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La conclusione del procedimento amministrativo: il provvedimento e gli accordi amministrativi

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La conclusione del procedimento amministrativo: il provvedimento e gli accordi amministrativi.

Gli atti determinati dal contenuto del provvedimento, l'atto complesso il concerto e l'intesa.

L'amministrazione conclude il procedimento emanando una decisione.

La fase decisoria può essere costituita da una serie di atti, da un atto proveniente da un unico organo, da un fatto, oppure da un accordo.

Quando la fase decisoria consiste nell'emanazione di atti o deliberazioni preliminari determinativi del contenuto del provvedimento finale, si assiste all'adozione da parte di un organo di un atto che, per produrre effetti, deve essere esternato ad opera di un altro organo. L'atto del primo organo è quindi determinativo del contenuto del provvedimento finale, ma non è costitutivo degli effetti.

La decisione su proposta è un atto di impulso procedimentale necessario perché il provvedimento finale possa essere emanato, e indicativo del contenuto dello stesso. L'organo al quale la proposta è rivolta ha sempre il potere di rifiutare l'adozione dell'atto finale, ma non può modificare il contenuto della proposta.

La determinazione preliminare e l'atto finale rimangono separati, ma quando le due situazioni si fondono danno luogo all'atto complesso.



Il concerto è un istituto che si riscontra nelle relazioni tra organi dello stesso ente: l'autorità concertante elabora uno schema di provvedimento e lo trasmette all'autorità concertata. Il consenso dell'autorità concertante condizione l'emanazione del provvedimento: tale consenso è espresso con atto che non si fonde con quello dell'amministrazione procedente, che è l'unica ad adottare l'atto finale.

L'intesa viene di norma raggiunta tra enti differenti ai quali tutti si imputa l'effetto.

La conferenza di servizi c.d. "decisoria".

La legge, pur ritenendo necessario il consenso di più amministrazioni ai fini della definizione del procedimento, ammette oggi che gli atti determinativi o condizionanti il contenuto della decisione finale possano essere sostituiti dalla determinazione assunta in seno alla conferenza di servizi.

Il modello di conferenza di servizi introdotto dall'art. 14 legge 241/90 differisce dalla conferenza istruttoria anche se la disciplina è in parte identica: si tratta delle c.d. conferenze decisorie. Il legislatore, le circoscrive ai casi in cui sia necessario acquisire "intese, concerti, nullaosta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche" e l'amministrazione, avendoli formalmente richiesti, non li ottenga entro quindici giorni dall'inizio del procedimento.

Secondo l'art. 14 ter legge 241/90 il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza "sostituisce a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare, alla predetta conferenza".

La conferenza di servizi (sia istruttoria che decisoria) tende un accordo tra amministrazioni. Essa non dà luogo ad un organo collegiale atteso che ogni rappresentante delle amministrazioni "vi partecipa nell'esercizio delle funzioni amministrative dell'ente di competenza" e gli effetti sono imputati alle singole amministrazioni e non alla conferenza.

L'art. 14 quater legge 241/90, in caso di dissenso espresso da un soggetto convocato alla conferenza, consente che la determinazione conclusiva del procedimento possa essere comunque assunta dall'amministrazione procedente "sulla base della maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza di servizi".

Alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza decisoria, si conforma il provvedimento finale, il quale sostituisce autorizzazioni, concessioni, nulla osta e atti di assenso.

La conferenza decisoria come descritta può essere definita interna.

La legge 241/90 disciplina anche un modello di conferenza di servizi decisoria esterna la quale, anche su richiesta dell'interessato, può essere convocata dall'amministrazione competente per l'adozione del provvedimento finale "quando l'attività del privato sia subordinata ad atti di consenso, comunque denominati, di competenza di più amministrazioni pubbliche".

La possibilità dunque per il privato di richiedere l'indizione della conferenza gli consente di assumere una importante iniziativa per "indurre" le amministrazioni ad esercitare in una unica soluzione i differenti poteri permissivi.

La conferenza può poi essere convocata per l'esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti connessi, riguardanti medesimi attività o risultati; in tal caso, su richiesta di una qualsiasi delle amministrazioni coinvolte, essa è indetta "dall'amministrazione o, previa intesa formale, da una delle amministrazioni che curano l'interesse pubblico prevalente".

La legge prevede ulteriori ipotesi di conferenza: quella che può essere convocata dal concedente in caso di affidamento di concessione di lavori pubblici; quella che il ministro dei trasporti può indire per l'approvazione di progetti di opere concernenti reti ferroviarie e quella, infine, relative a istanze o progetti preliminari, la quale può essere convocata "per progetti di particolare complessità, su motivata e documentata richiesta dell'interessato, prima della presentazione di una istanza o di un progetto definitivi, al fine di verificare quali siano le condizioni per ottenere, alla loro presentazione, i necessari atti di consenso". La conferenza si esprime entro trenta giorni dalla data della richiesta allo stato degli atti a sua disposizione e le indicazioni fornite possono essere modificate o intergrate "solo in presenza di significativi elementi emersi nelle fasi successive del procedimento". I costi sono a carico del richiedente.

L'art. 14 ter disciplina il procedimento della conferenza di servizi prevedendo regole che mirano a garantire la celere e positiva conclusione del subprocedimento, caratterizzato anche dalla presenza di una vera e propria fase istruttoria. In particolare, esso stabilisce che:

la conferenza assume le determinazioni relative all'organizzazione dei propri lavori a maggioranza dei presenti;

la convocazione alla prima riunione deve pervenire, anche per via telematica o informatica, almeno dieci giorni prima della relativa data;

le amministrazioni stabiliscono il termine per l'adozione della decisione conclusiva, rispettando la regola secondo cui i lavori non possono superare i 90 giorni;

ogni amministrazione partecipa ad essa con un "unico rappresentante, legittimato dall'organo competente ad esprimere in modo vincolante la volontà su tutte le decisioni di competenza della stessa" ;

in sede di conferenza possono essere richiesti, per una sola volta, ai proponenti dell'istanza o ai progettisti chiarimenti o ulteriore documentazione, che debbono essere forniti entro trenta giorni (in caso contrario "si procede all'esame del provvedimento").

Nel caso di mancato rispetto del termine stabilito per la conclusione dei lavori, l'art.14 ter prevede che l'amministrazione procede ai sensi di quanto disposto in ordine al dissenso, e, dunque, può assumere la determinazione di conclusione del procedimento.

