ePerTutti


Appunti, Tesina di, appunto diritto

IL DIRITTO DEL LAVORO -ALLE ORIGINI DEL DIRITTO DEL LAVORO -La legislazione post -costituzionale

ricerca 1
ricerca 2

IL DIRITTO DEL LAVORO

modulo 1


ALLE ORIGINI DEL DIRITTO DEL LAVORO

Il diritto del lavoro nasce con la civiltà industriale. La bottega artigiana costituiva l'epicentro del sistema economico pre-industriale. L'artigiano-ritenuto depositario per ragioni naturali dei segreti dell'arte-era circondato da una serie di collaboratori (laborantes) che prestavano la loro opera non in funzione di un corrispettivo, ma con lo scopo di apprendere il mestiere. Nell'ambito di tale sistema economico il risultato produttivo non era destinato al mercato, così come lo intendiamo noi oggi, ma a soddisfare le esigenze (limitate) dell'economia cittadina o della corte (economia curtense): in sostanza non si aveva una produzione di massa dei beni, dal momento che l'artigiano produceva su commissione (normalmente della classe mobiliare). Sul piano giuridico tale direttiva era codificata negli statuti delle corporazioni artigiane, che-allo scopo di limitare la concorrenza- stabilivano dei massimali alla produzione da parte delle singole botteghe. Un salto di qualità x la modificazione degli equilibri socio-economici si produce con il fenomeno dell'accumulazione (primitiva) dei capitali che si realizza, alle origini, con l'avvento delle banche (i grandi banchieri senesi e fiorentini del rinascimento). È in questa fase- nella quale progressivamente il ceto artigiano va verso l'impoverimento-che, secondo alcuni autorevoli studiosi di storia del capitalismo, nasce l'archetipo del contratto di lavoro subordinato alla confluenza fra il rapporto di servitù ed il rapporto di Vergal. Quest' ultimo è uno schema contrattuale --- con cui l'artigiano ottiene un mutuo da un mercante, impegnandosi a restituire il capitale tramite cessione di una partecipazione agli utili della bottega. Il ruolo del mercante è in questa fase limitato alla sola acquisizione ed allo smercio del manufatto realizzato dall'artigiano. Successivamente il processo di concentrazione del capitale fa sì che taluni mercanti affidino a più imprese artigianali la realizzazione delle diverse fasi di produzioni di un determinato prodotto, ponendo in essere così una sorta di organizzazione produttiva frazionata sul territorio (decentramento produttivo). Non sempre la realizzazione della singola fase produttiva, poi, viene affidata a vere e proprie botteghe artigiane, laddove talora viene commessa a singoli lavoranti a domicilio (magari ex artigiani, privi di mezzi) che la eseguono con l'ausilio dei propri familiari. È su questa realtà che si innesta l'avvento del sistema di fabbrica, nel quale tutte le fasi del processo produttivo vengono accentrate in unico luogo, alle dipendenze dell'imprenditore, allo scopo di giungere ad una produzione di serie dei manufatti. Ad un certo punto dell'evoluzione, ritroviamo l'artigiano, ormai deprofessionalizzato, che offre la sua forza lavoro al capitalista che ha raggiunto tale autonomia e forza economica da essere proprietario dei mezzi x produrre (diventati ormai complessi e costosi). È questo-insieme al contadino inurbato-il prototipo della ura sociale e giuridica del lavoratore subordinato. Condizioni necessarie x il definitivo passaggio fra i due sistemi sono: a) la rivoluzione tecnologica, b) una modificazione dei rapporti socio-economici, tale da superare le limitazioni alla libertà economica indotte dal corporativismo, c) la traduzione di tali istanze liberistiche sul piano degli istituti giuridici. La prima condizione si realizza con l'avvento delle macchine, che costituiscono l'opera manuale e consentono la produzione di serie (rivoluzione industriale); la seconda si affida al volano della politica e si relizza x il tramite delle grandi rivoluzioni borghesi della fine del settecento (francese e americana); la terza-all'esito delle rivoluzioni politiche-si traduce nella realizzazione delle grandi