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RUANDA - RICOMINCIARE DA ZERO - COSTRUIRE NEL VUOTO, RITORNARE A CASA, DOPO L'EMERGENZA

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RUANDA
RICOMINCIARE DA ZERO


SOMMARIO

Introduzione

Costruire nel vuoto: intervista a Nigel Cantwell (consulente UNICEF ICDC Firenze, autore dello studio sul Ruanda) -
Fare le cose nel modo giusto, ancora più che fare le cose giuste: questo il senso del lavoro fatto in Ruanda secondo lo spirito della Convenzione per ricostruire il futuro dei bambini.



Ritornare a casa
Durante il genocidio è stato necessario che i bambini i pericolo di vita venissero trasferiti all'estero, anche se la scelta di separarli dalle famiglie può rappresentare una ferita molto profonda.

A scuola tutti assieme
Ritornare a scuola non è facile per i bambini ruandesi. Pochi gli insegnanti, scarsi i materiali didattici; eppure la scuola può aiutare a conoscere e capire, soprattutto se nei curriculum scolastici vengono inseriti programmi di educazione alla pace.

Senza famiglia
Sembra un tempo lontano quello in cui il bambino ruandese aveva un ruolo centrale nella società. La famiglia tradizionale ma anche quella allargata sono istituzioni in crisi, distrutte dal genocidio. Come ricostruire una convivenza civile attraverso le basi etiche della società. Per prima cosa dare corso alla giustizia.

Senza libertà
Il dramma dei bambini in carcere: perché colpevoli dei crimini del genocidio o perché li di detenute. Il difficile ritorno alla normalità dei bambini soldato.

Dopo l'emergenza

Difficoltà e risultati positivi nella fase della ricostruzione. Il ruolo dell'UNICEF.



INTRODUZIONE



In poco più di 100 giorni, tra aprile e giugno del 1994, in Ruanda sono state uccise un milione di persone, per la stragrande maggioranza tutsi e hutu moderati. Si è trattato di un genocidio annunciato perché preparato nel tempo, alimentato da una proanda implacabile che, attraverso una strategia tutt'altro che irrazionale, è stata in grado di trasformare anche il più pacifico dei contadini hutu in un carnefice. Quello ruandese è forse l'esempio più recente e più 'riuscito' di come il costante lavoro ai fianchi per muovere odio e paura contro un nemico riesca a spingere intere popolazioni abituate per secoli a convivere l'una contro l'altra. La storia di questo piccolo paese nel cuore dell'Africa dei Grandi Laghi può oggi essere riletta risalendo indietro nel tempo, alle origini di una contrapposizione etnica prepotentemente voluta e sollecitata dai tedeschi e dai belgi colonizzatori del Ruanda e del Burundi, inventori del mito di una presunta superiorità razziale dei tutsi rispetto agli hutu. Su questa strumentale invenzione si sono basate la colonizzazione e l'evangelizzazione europee che, con la stessa facilità con cui avevano in un primo momento favorito la minoranza tutsi, non esitarono a voltargli le spalle quando essa si fece promotrice di istanze indipendentiste. Si era alla fine degli anni 50 e tutta l'Africa era attraversata da fermenti e ribellioni anticoloniali. Al termine di questo periodo molti paesi africani avrebbero raggiunto l'indipendenza dalla madrepatria. Per i belgi appoggiare le organizzazioni e i giornali hutu che tuonavano contro la supremazia razziale tutsi era un modo di esorcizzare lo spettro dell'indipendenza. Pur di rimandare questa eventualità andava bene sponsorizzare un nuovo mito, quello degli hutu come razza maggioritaria e originaria della regione (in netta contrapposizione peraltro con quanto inventato decenni prima, a proposito dell'origine abissina dei tutsi, alti, di pigmentazione chiara e dal portamento aristocratico).


