relazione al progetto di legge si dice che il giudice italiano in questo caso deve riesaminare la domanda, anche se lui aveva rinunciato alla competenza con sentenza passata in giudicato: e questa soluzione è chiaramente in contrasto con un principio che la legge 218 esprime più avanti e cioè che le sentenze straniere non possono prevalere su quelle italiane definitive.

E' peraltro possibile, anche se la legge non se ne occupa, un conflitto positivo di giurisdizione, nel caso che si pronuncino sia il giudice italiano che quello straniero; la questione va risolta (secondo il principio cui abbiamo accennato) con la prevalenza della sentenza italiana e questo ci mette in evidenza come la stessa norma produce effetti diversi secondo che il conflitto di giurisdizione sia negativo, o positivo.

Il fatto che in materia di limitazione di giurisdizione tramite volontà delle parti il legislatore abbia dettato una disciplina specifica e non abbia richiamato alcuna norma della convenzione di Bruxelles sembrerebbe far pensare alla volontà di non tenere conto delle norme convenzionali, ma non è così. Ciò vale in particolare per alcune norme convenzionali che hanno una maggiore "specialità" rispetto a quelle della legge 218, in quanto impongono criteri per la deroga maggiormente restrittivi.

Rispetto al passato ( c.p.c. del '42) la legge di riforma ha profondamente innovato in materia di riconoscimento delle sentenze straniere, abbandonando il tradizionale principio dell'universalità della giurisdizione italiana. Questo principio difatti aveva portato a escludere ogni possibile equivalenza delle sentenze straniere a quelle interne, subordinando il riconoscimento delle prime a specifici atti di accettazione. Connesso a ciò è il problema della litispendenza, che il c.p.c. risolveva negando che la giurisdizione italiana potesse in alcun modo essere impedita da processi con oggetto e soggetti uguali svolgentisi davanti a un giudice straniero, né tanto meno se i due processi erano semplicemente connessi. La legge 218 ha eliminato tutti questi retaggi del passato e ha accolto le posizioni più moderne, riconoscendo le sentenze straniere, consentendo di derogare alla giurisdizione italiana e dando rilevanza alla litispendenza all'estero.Questo discorso sulla litispendenza rappresenta un necessario completamento rispetto alla materia del riconoscimento delle sentenze straniere, per evitare che giudice italiano e giudice straniero si occupino della stessa materia, con la prevalenza di chi giunge per primo a una sentenza definitiva.

Tra le novità più importanti in materia di litispendenza c'è da segnalare una importante innovazione rispetto al c.p.c.: questo ammetteva la possibilità di scelta per il convenuto se delibare una sentenza straniera (nel caso fosse a lui favorevole), o di aprire un procedimento in Italia (anche dopo l'emanazione di una sentenza, evidentemente sfavorevole). E' chiaro che questo stato di cose non poteva mantenersi nella legge 218, ammettendosi nella stesa il riconoscimento automatico delle sentenze straniere (due concetti assolutamente incompatibili).Al di là della novità appena segnalata , l'art 7 della legge 218 ha un contenuto che ricalca quello della convenzione di Bruxelles, ma questo non deve indurci nell'errore di sottovalutare questa norma: è vero che molti principi erano già conosciuti, ma avevano una portata limitata, perché non si applicavano agli stati terzi; e poi applicare e interpretare norme convenzionali è diverso dall'applicare e interpretare norme interne che riproducono il contenuto di una convenzione. E' dubbio che nell'applicazione di norme interne modellate sul contenuto di una convenzione possa avere rilevanza l'interpretazione pregiudiziale della Corte di giustizia; poi, con riferimento al principio della prevalenza del procedimento iniziato per primo, è evidente il tentativo del legislatore di stabilire un regime uniforme in materia di giurisdizione per le cause in cui siano convenute persone domiciliate negli stati aderenti. Questi obbiettivi di uniformità della giurisdizione presenti nella convenzione non possono essere ricercati nella norma interna (legge 218), per cui è chiaro come quest'ultima, nonostante quanto detto sopra, mantiene una carica di novità. A differenza della convenzione, l'art 7 della legge 218 regola la litispendenza in modo diverso: nella convenzione viene sancita la prevalenza del procedimento iniziato per primo e, nel caso di contestazione, la sospensione del processo; nella legge di riforma la prevalenza del processo all'estero è subordinata all'esistenza dei presupposti necessari affinché la sentenza estera abbia rilevanza in Italia: Il giudice italiano, verificando che all'estero è in corso di svolgimento un processo con gli stessi soggetti e il medesimo oggetto, se ritiene che vi sono i presupposti per cui la sentenza lì emanata possa essere riconosciuta, sospenderà il "suo" procedimento. Il legislatore del '95 non ha tenuto in considerazione le obiezioni della dottrina, che denunciava lo snaturamento dell'istituto della litispendenza subordinandolo a valutazioni del giudice italiano per altro basate sulla presenza di requisiti valutati senza avere tutti gli elementi della causa; ma su queste critiche evidentemente è prevalsa l'esigenza di evitare un diniego di giustizia, che si avrebbe se la sentenza straniera mancasse dei requisiti per il riconoscimento e quindi restasse senza effetti.