codificazioni. Nei codici ottocenteschi domina l'idea di libertà economica. Nella prima direzione la codificazione si caratterizza- proprio x garantire il decollo dell'iniziativa privata e della libertà di commercio- x l'unificazione del soggetto di diritto (eliminazione degli statuti particolari a favore di determinati ceti sociali) e la semplificazione delle regole giuridiche (certezza del diritto), - in taluni settori, come il diritto del lavoro-coincide con un vero e proprio astensionismo del legislatore. Nella seconda l'idea di libertà produce l'appiattimento della posizione dei singoli destinatari delle norme sulla regola dell'eguaglianza formale dei soggetti, regola che traduce una fondamentale istanza della rivoluzione francese, ma che trascura di prendere in considerazione la collocazione sostanziale dei singoli nell'ambito dei rapporti economici. La codificazione ottocentesca ignora, in sostanza, che all'eguaglianza formale può corrispondere una diseguaglianza sostanziale, in ragione della diseguale distribuzione del potere economico. In tale contesto è del tutto naturale che il codice civile italiano del 1865 (ispirandosi a quello napoleonico) trascuri del tutto la materia lavoristica, limitandosi a due laconiche indicazioni normative. Sulla base della prima (art 1627) vi sono tre principali specie di locazioni di opere e d'industria: 1)quelle x cui le persone obbligano la propria opera all'altrui servizio, 2)quella de'vetturini sì x terra come x acqua, che si incaricano del trasporto delle persone e delle cose, 3)quella degli imprenditori di opere di appalto o a cottimo. Sulla base della seconda (art 1628) nessuno può obbligare la propria opera all'altrui servizio che a tempo o x una determinata xsona. Quest'ultima regola in particolare, pur mettendo al bando il lavoro "servile", colloca in buona sostanza sullo stesso piano "padrone" ed "operaio", in relazione all'acquisizione del bene-primario del lavoro, con un evidente artificio ideologico. La situazione di astensionismo legislativo non poteva durare in eterno, dal momento che, proprio la presenza di un'enorme massa di manodopera costantemente disponibile ed "a tenuissimo prezzo", non mancò di produrre ben presto forti contrasti che sfociarono nella c.d "questione sociale". Cosicchè, mentre i lavoratori, dal loro canto, so organizzavano in leghe di resistenza, allo scopo di eliminare la concorrenza al ribasso nell'offerta della forza lavoro e sperimentavano nuove forme di lotta (sciopero) e nuove forme di organizzazione (sindacati), il legislatore cominciò a por mano ad una prima serie di interventi normativi. Tali interventi andarono a costituire il primo nucleo della legislazione sociale, diretta a proteggere tutti i lavoratori con una tutela minimale ovvero fasce di questi paricolarmente svantaggiate (donne e minori). È importante ricordare fin d'ora che la descritta legislazione assume come soggetto protetto non il contraente di uno specifico rapporto obbligatorio (il rapporto di lavoro subordinato), ma direttamente l'operaio degli opifici industriali, mostrando di identificare il proprio referente in una peculiare categoria sociale (e pre-giuridica). Ovviamente la legislazione appariva del tutto insufficiente a governare l'amministrazione del rapporto di lavoro ed i conflitti giuridici che potevano insorgere tra le parti. La soluzione di tali conflitti era affidata prevalentemente ai c.d usi industriali o ai primi embrioni di contrattazione collettiva (concordati di tariffa). L'insuficienza del sistema normativo costrinse il legislatore ad intevenire con una originale soluzione: l'istituzione di una speciale magistratura arbitrale (i Collegi dei probiviri), che aveva l'incarico di dirimere sul campo le controversie individuali fra datori di lavoro e lavoratori. L'originalità dell'innovazione sta nella circostanza che i probiviri decidevano le controversie secondo equità, ma con un'equità creativa di diritto, data l'assenza di regole legali, pur se si ispiravano agli usi locali.