La cosiddetta riscossa hutu si scatena nel 1959 supportata non solo da motivi etnici ma anche economici e sociali; del resto la maggioranza dei conflitti del continente africano, oggi come ieri, nasce quando intere fasce della popolazione o intere regioni non hanno accesso alle risorse e al potere. Le ragioni etniche fungono solo da catalizzatore, il più efficace, della violenza omicida. In quell'anno i tutsi vennero perseguitati con la stessa foga sanguinaria del 1994, eccezion fatta per i bambini che verranno invece trucidati senza pietà trent'anni dopo. Dal 1962, anno dell'indipendenza dal Belgio, alla notte del 6 aprile del 1994, quando è cominciato il genocidio, la camna contro i tutsi non è mai cessata. Quelli che infatti erano riusciti a scappare oltre confine (circa 200.000) per fuggire al massacro del '59 non avevano alcuna intenzione di restare esuli a vita. Molti di loro dopo essersi fatti le ossa nelle file dell'esercito ugandese fondarono il Rwandan Patriotic Front (RPF) con il fermo obiettivo di tornare a casa. All'RPF aderirono numerosi hutu moderati oppositori del regime del generale Juvenal Habyarimana. Habyarimana, salito al potere nel 1973 dopo un colpo di stato, per tentare di rimettere ordine nel paese sconvolto da pogrom frequenti contro i pochi tutsi rimasti, non spinse l'acceleratore della 'soluzione finale' dell'odiata etnia ma suonò le corde dell'unità nazionale. Si limitò ad agitare lo spauracchio - peraltro sempre più concreto - del ritorno dei tutsi per deviare il malcontento popolare verso un obiettivo sicuro. Gli anni 70 hanno infatti segnato l'inizio di una crisi economica senza pari, culminata con il crollo del prezzo del caffè (1989) che rappresentava il 75% del reddito da esportazione. Concretamente ciò significò in un'economia prevalentemente agricola la fame per migliaia di contadini. Il tutto avveniva mentre l'élite di potere che ruotava attorno alla famiglia e agli amici del Presidente dilapidava non solo le casse dello Stato ma anche il denaro inviato dalle organizzazioni internazionali per lo sviluppo. L'invasione del nord del paese da parte del Fronte patriottico ruandese (1990) innescò una crisi che indusse il presidente ad accelerare il processo di riforma politica costretto a modificare la costituzione in senso multipartitico. L'apertura verso la democrazia era del resto iniziata a seguito delle forti pressioni internazionali; molti paesi donatori infatti avevano chiuso i cordoni della borsa perché il governo di Kigali non dava garanzie sufficienti di stabilità e democrazia. Gli Accordi di pace di Arusha, in Tanzania siglati dalle parti nell'estate del 1993 prevedevano, tra le altre clausole, un ridimensionamento dei poteri presidenziali e la integrazione dei ribelli dell'RFP nelle file dell'esercito ruandese. Il processo di pace non ha avuto il tempo di decollare perché i suoi due principali artefici, Habyarimana e il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira, sono stati uccisi dopo aver partecipato a una riunione ad Arusha. L'aereo presidenziale su cui entrambi viaggiavano è stato abbattuto mentre era in fase di atterraggio a Kigali; e sono in molti a sospettare che i due missili lanciati da terra nei pressi dell'aeroporto provenissero dalle file degli estremisti hutu contrari alla pacificazione interetnica. E' cominciata così la tragedia di un intero popolo. Rileggere la storia del Ruanda può forse aiutare a capire perché oggi ogni intervento di ricostruzione in questo paese deve trovare nuove strategie di azione. E' un paese dove tutto è stato spazzato via, la famiglia, la scuola, la chiesa, il villaggio. Dove il vicino di casa con il quale si era spesso condiviso il piacere di una birra è diventato il feroce assassino di tua moglie, di tuo padre, dei tuoi amici. A questo orrore hanno assistito impotenti centinaia di migliaia di bambini. Quelli che si sono salvati la pelle, hanno sul corpo le cicatrici del machete che non è riuscito ad ucciderli e negli occhi il ricordo e la paura di quanto vissuto. Mentre scriviamo giungono con intermittenza costante notizie di eccidi perpetuati nei campi profughi (ricordiamo che quando i tutsi hanno riconquistato la capitale più di due milioni di donne vecchi e bambini hutu sono scappati verso lo Zaire) diventati non solo luogo di disperazione per tantissimi innocenti ma anche rifugio per gli uomini dell'Interahamwe, la milizia civile hutu principale artefice del massacro. Nelle ine che seguono presentiamo alcuni stralci di una ricerca di recente pubblicazione realizzata dall'International Child Development Centre con il contributo dell'UNICEF Italia che analizza per un periodo di circa due anni (luglio '94 dicembre '96) la condizione dei bambini del Ruanda del post genocidio. Il titolo dello studio, che può essere richiesto nella sua versione integrale e in inglese all'UNICEF ICDC, Piazza SS.Annunziata 12 - 50122 Firenze, è lo stesso di questo dossier: Ripartire da zero. Come è possibile garantire i diritti promossi dalla Convenzione ai bambini di un paese in cui tutto è stato distrutto? Ci sono diritti prioritari o ogni diritto deve essere garantito quale che sia la situazione di partenza? Il Ruanda è certamente un paese dove chi si batte per la tutela dei diritti dei bambini si trova di fronte a problemi drammaticamente inusitati. Accanto ai bambini traumatizzati che hanno bisogno di terapie psicologiche e di sostegno, ci sono quelli 'smobilitati' dall'esercito che devono essere reinseriti nella vita civile e quelli rinchiusi nelle carceri assieme agli adulti perché accusati di orribili crimini. Ma anche i bambini curati all'estero e che dopo anni di lontananza hanno dimenticato la loro lingua e si sentono più italiani, francesi, belgi che ruandesi. Bisogni diversi che richiedono interventi diversi secondo il principio che ogni diritto deve essere sempre garantito a tutti i bambini. E' quello che l'UNICEF sta tentando di fare anche in Ruanda.

Susanna Bucci



COSTRUIRE NEL VUOTO



(Intervista a Nigel Cantwell - consulente UNICEF ICSV Firenze, autore dello studio sul Ruanda)

Quale è la particolarità dello studio da lei realizzato sul Ruanda? In che modo una situazione estrema come questa può funzionare da case studio sulla Convenzione? Perché questo interesse nei confronti di una situazione così estrema?