L'art. 14 quater stabilisce, nel caso di dissenso espresso nella conferenza, che l'amministrazione procedente assume comunque la determinazione conclusiva "sulla base della maggioranza delle posizioni espresse in sede di conferenza di servizi". La determinazione è immediatamente esecutiva.

Si considera poi acquisito l'assenso dell'amministrazione il cui rappresentante non abbia "espresso definitivamente la volontà dell'amministrazione rappresentata e non abbia notificato all'amministrazione procedente, entro trenta giorni dalla data di ricezione della determinazione di conclusione del procedimento, il proprio motivato dissenso, ovvero nello stesso termine non abbia impugnato la determinazione medesima".

Il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza "sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare, alla predetta conferenza".

Il comma 3 dell'art.14 quater introduce poi una disciplina derogatoria occupandosi dei casi di dissenso manifestato da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute. In tal caso la decisione è rimessa al Consiglio dei Ministri ove l'amministrazione dissenziente o quella procedente sia un'amministrazione statale, ovvero ai componenti organi collegiali esecutivi degli enti territoriali, nelle altre ipotesi. Gli organi in oggetto deliberano entro trenta giorni.

Una disciplina peculiare è infine dettata con riferimento al caso in cui sia prevista la valutazione di impatto ambientale (v.i.a.), procedura volta a verificare via preventiva la compatibilità ambientale di alcune opere e di alcuni progetti. La v.i.a. deve essere acquisita dalla conferenza di servizi, la quale deve attendere l'adozione del provvedimento di v.i.a.. Ove la valutazione di impatto ambientale non intervenga nel termine fissato per l'adozione del relativo provvedimento, l'amministrazione competente si esprime in sede di conferenza.

Il provvedimento finale concernente opere sottoposte a v.i.a. deve essere pubblicato, a cura del proponente, nella Gazzetta Ufficiale o nel bollettino ufficiale regionale e in un quotidiano a diffusione nazionale. Dalla data della pubblicazione nella G.U. decorrono i termini per eventuali impugnazioni in sede giurisdizionale.

Silenzio-inadempimento, silenzio-rigetto, silenzio significativo e silenzio devolutivo.

Il silenzio è l'inerzia dell'amministrazione.

Il nostro ordinamento conosce varie forme di silenzio: silenzio-inadempimento, silenzio-rigetto, silenzio significativo, silenzio devolutivo.

Il silenzio-inadempimento è un mero fatto e si realizza allorché l'amministrazione, sulla quale grava il dovere giuridico di agire emanando un atto amministrativo, ometta di provvede senza che vi sia una particolare attribuzione legislativa di significato a tale inerzia.

La disciplina dell'istituto di ricava dall'art. 2 legge 241/90: trascorso il termine fissato per la conclusione del procedimento, il silenzio può ritenersi formato. A partire da tale termine decorre il tempo per proporre ricorso giurisdizionale.

Il silenzio-rigetto si forma nei casi in cui l'amministrazione, alla quale sia stato indirizzato un ricorso amministrativo, rimanga inerte.

Il d.p.r. 1199/1971 dispone che il ricorso si ritiene respinto trascorsi novanta giorni dal ricevimento del ricorso gerarchico.

Il silenzio significativo concerne il fatto che l'ordinamento collega al decorso del termine la produzione di un effetto equipollente all'emanazione di un provvedimento favorevole (silenzio-assenso) o di diniego (silenzio-rigetto) a seguito di istanza del privato titolare di un interesse pretensivo.

Pochi sono i casi di silenzio-diniego, come ad esempio l'art. 13 legge 47/1985 si sensi del quale l'inutile decorso del termine di sessanta giorni dalla richiesta della concessione o dell'autorizzazione in sanatoria comporta il diniego della stessa.

Il silenzio-assenso è previsto da numerose disposizioni nel nostro ordinamento, esso è disciplinato in via generale dall'art. 20 legge 241/90. Tale norma dispone che con regolamento adottato ai sensi del comma 2 dell'art. 17 legge 400/1988 e succ.mod. sono determinati i casi in cui la domanda di rilascio di autorizzazione, licenza, abilitazione, nullaosta, permesso od altro atto di consenso comunque denominato, cui sia subordinato lo svolgimento di un'attività privata, si considera accolta qualora non venga comunicato all'interessato il provvedimento di diniego entro il termine fissato dal medesimo regolamento per categorie di atti, in relazione alla complessità del rispettivo procedimento.

Il silenzio-assenso può formarsi solo nei casi tassativamente indicati dalla normativa.

I termini possono essere interrotti dall'amministrazione una sola volta per la tempestiva richiesta all'interessato di elementi integrativi o di giudizio che non siano già nella disponibilità dell'amministrazione stessa e che essa non possa acquisire autonomamente.

In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni il dichiarante è punito con la sanzione di cui all'art. 483 c.p. In tale ipotesi "non è ammessa la conformazione dell'attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli artt. 19 e 20". La dichiarazione mendace o falsa, quindi, impedisce in ogni caso la formazione del silenzio-assenso.

Ai sensi del secondo comma dell'art.21 legge 241/90 "le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell'attività in carenza dell'atto di assenso dell'amministrazione o in difformità di esso di applicano anche nei riguardi di coloro i quali diano inizio all'attività ai sensi degli artt. 19 e 20 in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente".

L'art. 17 legge 241/90 disciplina il silenzio devolutivo: l'inutile decorso del termine consente al soggetto pubblico procedente di rivolgersi ad un'altra amministrazione al fine di ottenere una valutazione tecnica non resa dall'amministrazione alla quale è stata inizialmente richiesta.

Il silenzio-assenso partecipa a quel meccanismo di dinamica giuridica caratterizzato dallo schema norma-potere-effetto.

La denuncia di inizio attività.

L'istituto della denuncia di inizio attività è disciplinato dall'art. 19 legge 241/90 e trova il proprio diretto titolo di legittimazione nella legge, la quale ne fissa direttamente il regime, e essa può essere definita in senso proprio come "liberalizzata".