Il periodo corporativo

L'avvento dello stato totalitario segna un crescente interventismo in materia lavoristica. Risaltano in questo ambito segnatamente la prima regolamentazione legislativa dell'orario di lavoro (ove si afferma la rivendicazione delle otto ore lavorative) e l'interventocon il quale veniva regolato il rapporto di lavoro degli impiegati. Quanto alla legge del 1923 sull'orario di lavoro giova considerare che essa non rappresenta affatto un frammento di archeologia giuridica, ma contiene principi ancora in gran parte vigenti. Rispetto alla legge sull'impiego privato il legislatore fascista raccoglie e porta a compimento l'eredità dello stato liberale. Durante il periodo fascista vengono inoltre a compimento altre importanti tappe evolutive della legislazione lavoristica. Basti pensare alla legge che ha istituito l'Istituto nazionale x l'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, per gestire la relativa assicurazione obbligatoria; la legge sul riposo settimanale e domenicale, la legge che ha istituito il libretto del lavoro e la legge sul perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza (con la creazione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale). Significativa, poi, almeno, sul piano formale, è anche la predisposizione (nel 1927) di una Carta del lavoro, che rappresenta una summa di principi in materia lavoristica, paragonabili a quelli contenuti nella nostra carta costituzionale, anche se di incerta collocazione, secondo la dottrina dell'epoca , nel sistema delle fonti (solo con la legge del 1941 venne attribuito alle sue dichiarazioni il significato di principi generali dell'ordinamento). Il tratto distintivo più originale del regime cmq si espresse nell'ambito dei rapporti collettivi di lavoro. Il regime ritenne di risolvere la questione sociale (ed i conflitti collettivi) attraverso una forma di corporativismo autoritario. Con la legge del 1926 venne bandita la libertà sindacale (cioè la possibilità di costituire libere associazioni sindacali) ed il pluralismo sindacale venne sostituito da un sindacato fascista, che aveva il potere di rappresentare (non sulla base di un'adesione volontaria, ma) istituzionalmente tutti gli appartenenti ad una determinata categoria professionale. Siffatto sindacato poi stipula con la controparte datoriale- un contratto collettivo con validità nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti alla categoria professionale.


La codificazione

Quasi allo spirale del ventennio fascista produsse il massimo sforzo sul piano della produzione di nome con l'emanazione del codice civile del 1942. Con esso la disciplina lavoristica- o meglio i suoi principi fondamentali- entrano nel diritto dei privati. Il codice costituisce dunque il punto di approdo nella sitemazione della materia, ma anche il punto di partenza di un latente conflitto fra disciplina codificata e disciplina contenuta nella legislazione speciale. Ne derivano invece nel regolamento nel Libro V (intitolato Del lavoro), che contiene le regole giuridiche e del diritto commerciale (imprenditore e società) e del diritto del lavoro. Il legislatore definisce i sogetti del rapporto, cosicchè la definizione del contratto deve essere dedotta da qll di prestatore di lavoro. X la regolamentazione del rapporto, il codice nn considera indifferente la natura del datore di lavoro; infatti appronta- come la regola- la disciplina del lavoro nell'impresa e dispone che ai "rapporti di lavoro subordinato che nn sn inerenti all'esercizio di un' impresa" si applichino qll dettate x il lavoro delle imprese "in qnt compatibili con la specialità del rapporto"(art.2239 cod.cv.) le descritte apparenti stranezze possono essere agevolmente spiegate come sovrastrutture tipica espressione dell'ideologia autoritaria e centralistica, espressa dallo stato corporativo.


