ePerTutti


Appunti, Tesina di, appunto diritto

LE SEI CATEGORIE DI REDDITO

ricerca 1
ricerca 2

LE SEI CATEGORIE DI REDDITO

I Redditi Fondiari

I REDDITI FONDIARI (Testo Unico, capo II, art. 25 e ss) sono quei redditi inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono iscritti con attribuzione di rendita nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano.

Il REDDITO DEI TERRENI si distingue in:

  Reddito dominicale parte del reddito che spetta al proprietario che dispone del fattore produttivo terra;



  Reddito agrario parte del reddito che compete al soggetto che coltiva il terreno.

I due tipi di reddito possono competere allo stesso soggetto o a due soggetti diversi (ad esempio, il coltivatore diretto che affitta il fondo da un terzo).

La determinazione di questi redditi avviene su base catastale: il territorio è diviso in tante particelle a ciascuna delle quali sono attribuiti un reddito dominicale e un reddito agrario che non corrispondono al reddito effettivo, ma ad un reddito medio.

Il REDDITO DEI TERRENI è determinato periodicamente ma con una cadenza lunga; durante questo periodo è però possibile che il legislatore fiscale introduca una percentuale di rivalutazione.

Il nostro è un sistema catastale puro, non superabile e obbligatorio. Si dice che il fatto che il reddito agrario corrisponda a un reddito medio ordinario è un qualcosa di positivo è un elemento di incentivazione perché in sostanza ci possiamo trovare di fronte ad un agricoltore particolarmente attivo che riesce a realizzare un soprareddito che non è soggetto a tassazione. Tuttavia per l’agricoltore non preparato o che non abbia voglia di lavorare c’è una penalizzazione perché se consegue un reddito minore viene comunque tassato il reddito agrario. Per questi motivi si parla di “incentivo” per l’agricoltore ad essere maggiormente efficiente.

Il sistema catastale è obbligatorio ma non ceco ad esempio, prevede che, se in un determinato anno ci sono stati elementi naturali eccezionali (inondazioni, grandine, . ) che hanno provocato danni, vengano rivisti gli estimi redditizi catastali che riguardano non soltanto i terreni ma anche i fabbricati.


Anche per quanto riguarda i REDDITI DEI FABBRICATI, la tassazione avviene su base catastale: tutti i fabbricati con esclusione di quelli agricoli hanno un catasto il catasto dei fabbricati urbani in cui ogni fabbricato è diviso in unità abitative ciascuna delle quali ha un determinato reddito che tiene conto di vari fattori che possono incidere sulla redditività.

C’è una differenza tra sistema catastale dei fabbricati e sistema catastale dei terreni: il primo non è puro come quello dei terreni ma è per così dire “ibrido” nel senso che per determinare la base imponibile d’imposta occorre considerare anche il reddito effettivo, vale a dire il canone, e quindi non solo la rendita catastale. Il reddito catastale è quindi un’entrata stabilita dal catasto che corrisponde alla redditività ordinaria di una determinata zona, però è un reddito netto cioè tenuto conto anche degli oneri che il proprietario deve sostenere per il fatto di essere tale (ad esempio: spese assicurative, oneri ordinari e straordinari, costo dell’amministrazione se si tratta di condominio, . ). Il legislatore ha tenuto conto di queste spese e così la rendita catastale è un reddito medio netto continuativo. Il canone invece è un provento lordo al quale devono sottrarsi le spese sostenute dal proprietario per ottenere il reddito netto. Ma se ogni proprietario deve documentare dimostrando le spese sostenute, c’è il pericolo che si vada incontro a difficoltà che potrebbero rendere il sistema troppo pesante. La Legge allora prevede che le spese relative alla proprietà siano pari al 15%, quindi è stata stabilita una percentuale e non vengono sottratte le spese che effettivamente il proprietario ha sostenuto. Togliendo questa percentuale al provento effettivo lordo si ha il canone che si confronterà con il reddito catastale per decidere quale dei due debba essere preso in considerazione in sede fiscale. Il legislatore impone che sia preso in considerazione il più alto dei due importi.


I Redditi Derivanti Da Capitale

I REDDITI DI CAPITALE sono prodotti da un capitale che viene impiegato dove il reddito è dovuto in misura predeterminata l’elemento rischio non c’è perché altrimenti sarebbe considerato reddito d’impresa e non REDDITO DI CAPITALE (ad esempio, un soggetto fa un prestito ad un terzo e su questo finanziamento è dovuto un determinato tasso di interesse).

I REDDITI DI CAPITALE sono redditi sui quali non grava il rischio della gestione, quindi sono dovuti in misura fissa. Il legislatore non da’ una nozione di carattere generale ma fa’ un’elencazione. Il REDDITO DI CAPITALE più caratteristico è costituito dagli interessi; sono REDDITI DI CAPITALE anche gli utili distribuiti dalle società di capitali (i dividendi: se, ad esempio, io ho un’azione della Pirelli e la Pirelli mi a 0,40 € per ogni azione che possiedo, questo dividendo corrisposto dalla società di capitali è un REDDITO DI CAPITALE).


Relativamente agli interessi bisogna affrontare 2 problemi: il problema del quanto e il problema del quando. Il primo è il problema di identificare i criteri sulla base dei quali un provento lordo si trasforma in reddito netto identificare quali, quante e a quali condizioni queste spese sono fiscalmente deducibili dai proventi lordi al fine di trasformarsi in proventi netti. Anche in relazione ai REDDITI DI CAPITALE si possono facilmente ipotizzare delle spese di produzione (ad esempio, le spese di trasferimento in relazione al amento degli interessi). In che misura il legislatore fiscale riconosce la possibilità di ridurre queste spese? In nessuna misura i REDDITI DI CAPITALE vengono considerati nel nostro sistema come redditi netti.


Il problema del quando è quello di individuare il momento in cui gli interessi diventano tassabili. Il legislatore si pone due alternative: vale la competenza o il recepimento? Ad esempio, stipulo un contratto con una terza persona con ad oggetto un prestito di una certa somma di denaro sulla quale è stato convenuto che la rendita è equivalente ad una data percentuale d’interesse con maturazione al 31/12. Il 27/12 il debitore mi chiama e mi chiede se mi può are gli interessi con un mese di ritardo, e quindi entro il 31/01, perché ha problemi di liquidità. La tassazione deve essere fatta al 31/12 oppure nell’anno dopo perché gli interessi sono stati recepiti a gennaio? Vale il recepimento per cui questi REDDITI DI CAPITALE dovranno essere dichiarati nell’anno successivo.


A proposito delle presunzioni, nel Codice Civile è stabilito che il denaro si presume per sua natura produttivo di frutti. Per cui quando si effettua un finanziamento quest’ultimo si suppone produttivo di interessi. Le parti possono superare questa definizione e pattuire che quel particolare finanziamento non preveda una remunerazione. In questo caso deve essere redatto un atto scritto. Dal punto di vista fiscale la presunzione è diversa: c’è una presunzione di percepimento, cioè si presume, sulla base del diritto tributario, che gli interessi presunti siano stati recepiti.


La distribuzione di dividendi che non costituiscono redditi di natura capitale. I dividenti distribuiti da società di capitali costituiscono redditi di natura capitale; però vi sono casi in cui i dividendi distribuiti da società di capitali non creano reddito di natura capitale e questo avviene quando le riserve utilizzate dalla società ai fini della distribuzione sono riserve di capitali, cioè riserve non costituite con utili (ad esempio, la riserva da sovrapprezzo azioni). A volte succede che la società ritenga che il proprio patrimonio sia eccessivo e quindi procede alla distribuzione di riserve e a volte riserve di questo tipo. Questi dividendi non sono soggetti a tassazione ciò che il socio riceve non è un dividendo costituito con utili della società ma si è in una situazione di restituzione di capitale, di un patrimonio in precedenza versato alla società.


Azioni con quote gratuite. A volte le società che hanno delle riserve nel proprio patrimonio decidono di trasferirle al capitale sociale aumentandolo. A fronte di questo aumento vengono emesse nuove azioni che vengono assegnate ai soci in proporzione alle azioni o alle quote da loro possedute. Per il socio che si vede assegnare delle azioni gratuite, queste azioni rappresentano reddito? No, non sono reddito per il socio perché riceve quote gratuite, non si è arricchito, ha solo nel portafoglio più carta, la quota che aveva prima è rimasta invariata il PN è rimasto lo stesso!



I Redditi Derivanti Da Lavoro Dipendente

I REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE (Testo Unico, capo IV, art. 49 e ss) sono redditi che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro alla dipendenza e sotto la direzione di altri. Il lavoro è la fonte del reddito. La dipendenza è l’elemento caratterizzante. Irrilevante è il tipo di qualifica (operai, impiegati, dirigenti, . ).