L'art. 19 legge 241/90 si occupa dei casi in cui l'esercizio di un'attività privata sia subordinata ad autorizzazione, licenza, abilitazione, nullaosta, permesso o altro atto di consenso comunque denominato il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge, senza l'esperimento di prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecniche discrezionali, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo per il rilascio degli stessi: in tale ipotesi l'atto di consenso si intende sostituito da una denuncia di inizio di attività da parte dell'interessato alla pubblica amministrazione competente, attestante l'esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge, eventualmente accomnata dall'autocertificazione dell'esperimento di prove a ciò destinate, ove previste. Sono escluse da tale disciplina le concessioni edilizie e le autorizzazioni rilasciate ai sensi della legge 1089/1939 (legge emanata a tutela delle cose di interesse storico e artistico), della legge 1497/1939 (a tutela del paesaggio) e della legge 431/1985 (c.d. "legge Galasso" - ormai sostituita dal D.Lgs 42/2004).

L'art. 19 si applica sempre che non ricorrano i seguenti requisiti: procedimento vincolato, assenza della necessità di esperire prove che comportino valutazioni tecnico-discrezionali e assenza di limiti o contingenti complessivi per il rilascio degli atti.

Unico onere del privato è quello di comunicare l'avvio dell'attività con un atto che non è dunque una domanda ma un'informativa cui è subordinato l'esercizio del diritto. Talora l'attività può essere iniziata non immediatamente, ma decorso un certo periodo di tempo.

Art. 19 legge 241/90 "spetta all'amministrazione competente, entro e non oltre sessanta giorni dalla denuncia, verificare d'ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e disporre, se del caso, con provvedimento motivato da notificare all'interessato entro il medesimo termine, il divieto di prosecuzione dell'attività e la rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente della attività ed i suoi effetti entro il termine prefissato dall'amministrazione stessa".

L'amministrazione non esercita pertanto il tradizionale e preventivo potere permissivo, ma dispone di un potere d'ufficio di verifica e di controllo che si esercita a seguito della presentazione della denuncia di inizio attività.

L'atto amministrativo e il provvedimento amministrativo: osservazioni generali.

Tradizionalmente l'atto amministrativo è definito come qualsiasi manifestazione di volontà, desiderio, giudizio o conoscenza proveniente da una pubblica amministrazione nell'esercizio di una potestà amministrativa. Nell'ambito dell'atto amministrativo il procedimento amministrativo si chiude con in provvedimento.

Il provvedimento è emanato dall'organo competente (collegiale o monocratico) ed è il risultato dell'esercizio del potere amministrativo attribuito all'amministrazione.

Soltanto il provvedimento è dotato di effetti sul piano dell'ordinamento generale.

L'amministrazione pone in essere anche comportamenti giuridicamente rilevanti che non sono atti amministrativi in senso proprio (e quindi non sono atti giuridici): si tratta delle operazioni materiali (in esecuzione di atti o di doveri scaturenti da norme: sopralluoghi, misurazioni e così via) e di misure di partecipazione volte a portare atti nella sfera di conoscibilità dei terzi.

Il provvedimento ripete i medesimi caratteri del potere, esso è tipico e nominato.

Gli effetti dei provvedimenti non sono retroattivi poiché di norma la possibilità di produrre effetti per il passato è riconosciuta solo al legislatore.

Mediante l'interpretazione del provvedimento si perviene alla giuridica qualificazione del provvedimento stesso, del suo contenuto e dei suoi effetti.

L'atto, difatti, è composto di norma da una intestazione nella quale è indicata l'autorità emanante; da un preambolo in cui sono enunciate le circostanze di fatto e quelle di diritto (il preambolo è introdotto da formule tipo "premesso che", "visto", ecc . ); dalla motivazione la quale indica le ragioni giuridiche e i presupposti di fatto del provvedere; e dal dispositivo il quale rappresenta la parte precettiva del provvedimento e contiene la concreta statuizione posta in essere dall'amministrazione (di solito introdotto da espressioni come "ordina", "delibera", "autorizza", "revoca" ecc . ). Il provvedimento è poi datato e sottoscritto, indicando anche il luogo della sua emanazione.

Agli atti amministrativi si applicano alcune tra le norme poste dal codice civile per l'interpretazione del contratto:

l'art. 1362 in ordine alla rilevanza dall'intenzione del soggetto e al comportamento complessivo;

l'art. 1363 in base al quale le clausole di interpretano una per mezzo delle altre;

l'art. 1364 secondo cui, per quanto siano generali le espressioni usate nell'atto, esso non si riferisce che agli oggetti suoi propri;

l'art. 1367 secondo il quale le disposizioni debbono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto;

l'art. 1366 ai sensi del quale il contratto si deve interpretare secondo buona fede.

Non è poi ammissibile l'interpretazione autentica vincolante per i terzi da parte nell'amministrazione autrice dell'atto perché questa possibilità è riconosciuta solo al legislatore.

Provvedimento amministrativo e incisione sulle situazioni soggettive.

Componente fondamentale del provvedimento è la volontà procedimentale.

Un provvedimento rileva giuridicamente non già dalla sua volontà psicologica della persona che lo emana, bensì quella "oggettivata" risultante dal procedimento nel suo complesso.

Di regola la legge assegna il provvedimento ad una persona fisica (ente pubblico) diversa dalla persona fisica dal cui comportamento è prodotto il provvedimento.

Il provvedimento è un atto di "disposizione" in ordine all'interesse pubblico che l'amministrazione deve perseguire e che si correla con l'incisione di altrui situazioni soggettive.

L'autoritatività è cioè connotazione del potere comunque rivolto alla cura dei pubblici interessi e preordinato alla produzione di effetti giuridici in capo ai terzi, ed è propria di ogni provvedimento amministrativo con cui tale potere si esercita, indipendentemente dalla natura favorevole o sfavorevole degli effetti.

Unilateralità, tipicità e nominatività del potere.

Il provvedimento è sempre caratterizzato dal perseguimento unilaterale di interessi pubblici e dalla produzione unilaterale di vicende giuridiche sul piano dell'ordinamento generale in ordine a situazioni giuridiche dei privati.

Il tipo di vicenda giuridica prodotto dall'esercizio del potere viene preventivamente definito come tipicità del provvedimento amministrativo ed è diretta espressione del principio di legalità.

La pubblica amministrazione, per conseguire gli effetti tipici, può inoltre ricorrere soltanto agli schemi individuati in generale dalla legge. E' questo il c.d. principio di nominatività il quale sembra dover essere riferito al provvedimento ed al potere.

La differenza tra nominatività e tipicità si percepisce con maggior chiarezza ove si pensi alle ordinanze di necessità e urgenza, atti nominati (perché previsti dall'ordinamento), ma i cui effetti non sono compiutamente predefiniti dalla legge.