4. La costituzione

La costituzione repubblicana costituisce una svolta anche (e soprattutto) x il diritto del lavoro. I padri costitenti attribuirono al "lavoro" un'importanza così preminente, nella nuova società a base democratica da farne addirittura fondamento della repubblicana (art.1) e, indicarono nel lavoratore "subordinato" un protagonista nel nuovo assetto sociale. Con maggior chiarezza di intenti poi la medesima idea di fondo è riaffermata dall'art.3. Si tratta della norma che contiene il ben noto principio di eguaglianza, che viene xaltro scandito su 2 piani distinti: da una parte (primo comma) viene riaffermato il principio, di matrice liberale, di eguaglianza formale ("tt i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opnioni politiche, di condizioni xsonali e sociali"), dall'altra viene sancito il ben più incisivo principio di eguaglianze sostanziale. E' il capoverso dell'art.3 che assegna ai lavoratori dipendenti il ruolo e la funzione di propolsuri della partecipazione effettiva al progresso morale e materiale della società, inevidente contrapposizione al ruolo assegnato, nella stessa norma, alla "persona umana". La speciale considerazione del lavoro subordinato nella Costituzione è poi ribadita dall'art.4 che lo assume cm oggetto di un vero e proprio diritto (e dovere): diritto, rispetto al quale la Repubblica si impegna a promuovere le condizioni x renderlo effettivo. É quest'ultima indicazione che chiarisce che- nella logica dei costituenti- si tratta di un diritto sociale e nn di un diritto di libertà; in sostanza la norma intende porre l'accento sull'impegno dello Stato a garantire tendenzialmente la piena occupazione attraverso adeguati strumenti di politica economica più che sulla protezione del diritto di scegliere, fra più occupazioni, qll maggiormente confacente alle proprie attitudini.Slla medesima lunghezza d'onda si collocano poi le norme specifiche elencate nel Titolo III, dedicato ai Rapporti economici. L'art.35 anzitutto, se pure con una formula ambigua- fra l'altra riecheggiante qll di cui l'art.2060 cod.cv. - riconferma l'impegno della Repubblica a tutelare "il lavoro in tt le sue forme ed applicazioni", ricomprendendo certamente nella locuzione anche il lavoro autonomo, ma presumibilmente, escludendo il lavoro imprenditoriale in qnt tale, garantito in termini di libertà, dall'art.41. Seguono le norme k statuiscono minimi inalienabili di protezione (art.36 : giusta retribuzione e diritto ai riposi; art.37: tutela e parità x donne e minori; art.38: garanzia previdenziale in relazione ai bisogni di carattere primario, quali l'invalidità, la vekkiaia, gl infortuni, le malattie professionali, ecc.) e pongono i presupposti strumentali x la realizzazione dell'autotutela da parte dei lavoratori stessi art.39: libertà di organizzazione sindacale; art.40: diritto di sciopero). Nel "cuore" della nostra disciplina si colloca l'art.41: l'iniziativa economica privata è libera" che significa libertà di iniziare ridurre o cessare l'attività ed essa "nn può svolgersi in contrasto cn l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,alla libertà alla dignità umana"). In qlc modo il diritto del lavoro può essere eletto in kiave di svolgimento del principio espresso dall'art.41. L'intervento del legislatore in materia lavoristica rappresenta infatti la materializzazione degli interessi k si contrappongono, limindola all'iniziativa economica privata. Nel gioco fra le 2 posizioni e la norma lavoristica k indica la possibile via di mediazione del conflitto di interesse.


La legislazione post -costituzionale

La produzione normativa post-costituzionale è distinguibile per grandi linee in tre grandi periodi.


a) Nel primo quindicennio (fino alla metà degli anni Sessanta)-nel periodo quindi del definitivo passaggio da una società basata prevalentemente sull'agricoltura ad una società industriale moderna-l'intervento normativo si caratterizza x una marcata attenzione verso la protezione di fasce marginali e/o particolarmente deboli della forza-lavoro o per l'approntamento di uno standard minimo ed invalicabile di protezione o, ancora, in senso antifraudolento. Appartengono al primo gruppo le leggi sull'apprendistato, sulla tutela delle lavoratrici madri, sul divieto di licenziamento delle lavoratrici x causa di matrimonio, sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, contenente le norme generali x l'igiene del lavoro. Appartengono al secondo gruppo la regolamentazione giuridica del collocamento della manodopera (c.d legge Vigorelli). Quest'ultima fu particolarmente significativa avendo rappresentato un tentativo di realizzare l'obiettivo dell'estensione erga omnes dei contratti collettivi di lavoro, al di fuori del meccanismo preurato dall'art. 39 cost. (registrazione del sindacato, costituzione di rappresentanze unitarie, ecc.). Infine appartengono al terzo gruppo le discipline con le quali il legislatore intese reprimere o forme illecite e fraudolente di impegno dei lavoratori (per es divieto di interposizione) o tecniche elusive di diritti inderogabili, sul rapporto di lavoro a tempo determinato, considerato strumento di elusione del diritto all'indennità di anzianità.