'Proprio perché si tratta di una situazione estrema, essa si presta come tale a funzionare da laboratorio per fornire una sorta di esemplificazione di come, in una situazione di post-conflitto si può tentare di ripristinare il rispetto dei diritti umani. Questo è anche, credo, il motivo per cui l'UNICEF ha scelto di documentare la sua esperienza di lavoro sul campo con questo studio da me redatto. Da parte delle autorità c'è attualmente lo sforzo reale di integrare un approccio basato sul pieno rispetto dei diritti umani nell'opera di ricostruzione. Il che significa applicare la Convenzione, alla cui filosofia si ispira o dovrebbe ispirarsi qualsiasi intervento sui bambini, perché sostanzialmente questo è il senso della Convenzione, fornire una guideline di principi ai quali ispirare le azioni dei governi e le politiche per l'infanzia.'

Non si può stabilire una gerarchia di diritti, essi sono tutti importanti allo stesso grado, lei afferma nel suo studio. Ma come si fa a garantire, in una situazione così particolare, il rispetto in simultanea di tutti i diritti stabiliti dalla Convenzione?

'Garantire ai bambini il rispetto dei loro diritti secondo le clausole della Convenzione Internazionale sui diritti dell'infanzia non è impresa facile in un contesto come quello ruandese: ma i diritti sono interrelati tra di loro per cui lavorare per essi significa automaticamente affrontare tutti i problemi contemporaneamente. Si pensa ad alcuni diritti (al cibo, ad un tetto) come primari, mentre altri (al gioco, alla libera espressione di sé, all'informazione) vengono percepiti come voluttuari, secondari in un paese che deve affrontare un'emergenza. Ma questo è un errore: certi diritti, solo apparentemente secondari diventano enormemente importanti proprio nelle situazioni più estreme. È questo il caso del diritto al gioco, importantissimo per quei bambini traumatizzati dalla guerra , imprigionati o costretti a vivere in condizioni di stress estreme: significa salvarli, porre le basi per rimuovere il trauma psichico, significa dare a questi bambini la possibilità di avere un futuro. Lo sviluppo ottimale del bambino è un discorso globale; può sembrare un'utopia, ma questa è l'ottica dell'UNICEF, una sfida difficile in situazioni così estreme ma che è necessario lanciare.

Può raccontarci come il personale dell'UNICEF sta svolgendo il suo difficile compito nel paese disastrato dalla guerra etnica?

'Se la situazione della popolazione è estrema, lo è anche la situazione delle persone che lavorano nelle organizzazioni di aiuto; le difficoltà da affrontare sono così tante ed enormi: dalle più banali necessità organizzative e logistiche, all'onere di progettare un tipo di lavoro nuovo e terribile, al riorganizzazione di una società dopo il genocidio. Da un punto di vista tecnico, l'ordine di problemi che le organizzazioni di aiuto, tra cui l'UNICEF, si trovano a dovere affrontare è duplice. Da un lato bisogna far fronte alle normali necessità di ricostruzione in una fase post-emergenza: organizzare la distribuzione del cibo, ripristinare le condutture idriche, provvedere alle necessità basilari, riunificare le famiglie, ricostruire il tessuto sociale e istituzionale, garantendo il funzionamento normale di scuole ed ospedali. Esistono poi le sfide nuove e del tutto impreviste poste dalla particolare situazione del paese. Si tratta di problemi nuovi per l'UNICEF e per le altre organizzazioni, rispetto ai quali non c'è esperienza cui attingere. Cosa fare quando migliaia di persone si trovano imprigionate e la maggior parte di esse hanno meno di 18 anni? Da un lato alcuni di loro sono accusati di crimini gravi per i quali una sorta di sanzione sarebbe necessaria anche se essi sono sotto l'età imputabile; esiste poi l'esigenza contraddittoria rispetto a quella della punizione di ricostruire intorno a questi ragazzi il loro tessuto di affetti e socialità. È una cosa difficile da organizzare, perché rimandare i ragazzi nelle loro famiglie d'origine potrebbe essere pericoloso per la loro incolumità per il rischio di eventuali vendette trasversali. Come combinare quindi le prescrizioni delle normative internazionali (secondo le quali la detenzione dovrebbe essere l'ultima risorsa) con la giusta esigenza di segnalare e prendere in carico i comportamenti violenti? Del resto questi ragazzi sono vittime innocenti della proanda politica, in loro il germe dell'odio razziale è stato inoculato come un veleno, essi sono quindi prima di tutto da aiutare come vittime E' davvero un rompicapo, di più un grave dilemma etico per la risoluzione del quale non ci sono linee guida'

Esiste cooperazione da parte delle organizzazioni che operano nel paese? Esiste uno scambio di esperienze e di idee rispetto a questo difficile compito?