L'ordinamento generale appresta in ogni caso due tipi di limiti a garanzia dei privati: da un lato la predefinizione dei tipi di vicende giuridiche che possono essere prodotte dall'amministrazione (tipicità); dall'altro, la predeterminazione degli elementi (e la connessione fra gli stessi) del potere che può essere esercitato per conseguire quegli effetti (nominatività).

Gli elementi essenziali del provvedimento e le clausole accessorie.

Gli elementi essenziali del provvedimento sono quegli elementi la cui assenza impedisce al provvedimento di venire in vita o meglio, di quegli elementi che costituiscono i limiti del potere attribuito all'amministrazione di cui il provvedimento è espressione.

Gli elementi del provvedimento considerati essenziali sono il soggetto, il contenuto del dispositivo, l'oggetto, la finalità e la forma.

Il potere è conferito ad un soggetto pubblico dotato di personalità giuridica.

La violazione della norma relativa ai limiti soggettivi del potere determina la nullità del provvedimento (si pensi all'esempio dell'emanazione di un provvedimento da parte di un ente diverso da quello cui la legge attribuisce il potere relativo).

Lo svolgimento da parte di un'autorità di una potestà spettante ad altro ente dà luogo ad un atto che non produce effetti; parte della dottrina parla di straripamento di potere o di incompetenza assoluta.

Il potere consiste nella possibilità di produrre una determinata vicenda giuridica: è questo il contenuto dispositivo del potere.

La dottrina distingue tra contenuto necessario (consistente appunto nella vicenda giuridica tipizzata dalla legge), contenuto accidentale e contenuto implicito o naturale del provvedimento.

L'insieme delle disposizioni, dette anche clausole accessorie, che la volontà dell'amministrazione può introdurre nell'atto in aggiunta a quelle che ne costituiscono il contenuto necessario, "per determinare in vario modo gli effetti che nel caso singolo la volontà medesima intende abbiano a scaturire dell'atto", costituisce il contenuto eventuale o accidentale dell'atto (condizione, termine e modo).

Sono opponibili ai provvedimenti le condizioni, quindi è possibile subordinare la produzione (condizione sospensiva) o la cessazione dell'effetto (condizione risolutiva) al verificarsi di un avvenimento futuro e incerto.

In ordine al "termine" spesso la limitazione temporale all'efficacia di un atto deriva direttamente dalla legge sicché non si può parlare di contenuto accidentale.

Per quanto attiene al modo, esso costituisce il terzo elemento accidentale, e l'opinione negativa in ordine alla sua opponibilità ai provvedimenti si giustifica in quanto esso è proprio dei soli atti di liberalità.

Il contenuto implicito o naturale del provvedimento è costituito dalle disposizioni operanti in virtù della legge, pur se non richiamate nel provvedimento stesso.

L'illegittimità della clausola o l'apposizione di clausole non consentite non rende illegittimo il provvedimento nella sua interezza nei casi in cui si tratti di atto dovuto, facendo salvo, in quanto possibile, il provvedimento e rendendo ammissibile l'annullamento parziale dell'atto.

L'oggetto del provvedimento è il termine passivo della vicenda che verrà a prodursi a seguito dell'azione amministrativa: esso deve essere lecito, possibile, determinato o determinabile.

L'oggetto può di volta in volta essere il bene, la situazione giuridica o l'attività destinati a subire gli effetti giuridici prodotti dal provvedimento.

Il potere e il corrispondente provvedimento sono infine caratterizzati dalla preordinazione alla cura dell'interesse pubblico che è risultato vincente nel giudizio di bilanciamento tra valori diversi, risolto dalla norma di relazione (finalità o causa del potere).

La legge attributiva del potere può inoltre prevedere che l'atto debba rivestire una certa forma a pena di nullità. Di norma si tratta della forma scritta anche se non mancano esempi di esternazioni dell'atto in forma orale o comunque non scritte (come nel caso di intimazioni o alle segnalazioni manuali degli agenti del traffico).

Non si confonda poi la forma dell'atto (o della deliberazione) con la forma di pubblicità, costituita ad esempio dalla documentazione o verbalizzazione. Essa non è infatti la veste formale dell'atto e consiste in un acclaramento storico contemporaneo mediante il quale vengono narrati fatti e le operazioni dell'organo in funzione di documentazione e di esternazione. Il verbale, redatto dal soggetto competente (può trattarsi di un pubblico ufficiale) deve essere approvato dai presenti, operazione spesso effettuata nella seduta successiva dell'organo collegiale, in funzione di controllo. In questa sede possono essere inserite a verbale correzioni, precisazioni e aggiunte alla verbalizzazione, procedendo così ad una rettifica da parte dei presenti (purché presenti anche alla seduta precedente).

L'art. 3 legge 39/1993 stabilisce che agli atti amministrativi vengano di norma predisposti tramite sistemi informativi automatizzati: si tratta del c.d. atto amministrativo informatico. L'art. 15 c.2 legge 59/1997 prescrive che "gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informativi o telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge".

La disciplina del documento informatico è contenuta negli artt. 8 e segg. d.p.r. 445/2000 e successive modificazioni (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa).

Il documento informatico ha efficacia probatoria ai sensi dell'art. 2712 Codice civile e, se sottoscritto con firma elettronica, "soddisfa il requisito legale della forma scritta" e sul piano probatorio "è liberamente valutabile".

La legge prevede due tipologie di firme: la firma elettronica per così dire leggera (d.lgs 10/2002), meno sicura e che attribuisce al documento la validità dell'atto autografo, e la firma digitale (art.23 t.u., in materia di documentazione amministrativa).

La firma digitale è il risultato di una procedura informatica (validazione: in pratica si applica una particolare funzione - hash - che riduce il documento ad una stringa di caratteri), che consente al sottoscrittore e al destinatario, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l'integrità del documento informatico o di un insieme di documenti informatici.

L'art. 25 t.u. in materia di documentazione amministrativa, stabilisce che nei documenti informatici la firma autografa o la firma, comunque prevista, è sostituita dalla firma digitale.

In tema di forma dei provvedimenti, un particolare cenno meritano le c.d. determinazioni. Con tale termine ci si riferisce nella prassi alla forma assunta dagli atti dirigenziali (rif. Circolare Ministeri interni n.6 del 22 giugno 1993; art.183 c.9 t.u. enti locali).

Difformità del provvedimento dal paradigma normativo: la nullità e l'illiceità del provvedimento amministrativo.