Anche per questa categoria di reddito, bisogna affrontare il problema del quanto e il problema del quando. Le spese di produzione del lavoratore dipendente sono ad esempio il costo della benzina, l’ammortamento dell’auto con cui ci si reca sul posto di lavoro, il pranzo, l’abito (certi posti di lavoro ne richiedono uno particolare), . . Queste spese di produzione sono in deduzione? No, non sono ammesse in deduzione in alcuna misura ma il legislatore si è reso conto che questa è un’ingiustizia. Ai fini fiscali queste spese non vengono riconosciute, nessun costo è ammesso in deduzione perché il rapporto fiscale diventerebbe estremamente complesso. Al lavoratore dipendente viene però riconosciuta una detrazione in termini di imposta, detrazione graduale che tende a diminuire con l’aumentare del REDDITO DA LAVORO DIPENDENTE per tenere conto in modo forfetario delle spese di produzione che non sono dedotte dall’ammontare del reddito.


Per quanto riguarda il problema del quando c’è l’alternativa tra la competenza (maturazione) o il percepimento (cassa). Ad esempio, viene effettuato un lavoro straordinario nel mese di dicembre di un dato anno: la maturazione del lavoro sorge nel mese di dicembre ma il amento viene compiuto a gennaio per il lavoratore dipendente vale il recepimento, la maturazione è irrilevante. La retribuzione non è solo composta dalle somme di denaro che devono essere corrisposte per contratto ma anche da altre somme che il datore di lavoro a ad alcuni dipendenti pur non essendovi obbligato: anche queste somme rientrano nel concetto di retribuzione perché hanno origine dal rapporto di lavoro.


Accanto ai redditi di lavoro in senso proprio, vi sono dei redditi assimilati ai REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE equiparati a questi ultimi dal legislatore tributario: ad esempio, i compensi agli amministratori e i compensi ai sindaci.


Vi sono poi somme corrisposte ai dipendenti che ai fini fiscali non costituiscono reddito: ad esempio, i rimborsi delle spese a piè di lista (accomnati da pezze d’appoggio) ed i rimborsi spese a base diaria, stabiliti cioè a priori che non costituiscono REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE a patto di non superare un certo importo.


Le stock options si concretizzano con la facoltà concessa ai dipendenti di sottoscrivere azioni della società dalla quale dipendono, non da’ luogo a reddito nel caso in cui, in un momento iniziale, il datore di lavoro da’ la possibilità di sottoscrivere azioni della società (con valore non inferiore al valore delle azioni). Questo potere dura un certo arco di tempo (ad esempio, 2 o 3 anni); se però il valore delle azioni aumenta, il potere di sottoscrivere le azioni è sulla base del valore proposto inizialmente, per questo il dipendente sarà portato ad impegnarsi affinché la società raggiunga risultati positivi le azioni assumono un maggiore valore perché la società va bene, produce utili e quindi si ha un guadagno che non costituisce reddito ai fini fiscali. Le stock options sono diffuse ma hanno delle controindicazioni.



Il REDDITO DA LAVORO AUTONOMO ha una definizione un po’ complicata perché bisogna tenerlo separato dal REDDITO D’IMPRESA. Finiscono entrambi nella stessa macro classe ma le regole per la determinazione del reddito netto sono differenti.

I Redditi Derivanti Da Lavoro Autonomo

La nozione è abbastanza complessa occorre individuare da quali casi deriva il REDDITO DA LAVORO AUTONOMO e da quali casi deriva il REDDITO D’IMPRESA. A seconda che l’attività sia collocata in un ambito o in un altro i criteri variano.

Il primo problema è quello di sapere cosa si deve intendere per REDDITO DA LAVORO AUTONOMO.

I REDDITI DA LAVORO AUTONOMO (Testo Unico delle Imposte Dirette, Capo V, art. 53) derivano dall’esercizio per professione abituale (non si tratta di attività sporadiche ma di attività caratterizzate dalla continuità nel tempo) ancorché non esclusivo (non deve essere svolta per forza da sola).

Il criterio di individuazione del reddito è particolare: è di segno negativo. La Legge dice che bisogna considerare l’area complessiva del lavoro non dipendente ed allora consideriamo sia il lavoro autonomo, sia l’attività d’impresa (lavoro non svolto alle dipendenze di altri).

Il legislatore dà quindi dei principi precisi per i quali si determinano i REDDITI D’IMPRESA; ciò che resta è il REDDITO DI LAVORO AUTONOMO (per questo è un criterio negativo).

Art. 55 del Testo Unico i REDDITI D’IMPRESA derivano dall’esercizio di imprese commerciali, esercitate per professione abituale, non esclusiva e dall’esercizio di altre attività indicate nell’art. 2195 del Codice Civile: nozione di imprenditore commerciale elencazione delle attività:

  attività industriali dirette alla produzione di beni;

  attività industriali dirette alla prestazione di servizi;

  attività di trasporto;

  attività bancarie e assicurative;

  attività ausiliarie alle precedenti.

Il soggetto che svolge una di queste attività realizza REDDITO D’IMPRESA. La Legge però dice che queste attività danno luogo a REDDITO D’IMPRESA anche se non sono organizzate in forma di impresa secondo il Codice Civile la forma materiale che assume l’impresa è costituita dall’azienda. A questo punto c’è una diramazione tra diritto tributario e diritto civile: secondo la dottrina prevalente non esiste impresa civilistica se essa non si avvale di un’azienda per lo svolgimento dell’attività (senza l’azienda non c’è l’impresa); per il diritto tributario per aversi REDDITO D’IMPRESA occorre che siano svolte quelle attività indicate dall’art. 2195 del Codice Civile anche se non ci si avvale di un’azienda.

Ad esempio, un agente (intermediario collaboratore dell’imprenditore) è un soggetto autonomo che svolge un’attività indipendente consistente nel promuovere affari per conto dell’imprenditore. Sui contratti così conclusi viene remunerata una commissione o una provvigione. L’agente è un ausiliario dell’imprenditore quindi svolge una di quelle attività indicate nell’art. 2195 del Codice Civile. Questo agente può avvalersi di una struttura anche considerevole: può essere contattato da diversi clienti e avere un certo numero di dipendenti che dispongono, ad esempio, di mezzi di trasporto di proprietà dell’agente che inoltre può avere anche una struttura amministrativa importante. Questo soggetto perciò svolge un’attività a favore dell’imprenditore avvalendosi di una struttura organizzativa significativa quindi di un’azienda si tratta perciò di REDDITO D’IMPRESA.

Un esempio diverso: un’agente promuove affari per un imprenditore che produce tondini di ferro e per far stipulare i relativi contratti ha un elenco di venti potenziali clienti. Il suo mestiere è di interpellare periodicamente questi possibili clienti per sentire se hanno bisogno dei tondini. Si può ipotizzare che l’agente non abbia un’azienda, che faccia questo lavoro a casa e quindi non disponga di una struttura. È svolta una delle attività indicate nell’art. 2195 del Codice Civile, non occorre che si avvalga anche di una struttura organizzativa importante, è sufficiente che svolga l’attività perciò si tratta anche in questo caso di REDDITO D’IMPRESA (è irrilevante la forma dell’impresa!)

Ulteriore ipotesi in cui si conura il REDDITO D’IMPRESA, nel caso dei REDDITI AGRARI, e precisamente dell’agricoltore che esercita un’attività di allevamento di centinaia di capi (forma di allevamento intensivo). Il reddito derivante da quell’allevamento non è REDDITO AGRARIO perché il legislatore ha dato un limite. Se si supera questa soglia si esce dal REDDITO AGRARIO e si entra nel REDDITO D’IMPRESA.

Ad esempio, l’allevatore che svolge l’attività di trasformazione del latte producendo prodotti caseari, rientra nel REDDITO AGRARIO. Ma se il nostro agricoltore, per completare la potenzialità dell’impianto di cui si è dotato, compra del latte dai vicini: il latte prodotto da lui deve essere almeno la metà del latte che trasforma. Se il latte che acquista da terzi diventa prevalente, l’attività di trasformazione non darà più luogo a REDDITO AGRARIO ma a REDDITO D’IMPRESA.