'La risposta è sì e no. In alcune situazioni come nel 1996 quando grosse masse di rifugiati si sono riversate a Kigali, c'è stata una certa cooperazione da parte di tutti per limitare i disagi di questo esodo di massa. Esistono però punti di frizione e profondo disaccordo rispetto alle questioni più difficili che dilaniano il paese, oggetto di interminabili discussioni spesso inconcludenti'.

Quale è a questo proposito l'atteggiamento delle autorità, esiste reale volontà politica di garantire la pacifica convivenza tra hutu e tutsi?

'Esiste la volontà comune di convivere pacificamente tra etnie diverse il che fa ben sperare per i futuro. Ma è anche vero, purtroppo che nessuna autorità può sostituirsi alle azioni del singolo: una volta che il seme dell'odio è stato gettato, è difficile tornare indietro.'

Ci può parlare dei programmi di educazione alla pace che, come già nella ex Jugoslavia costituiscono il fulcro dell'attività dell'UNICEF nei paesi sconvolti dalla guerra etnica? Come si riesce a fare educazione alla pace in simili realtà?

'In un paese così giovane come il Ruanda (la metà della popolazione è sotto i 18 anni) in circostanze così estreme l'educazione alla pace diventa vitale per dare un futuro al paese. Esistono progetti molto interessanti come quello dei solidarity camps per ragazzi dai 14 ai 18 anni, la fascia d'età più numerosa, delicata e bisognosa di aiuto anche perché la scolarizzazione superiore è molto carente nel paese. In questi camps si sperimenta la convivenza tra giovani appartenenti a etnie diverse, si organizzano attività sportive e comunitarie, si mettono in comune oggetti, esperienze, idee: e soprattutto si cerca di dialogare non per dare un senso a ciò che si è vissuto, ma per aiutarsi a liberarsene. I risultati dei camps sono incoraggianti (fino al 1996 circa 12.000 giovani vi avevano preso parte), l'obiettivo è quello di contribuire a ricostruire un sistema di valori e di punti di riferimento etici nei giovani traumatizzati. Per quanto riguarda i bambini delle scuole elementari, si sta cercando di raggiungere circa il 70-75% di essi con appositi programmi di educazione alla pace da svolgersi nelle scuole previa formazione degli insegnanti che a loro volta devono essere assistiti e appoggiati.'

In Ruanda si sottopongono a terapia psichiatrica i bambini per aiutarli a liberarsi dal trauma come è avvenuto nella ex Jugoslavia?

'Manca per ora l'intervento prettamente psichiatrico sui singoli casi di trauma, in parte per mancanza di risorse, in parte perchè si ritiene prioritaria la ricostruzione di una vita associata degna d questo nome: non si può infatti operare nel vuoto, bisogna prima lavorare per ricostruire un tessuto sociale inesistente, ricostruire intorno ai bambini una vita di affetti prima di fare terapia individuale. Per il momento si privilegiano nel paese le attività riabilitative di gruppo come quelle sopra descritte.'

Che cos'è che l'ha sconvolta di più nel corso delle sue visite in Ruanda?

'Forse il fatto che questo tremendo trauma non sia percepibile, non sia manifesto: per le strade, tra la gente, in quello che è rimasto dei luoghi pubblici si respira una sinistra aria di normalità. Conta poco che i semafori siano stati rimessi a posto, le rovine di cui occuparsi sono morali e non materiali. Ricostruire una società spezzata dalla sfiducia e dalla diffidenza è molto più difficile che ricostruire i suoi luoghi fisici. In questo senso il cammino da fare è ancora piuttosto lungo.'