L'aver messo in relazione la litispendenza e il riconoscimento delle sentenze straniere ha comportato un effetto non previsto: così come si è rimandata l'entrata in vigore della parte della legge 218 relativa alle sentenze straniere, allo stesso modo, involontariamente e in quanto collegato, si è fatto per l'art. 7: quindi restano ancora in vigore in materia le norme del c.p.c., compreso il principio della prevalenza, in ogni caso, della sentenza italiana su quella straniera. Siccome la possibilità di aprire due procedimenti può verificarsi solo se non c'è stato un pronunciamento definitivo del giudice straniero e siccome, mancando ciò, l'art. 7 porterebbe sempre al prevalere della sentenza italiana, perché manca la parte relativa alle sentenze straniere e quindi si applicano le norme del c.p.c., sarebbe stato opportuno sospendere, assieme alla parte quarta della legge, anche l'applicazione dell'art. 7.

L'art. 7 presenta una formulazione migliore, dal punto di vista tecnico, rispetto al progetto di legge, in cui si prevedeva la preclusione per il giudice italiano di fronte a una litispendenza; più opportunamente nella legge si parla di una "sospensione", in modo che il giudice nazionale possa riprendere il processo nel caso di sentenza straniera non riconoscibile (perché carente dei requisiti richiesti), o nel caso di rinuncia del giudice straniero. La stessa regola si applica nel caso che il processo all'estero sia pregiudiziale: in realtà la formula del 3° comma dell'art. 7 relativa al caso di specie sembrerebbe fare pensare una regola diversa rispetto a quella del primo comma, in particolare a un obbligo per il caso del 1° comma, ritenendosi applicabile in Italia la sentenza straniera, e a una facoltà nel caso di pregiudizialità del processo estero; ma questa presunta differenza viene meno se si considera che l'accettazione della sentenza straniera è sempre discrezionale e valutata dallo stesso giudice italiano.

La litispendenza è un concetto che presuppone tre identità: oggetto, titolo e parti; ma così come faceva la convenzione di Bruxelles, anche la legge 218 non definisce questa tripla identità. Si pone quindi il problema se possa essere utilizzata a questo fine una sentenza della Corte di giustizia, la sentenza Gubisch, in cui la Corte ha interpretato in modo estremamente largo il concetto di litispendenza, in particolare riguardo all'identità dell'oggetto, arrivando a concepirla anche di fronte a due fattispecie in cui il medesimo contratto (una compravendita internazionale) veniva richiesto di esecuzione da una parte, di risoluzione dall'altra. Ad escludere la possibilità di usare tale nozione elaborata dalla Corte ci pensa la Corte stessa, quando nella motivazione ci dice che tale interpretazione si giustifica considerando le finalità particolari della convenzione e quindi ammettendo di avere ragionato sulla base di un concetto particolare e non di una nozione generale di litispendenza.

La legge 218 contiene importanti novità anche rispetto al tema del riconoscimento e dell'esecuzione delle sentenze e degli atti stranieri. Nel c.p.c. la sentenza straniera era subordinata per ciò che concerne la sua efficacia a un atto di riconoscimento da parte di una corte d'appello italiana, che doveva verificare l'esistenza di alcuni requisiti. Il giudizio di delibazione era dunque la strada obbligata per giungere a dare efficacia a una sentenza straniera.La delibazione, stando così le cose, aveva efficacia costitutiva e non dichiarativa. Ancora un rilievo: siccome il giudizio di delibazione si riferiva alla sentenza straniera, gli effetti di questa erano retroattivi, cioè partivano da quando la sentenza era stata emanata all'estero. Questa impostazione, assolutamente restrittiva, aveva sollevato varie critiche in dottrina: recependo tali critiche la legge 218 ha sancito l'automatico riconoscimento degli effetti delle sentenze straniere. Tale principio non è una novità assoluta: già in vigenza del vecchio regime, le varie convenzioni in cui l'Italia era coinvolta affermavano il riconoscimento automatico, tranne il caso in cui si dovesse procedere all'esecuzione forzata. La convenzione di Bruxelles non sfugge a tutto ciò. Il riconoscimento automatico delle sentenze straniere produce effetti sia di diritto sostanziale, che processuale, perché, oltre che a recepirne il contenuto, la sentenza straniera impedirà il formarsi di un giudicato nella stessa fattispecie da parte di un giudice italiano.