Sono REDDITI D’IMPRESA i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma di impresa diretti alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 del Codice Civile. Stiamo prendendo in considerazione la prestazione di servizi non rientranti nell’art. 2195 del Codice Civile che invece tratta di servizi uniformi. Qui si parla di servizi ad personam (ad esempio, la mia auto ha un guasto meccanico, vado da un meccanico che mi fa una riparazione cioè mi presta un servizio che è diverso da quello che può fare ad un’altra macchina): non c’è uniformità di servizi, non sono servizi standard ma tengono conto delle caratteristiche volute da chi li richiede. Sono servizi che danno luogo a REDDITI D’IMPRESA purché siano prestati nell’ambito di attività organizzate in forma d’impresa (questa eccezione ritorna ma in modo diverso rispetto ai casi precendenti). Ad esempio, ho bisogno di un vestito e invece di comprarlo fatto me lo faccio fare da una sarta. Entro in una sala dove ci sono 10/12 lavoratori, ognuno ha il proprio tavolo, ognuno ha delle attrezzature: questo complesso di beni organizzati da’ luogo ad un’azienda, c’è la forma di impresa quindi si tratta di REDDITI D’IMPRESA. Oppure, seguendo sempre lo stesso esempio, vado da una sarta, un’amica che lavora da sola, prende le misure con il suo metro, ha le forbici, ha la macchina da cucire: la struttura aziendale è inesistente, non c’è la forma di impresa, c’è lo svolgimento di un’attività, c’è una prestazione di servizi ad personam ma manca la condizione dell’organizzazione in forma di impresa quindi si tratta di REDDITO DI LAVORO AUTONOMO.


Tutti i redditi conseguiti dalle società commerciali devono essere considerati come realizzati nell’ambito dei REDDITI D’IMPRESA.


Ora sappiamo quali attività danno luogo a REDDITI D’IMPRESA e quindi per il criterio negativo sappiamo anche quali danno luogo a REDDITI DI LAVORO AUTONOMO.


Il problema del quanto: come si determina il REDDITO DA LAVORO AUTONOMO? Si tolgono dai corrispettivi conseguiti tutte le spese inerenti sostenute nello svolgimento dell’attività di lavoro autonomo. Ad esempio, un commercialista va a Roma ad un convegno sul diritto tributario e fa fronte a spese sostenute nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo: questo soggiorno romano può essere deducibile. Si può fare un’altra ipotesi: la visita a Roma è una vacanza, magari trascorsa con la moglie. Gli oneri sostenuti non potranno essere dedotti perché non inerenti all’attività. Il principio di inerenza è condizione determinante.


Il problema del quando: quando un componente positivo deve essere considerato ai fini della tassazione del reddito? Il principio è quello del momento in cui la spesa è sostenuta o il ricavo é conseguito principio di cassa, conta il momento del percepimento. Ad esempio, un commercialista ha fatto una consulenza di carattere tributario a fine novembre di un certo anno e il cliente lo a a gennaio dell’anno successivo. La tassazione dovrà essere effettuata nell’anno successivo. Altrettanto le spese: questo è un principio che riguarda sia i componenti positivi che i componenti negativi di reddito.

A questo principio però ci sono due eccezioni:

  l’accantonamento a trattamento di fine rapporto di lavoro il momento di cassa del T.F.R. si verifica alla fine del rapporto di lavoro, nel momento in cui sarà corrisposto. L’accantonamento è deducibile (si ammette la deducibilità della quota maturata).

  gli ammortamenti il costo dei beni che il lavoratore autonomo acquista per lo svolgimento della sua attività (beni strumentali) non è deducibile direttamente ma lo è con quote di ammortamento del 20%, quindi in 5 anni.


I Redditi D’Impresa

La nozione del REDDITO D’IMPRESA è stata vista come principio determinante per la nozione del REDDITO DA LAVORO AUTONOMO. Quindi passiamo al problema della determinazione del REDDITO D’IMPRESA. L’art. 52 del vecchio Testo Unico (art. 56 del nuovo Testo Unico) dice che l’imprenditore, ai sensi del Codice Civile, è tenuto ad un obbligo di contabilità sistematica ed è tenuto ad un obbligo di redigere annualmente il Conto Economico e la Situazione Patrimoniale. Il legislatore tributario precisa che si parte dal risultato civilistico che emerge dal Conto Economico. A quest’ultimo vengono apportate variazioni in aumento e variazioni in diminuzione per via dell’esigenza determinata dal fatto che su alcuni punti importanti la disciplina tributaria non coincide con la disciplina civilistica. Quindi la correzione del risultato civilistico, per portarci ad avere il risultato fiscale, avviene attraverso variazioni.

Prima della riforma del 1973 era attuato il sistema del doppio binario: in sede civile si partiva dall’inizio e si determinava il risultato civilistico; in sede tributaria altrettanto, si iniziava da capo e si determinava il risultato fiscale. Le due procedure si svolgevano in modo separato e autonomo, di conseguenza non si confondevano.

Ora, ai fini tributari, si assume il risultato civilistico e poi si assumono le variazioni in aumento o in diminuzione. Le regole sono diverse.


Il percorso parte dall’individuazione di principi di carattere generale di determinazione del REDDITO D’IMPRESA. Principi che consistono nella risoluzione dei seguenti problemi.


Il problema del quando: i componenti positivi e i componenti negativi del REDDITO D’IMPRESA sono fiscalmente rilevanti in funzione della cassa o in funzione della competenza? Per il REDDITO D’IMPRESA ciò che conta è la competenza, a differenza dei REDDITI DA LAVORO AUTONOMO per i quali conta la cassa. Il principio della competenza è ancora un principio indeterminato. Il legislatore entra nel dettaglio e indica con precisione cosa si deve intendere per competenza. Per quanto riguarda la vendita di beni mobili è rilevante la consegna ed è irrilevante l’eventuale amento o l’emissione della fattura. Per i beni immobili e per i beni mobili registrati ciò che conta è la stipula dell’atto scritto. I servizi possono essere considerati ai fini della formazione dei ricavi nel momento in cui vengono ultimati.

La sola competenza non è sufficiente. Deve sussistere un ulteriore requisito la determinabilità oggettiva, cioè la certezza dei componenti negativi e positivi di reddito. Ad esempio, una macchina operatrice si rompe in un’officina di Torino, viene chiamato un esperto di Padova per ripararla; questo signore, una volta arrivato a Torino con il suo furgone e le sue attrezzature, comincia a fare la riparazione. Presta quindi all’impresa un servizio e il momento fiscalmente rilevante è quello dell’ultimazione. L’esperto finisce e la macchina funziona perfettamente. Ovviamente l’aspetto che rimane da prendere in considerazione è relativo alla fattura. Si arriva al 31/12 e quest’ultima non è ancora stata ricevuta. Questo tipo di reddito è di competenza però non è certo, non è determinabile l’ammontare. I componenti negativi di reddito, per essere deducibili, devono essere di competenza ma devono essere anche certi. Se questa condizione aggiuntiva non si verifica, quel componente negativo non perde per sempre la sua deducibilità ma la acquisterà solo al momento della ricezione della fattura e quindi nell’anno successivo, anche se la competenza è dell’anno precedente.

I componenti negativi di reddito devono essere inerenti, devono cioè essere stati sostenuti nell’esercizio dell’impresa per l’esercizio della stessa. Bisogna fare attenzione a questo proposito: è vietata la deducibilità di quelle spese che non hanno prodotto un vantaggio nell’esercizio dell’impresa. Ad esempio, un imprenditore, che produce una perdita, pensa di fare una camna pubblicitaria per sostenere la domanda. Quindi si organizza e sostiene dei costi, ma poi decide di non produrre più il bene perché non è ben accetto da parte del mercato. A questo punto, tutte le spese sostenute sono perse, sono costi che non producono nessun vantaggio all’imprenditore però sono deducibili perché sono stati sostenuti nel raggiungimento dell’attività di impresa a prescindere dal fatto che questa spesa possa produrre effetti positivi oppure no. Quindi la deducibilità dei costi è subordinata al requisito dell’inerenza.


Un ulteriore requisito è invece relativo alla forma i componenti negativi di reddito sono deducibili dal REDDITO D’IMPRESA a condizione che siano stati prettamente imputati al Conto Economico civilistico.

Per la determinazione del reddito fiscale si parte dal risultato civilistico. Dal Conto Economico civilistico si prendono i componenti positivi e i componenti negativi di reddito. I componenti negativi deducibili in sede fiscale sono soltanto quelli che risultano imputati al Conto Economico civilistico. Ad esempio, un’impresa produce un determinato bene il cui bilancio viene fatto dal responsabile amministrativo di questa impresa. Sta di fatto che quest’ultimo si ammala ma qualche giorno prima riceve la fattura di un fornitore che viene messa in un cassetto con l’intento di prenderla in considerazione e registrarla il giorno dopo. Però si ammala e non dice nulla dimenticandosi della fattura. Un suo collaboratore fa il bilancio civilistico senza quindi prenderla in considerazione (nella realtà succede che ci si dimentichi di contabilizzare un documento!). Arriva il momento della dichiarazione dei redditi. Il nostro responsabile torna, apre il cassetto e trova la fattura che non è stata presa in considerazione ai fini del risultato civilistico. Questo componente negativo di reddito non è rientrato nel conto economico e quindi per il requisito della forma non c’è riconoscimento fiscale.