Elisabetta Porfiri



RITORNARE A CASA



Durante e dopo il genocidio, 32 bambini gravemente feriti, molti dei quali malnutriti, sono stati portati in Francia dall'organizzazione Médicins sans frontières per essere sottoposti a delicati interventi chirurgici. Questa ONG aveva assicurato le autorità del Ruanda che i bambini sarebbero immediatamente tornati a casa dopo un periodo di convalescenza trascorso presso famiglie volontarie. L'organizzazione era stata in passato accusata di non essersi preoccupata di seguire le condizioni in cui avveniva il ritorno dei bambini. Va anche detto che spesso erano gli stessi bambini a non voler tornare in Ruanda perché la loro memoria era fissa sul massacro e perché le famiglie straniere che li avevano accolti volevano adottarli. Molto spesso, come ha sottolineato lo studio di Graça Machel sui bambini in guerra 'le difficoltà sorgono quando la famiglia straniera pensando che il bambino abbia maggiori possibilità nel paese ospite, non vuole che il bambino affidato torni nella sua famiglia d'origine'. Il problema posto a Médicins sans frontières e ad altre ONG era quello relativo al tempo e alle modalità del ritorno. Nel Ruanda questo ritardo è stato spesso dovuto al fatto che i genitori dei bambini curati all'estero avevano perso la vita nel corso del genocidio. Un caso analogo si è verificato nell'orfanotrofio di Masaka nella regione di Kigali i cui ospiti sono stati portati in Francia nell'aprile del 1994 man mano che i combattenti si avvicinavano. In Francia sono stati ospitati nel dipartimento della Loira. Su richiesta delle autorità del Ruanda e dopo molte pressioni 46 bambini sono tornati in patria nel luglio '96 con alcuni accomnatori francesi. I bambini erano stati richiesti in adozione in Francia, ma per il loro ritorno ha consentito a 17 di essi di ricongiungersi alle loro famiglie mentre tutti gli altri sono stati dati in affidamento in attesa di trovare i loro genitori o qualche parente. Sempre nel 1994 sono stati portati in Italia 218 bambini, alcuni di pochi mesi che sono rimasti in Italia fino a quando il governo di Kigali ha espressamente richiesto il loro ritorno. Come in Francia, anche in Italia c'è stata analoga riluttanza da parte di molti affidatari italiani a favorire il ritorno dei bambini pensando che le condizioni di vita nel paese non fossero sufficientemente sicure. Significativamente si è venuti a conoscenza del fatto che quasi tutti i bambini che avevano fatto ritorno al loro paese si erano riuniti con le loro famiglie anche se questo processo è stato lungo e problematico. Esiste anche il problema, a cui in genere non si pensa, della difficoltà per un bambino che si è ormai integrato in un ambiente socioeconomico diverso di quello della famiglia originaria a ritornare in contesti economici poveri dei quali non conosce nemmeno la lingua, soprattutto se ne è andato molto piccolo. Pur riconoscendo in molti casi la necessità che i bambini in pericolo di vita vengano evacuati sarebbe auspicabile non creare fratture così profonde con l'ambiente di origine favorendo, ove possibile, l'ospitalità dei bambini in paesi più vicini per mentalità e cultura. Il caso di alcuni bambini bosniaci ospedalizzati in Malesia è significativo. Da un punto di vista dei diritti la separazione dei bambini dai loro genitori e dalle loro famiglie è la scelta più radicale che si possa fare. Il che determina la necessità di realizzarla con molte cautele individuando i responsabili i quali devono impegnarsi a favorire il ritorno a casa una volta che non sussistano più condizioni di emergenza.




A SCUOLA TUTTI INSIEME



Tra aprile e giugno del 1994 il sistema scolastico è stato del tutto annientato: molti insegnanti sono stati uccisi o hanno lasciato il paese; gli edifici scolastici sono stati rasi al suolo o saccheggiati. Fu subito stabilito che dovevano essere reclutati almeno 700.000 insegnanti che avrebbero coperto solo il 60% del corpo docente necessario. Per raggiungere questo numero furono utilizzati tutti i mezzi possibili; anche radio Ruanda venne usata per il reclutamento dei maestri. Certo il problema della loro formazione resta prioritario; come prima risposta è stato migliorato un kit didattico su modello di quello realizzato dall'UNESCO in Somalia. Ogni kit contiene un manuale graduale (step by step) per un insegnante e materiale didattico per 80 bambini. Oggi circa un quarto dei bambini di età compresa tra i 6 e i 14 anni non vanno a scuola e 19.000 insegnanti non sono qualificati. Quelli con la minore esperienza non hanno alcuna motivazione a migliorare la loro preparazione considerando che il loro salario mensile si aggira attorno ai 10 dollari USA (il massimo che un insegnante anche qualificato guadagna è circa 50 dollari). Il fatto che la percentuale dei bambini che non vanno a scuola sia così alta rappresenta una seria minaccia per il futuro del paese. Diventeranno adolescenti ad alto rischio, più permeabili alla proanda razzista; uno dei primi obiettivi per combattere questo fenomeno è capire le ragioni che determinano la non frequenza. Diverso è il discorso per quanto riguarda la scuola superiore che si basa su un sistema misto, pubblico e privato. Oggi circa il 90% dei ragazzi che appartiene a questa fascia di età non va a scuola, inclusi i tre quarti di quelli che hanno concluso il ciclo elementare. D'altro canto la tendenza attuale anche a livello di cooperazione internazionale è quella di privilegiare gli investimenti per favorire la scuola primaria.