Il provvedimento emanato in violazione delle norme attributive del potere è nullo. Nel caso di mancato rispetto di una norma attributiva del potere in concreto, il provvedimento va qualificato come illecito. Ove invece esso sia difforme dalle norme di azione che disciplinano l'esercizio del potere va qualificato come annullabile.

La dottrina amministrativistica riconduce nullità, illiceità e annullabilità nell'ambito della categoria dell'invalidità, consistente nella difformità dell'atto dalla normativa che lo disciplina.

L'illegittimità del provvedimento amministrativo.

L'atto emanato nel rispetto delle norme attributive del potere ma in difformità di quelle di azione è affetto da illegittimità ed è sottoposto al regime dell'annullabilità. Esso produce effetti perché le norme che riconoscono la possibilità di produrre effetti sono state rispettate; tuttavia questi effetti sono precari, nel senso che l'ordinamento prevede strumenti giurisdizionali per eliminarli, contestualmente all'atto che li pone in essere.

L'atto illegittimo è inoltre annullabile da parte della stessa amministrazione in via di autotutela, ovvero in sede di controllo o di decisione di ricorsi amministrativi; esso poi può essere disapplicato dal giudice ordinario che incidentalmente sia chiamato a verificarne la legittimità al fine di decidere una controversia che attiene alla lesione di diritti soggettivi. Il provvedimento illegittimo può essere convalidato. La giurisprudenza comunitaria ha infine ammesso la disapplicabilità del provvedimento amministrativo in contrasto con la disciplina comunitaria direttamente applicabile.

Parte del regime dell'atto annullabile si ricava da due disposizioni processuali (art.26 r.d. 1054/1924 e art.3 legge 1034/1971), le quali individuano i vizi di legittimità che determinano l'annullamento degli atti amministrativi ad opera del giudice amministrativo a seguito di impugnazione da parte dei soggetti titolari di interessi legittimi.

L'illegittimità può essere di quattro tipi:

a)  originaria, che si determina con riferimento alla normativa in vigore al momento della perfezione dell'atto.

b)  Sopravvenuta, che si determina con riferimento alla normativa sopravvenuta successivamente all'emanazione del provvedimento in generale e che non incide sulla validità dello stesso (il mutato quadro normativo può aprire piuttosto la via all'adozione di provvedimenti di riesame).

c)  Derivata, che si verifica quando viene annullato un atto che costituisce il presupposto di un altro atto. E' incerto se l'annullamento dell'atto preposto travolga automaticamente gli atti successivi ed il problema deve essere risolto caso per caso.

d)  Parziale, che si riscontra allorché solo una parte del contenuto sia illegittimo, sicché soltanto essa sarà oggetto di annullamento, salvo che eliminandola non sia più possibile conurare come tale l'atto amministrativo: la parte restante resta in vigore purché sia conurabile come atto amministrativo, determinando comunque un cambiamento del contenuto originario dell'atto (modificazione).

I vizi di legittimità del provvedimento amministrativo.

I vizi di legittimità degli atti amministrativi e cioè le concrete cause della illegittimità degli stessi, sono: l'incompetenza, la violazione di legge e l'eccesso di potere.

I vizi conseguono alla violazione delle norme di azione e, cioè, delle disposizioni che attengono alla modalità di esercizio di un potere.

Si denomina incompetenza il vizio che consegue alla violazione della norma di azione (leggi, ma anche regolamenti o statuti) che definisce la competenza dell'organo e, cioè, il quantum di funzioni spettante all'organo stesso (incompetenza relativa).

La violazione di una norma attinente all'elemento soggettivo ma che sia norma di relazione non dà luogo al vizio di incompetenza. In tal caso l'atto sarà addirittura nullo per carenza di potere (incompetenza assoluta).

L'incompetenza può aversi per materia, per valore, per grado o per territorio. L'incompetenza per territorio ricorre soltanto allorché un organo eserciti una competenza di un altro organo dello stesso ente che disponga però di diversa competenza territoriale. L'incompetenza territoriale dà luogo alla nullità.

Il vizio di violazione di legge sussiste allorché si violi una qualsiasi altra norma di azione generale e astratta che non attenga alla competenza (in questo senso è un vizio "residuale").

La violazione di legge si verifica in moltissime situazioni come le violazioni, i vizi di forma, la carenza di presupposti fissati dalla legge, la violazione delle norme sulla formazione della volontà collegiale.

Il vizio di eccesso di potere è il risvolto patologico della discrezionalità. Esso sussite quando la facoltà di scelta spettante all'amministrazione non è correttamente esercitata.

L'eccesso di potere nasce dalla violazione di quelle prescrizioni che presiedono allo svolgimento della funzione che non sono ravvisabili in via preventiva ed astratta. Tali regole si sostanziano nel principio di logica-congruità applicata al caso concreto e la loro violazione è evidenziata da giudice amministrativo in occasione appunto del sindacato dell'eccesso di potere.

L'eccesso di potere è predicabile soltanto con riferimento agli atti discrezionali.

La classica forma dell'eccesso di potere è lo sviamento, che ricorre allorché l'amministrazione persegua un fine diverso da quello per il quale il potere le è stato conferito (ad esempio il diniego di un titolo abitativo all'attività edilizia che sia stato emanato per la tutela della viabilità, anziché per la tutela di interessi urbanistico-edilizi).

La giurisprudenza ha individuato alcune ure sintomatiche del non corretto esercizio del potere in vista del suo fine: violazione della prassi; manifesta ingiustizia (sproporzione tra sanzione e illecito); contraddittorietà tra più parti dello stesso atto (tra dispositivo e preambolo o motivazione) o tra più atti; disparità di trattamento tra situazioni simili; travisamento dei fatti (si assume a presupposto dell'agire una situazione che non sussiste in realtà); incompletezza e difetto dell'istruttoria; inosservanza dei limiti, dei parametri di riferimento e dei criteri prefissati per lo svolgimento futuro dell'azione.

Ricorre eccesso di potere allorché la motivazione sia insufficiente (perché non considera alcune circostanze), incongrua (in quanto dà peso indebito ad alcuni profili), contraddittoria, dubbiosa (tale è quella che richiama fatti che si assumono non certi), illogica e perplessa. In tali ipotesi si parla di difetto di motivazione.

Si noti però che l'assenza di motivazione (detta anche carenza di motivazione) dà luogo al vizio di violazione di legge, atteso che la motivazione è obbligatoria ex art.2 legge 241/90.