Un altro esempio: un giornalaio vede il suo utile come il differenziale tra il prezzo di acquisto e il prezzo di vendita dei giornali. Ha redatto il proprio Conto Economico civilistico evidenziando tra i ricavi un differenziale pari a 50.000, indicandolo come la differenza tra il volume delle vendite e il volume degli acquisti. Si è comportato così perché pensa di non essere un imprenditore economico, perché quando vende un giornale lo fa ad un prezzo imposto dalla casa editrice e quando compra i giornali lo fa sempre ad un prezzo dato. Si è comportato quasi come se il suo guadagno fosse una provvigione, come se fosse quasi estraneo alla compravendita dei giornali. Invece no. In realtà il giornalaio è un imprenditore che compra i giornali dalla casa editrice e li rivende. Quindi il responsabile della legislazione fiscale che ha ricevuto questa dichiarazione con 50.000 tra i proventi non la accetta in quanto rileva che i ricavi non sono stati realmente quelli il funzionario ha computato ricavi per 500.000 e costi per 450.000, per cui il differenziale è di 50.000. Il fatto che si dichiari solo la differenza tra i due e non gli effettivi costi/ricavi è sbagliato. Sono stati dichiarati ricavi per 50.000, però ci si accerta invece che danno diritto a 500.000; sono stati dichiarati costi per Ø, ma i costi effettivamente sostenuti sono stati pari a 450.000. C’è quindi una regola per il diritto tributario il componente negativo può essere ammesso in deduzione in sede fiscale se è presente in sede civile. Di conseguenza, il giornalaio si è visto aumentare il proprio reddito da 50.000 a 500.000 senza però vedersi dedurre i costi che ha sostenuto. Il risultato che si ottiene è inaccettabile e a questo proposito il legislatore fiscale ha introdotto un’attenuazione alla regola formale: sono comunque deducibili, anche se non imputati al Conto Economico civilistico, i componenti negativi di reddito che riferiscono direttamente ai ricavi. Ed allora dato che il nostro giornalaio aveva le fatture di acquisto dei giornali, grazie alla modifica della Legge, ha potuto detrarre i costi di acquisto (450.000). Ma se il giornalaio non avesse imputato al Conto Economico costi come la locazione del chiosco, essi non sarebbero stati comunque dedotti in sede fiscale in quanto non inerenti direttamente all’attività svolta.


Quindi ci sono requisiti generali di carattere sostanziale e requisiti generali di carattere formale.


Vi sono poi regole particolari utilizzate per determinare i componenti positivi e i componenti negativi di reddito. Tra i componenti positivi di reddito, i ricavi certamente costituiscono la principiale voce positiva del Conto Economico dell’imprenditore. Il legislatore ne da’ una nozione abbastanza articolata: Art. 85 del nuovo Testo Unico sono considerati ricavi i corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa. Ma danno anche luogo a ricavi:

  i corrispettivi delle cessioni di materie prime e semilavorati l’ipotesi che si fa è quella dell’imprenditore che per la propria attività ne ha bisogno e quindi si approvvigiona di materie prime o di materie sussidiarie o di semilavorati; in un secondo momento rivende, per proprie esigenze, una parte di questi beni che ha acquistato: la vendita di questi beni da’ luogo a ricavi;

  i corrispettivi di cessione di azioni/partecipazioni/quote danno luogo a ricavi a condizione che le azioni, le quote o le partecipazioni non siano iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie se l’imprenditore ha acquistato delle partecipazioni e fanno parte dell’attivo circolante, una volta cedute, esse danno luogo a ricavi;

  le indennità conseguite a titolo di risarcimento anche in forma assicurativa per la perdita o il danneggiamento di beni di cui alle precedenti lettere si prenda ad esempio l’imprenditore che produce sectiunelle e immagazzina il prodotto finito in un locale. Ad un certo punto si sviluppa un incendio che brucia tutte le sectiunelle; l’imprenditore che però si è assicurato è risarcito con un certo indennizzo assicurativo, il danno costituisce anche esso un ricavo, così come sarebbe stato un ricavo la cessione delle sectiunelle.

  i contributi in denaro conseguiti in base a contratto supponiamo che il produttore di sectiunelle abbia bisogno di procurarsi una cerniera che serve per la chiusura delle sectiunelle; lo stilista studia una cerniera particolare e ne parla al fornitore al quale ordina 500 cerniere a 10 € ciascuna. Però il fornitore per produrre quelle cerniere deve comprare una macchina speciale utile solo a quel tipo di produzione. Questo macchinario costa 5.000 €, allora per contratto si stabilirà che per ogni cerniera si heranno 10 € e in più saranno ati 5.000 € per il macchinario. Il problema è relativo alla qualificazione di questi 10.000 € (500 × 10 € + 5.000 €). La Legge dice che il maggior costo per l’imprenditore che sostiene la spesa è un costo aggiuntivo della fornitura mentre per l’imprenditore che consegue questo corrispettivo è un ricavo, così come è un ricavo per lui il corrispettivo di 10 € per ogni singola cerniera. Questi contributi devono essere conseguiti in base al contratto, sono contributi in conto esercizio a norma di Legge. Ad esempio, un artigiano ha bisogno di un finanziamento per acquistare una macchina operatrice. Varie Leggi che si sono succedute permettono finanziamenti a condizioni favorevoli. L’agevolazione consiste normalmente nel fatto che l’interesse è minore. L’artigiano ottiene il finanziamento. L’istituto di credito domanda all’artigiano il tasso corrente. Poi ci sarà l’ente dello Stato che herà una somma di denaro, ad esempio, pari al 4%: cosicché il 6% l’artigiano lo a all’istituto finanziatore, il 4% è un contributo in conto esercizio ricevuto dallo Stato che va a ridurre gli interessi dovuti all’istituto finanziatore (2%). Questo 4% costituisce un ricavo, va cioè al conto economico allo stesso modo degli interessi passivi.


Prima di chiudere questo discorso relativo ai ricavi, c’è ancora una falla da colmare: la destinazione dei beni ai congiunti familiari e personali dell’imprenditore. Ad esempio, un imprenditore produce sectiunelle, il nipote va a scuola e ne ha bisogno di una. L’imprenditore va in magazzino, prende una sectiunella e gliela da’. Quella sectiunella era un bene destinato alla vendita quindi rientrava nell’economia dell’impresa. Si ha un atto di consumo che genera ricavo e quindi dovrebbe esserne corrisposto il prezzo. Il legislatore indica l’elemento al quale fare riferimento in mancanza del valore normale, cioè in mancanza del prezzo che normalmente l’impresa realizza a seguito della vendita di quel certo tipo di sectiunelle. Quindi i ricavi dell’azienda devono comprendere anche la sectiunella che è stata prelevata e che è stata destinata ad un familiare.

I beni che fanno parte del complesso aziendale sono beni di cui dispone l’imprenditore per lo svolgimento della propria attività e  che non danno luogo a ricavi.


Le Partecipazioni In Società E I Dividendi

Nell’ambito dei beni immobili ci sono beni particolari, le partecipazioni, che sono una parte di patrimonio di una società. Se la partecipazione è collocata nell’attivo circolante la cessione della stessa da’ luogo a ricavi; se al contrario la partecipazione è collocata nelle immobilizzazioni finanziarie allora si pone un problema. Per arrivare a parlare delle plusvalenze delle partecipazioni iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie occorre fare un passo indietro.


Nei REDDITI DI CAPITALE rientrano anche i dividendi corrisposti da società con personalità giuridica le società di capitali conseguono utili e li distribuiscono ai soci che ricevono queste somme di denaro. A questo punto bisogna parlare di un problema che si pone ed è quello della possibile doppia tassazione dei redditi prodotti da una società di capitali. Ad esempio, la S.p.A. α produce un determinato bene e realizza utili per
100.000 €, utili tassati in capo alla società stessa con l’aliquota del 33% dell’IRES. Ciò che resta dell’utile dopo aver ato l’imposta viene distribuito in tutto o in parte ai soci che ricevono un dividendo. Se questo dividendo viene tassato nuovamente in capo ai soci in base all’IRPEF ecco che gli utili distribuiti dalla S.p.A vengono tassati due volte: la prima volta presso la società che li ha conseguiti, la seconda volta presso il socio che riceve i dividendi.


In linea di principio le doppie tassazioni sono viste come un fatto negativo da evitarsi. Ma come? I meccanismi escogitati sono stati diversi nel tempo. Fino al 31/12/2003 il nostro ordinamento, per evitare la doppia tassazione, adottava un meccanismo particolare: la tassazione definitiva dell’utile conseguito dalla società doveva avvenire presso il socio che percepiva il dividendo. L’Erario non poteva rinunciare a tassare il reddito conseguito dalla società di capitali. L’IRPEG che la società di capitali ava (allora era il 35%) era considerata come un’imposta versata dalla società ma con la funzione di acconto dell’imposta personale. Il tutto è stato escogitato sulla base di un credito d’imposta riconosciuto al socio nei confronti dell’Erario e calcolato con l’aliquota del 56,25%. Questo credito d’imposta non era altro che una quota parte dell’IRPEG che la società aveva versato all’Erario.