Il ruolo centrale dell'educazione alla pace



Il futuro del Ruanda dipende da due elementi: che la giustizia sia garantita da regolari processi che puniscano chi si è macchiato di orribili crimini (e che quindi non passi il criterio dell'impunibilità, foriero di nuovi omicidi) e che si promuova la riconciliazione nazionale. L'educazione alla pace diventa il tal senso molto importante. Non mancano comunque anche su questo punto i sostenitori e i detrattori. C'è infatti chi ricorda che nella ex Jugoslavia esisteva, prima della guerra, un apprezzatissimo e sofisticato programma di educazione alla pace. C'è invece chi sostiene che le fratture all'interno del tessuto sociale ruandese non siano così profonde e che quindi un intervento 'educativo' possa avere effetti positivi. L'UNICEF, in cooperazione con il Ministero dell'Istruzione, sta promuovendo un programma che ha come primo obiettivo quello di includere i programmi di educazione alla pace all'interno del curriculum scolastico. Ai bambini viene insegnato, tra l'altro, a mediare i conflitti senza ricorrere alla violenza. Un'altra iniziativa è quella dei cosiddetti 'campi di solidarietà' (cfr. intervista a Nigel Cantwell p. ) che si rivolgono ai bambini tra i 14 e i 18 anni. Ogni campo che dura mediamente un mese e che raccoglie circa 1.000 ragazzi di entrambi i sessi e, ovviamente, delle due etnie principali, prevede attività utili alla ricostruzione del paese: attività edili, agricole ecc. L'obiettivo è quello di promuovere all'interno di ogni azione collettiva l'educazione alla pace. Il che significa collaborare, distruggere stereotipi, ma anche richiamare i ragazzi ad assumersi responsabilità nelle decisioni che riguardano il loro futuro. Tutto ciò va nella stessa direzione di quanto sancito dall'art 29 della Convenzione internazionale sui Diritti dell'Infanzia in materia di educazione. Tra gli altri provvedimenti è anche in cantiere la revisione dei libri di testo che promuovono le divisioni etniche ed eliminare nelle nuove sectiune di identità l'etnia di appartenenza. Solo recentemente è stata inserita all'interno del programma della scuola primaria un'ora settimanale di discussione su quanto vissuto da ogni alunno (trauma time).




RITORNARE A CASA



Durante e dopo il genocidio, 32 bambini gravemente feriti, molti dei quali malnutriti, sono stati portati in Francia dall'organizzazione Médicins sans frontières per essere sottoposti a delicati interventi chirurgici. Questa ONG aveva assicurato le autorità del Ruanda che i bambini sarebbero immediatamente tornati a casa dopo un periodo di convalescenza trascorso presso famiglie volontarie. L'organizzazione era stata in passato accusata di non essersi preoccupata di seguire le condizioni in cui avveniva il ritorno dei bambini. Va anche detto che spesso erano gli stessi bambini a non voler tornare in Ruanda perché la loro memoria era fissa sul massacro e perché le famiglie straniere che li avevano accolti volevano adottarli. Molto spesso, come ha sottolineato lo studio di Graça Machel sui bambini in guerra 'le difficoltà sorgono quando la famiglia straniera pensando che il bambino abbia maggiori possibilità nel paese ospite, non vuole che il bambino affidato torni nella sua famiglia d'origine'. Il problema posto a Médicins sans frontières e ad altre ONG era quello relativo al tempo e alle modalità del ritorno. Nel Ruanda questo ritardo è stato spesso dovuto al fatto che i genitori dei bambini curati all'estero avevano perso la vita nel corso del genocidio. Un caso analogo si è verificato nell'orfanotrofio di Masaka nella regione di Kigali i cui ospiti sono stati portati in Francia nell'aprile del 1994 man mano che i combattenti si avvicinavano. In Francia sono stati ospitati nel dipartimento della Loira. Su richiesta delle autorità del Ruanda e dopo molte pressioni 46 bambini sono tornati in patria nel luglio '96 con alcuni accomnatori francesi. I bambini erano stati richiesti in adozione in Francia, ma per il loro ritorno ha consentito a 17 di essi di ricongiungersi alle loro famiglie mentre tutti gli altri sono stati dati in affidamento in attesa di trovare i loro genitori o qualche parente. Sempre nel 1994 sono stati portati in Italia 218 bambini, alcuni di pochi mesi che sono rimasti in Italia fino a quando il governo di Kigali ha espressamente richiesto il loro ritorno. Come in Francia, anche in Italia c'è stata analoga riluttanza da parte di molti affidatari italiani a favorire il ritorno dei bambini pensando che le condizioni di vita nel paese non fossero sufficientemente sicure. Significativamente si è venuti a conoscenza del fatto che quasi tutti i bambini che avevano fatto ritorno al loro paese si erano riuniti con le loro famiglie anche se questo processo è stato lungo e problematico. Esiste anche il problema, a cui in genere non si pensa, della difficoltà per un bambino che si è ormai integrato in un ambiente socioeconomico diverso di quello della famiglia originaria a ritornare in contesti economici poveri dei quali non conosce nemmeno la lingua, soprattutto se ne è andato molto piccolo. Pur riconoscendo in molti casi la necessità che i bambini in pericolo di vita vengano evacuati sarebbe auspicabile non creare fratture così profonde con l'ambiente di origine favorendo, ove possibile, l'ospitalità dei bambini in paesi più vicini per mentalità e cultura. Il caso di alcuni bambini bosniaci ospedalizzati in Malesia è significativo. Da un punto di vista dei diritti la separazione dei bambini dai loro genitori e dalle loro famiglie è la scelta più radicale che si possa fare. Il che determina la necessità di realizzarla con molte cautele individuando i responsabili i quali devono impegnarsi a favorire il ritorno a casa una volta che non sussistano più condizioni di emergenza.