Costituiscono ure di eccesso di potere anche le violazioni di circolari, di ordini e di istruzioni di servizio e il mancato rispetto della prassi amministrativa perché tali atti non pongono norme giuridiche (altrimenti la loro violazione avrebbe dato luogo a violazioni di legge).

La circolare è un atto non avente carattere normativo, mediante la quale l'amministrazione fornisce indicazioni in via generale e astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i propri dipendenti e i propri uffici.

La prassi amministrativa è il comportamento costantemente tenuto da un'amministrazione (in particolare dagli addetti agli uffici) nell'esercizio di un potere. L'inosservanza della prassi costituisce eccesso di potere quando non è adeguatamente motivata.

La motivazione di provvedimenti ed atti amministrativi.

Un importante requisito di validità è la motivazione.

Il dovere di motivazione è stato introdotto dall'art. 3 legge 241/90 secondo cui "ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato". Fanno eccezione gli atti normativi e gli atti a contenuto generale.

La motivazione deve indicare "i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione amministrativa, in relazione alle risultanze dell'istruttoria".

Il dovere di motivare è soddisfatto se il provvedimento richiama altro atto che contenga esplicita motivazione e questo sia reso disponibile.

La motivazione deve risultare sufficiente per sottrarsi alle censure di eccesso di potere, chiarendo i fatti che giustificano la "decisione" amministrativa adottata.

I vizi di merito e l'irregolarità del provvedimento.

Il merito amministrativo è l'insieme delle soluzioni compatibili con il canone di congruità-logicità che regola l'azione discrezionale, distinguibili e "graduabili" tra di loro (nel senso che una soluzione sia da ritenere migliore delle altre) soltanto utilizzando criteri di opportunità e di convenienza.

L'illegittimità per vizio di merito si verifica nei casi in cui la scelta discrezionale confligge con criteri non giuridici. Di regola l'inopportunità del provvedimento è irrilevante.

Il regime dell'atto viziato per vizi di merito è l'annullabilità nei soli casi previsti dalla legge.

L'irregolarità si ritrova nell'atto difforme dal diritto ma pienamente efficace e non illegittimo.

La violazione della norma comporterebbe soltanto sanzioni a carico dell'agente o altre conseguenze che non incidono sull'atto.

E' ipotesi di irregolarità la mancata indicazione, nel provvedimento, del termine e dell'autorità cui deve essere presentato l'eventuale ricorso.

Procedimenti di riesame dell'atto illegittimo: convalida, conferma, annullamento, riforma.

I provvedimenti c.d. "di secondo grado" sono caratterizzati dal fatto di essere espressione di autotutela e di avere ad oggetto altri e precedenti provvedimenti amministrativi o fatti equipollenti.

In particolare si distinguono:

poteri di riesame, sotto il profilo della validità, di precedenti provvedimenti o di fatti equipollenti (silenzio significativo);

poteri di revisione, relativi all'efficacia di precedenti atti.

Il procedimento di riesame può avere esiti differenti: conferma della legittimità, riscontro dell'illegittimità (ma sanabile) dell'atto, riscontro dell'illegittimità non sanabile dello stesso.

Il provvedimento che viene adottato allorché l'amministrazione verifichi l'insussistenza di vizi nell'atto sottoposto a riesame viene tradizionalmente definito come atto di conferma o atto confermativo.

La convalida è il provvedimento di riesame a contenuto conversativo posto in essere dall'amministrazione competente ad emanare l'atto viziato o dall'amministrazione gerarchicamente superiore. Il relativo potere è applicazione del principio della conservazione dei valori giuridici.

L'amministrazione rimuove il vizio che inficia il provvedimento di primo grado e pone in essere una dichiarazione che espressamente riconosce il vizio ed esprime la volontà di eliminarlo, sempreché tale vizio sia suscettibile di essere rimosso.

La sanatoria ricorre allorché il vizio dipende dalla mancanza, nel corso del procedimento, di un atto endoprocedimentale la cui adozione spetta a soggetto diverso dall'amministrazione competente ad emanare il provvedimento finale.

L'annullamento d'ufficio (o annullamento in sede di autotutela) è il provvedimento mediante il quale si elimina un atto invalido e vengono rimossi ex tunc - ossia retroattivamente e, dunque, a partire dal momento della emanazione - degli effetti prodotti.

I presupposti per esercitare il potere di annullamento d'ufficio sono costituiti dall'illegittimità del provvedimento (ovvero, quando sia ammesso per motivi di merito, dalla sua inopportunità) e dalla sussistenza di un interesse pubblico specifico che non si identifica con la mera esigenza di ripristinare l'ordine giuridico violato.

L'amministrazione deve valutare se l'eliminazione del provvedimento invalido sia conforme con l'interesse pubblico anche tenendo conto degli interessi nel frattempo sorti in capo ai privati che sul provvedimento abbiano fatto affidamento.

Il potere di annullamento può essere esercitato senza un limite temporale, pur se l'eccessivo decorso del tempo può causare l'illegittimità del relativo atto. In questa ipotesi ricorre la ura dalla convalescenza dell'atto per decorso del tempo, la quale impedisce appunto l'annullamento d'ufficio di atti illegittimi qualora essi abbiano prodotto effetti per un periodo adeguatamente lungo.

Il potere d'annullamento d'ufficio spetta all'autorità che ha emanato l'atto ovvero a quella gerarchicamente superiore (art. 6 TULPS). Il D.Lgs 165/2001 fa salvo il potere di annullamento ministeriale degli atti dei dirigenti per motivi di legittimità (art. 14 ultimo comma).

L'ordinamento prevede poi il potere del governo di procedere in ogni tempo, ai sensi dell'art. 118 T.U. enti locali e dell'art. 2 c.3. legge 400/1988, all'annullamento degli atti di ogni amministrazione  (ad eccezione della regione perché la loro autonomia è garantita costituzionalmente). Per l'esercizio di tale potere è necessario un vizio particolarmente grave dell'atto la cui permanenza in vita sia giudicata incompatibile con il sistema nel suo complesso e non già con i soli interessi della pubblica amministrazione che lo ha emanato.

Ove la parte annullata sia sostituita da altro contenuto si ha la ura della riforma avente efficacia ex nunc (detta riforma "sostitutiva").

La riforma "aggiuntiva" consiste nell'introduzione di ulteriori contenuti a quello originario. Ai sensi dell'art. 14 c.3 del D.Lgs 165/2001, il ministro non può riformare i provvedimenti di competenza dei dirigenti.