Dal 2004 il sistema è cambiato perché si è spostata l’attenzione dal socio alla società la tassazione definitiva avviene in capo alla società, non presso il percettore ma presso la società che produce il reddito. Quando questo dividendo viene distribuito, se si procede ad una nuova imposizione fiscale in capo al socio, abbiamo una doppia tassazione. Per evitarla occorre che il dividendo percepito dal socio non venga tassato. Questa è l’impostazione teorica perché all’atto pratico non è applicata in tutti i casi. La nuova riforma non elimina totalmente la doppia tassazione ma soltanto la riduce.

Se il socio è una persona fisica, il legislatore introduce una distinzione a seconda che la partecipazione nella società sia o meno una partecipazione qualificata. I parametri possono essere due: occorre distinguere a seconda che la società in cui la persona fisica possiede un’azione sia quotata in borsa oppure no.

  Supponendo che la società non sia quotata in borsa allora la partecipazione non è partecipazione qualificata se attribuisce un diritto di voto nell’assemblea ordinaria inferiore al 20%. Nella seconda ipotesi, può dar luogo a partecipazione qualificata quella partecipazione che a prescindere dall’entità del diritto di voto dia luogo ad un possesso del capitale sociale superiore al 25% (non sempre il diritto di voto coincide con il possesso di capitale perché ci sono anche azioni che non ne danno diritto).

  Se invece la società di cui una persona fisica possiede una partecipazione è quotata in borsa, i parametri cambiano ma i concetti sono gli stessi. La partecipazione non è partecipazione qualificata se attribuisce un diritto di voto nell’assemblea ordinaria inferiore al 2%. Da’ invece luogo a partecipazione qualificata quella partecipazione che consente un possesso del capitale sociale superiore al 5%.


Questa distinzione è importante perché se i dividendi percepiti da una persona fisica sono relativi ad una partecipazione non qualificata allora la tassazione avviene sulla base di una percentuale del 12,50%. Il dividendo non fa cumulo con tutti gli altri redditi ma subisce una tassazione a sé.

Se invece il dividendo proviene da una partecipazione qualificata, il discorso cambia perché concorre alla formazione del reddito complessivo però limitatamente al 40% del suo ammontare.

Nell’ipotesi che il socio non sia una persona fisica ma sia una persona che svolge l’esercizio di un’attività d’impresa o sia una società di persone, la distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate non è più significativa perché in ogni caso il dividendo concorre alla formazione del reddito complessivo per il 40% del suo ammontare qualunque sia l’entità della partecipazione.

Nel caso in cui il socio di una società di capitali sia un’altra società di capitali (ad esempio, Pirelli è socio di Fiat), il legislatore ha eliminato totalmente la doppia tassazione economica. La società di capitali socia, che percepisce dei dividendi, su questi non deve are nessuna imposta diretta perché la società di cui è socia ha già ato l’IRES.


Occorre considerare un principio che vale per tutte le imposte e che in particolare vale per l’IRES quando una società soggetta a IRES possiede un cespite e il relativo reddito che produce è esente da imposta, tutti gli oneri che la società ha sostenuto per conseguire questo reddito esente non sono deducibili a fine della formazione dell’imponibile. Se una società possiede un determinato fabbricato che è esente (sul canone prodotto dal fabbricato l’Erario non percepisce neanche un centesimo di imposta) e produce un canone che è vero dal punto di vista civilistico ma che è escluso sotto il profilo tributario, allora questo cespite non deve andare ad aggravare le altre fonti di reddito con costi che riferiscono ad esso che è esente.

Ora supponiamo che la società che possiede questo cespite svolga un’attività produttiva che da’ luogo ad un reddito di 100.000 €. Questo reddito è soggetto a tassazione. Non sarebbe giusto che la società dal reddito potesse detrarre dei costi ad esempio di manutenzione di quel fabbricato che ha prodotto un reddito esente. La regola vuole che tutte le spese che la società sostiene in relazione a questo fabbricato non siano deducibili.

È da tenere in considerazione il fatto che la società potrebbe aver acquistato un immobile esente ricorrendo ad un prestito bancario che frutterebbe alla banca degli interessi passivi. Dato che questi interessi passivi sono relativi ad un cespite esente bisogna estendere la regola dell’indeducibilità anche agli interessi passivi che la società ha contratto per l’acquisizione del fabbricato.


Questo principio trova applicazione anche in relazione ai dividendi. Tu socio che hai una partecipazione ed incassi dei dividendi che per evitare la doppia tassazione economica sono esenti, dopo non devi riconoscere in deduzione tutti i costi che hai sostenuto per gestire quella partecipazione.

Il legislatore ha voluto introdurre una norma di semplificazione: anziché considerare esenti tutti i dividendi e non ammettere in deduzione i costi di gestione delle partecipazioni, sono esclusi, non tutti i dividendi, ma soltanto il 95%. Il 5% dei dividendi va soggetto a tassazione perché sono lasciate come deducibili le spese di gestione della partecipazione. Quel 5% è un modo forfetario per tenere conto dei costi sostenuti. I dividendi invece di essere esenti per il 100%, lo sono per il 95%.


Subentra il problema del PRO-RATA patrimoniale c’è una gestione finanziaria dell’impresa e i finanziamenti che la società protrae sono a fronte di esigenze finanziarie perciò le fonti di approvvigionamento dei mezzi finanziari non sono etichettate. Ecco che il legislatore ha voluto fare delle ipotesi la prima riguarda l’ingiunzione di una presunzione assoluta che il patrimonio netto finanzi innanzi tutto l’acquisto delle partecipazioni. Il patrimonio netto esprime il capitale proprio dell’impresa (quindi se la società ha capitale sociale per 100 e riserve per 20, il patrimonio netto ammonta a 120). Si presume che queste risorse proprie siano servite innanzitutto per acquistare delle partecipazioni. Fino a quando la società nell’acquisto delle partecipazioni sostiene un costo inferiore al patrimonio netto allora si dice che non ha dovuto are interessi passivi al sistema bancario perché ha utilizzato le proprie risorse.

Quindi un problema si pone solo nel momento in cui il conto delle partecipazioni sia più alto del patrimonio netto si è dovuto fare riferimento a finanziamento da terzi.

Alla fine dell’anno si vede se il valore delle partecipazioni iscritte nell’attivo patrimoniale è inferiore o superiore al Patrimonio Netto. Se è inferiore non c’è problema, tutti gli interessi passivi che la società ha ato sono deducibili. Se al contrario è superiore succede che i finanziamenti che la società ha contratto possono essere più di uno e a diverse condizioni; quindi bisogna stabilire in modo proporzionato in che misura questo supero è stato attinto a finanziamento posto che siano stati ottenuti a tassi diversi (se per ipotesi le sovvenzioni fossero state ottenute tutte a tassi costanti questo problema proporzionale non sarebbe necessario, ma questa non è un ipotesi realistica). Si va avanti con un procedimento di tipo proporzionale e si fa un rapporto in cui a numeratore si pone l’incidenza e a denominatore si pongono i debiti complessivi verso le banche alla fine del periodo d’imposta. Si ottiene in questo modo una certa percentuale che si applica agli interessi passivi relativi al finanziamento che sono indeducibili.


Questo discorso è da riferire solo alle partecipate che danno luogo alla partecipation exemption, le cui regole si applicano quando ci sono delle partecipazioni possedute da società di capitali in società di capitali. Questa regola afferma che, quando una società di capitali vende una partecipazione realizzando in ipotesi una plusvalenza (per via del fatto che il prezzo è maggiore del costo d’acquisto), quest’ultima non è soggetta a tassazione. Per avere questa esenzione non occorre che la partecipazione sia di un particolare ammontare. (grande novità introdotta dallo 01/01/2004).

Non c’è un vincolo quantitativo, ci sono altri tipi di vincoli:

  C’è un vincolo di carattere temporale in quanto la partecipazione ceduta deve essere posseduta per un minimo di 12 mesi.

  Ci deve essere l’iscrizione nelle immobilizzazioni immateriali. Per le partecipazioni iscritte all’attivo circolante resta l’assoggettamento a tassazione. Si riferisce anche alle società residenti all’estero in cui non c’è il vincolo imposto dallo Stato italiano a meno che non siano Paesi identificati come paradisi fiscali (elencati in un’apposita lista chiamata “black list”).

  La società partecipata deve inoltre svolgere un’attività commerciale; la plusvalenza è tassata se si tratta di società di puro e semplice godimento immobiliare.


Se la società acquista una partecipazione ed ha una perdita, questa non è deducibile.