SENZA LIBERTA'



Sulla base di quanto stabilito dalla Convenzione, l'UNICEF si è battuto affinché i ragazzi tra i 14 e i 17 anni accusati di crimini collegati al genocidio venissero rinchiusi in sezioni separate del carcere, lontano dagli adulti. E questo tipo di trattamento è stato spesso esteso ai giovani detenuti che hanno compiuto i 18 anni proprio per evitare la promiscuità con i criminali adulti. L'UNICEF ha contribuito a formare 48 giudici minorili perché il problema della detenzione dei giovani in attesa di un regolare processo era diventato drammatico. Diverso è il discorso per i bambini che vivono in carcere perché le loro madri sono detenute. Le loro condizioni di vita sono al limite dell'accettabile soprattutto quando il carcere è sovrappopolato. Numerosi sono stati gli interventi promossi da diverse ONG; nella prigione di Butare è stata aperta un'area giochi e in alcuni casi i bambini vengono affidati a parenti che vivono nei pressi del carcere e ogni mese possono incontrarsi con la loro mamma. Rispetto all'applicabilità della Convenzione la condizione di questi bambini è forse quella che pone un dilemma nel dilemma. Se da un lato un bambino non deve vivere in prigione, dall'altro la separazione dalla madre può non rappresentare una soluzione appropriata; inoltre, come l'esperienza ha sovente dimostrato, molte detenute trovano insopportabile il periodo di detenzione senza i loro li. D'altro canto i bambini sono troppo piccoli per poter esprimere la loro opinione; la tendenza resta quella di provvedere

alla sistemazione del bambino solo se è un suo desiderio o della madre.




Esercito addio

Già nell'ottobre del '94 il ministero della difesa aveva annunciato l'intenzione di smobilitare i bambini soldato che militavano nelle file dell'esercito. Allora erano circa 5.000 gli under 18 nei ranghi delle forze armate. Circa l'80% di essi aveva avuto un ruolo di aiutante. Dimetterli era comunque un problema, non si poteva semplicemente 'mandarli a casa', anche perché molti non avevano più i genitori. Inoltre il loro comportamento e le abitudini maturate nell'esercito potevano causare problemi al loro reinserimento in seno alle comunità di appartenenza. Era necessario educarli e prepararli attraverso un supporto terapeutico. Non è facile aiutare un bambino soldato a ritornare nella vita civile. L'UNICEF Ruanda ha dovuto rifarsi alle esperienze di altri paesi, come la Liberia o l'Uganda, che avevano vissuto lo stesso drammatico fenomeno. I bambini soldato hanno spesso avuto a che fare con la droga, hanno sviluppato un sentimento di recriminazione e di rivendicazione nei confronti di tutta la società civile, percependosi come vittime ed eroi, degni di un trattamento privilegiato. Sono insofferenti alla disciplina scolastica, molto spesso vogliono tornare nell'esercito, vogliono essere ati perché da soldati ricevevano una salario. Dalle esperienze della Sierra Leone e della Liberia dove sono stati realizzati programmi di riabilitazione e reinserimento, è emerso che la famiglia è l'asso vincente per ogni politica di protezione e recupero dei minori. Gli interventi che privilegiano esclusivamente scuole speciali o orfanotrofi per i soli bambini soldato rischiano di inchiodare i piccoli combattenti a una realtà emarginata dal resto della comunità. E' per  questo che in assenza dei genitori vanno privilegiate politiche di riunificazione con altri famigliari; se anche la famiglia estesa non è in grado di intervenire è necessario creare 'gruppi familiari' in alternativa all'istituzionalizzazione.



Bambini ruandesi in carcere


Riproponiamo una drammatica notizia di quest'estate, riguardante la situazione dei bambini nelle carceri ruandesi. Secondo le stime ufficiali 110000 persone sono attualmente detenute in 18 prigioni centrali (gestite dal Ministero della Giustizia) e in oltre 200 prigioni locali. Tra di loro si trovano circa 2.400 bambini e adolescenti e 600 neonati detenuti insieme alle madri accusate di atti criminali. Secondo l'art. 77 del Codice Penale del Ruanda, l'età per la responsabilità penale è 14 anni. Purtroppo però anche i bambini al di sotto di questa soglia sono stati imprigionati a causa della difficoltà nello stabilirne l'età effettiva o per la non conoscenza, da parte degli uffici locali, di questo loro diritto. L'UNICEF finanzia una task force di 40 poliziotti per seguire esclusivamente i casi di bambini e di adolescenti con la priorità di identificare quelli non colpevoli e verificarne l'età, provvedendo quindi al loro immediato trasferimento in appropriate strutture rieducative, una delle quali a Gitagata, a 40 chilometri a sud di Kigali. Tale centro è stato ripristinato nel 1996, grazie al finanziamento dell'UNICEF. L'UNICEF ha altresì contribuito all costruzione, in cinque prigioni, di reparti per i minorenni separati dagli adulti, riducendo così il rischio di abusi e permettendo loro di seguire corsi professionali e lezioni scolastiche.
(Dal Notiziario Speciale Giovani ANSA-UNICEF, 24 settembre 1997)