Conversione, inoppugnabilità, acquiescenza, ratifica, rettifica e rinnovazione del provvedimento.

La conversione è istituto che riguarda gli atti nulli: in luogo dell'atto nullo è da considerare esistente un differente atto, purché sussistano tutti i requisiti di questo e risulti che l'agente avrebbe voluto il secondo atto ove fosse stato a conoscenza del mancato venire in essere del primo.

Essa opra ex tunc in base al principio della conservazione dei valori giuridici.

L'inoppugnabilità è la condizione in cui l'atto viene a trovarsi ove siano decorsi i termini per impugnarlo. L'atto inoppugnabile è pur sempre annullabile d'ufficio e disapplicabile dal giudice ordinario.

L'acquiescienza è l'accettazione spontanea e volontaria, da parte di chi potrebbe impugnarlo, delle conseguenze dell'atto e, quindi, della situazione da esso determinata. Il comportamento acquiescente deve desumersi da fatti univoci, chiari e concordanti; esso presuppone la conoscenza del provvedimento e l'avvenuta sua emanazione. L'acquiescienza, a differenza della convalida, non produce effetti erga omnes ma osta alla proposizione del ricorso amministrativo o giurisdizionale solo da parte del soggetto che l'ha prestata.

La ratifica ricorre allorché sussista una legittimazione straordinaria di un organo ad emanare a titolo provvisorio e in una situazione di urgenza un provvedimento che rientra nella competenza di un altro organo, il quale, ratificando, fa proprio quel provvedimento originariamente legittimo.

La rettifica riguarda atti irregolari e consiste nell'eliminazione dell'errore.

La rinnovazione del provvedimento annullato consiste nell'emanazione di un atto nuovo, avente effetti ex nunc, con la ripetizione della procedura a partire dall'atto endoprocedimentale viziato.

L'efficacia del provvedimento amministrativo: limiti spaziali e limiti temporali.

L'efficacia è subordinata alla sussistenza di tutti gli elementi rilevanti per tale produzione, elementi che non coincidono necessariamente con quelli di esistenza del provvedimento.

L'efficacia incontra limiti territoriali: essi corrispondono di norma a quelli della competenza dell'autorità; non mancano però eccezioni, come il passaporto che è rilasciato da una questura ma ha efficacia su tutto il territorio nazionale.

L'efficacia del provvedimento può essere subordinata al compimento di determinate operazioni, al verificarsi di alcune circostanze o all'emanazione di ulteriori atti rispetto all'adozione del provvedimento in sé.

L'atto può dunque essere perfetto ma non efficace, ovvero efficace ma annullabile.

L'efficacia del provvedimento incontra non solo limiti spaziali, ma anche temporali, nel senso che, pur sussistendo il principio secondo cui gli atti di norma producono effetti al momento in cui sono venuti in essere, non mancano esempi di atti ad efficacia differita o ad efficacia retroattiva.

L'atto amministrativo è di regola irretroattivo. L'irretroattività, in quanto mira a soddisfare un interesse del singolo, è ammessa solo se l'atto produce effetti favorevoli per il destinatario e non sussistono controinteressati, ovvero se vi è il consenso dell'interessato.

Diversa dalla retroattività del provvedimento è la retrodatazione, conferita ad atti adottati "ora per allora" e cioè, ad atti che l'amministrazione sarebbe stata tenuta ad emanare, ma che non adottò tempestivamente, dunque in un contesto normativo o in una situazione di fatto differenti rispetto a quelli attuali.

Si deve distinguere poi tra atti ad efficacia istantanea (l'effetto si produce, esaurendosi, in un dato momento e riguarda un singolo accadimento o fatto storico o una isoltata situazione: si pensi al decreto di espropriazione che produce l'effetto suo tipico al momento in cui si è perfezionata la fattispecie) e atti ad efficacia durevole o prolungata (è il caso dei piani urbanistici e delle concessioni di servizio e di alcune autorizzazioni) che attengono ad una pluralità di comportamenti considerati come una categoria unitaria. Essi si proiettano nel tempo, spesso instaurando un rapporto tra il soggetto privato e l'amministrazione.

I procedimenti di revisione: proroga, revoca e ritiro del provvedimento amministrativo.

L'efficacia durevole o prolungata può essere condizionata non solo dalle circostanze sopra elencate, ma altresì dall'adozione di provvedimenti amministrativi posti in essere a conclusione di procedimenti - detti procedimenti di revisione- di secondo grado, ossia aventi ad oggetto l'efficacia di altri provvedimenti.

La proroga è il provvedimento con cui si protrae ad un momento successivo il termine finale dell'efficacia di un provvedimento durevole. La proroga in senso proprio va adottata prima della scadenza del provvedimento di primo grado.

La revoca è il provvedimento che fa venire meno la vigenza degli atti ad efficacia durevole, a conclusione di un procedimento volto a verificare se i risultati cui si è pervenuti attraverso il precedente provvedimento meritino di essere conservati.

In dottrina il termine revoca (o decadenza) è usato per indicare il provvedimento di natura sanzionatoria che l'amministrazione pone in essere a seguito della violazione di un obbligo dell'interessato.

Talora si indica con il termine revoca il ritiro dell'atto viziato sotto il profilo del merito. Alla radice dell'istituto della revoca in senso proprio si profilano due situazioni: può accadere che siano mutate le circostanze di fatto esistenti al momento dell'adozione del provvedimento di primo grado, ovvero che l'amministrazione valuti nuovamente la stessa situazione già oggetto di ponderazione al momento dell'adozione dell'atto di primo grado.

La revoca ha effetti ex nunc.

La competenza a disporre la revoca spetta all'organo che ha emanato l'atto, ovvero l'organo gerarchicamente sovraordinato; il procedimento è lo stesso previsto per il provvedimento di primo grado.

Nella prassi amministrativa e nel linguaggio comune si parla di revoca per indicare la diversa ipotesi (definita in dottrina rimozione o abrogazione) in cui con un provvedimento viene fatta cessare la permanenza della vigenza di atti legittimi ad efficacia prolungata allorché venga meno uno dei presupposti sul fondamento dei quali tali atti erano stati emanati. La rimozione ha efficacia a partire dal momento in cui si realizza la situazione di contrarietà al diritto della perdurante vigenza dell'atto di primo grado.