Una società che consegue utili può decidere se distribuirli (95% esente e 5% tassabile) o meno se non distribuisce, il suo patrimonio netto aumenta.

Le plusvalenze possono essere anche esercitate da persone fisiche in questo caso il regime della taxation exemption non opera. Per le partecipazioni viene adottato lo stesso identico regime al quale sono tassati i dividendi. Se la plusvalenza proviene da una partecipazione non qualificata allora la tassazione avviene sulla base di una percentuale del 12,50%; se invece proviene da una partecipazione qualificata, concorre alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 40% del suo ammontare.


Le Sopravvenienze Attive

Le sopravvenienze attive sono componenti positivi di reddito caratterizzati dall’imprevedibilità.

Nell’ambito delle sopravvenienze troviamo anche i contributi corrisposti dallo Stato che non possono essere qualificati come contributi in conto esercizio perché non sono a fronte di spese d’esercizio.

Ad esempio, un imprenditore investe 100 in una zona particolare del mezzogiorno e gli vengono corrisposti a fronte dell’investimento 20. Sotto il profilo tributario si parte dal presupposto che il contributo non debba essere tassato tutto, immediatamente, ma nel tempo. Deve essere visto come un minor costo d’acquisto del cespite: 80. Così procedendo il 20 è soggetto a tassazione lungo tutto l’arco di durata dell’ammortamento. Le quote di ammortamento si riferiscono ad 80 e sono inferiori rispetto a quelle che avrebbe dovuto sostenere.

Ad esempio, coloro che iniziano un’attività imprenditoriale nel campo dello sport entro il 31/12/2005 riceveranno un contributo da parte dello Stato è un quid residuale che da’ luogo ad una sopravvenienza attiva, componente positivo di reddito che permette al contribuente la facoltà di scegliere di ripartirla in 5 quote capitale o di avere una tassazione immediata.


Le Giacenze Finali Di Magazzino

Occorre determinarne il valore e quindi si pone un problema di valorizzazione.

Il legislatore su questo modulo è stato di larghe vedute perché ha detto al contribuente che non c’è un criterio fiscale obbligatorio, si può adottare qualsiasi criterio (LIFO, FIFO, costo medio, . ), viene lasciata quindi una grande possibilità di scelta al contribuente. Però sicuramente una preferenza il legislatore fiscale l’ha manifestata nei confronti del LIFO a scatti perché si è preoccupato di descriverlo nelle sue diverse fasi (lo preferisce ma non lo impone). Gli altri metodi sono solo nominati.

Vale il principio della continuità una volta che si adotta un criterio si è vincolati nel continuare a farlo.


LIFO a scatti annuale. Ad esempio, un imprenditore decide di iniziare un attività di commercializzazione di tondini di piombo (no attività di trasformazione) lo 05/05/2000. Arriva il 31/12 e si pone il problema delle rimanenze finali. L’operatore economico va in magazzino e facendo un conteggio risultano 10 pezzi.

Come valorizzarli? In base al costo medio del periodo che si ottiene dal rapporto in cui a numeratore si mettono tutti gli acquisti effettuati durante il periodo d’imposta e a denominatore va la somma della quantità acquistata. Tornando all’esempio, i 10 pani che si trovano in magazzino vengono valorizzati sulla base del risultato da questo rapporto.

Le rimanenze finali del 2000 sono uguali alle rimanenze iniziali del 2001 10 pani di piombo valorizzati in base del prezzo medio dell’anno 2000. Durante l’esercizio 2001 si svolge l’attività commerciale. Al 31/12 l’imprenditore torna in magazzino, conta che ci sono 15 pani di piombo e li mette in relazione con le rimanenze iniziali. Le quantità finali sono più elevate delle quantità iniziali. Questi 15 pezzi vengono divisi in 2 parti: 10 vengono valorizzati con il costo medio del 2000, 5 sono ad incremento dell’esercizio e viene fatto un ricalcalo del prezzo medio in base agli acquisti del 2001.

Le rimanenze iniziali del 2002 sono le rimanenze finali del 2001. Passa l’anno 2002 e a fine esercizio i pani sono 12 le rimanenze finali sono minori delle rimanenze iniziali. Le quantità che sono venute meno devono essere considerate attinenti dalla stratificazione più recente. Perciò i 12 pani presenti in magazzino vengono valorizzati 10 sulla base del prezzo medio del 2000 e 2 sulla base del prezzo medio del 2001.

In sintesi gli incrementi del magazzino sono valutati sul costo medio del periodo ed i decrementi devono essere imputati alle stratificazioni precedenti.


Le cose si complicano se l’operatore svolge un’attività di trasformazione il problema si aggrava nel momento in cui si deve fare il calcolo del periodo dato che l’attività non comprende solo gli acquisti e le vendite ma anche la produzione di un determinato bene. Per il calcolo del costo medio non sarà sufficiente mettere al numeratore gli atti di fornitura ma tutti gli approvvigionamenti di beni e servizi necessari per produrre il bene (somma acquisto di materie prime + retribuzioni + quote di ammortamento dei beni strumentali). Al denominatore è necessario porre la quantità prodotta. Si ottiene così il costo di produzione a livello industriale di ogni singolo bene.



[ . ] Le Rimanenze Finali Di Magazzino

A proposito delle giacenze finali di magazzino, quali sono i criteri di valorizzazione? Il fisco non obbliga ad adottare un criterio particolare però una volta fatta una scelta bisogna conservarla.

Sulla base di questi criteri di valorizzazione può risultare che il valore attribuito al magazzino sia più alto della misura reale. Ad esempio, si pensi ad un’impresa che produce apparecchi televisivi. A fine esercizio in magazzino ci sono 100.000 televisori che però hanno una tecnologia superata e quindi l’imprenditore vede che se continuasse ad applicare il criterio di valorizzazione adottato in passato (ad esempio 100) dato che il mercato non accetta più volentieri questo tipo di beni non riuscirebbe a vendere l’intera gamma; quindi valorizza a 60. A questo punto la legge fiscale consente una deroga al principio della continuità dei valori. Perciò permette di ridurre il valore attribuito a ciascun televisore da 100 a 60, cioè consente di svalutarli e di adottare un valore normale come prezzo di mercato e non più il criterio precedentemente usato.


La Valutazione Delle Opere Ad Esecuzione Ultrannuale

L’esecuzione di opere che richiedono per la loro realizzazione due o più periodi di imposta viene valutata diversamente. Ad esempio, un’impresa ha vinto l’appalto per costruire un ponte su un determinato fiume e ha stabilito un certo prezzo con l’ente che fornisce la concessione. L’esecuzione di quest’opera richiede 3 anni. I criteri di valorizzazione (LIFO, FIFO, . ) presuppongono un confronto tra rimanenze iniziali e rimanenze finali cioè tra quantità presenti nel magazzino all’inizio del periodo d’imposta e quantità presenti nel magazzino alla fine del periodo d’imposta. Deve avere un senso fare questo confronto. Però per questa impresa non c’è. Se, ad esempio, un’azienda produce delle macchine utensili speciali costruite sulla base delle esigenze proprie del committente, non è possibile confrontare le giacenze finali con le giacenze iniziali.


Questi criteri di valorizzazione presuppongono una produzione relativamente costante cosicché il confronto tra rimanenze finali e iniziali sia omogeneo. In questi casi, quando l’oggetto della produzione sono beni che rappresentano un unicum, il criterio di valorizzazione è un criterio sulla base dei costi specifici. L’imprenditore che produce questo bene particolare tiene una rilevazione contabile di tutti i costi che sostiene per produrlo (tiene cioè le schede di lavorazione riportanti le materie prime/le materie sussidiarie che sono state utilizzate e il personale che ha lavorato per produrre quel determinato bene). Tornando all’esempio del ponte si tratta di un bene unico che l’imprenditore produce, la valorizzazione deve avvenire a costi specifici. A fine del primo anno sono stati costruiti i pilastri. Il costo sostenuto fino a quel momento sulla base del cemento, del ferro, della manodopera impiegata, . è un determinato ammontare. Quindi il manufatto in corso di realizzazione alla fine del primo anno viene valorizzato sulla base dei costi sostenuti: 50. Il secondo anno la produzione di questo ponte continua. Nuovamente dalle schede di lavorazione si vede che il costo sostenuto fino a quel momento per la realizzazione del ponte è 85. Nel terzo anno il ponte viene ultimato; il costo dell’intera opera ammonta 120. Le valorizzazioni sono state: 50, 85 e 120 ma in ogni anno rispecchiano solo i costi sostenuti dall’operatore economico. Nel primo e nel secondo anno non avremmo nessun utile perché i costi sostenuti sono stati pari alla valorizzazione. Nel terzo anno il nostro operatore continua a sostenere costi però si ha ad utile il prezzo pattuito per l’esecuzione del ponte (supponiamo 150). Quindi avremo proventi perché l’opera è ultimata per 150 e perciò l’utile si realizzerà tutto nel terzo anno quando verrà consegnato il bene.