DOPO L'EMERGENZA



L'assistenza sanitaria di base è stata al cuore della politica sanitaria del paese a partire dal 1987; dei circa 300 centri sanitari istituiti prima della guerra, pari a uno per ogni comune, pochi sono stati salvati. Fra i primi interventi realizzati dall'UNICEF e dalle numerosissime ONG che hanno collaborato con il Ministero della Sanità, quello di riattivare gli ambulatori. Come per altri settori la maggior parte del personale originario era fuggito o era stato assassinato. Il problema più grosso non è stato tanto quello di rifornirsi di attrezzature mediche quanto quello di trovare personale adeguato che potesse far fronte alle diverse esigenze dell'emergenza sanitaria. Una ricerca realizzata nel giugno 1995 ha messo in evidenza che circa il 10% dei bambini al di sopra dei 5 anni soffriva di forme acute o moderate di malnutrizione, più del doppio della percentuale del '93. Ciononostante sono stati conseguiti risultati significativi, come ad esempio quello di riattivare la 'catena del freddo', e le percentuali di vaccinazione sono ritornate ai livelli pre-l994; questa era il primo risultato da conseguire dopo l'emergenza.

L'acqua

A causa della guerra, la rete idrica nazionale è andata in panne. Ancora un volta il Ruanda ha la più alta percentuale di persone che hanno accesso all'acqua potabile e di impianti sanitari nell'Africa subsahariana (l'80% nelle aree rurali). Nello stesso tempo in media ogni famiglia dispone di circa 8 litri di acqua al giorno; ne servirebbero tre volte di più per garantire standard igienico-sanitari accettabili per l'Africa rurale. Le conseguenze igieniche e sanitarie di questo scarso consumo sono innumerevoli e l'obiettivo è di raddoppiare almeno il consumo domestico. E' stato trovato un sistema per gestire a livello comunitario la fornitura dell'acqua che prevede un'attività di mobilitazione sociale e di educazione comunitaria basata non solo sui benefici sanitari ma sul fatto che are il consumo di acqua direttamente alla comunità responsabilizza consumatore e la marca" class="text">il consumatore, il quale viene ricompensato dalla riduzione dei costi in altre aree dello sviluppo.

Il controllo dell'AIDS

L'incidenza dell'AIDS e delle infezioni correlate è tra le più alte dell'Africa; esiste un programma nazionale di controllo dell'AIDS e l'UNICEF ha collaborato ad esso per l'ideazione di materiali destinati agli insegnanti per informare sui rischi di questa malattia, in modo da mettere in guardia in maniera adeguata gli studenti. Dieci formatori hanno sensibilizzato 1.500 insegnanti di scuola elementare e 200.000 bambini negli ultimi due anni del ciclo primario. Questo argomento viene anche affrontato nei solidarity camps e nel corso di trasmissioni radiofoniche. L'introduzione di programmi di educazione sanitaria è stata una delle condizioni poste dall'UNICEF per iniziare la sua collaborazione con il Ministero della Difesa, nei confronti del quale c'erano forti riserve per il problema dei bambini soldato. Ma al di là dell'aspetto informativo che si sta trattando con una certa completezza, altri problemi relativi all'AIDS sono lontani dall'essere stati affrontati in una maniera efficace come invece è avvenuto nel vicino Uganda.



I portatori di handicap

Un'altra realtà in cui i diritti dei bambini vengono facilmente dimenticati è quella dei bimbi portatori di handicap. I dati sono allarmanti e parlano chiaramente di una pesante discriminazione dei bambini handicappati rispetto al diritto primario di andare a scuola. Un'indagine campione ha infatti rilevato che complessivamente il 70% dei bambini disabili presi in esame non è mai andato a scuola; mentre l'iscrizione generale alle scuole elementari è del 75% per i bambini sani la percentuale scende al 55% per gli amputati, al 48% per le vittime della polio e al 37% per i bambini con qualche deformità fisica. Cifre inquietanti perché in questi casi la disabilità fisica non riduce affatto le possibilità del bambino di studiare. Aumentano le percentuali per altre disabilità, come la cecità (31%), la sordità (12%) e gli handicap mentali (25%). Una delle soluzioni possibili per far fronte a questo difficile problema è quella di coinvolgere le associazioni comunitarie e di volontariato che potrebbero occuparsi del reinserimento sociale di questi bambini. L'UNICEF ha posto la sua esperienza al servizio del paese per quanto rigurada i settori sanitario, idrico, scolastico e di assistenza ai bambini in condizioni difficili. Significativo è stato il suo contributo perché le scuole elementari potessero riaprire rapidamente; ha inoltre aiutato Radio Ruanda a riprendere le trasmissioni, ha fatto piani per la smobilitazione dei bambini soldato e sta sostenendo il trasferimento dei bambini sotto i 14 anni dalle prigioni degli adulti.




I brani del dossier sono stati tradotti e rielaborati e fanno parte dello studio dal titolo Starting from zero, The promotion and protection of children Right's in post-genocide Rwanda July 1994 - Decembre 1996 di Nigel Cantwell, UNICEF, International Child Development Centre, Firenze. E' possibile richiedere lo studio nella versione integrale all'ICDC, Piazza SS.Annunziata 12 - 50122 Firenze - tel. 055/2345258.



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