Come avveniva in passato, la legge di riforma non riconosce le sentenze straniere con efficacia limitata al procedimento in corso. Anche per ciò che riguarda i presupposti richiesti per il riconoscimento automatico non ci sono state grosse innovazioni rispetto al passato. Ugualmente poco innovative sono le disposizioni che, a tutela della difesa, mirano ad accertare la regolarità delle varie fasi processuali all'estero (come la costituzione delle parti per esempio). Anche in tema di controllo della conformità delle sentenze straniere alle norme interne di ordine pubblico nulla di eclatante da segnalare. In tema di passaggio in giudicato della sentenza straniera la legge 218 ripropone la formula del c.p.c. e non accoglie la proposta di parlare di sentenze non impugnabili ordinariamente, sulla base di un concetto (quello di passaggio in giudicato) non univoco. E' eluso il riconoscimento di sentenze straniere che contrastino con quelle italiane passate in giudicato; non si specifica se la norma riguardi sentenze che regolano la medesima lite: in vigenza del c.p.c. la norma era interpretata richiedendosi l'identità delle parti, del petitum e della causa pretendi; oggi invece si richiede l'uguaglianza solo delle parti. L'unica innovazione importante è rappresentata dall'introduzione del principio del rispetto per il giudizio iniziato per primo, volto a evitare che venga aperta una causa davanti a un giudice italiano (prima del passaggio in giudicato della sentenza straniera) al solo fine di cercare di modificare una sentenza evidentemente sfavorevole.

Il fatto di avere accolto un meccanismo di riconoscimento automatico delle sentenze straniere comporta che una procedura di accertamento dei requisiti necessari per il riconoscimento di tali atti sarà necessaria solo in caso di contestazioni, o di esecuzione forzata. Questo principio è peraltro destinato a essere integrato, perché una procedura di delibazione di una Corte d'appello sarà necessaria nei casi in cui il riconoscimento della sentenza straniera comporti trascrizioni, iscrizioni, o annotazioni in pubblici registri; senza questo tipo di integrazione il compito di accertare la presenza dei requisiti nella sentenza straniera toccherebbe ai conservatori dei pubblici registri, il che non è possibile. Anzi proprio questa necessaria integrazione è stata uno dei motivi del rinvio dell'entrata in vigore della quarta parte della legge di riforma. Quanto alla procedura di delibazione, necessaria in caso di contestazione della sentenza straniera e nel caso di esecuzione forzata, nel progetto di legge non era detto nulla, per cui restando così le cose chiunque ne avesse interesse avrebbe dovuto rivolgersi alla Corte d'appello competente per territorio (considerando il luogo di attuazione); invece nel testo definitivo si è presa in considerazione la questione e si è disposta la procedura della camera di consiglio per snellire quanto più possibile il procedimento. Così come si diceva nel c.p.c., anche la legge 218 afferma come l'efficacia della sentenza straniera deriva sia dalla stessa sentenza straniera, sia da quella di delibazione: avendo la prima la capacità di produrre effetti, quella di delibazione avrà solo lo scopo di verificare i requisiti. La legge di riforma, poi, tace in merito a due questioni che nel c.p.c. erano invece esplicite: 1) la possibilità di chiedere in via diplomatica (in condizioni di reciprocità, o se previsto da convenzioni internazionali) l'efficacia della sentenza straniera; 2) la presenza del pubblico ministero. In merito al punto n°1 può ammettersi una soluzione positiva, mentre il silenzio del legislatore quanto al n°2 esclude la presenza del pubblico ministero.

Alcune critiche in dottrina ha sollevato il fatto di avere escluso ogni controllo di merito delle sentenze straniere (la delibazione riguarda solo requisiti formali). Nel sistema precedente, anche se in casi eccezionali, ciò era concesso; nella legge 218 no, in quanto si è ritenuto un principio inconciliabile con l'automatico riconoscimento delle sentenze: valutazione giusta, ma la Boschiero si interroga se non fosse stato giusto, magari sotto altre forme, mantenere un certo controllo. Altre perplessità nella dottrina ha suscitato il 3° comma dell'art. 67, dove si afferma che se la contestazione del riconoscimento di una sentenza straniera avviene durante lo svolgimento di un processo, il giudice pronuncia con efficacia limitata al giudizio in questione. Si tratta di un principio che ricalca la delibazione incidentale prevista nel c.p.c. e che in quel contesto, in cui esisteva la delibazione principale, era coerente, qui un po' meno.