Questo però non va bene. Non va bene all’Erario perché se l’utile si realizza nel terzo anno vuol dire che nel primo e nel secondo non incassa neanche un centesimo di imposta. Non va bene al contribuente perché se è un imprenditore individuale soggetto all’imposta progressiva (l’IRPEF), l’addensarsi del reddito tutto nel terzo anno fa sì che l’aliquota di tassazione sia più alta.

È bene che il reddito sia ripartito per tutta la durata dell’esecuzione dell’opera. Questa coincidenza di interessi per il contribuente e per il fisco fa sì che venga introdotta una deroga ai criteri di valorizzazione quando la produzione è ultrannuale.

La valorizzazione invece di essere effettuata sulla base dei costi viene effettuata sulla base dei ricavi o, meglio, sulla base dell’avanzamento/della realizzazione dell’opera. Tornando all’esempio precedente, a fine del primo anno, quando sono stati sostenuti costi per 50, i tecnici diranno che l’opera ha raggiunto il 40% del suo percorso. Allora il valore da attribuire al ponte sarà pari al 40% del prezzo pattuito (150); non è 50 (i costi) ma di più. Nel secondo periodo d’imposta i tecnici dovranno fare un’ulteriore valutazione: è stato realizzato un altro 40% dell’opera. Il valore da attribuire all’opera è l’80% e quindi a questo punto si verifica un differenziale positivo. Nel terzo anno si verificherà un altro differenziale positivo per il 20% restante.


Quando c’è un opera ad esecuzione pluriennale si adotta un criterio diverso: bisogna valorizzare sulla base della quota di ricavi maturati in funzione dello stato di avanzamento dei lavori. In questo modo l’utile sarà suddiviso nei tre anni sia per il fisco che per il contribuente.


Gli Ammortamenti

Gli ammortamenti sono componenti negativi di reddito che si possono vedere in due prospettive:

  prospettiva finanziaria l’ammortamento viene considerato nella sua natura di autofinanziamento in quanto consente al produttore di ricostituire quelle risorse finanziarie che gli permettono di sostituire il bene strumentale quando non è più in grado di funzionare (prospettiva che non interessa in sede tributaria).

  prospettiva economica l’ammortamento di un bene strumentale è deducibile perché rappresenta una perdita di valore che viene rilevata attraverso gli accantonamenti a fondo ammortamento.


Il bene strumentale viene utilizzato per lo svolgimento dell’attività di impresa. La perdita di valore si concretizza nel  trasferimento di valore dai beni strumentali ai beni realizzati.

Nel conto economico bisogna tener conto anche di questa perdita di valore. L’ammortamento deve essere necessariamente rilevato.

Questo discorso dell’ammortamento deve essere riferito solo ai beni strumentali, beni utilizzati nello svolgimento dell’attività produttiva. I beni non utilizzati in questo senso non sono suscettibili di ammortamento.

Si pensi all’operatore economico che nella propria impresa abbia necessità di una fresa. Dato che di queste frese se ne ha bisogno e c’è la possibilità che si rompano, anziché comprarne una ne compra 2, una la mette in produzione e una la mette da parte. La fresa utilizzata è un bene strumentale ed è soggetta ad ammortamento. L’altra fresa non è stata utilizzata e quindi non è suscettibile di ammortamento.


La condizione essenziale è che si tratti di un bene strumentale che viene utilizzato per lo svolgimento dell’attività di impresa e che per effetto di questo utilizzo perde valore. Però questa perdita di valore dell’ammortamento non si verifica sempre. Ad esempio, un operatore economico produce automobili. Ha il problema dello stoccaggio quindi occorrono piazzali dove mettere le automobili in attesa di essere consegnate. A un certo punto ha la necessità di avere un piazzale ulteriore e compra un terreno che viene adibito a deposito automobili. L’utilizzazione di quel terreno non comporta perdita di valore. Il terreno può essere un bene strumentale ma comunque non suscettibile di ammortamento. La strumentalità è una condizione necessaria ma non sufficiente, deve anche esserci la perdita di valore.


Come si determina la perdita di valore? Il problema è regolamentato da parte dell’amministrazione civilistica. Innanzi tutto è stato fatto un elenco molto completo di attività, per ognuna delle quali sono state individuate delle categorie generiche di beni strumentali. Ad esempio, per la produzione di sectiunelle sono state previste delle categorie omogenee. La prima sarà rappresentata da immobili destinati all’industria, la seconda da impianti generali, la terza da impianti specifici e macchine operatrici, . . Per ogni categoria generica l’amministrazione finanziaria ha espresso una percentuale di ammortamento.

Ma come ha fatto l’amministratore finanziario a stabilire questa percentuale? Ha stimato quella che è la durata fisica del bene (la macchina operatrice speciale nel settore di produzione delle sectiunelle secondo l’amministrazione finanziaria dura 5 anni, quindi ogni anno bisogna ammortizzarla per il 20%). Le percentuali di ammortamento sono il risultato di una stima della vita fisica del bene strumentale.


Qual è però l’atteggiamento del fisco? La percentuale imposta è obbligatoria? No, è una percentuale massima facoltativa. Si può ammortizzare anche solo del 15%, tanto per il fisco sarebbe un cambiamento in bene un minore ammortamento comporta una minore deduzione e di conseguenza un reddito più alto. Non si può invece andare oltre la percentuale massima che non è superabile.

Il fisco dice che si possono adottare percentuali più basse però non si può scendere al di sotto della metà perché se così fosse l’ammortamento fino al completamento della metà dell’aliquota stabilita sarebbe perso.

Quando un imprenditore, che potrebbe ammortizzare un determinato bene strumentale con l’aliquota del 20%, applica un’aliquota del 15%, quel 5% che in un determinato anno non usa per sua scelta non è un ammortamento perso ma va in coda, cioè al sesto anno quando in teoria non avrebbe più dovuto fare ammortamenti. Quindi gli ammortamenti non effettuati in un esercizio non sono persi ma vanno in coda.

Supponiamo che un imprenditore in un determinato esercizio debba ammortizzare un certo bene per il 20% ma invece usa solo un’aliquota dell’8%. I 2 punti percentuali di completamento alla metà vanno persi; i punti dai 10 ai 20 seguono la regola: non sono sprecati ma vanno in coda.

Perché il legislatore tributario ha introdotto questa distinzione? Il fisco quando il contribuente fa minore ammortamento dovrebbe essere più contento dato che incassa prima delle imposte che diversamente avrebbe ottenuto in seguito. Però per il legislatore civile l’ammortamento è visto in un’ottica diversa: non è visto come una facoltà ma è un obbligo. Il fisco ha per così dire dato una mano al legislatore civile introducendo una sanzione di carattere tributario per obbligare il contribuente ad effettuare gli ammortamenti almeno in una misura limitata. Questa è la regola tributaria con la quale bisogna fare i conti.


L’ammortamento che riflette solo l’invecchiamento fisico viene definito ammortamento ordinario ed è a fronte della vita fisica del cespite. Un altro tipo di ammortamento è l’ammortamento anticipato e riflette il superamento tecnologico che parte dal presupposto che non sempre per l’operatore economico è conveniente dismettere un bene strumentale SOLO quando non è più in grado di funzionare.

Ci sono quote aggiuntive di ammortamento rispetto al 20% di cui prima. Le percentuali aggiuntive sono tali per cui nei primi 3 anni di vita del cespite le aliquote possono essere raddoppiate.


La percentuale di ammortamento indicata nel Decreto Ministeriale è annua. Quando nel corso dell’esercizio viene acquistato un cespite, a fine anno bisogna calcolare l’ammortamento non annuo ma in base al tempo di introduzione del bene nel processo produttivo. Il legislatore tributario ha introdotto una semplificazione: a tutti i beni acquistati nel corso dell’esercizio la percentuale da adottare è la metà dell’ammortamento ordinario.

Nel caso dell’ammortamento anticipato, nel quale nei primi 3 anni l’aliquota raddoppia si ha che il primo anno la percentuale dimezzata viene raddoppiata (ottenendo quindi l’aliquota ordinaria). Se nel primo anno l’ammortamento ordinario è dimezzato al 10% e viene raddoppiato per via dell’ammortamento anticipato, è pari al 20%; nel secondo e nel terzo anno l’ammortamento ordinario del 20% è in raddoppio al 40%. Così facendo si arriva al 100% e non si può andare oltre il nostro processo di ammortamento a questo punto è terminato.

Per poter usufruire dell’ammortamento anticipato, l’imprenditore non deve dimostrare all’amministrazione finanziaria l’obsolescenza del bene. Visto che fare gli ammortamenti significa ridurre reddito imponibile, conviene utilizzare gli ammortamenti anticipati, dato che il legislatore lo permette.