Ai sensi dell'art. 123 Cost. lo statuto delle regioni regola, tra l'altro, l'esercizio del referendum su "provvedimenti amministrativi della regione": l'esito del referendum può consistere nel ritiro del provvedimento con efficacia ex nunc. Atteso che la nuova formulazione dell'art. 8 T.U. enti locali, non fa più riferimento al referendum "consultivo", ma semplicemente al referendum, il ritiro degli atti amministrativi a seguito della celebrazione del referendum può interessare anche gli atti degli enti locali.

Esecutività ed esecutorietà del provvedimento amministrativo.

L'idoneità del provvedimento (legittimo o illegittimo) a produrre automaticamente ed immediatamente i propri effetti allorché l'atto sia divenuto efficace è detta esecutività.

Se il provvedimento necessita di esecuzione, con il termine esecutorietà del provvedimento si indica la possibilità che essa sia compiuta direttamente dalla pubblica amministrazione senza dover ricorrere previamente ad un giudice.

Nel caso in cui il provvedimento da portare ad esecuzione comporti l'incisione diretta della sfera del soggetto (al quale è richiesta collaborazione per l'esecuzione), l'amministrazione può comunque raggiungere il risultato pratico anche a fronte del rifiuto del privato.

Nell'ipotesi in cui il provvedimento costituisca obblighi di fare infungibili, l'amministrazione può procedere alla coercizione diretta, se ammessa dalla legge e se compatibile con i valori costituzionali (trattamento sanitario coattivo dei malati di mente, accomnamento forzato alla frontiera degli stranieri espulsi) ovvero può minacciare e infliggere sanzioni per ottenere l'esecuzione spontanea.

Ove l'obbligo di fare consti di una prestazione fungibile può essere prevista l'esecuzione di ufficio: l'amministrazione esegue direttamente, con propri mezzi ma a spese del terzo, l'attività richiesta (ad esempio la demolizione di un manufatto abusivo).

Gli accordi amministrativi. Osservazioni generali.

La legge 241/90 prevede che le amministrazioni pubbliche possano sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. Inoltre dispone che "in accoglimento di osservazioni o proposte presentate a norma dell'art. 10, l'amministrazione procedente può concludere senza pregiudizio dei diritti dei terzi e, in ogni caso, nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero, nei casi previsti dalla legge, in sostituzione di questo" (art. 11).

Gli accordi tra amministrazione e privati ex art.11 Legge 7 agosto 1990 nr.241.

Le tipologie i accordi tra amministrazione e privati sono gli accordi sostitutivi di provvedimento e gli accordi integrativi del provvedimento (determinativi del contenuto discrezionale del provvedimento stesso).

L'accordo sostitutivo tiene luogo del provvedimento, l'accordo determinativo del contenuto non elimina la necessità del provvedimento nel quale confluisce, sicché il procedimento si conclude pur sempre con un classico provvedimento unilaterale produttivo di effetti.

L'accordo sostitutivo è ammesso nei soli casi previsti dalla legge, mentre l'accordo integrativo può sempre essere concluso.

L'accordo pubblico deve essere stipulato "in ogni caso nel perseguimento dell'interesse pubblico" e "per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione recede unilateralmente dall'accordo".

Gli accordi devono essere stipulati per iscritto a pena di nullità, salvo che la legge disponga diversamente. L'amministrazione può recedere unilateralmente dall'accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse "salvo l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato". Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione sono riservate alla giurisdizione esclusiva. Agli accordi si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili.

L'accordo è strettamente legato al tema della partecipazione: esso può essere concluso "in accoglimento di osservazioni e proposte".

L'accordo integrativo è un accordo endoprocedimentale destinato a riversarsi nel provvedimento finale. Esso, ammissibile soltanto nell'ipotesi in cui il provvedimento sia discrezionale, fa sorgere un vincolo tra le parti: in particolare l'amministrazione è tenuta ad emanare un provvedimento corrispondente al tenore dell'accordo. Il provvedimento non è revocabile, almeno per quella parte che corrisponde all'accordo, in ordine alla quale si può esercitare il potere di recesso.

L'accordo sostitutivo elimina la necessità di emanare un provvedimento ed è soggetto ai medesimi controlli previsti per il provvedimento sostituito.

Nel nostro ordinamento sono previsti pochi casi di accordo sostitutivo tra i quali si ricorda l'accordo di cessione che produce effetti del decreto di esproprio.

I contratti di programma e gli accordi tra amministrazioni.

Il termine "contratto di programma" indica gli atti mediante i quali soggetti pubblici e privati raggiungono intese mirate al conseguimento di obiettivi comuni.

Lo stesso termine indica anche il disciplinare relativo ad alcuni servizi.

Alla prima forma di contratti, stipulati con privati, si accostano altre ure introdotte dalla recente normativa. Si veda, in particolare, la legge 662/1996 recante la disciplina delle attività di programmazione negoziata che coinvolgono una molteplicità di soggetti pubblici e privati: essa individua, quali specifici strumenti, le intese istituzionali di programma, gli accordi di programma quadro, i patti territoriali, i contratti di programma e i contratti d'area.

Gli accordi tra amministrazioni sono impiegati come strumenti per concordare lo svolgimenti di attività in comune.

In particolare: gli accordi di programma.

Particolari accordi tra amministrazioni, destinati ad essere approvati da un provvedimento amministrativo formale, sono gli accordi di programma, dai quali derivano obblighi reciproci alle parti interessate e coinvolte nella realizzazione di complessi interventi.

La ura è prevista da molteplici normative, ma la più rilevante è quella prevista dall'art. 34 T.U. enti locali perché applicabile a tutti gli accordi di programma contemplati dalle leggi vigenti, relativi ad opere, interventi, o programmi di intervento di competenza delle regioni, delle province o dei comuni. Tale norma recita "per la definizione e l'attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'adozione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, o comunque di due o più tra i soggetti predetti, il presidente della regione o il presidente della provincia o il sindaco, in relazione alla competenza primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, anche su richiesta di uno o più dei soggetti interessati, per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinare i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento".

L'art. 34 T.U. enti locali prevede la fase obbligatoria della conferenza di servizi, convocata per verificare la possibilità di raggiungere l'accordo e si occupa dell'approvazione dell'accordo stesso, della possibilità che l'accordo preveda procedimenti arbitrali e interventi surrogatori in caso di inadempienze, degli effetti dell'accordo, nonché della vigilanza sulla sua esecuzione.





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