Un ulteriore novità la legge 218 ha introdotto in materia di efficacia degli atti giurisdizionali stranieri, dando la possibilità di riconoscere effetti a tali atti sulla base del dir. int. priv., quando essi regolano un rapporto per cui si applicano (per il dir. int. priv.) le norme dell'ordinamento da cui l'atto giuridico proviene. La dottrina e la giurisprudenza italiane da tempo sostengono la tesi che, senza nessuna delibazione, gli atti stranieri hanno efficacia se emanati dall'ordinamento competente secondo il dir. int. priv. Tale principio si applica però solo a rapporti di tipo privatistico e inoltre, siccome le sentenze non verranno in rilievo come atti giurisdizionali, ma come disciplina concreta di un rapporto, non produrranno né gli effetti di giudicato, né effetti esecutivi, per cui tale riconoscimento ha una natura completamente differente rispetto a quanto previsto nel riconoscimento automatico della sentenze. Che i due sistemi abbiano natura differente è testimoniato dal fatto che tramite il richiamo fatto dal dir. int. priv. La sentenza vale come norma che regola il rapporto, mentre il riconoscimento automatico attribuisce alla sentenza il valore di atto giuridico. Di conseguenza con il primo criterio non occorre verificare i requisiti della sentenza (delibazione), ma solo la conformità della stessa all'ordine pubblico, o, secondo alcuni, l'assenza di limiti internazionalprivatistici. Il riconoscimento dovrebbe costituire l'unico sistema per dare efficacia a sentenze emanate in stati non richiamati dal dir. int. priv. Quando i due sistemi sono entrambi invocabili allora si potrà ricorrere a entrambi alternativamente e in particolare al riconoscimento se si vogliono conseguire gli effetti di giudicato, o l'esecuzione forzata. Tutto questo discorso è tradotto nella legge di riforma nell'art. 65 la cui formula è oggetto di varie critiche. La norma prevede che abbiano effetto in Italia gli atti stranieri relativi ai rapporti di famiglia, alla capacità delle persone, o i diritti della personalità, che vengono pronunciati nei paesi ai cui ordinamenti occorre fare riferimento, nella soluzione di certe controversie, secondo le norme di dir. int. priv., o che, pronunciate in stati terzi, abbiano efficacia nei paesi di cui abbiamo detto. La norma, a differenza di quanto previsto in origine, non si riferisce solo alle sentenze, ma a tutti gli atti giurisdizionali.

Si è rilevato in dottrina che la norma appare come una strada alternativa a quella del precedente articolo per dare riconoscimento a sentenze straniere. D'altronde questa impostazione è confermata anche nella relazione ministeriale alla legge, in cui esplicitamente si parla di un processo complementare per il riconoscimento delle sentenze; ciò che non si capisce, allora, è perché come requisiti del riconoscimento si siano indicati solo la non contrarietà all'ordine pubblico e il rispetto dei diritti della difesa; infatti la mancata menzione della non contrarietà della sentenza rispetto a una italiana passata in giudicato e la non pendenza di un processo italiano rispetto a uno all'estero (con la prevalenza del primo) riguardante le medesime parti e il medesimo oggetto, comporterà un regime opposto rispetto a quello del riconoscimento indicato nell'articolo precedente. Un altro rilievo che è stato avanzato è quello per cui è criticabile la limitazione delle materie degli atti che possono essere recepiti con questo criterio alternativo, in particolare l'esclusione delle sentenze straniere su diritti reali relativi a immobili siti all'estero. Comunque, alla luce della natura processuale e non sostanziale di questo riconoscimento (quello dell'art. 65) si è parlato, anche nel silenzio della legge, della possibilità di estendere l'efficacia anche a altre sentenze che riguardano altre materie rispetto a quelle indicate.

La natura di procedimento di riconoscimento dell'art. 65 comporta la necessità di specificare i rispettivi ambiti di applicazione con il criterio dell'art. 64. Rispetto al progetto, in cui i due criteri apparivano come alternativi, nel testo della legge il criterio dell'art. 65 appare prevalente, per cui, mancando i presupposti per la sua applicazione, non potrà invocarsi in alternativa l'applicazione dell'altro.

Anche in tema di giurisdizione volontaria, oltre al normale riconoscimento, opera questo criterio che prescinde da alcun provvedimento se vengono rispettate le condizioni, già viste, dell'art. 65; ma in questa ipotesi (volontaria giurisdizione) oltre agli atti compiuti dai paesi competenti secondo le norme del dir. int. priv., valgono pure quelle emanate dai paesi competenti secondo le leggi italiane.











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