Sorge un problema di raccordo tra legislazione tributaria e legislazione civile dove gli ammortamenti vengono rilevati nel conto economico civilistico in cui vanno messe le poste vere/reali. Però come bisogna considerare questi ammortamenti anticipati rilevati dall’imprenditore per non perdere un vantaggio che il fisco ammette? Se li collocassimo nel bilancio civilistico in una posta indifferenziata, insieme agli ammortamenti ordinari, si avrebbe un fondo di ammortamento che non sarebbe vero perché dovrebbe raccogliere solo le perdite di valore reali. Allora si dà la possibilità al contribuente di utilizzare l’ammortamento anticipato secondo modalità contabili particolari: cioè mentre l’ammortamento ordinario è una posta negativa di conto economico, l’ammortamento anticipato può non esserlo, il conto economico non vincola tali ammortamenti.

In sede di destinazione dell’utile d’esercizio, una quota pari agli ammortamenti anticipati deve essere destinata a riserva. Nella dichiarazione dei redditi può essere introdotta una variazione in riduzione per gli ammortamenti anticipati non imputati a conto economico. Quindi dato che gli ammortamenti anticipati a volte non riflettono delle vere perdite di valore ma sono delle poste che consentono nel territorio economico di avvalersi di un vantaggio tributario, il fisco dice che si possono imputare gli ammortamenti anticipati a conto economico però quando si avrà un determinato utile d’esercizio, una quota di quest’ultimo dovrà essere destinata a riserva (chiamata riserva per ammortamenti anticipati).

In questo modo si è introdotta una deroga al principio formalistico della formazione del bilancio gli ammortamenti anticipati, posta riduttiva del reddito imponibile, possono essere riconosciuti a conto economico anche se non vi sono stati imputati, a condizione che una quota d’utile sia messa a riserva.


C’è un terzo tipo di ammortamento, di cui ne parla il Testo Unico ma che è applicato raramente l’ammortamento accelerato, consentito in una particolare situazione: quando l’usura del bene strumentale è particolarmente forte.

L’ammortamento ordinario è indicato per categorie generiche di beni strumentali e per settori di attività. Queste attività vengono considerate nel loro svolgimento medio normale. Se per l’attività di produzione di sectiunelle è solito che le imprese svolgano ritmi di lavoro di 10 ore su 24, la durata della vita fisica dei beni strumentali tiene conto di questo particolare ritmo. Ci possono essere altri settori in cui si lavora 16 ore su 24 (ad esempio, gli alti forni) e le cui percentuali di ammortamento tengono già conto di ciò che è normale. Ma ci può essere anche il caso in cui una certa impresa segua dei ritmi di produzione particolarmente intensi e più intensi di ciò che è la normalità del settore di attività. Se nell’attività della produzione di sectiunelle non mi basta produrre 10 ore su 24, ma voglio lavorare 16 ore su 24 con i ritmi di produzione diversi e più intensi del normale, la durata dei beni strumentali che uso è minore rispetto agli altri concorrenti.

Innanzitutto bisogna dimostrare questa situazione al fisco con il quale si concorderà una maggiorazione delle percentuali di ammortamento ordinario.

Nella pratica delle imprese è un tipo di ammortamento poco utilizzato soprattutto perché ammortamento ordinario e ammortamento anticipato sono già abbastanza rapidi, non c’è bisogno di accelerare ulteriormente il processo.


Anche per i beni strumentali immateriali è necessario l’ammortamento. I beni immateriali di cui si occupa il diritto tributario sono i brevetti, le formule, i processi industriali in ogni esercizio il costo di questi beni immateriali è deducibile in misura non superiore ad un terzo del costo.

Il legislatore non si preoccupa del minimo, si preoccupa solo del massimo.

Mentre per quanto riguarda il marchio, l’ammortamento imputabile a ciascun esercizio non può essere superiore ad un decimo del costo.

L’avviamento, altro bene immateriale molto importante, è suscettibile di ammortamento che non può essere superiore a un decimo del costo sostenuto.


Si ha in sostanza da una parte gli ammortamenti dei beni materiali, che si distinguono in ordinari, anticipati e accelerati, e dall’altra l’ammortamento dei beni immateriali dove il legislatore si limita ad imporre una quota massima.


Gli Accantonamenti

Gli accantonamenti per oneri futuri sono a fronte di un costo che ancora non si è realizzato ma di cui si ha la certezza sul suo verificarsi è incerto il momento ma non la sua necessità di accadimento (ad esempio, l’accantonamento che ogni anno il datore di lavoro fa per il TFR).

Questi accantonamenti sono deducibili per loro natura dal reddito d’impresa in quanto sono a fronte di oneri che sicuramente si realizzeranno.


Gli accantonamenti a fondo rischi sono a fronte di previsioni di componenti negativi di reddito di cui non si sa se ci sarà accadimento o no (ad esempio, il fondo rischi su crediti).

In sede fiscale dato che non si sa se effettivamente l’accantonamento servirà e quindi si ha indeducibilità gli accantonamenti dei rischi dell’impresa sono indeducibili perché sono componenti negativi di reddito che mancano del requisito della certezza.

Questa è una regola che come tutte ha delle eccezioni ci sono alcuni fondi rischi per i quali gli accantonamenti sono deducibili. Uno di questi è l’accantonamento a fondo rischi su crediti. Dal punto di vista civilistico viene stanziato un accantonamento che va a carico del conto economico a fronte del quale si istituisce il fondo rischi su crediti. In che misura è consentito all’operatore economico di rilevare un accantonamento a fondo rischi che sia deducibile fiscalmente? Il legislatore fiscale lo consente solo nei limiti dello 0,50% dei crediti esistenti nello Stato Patrimoniale a fine del periodo d’imposta.

L’operatore economico redige lo stato patrimoniale alla fine dell’esercizio ed evidenzia che i crediti sono pari a 100.000 €. Allora applica la percentuale dello 0,50% ed ottiene 500 € di accantonamento al fondo rischi su crediti che è fiscalmente deducibile. Però può darsi che in realtà l’operatore economico su 100.000 €, ne abbia 95.000 € che derivano dallo svolgimento dell’attività commerciale lo 0,50% non deve riguardare i crediti che non derivano in modo diretto dallo svolgimento dell’attività d’impresa.

Se si sostiene una perdita su crediti, che in linea di principio è un componente negativo di reddito, ed esiste un fondo, questa perdita va imputata ad esso che quindi si riduce. L’utilizzo del fondo avviene in base all’esistenza reale delle perdite.


È ancora da considerare il fatto che c’è un limite massimo previsto per il fondo: quando il fondo raggiunge la percentuale del 5% dei crediti esistenti in S.P. a fine del periodo di imposta, gli accantonamenti non possono essere più effettuati.


Il principio generale dell’accantonamento ai fondi rischi è l’indeducibilità poi ci sono delle eccezioni. Ad esempio, un altro accantonamento che fa eccezione è l’accantonamento a fronte di oneri derivanti da operazioni a premio.


Esistono altri accantonamenti ma non andiamo nel dettaglio.


Per quanto riguarda il REDDITO D’IMPRESA può bastare.



I Redditi Diversi

Non c’è una nozione generale onnicomprensiva di REDDITI DIVERSI ma solo un’elencazione.

Nell’ambito di questi redditi c’è la tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni. Sono REDDITI DIVERSI quando un soggetto che cede la partecipazione sia persona fisica che realizza questa operazione non nell’ambito dell’esercizio dell’impresa.

Questo problema è già stato visto quando si sono trattati i dividendi. La plusvalenza è un REDDITO DIVERSO e si può distinguere a seconda che sia qualificata o meno.


Ci sono altri REDDITI DIVERSI. Ad esempio, i redditi derivanti da lottizzazione di terreni (ho un terreno, lo divido in lotti e vendo i lotti il reddito che deriva da quest’operazione è un REDDITO DIVERSO).


Un altro esempio è la cessione di terreni edificabili oppure anche la cessione di una casa di abitazione però la plusvalenza di quest’ultima non è tassabile solo se il tempo intercorrente tra l’acquisto e la vendita è superiore a 5 anni.


Anche qui sorgono due problemi:

Problema del quando la tassazione si può verificare quando il reddito è effettivamente realizzato. Non vale la competenza ma vale la cassa, il momento del percepimento.


Per quanto riguarda il problema del quanto la scelta è per la deducibilità dei costi di produzione quando ipotizzo il caso del soggetto che compra un terreno e lo rivende a lotti al prezzo di realizzo devo togliere il costo d’acquisto più tutti gli altri costi sostenuti per la lottizzazione.







Privacy

© ePerTutti.com : tutti i diritti riservati
:::::
Condizioni Generali - Invia - Contatta