b) Il segno dell'intervento legislativo muta radicalmente nel decennio a cavallo fra gli anni 60' e 70' (19651975). Sono gli anni della grande espansione del garantismo normativo. Il decennio si apre con un importante intervento della Corte costituzionale che dichiara l'illeggittimità dell'art.2948, n.4 del codice civile, nella parte in cui consente la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro. La Corte in pratica, prendendo atto della posizioni di sudditanza psicolgica nella quale si trova il lavoratore nel corso del rapporto, in ragione della libertà di licenziamento (all'epoca vigente) sposta la decorrenza dei termini di prescrizione al momento in cui il rapporto è ormai cessato ed il lavoratore è tornato nella piena libertà dispositiva. Fa seguito la fondamentale legge 15 luglio 1966, n.604 con la quale si avvia il processo di superamento del principio di libera recedibilità dal contratto di lavoro. X la prima vlt si stabilisce il principio secondo cui (almeno nelle imprese di certe dimensioni) il licenziamento deve essere giustificato. L' epicentro del sistema di garanzie e cmq costituito dallo statuto dei diritti dei lavoratori (legge 20 maggio 1970 n.300). In primo luogo esso si pone l'obiettivo di rendere effettivi nei luoghi di lavoro, i diritti sanciti in astratto nella sectiune costituzionali (libertà e dignità dei lavoratori). Si è detto che, in tal modo, la Costituzione ha varcato i "cancelli della fabbrica", potendo il lavoratore mantenere i propri diritti di cittadino anche nell'ambito del rapporto di lavoro e prospettandosi, sul piano teorico, l'incidenza dei diritti fondamentali anche nei rapporti privatistici. Una prima strategia di tutela si attua qnd ampliando e rafforzando i diritti individuali del lavoratore. Una seconda strategia di tutela (e quindi di effettività) si attua attraverso l'istutozionalizzazione della presenza del sindacato nei luoghi di lavoro, mediante la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (è questa quella che si definisce anima promozionale e/o di sostegno dello statuto). Ovviamente al rafforzamento della presenza sindacale sono collegati tutta una serie di divieti diretti a tutelare sia il singolo che il militante sindacale (divieto di discriminazione x ragioni sindacali, tutela dei rappresentanti sindacali contro i trasferimenti ed i licenziamenti, ecc.) nonché la preurazione di uno speciale ed efficiente procedimento d'urgenza diretto alla repressione dell'attività antisindacale del datore di lavoro (art 28). Un ulteriore fondamentale passaggio del sistema di garanzie è costituito dalla legge 11 agosto 1973, n.533 che introduce una nuova disciplina x le controversie individuali di lavoro (processo di lavoro). Il modello di processo proposto dalla legge 1973 è un processo rapido, concentrato e tendenzialmente orale. Ed è un processo in cui il tempo non corre ai danni della parte economicamente più debole: si prevede infatti che il giudice, qnd liquida crediti di lavoro, debba contestualmente condannare il datore al amento degli interessi e del maggior danno da svalutazione monetaria sulle somme riconosciute al lavoratore.

c)Come lo statuto dei lavoratori rappresenta il suggello normativo sul piano dei rapporti di lavoro della grande espansione economica italiana degli anni sessanta, così le difficoltà del sistema economico dei primi anni settanta (dovute anche a contingenze internazionali: ad es. la crisi petrolifera) segnano una decisa inversione di tendenza nel diritto del lavoratore. Quella che prende corpo a partire, all'ingrosso, dal 1975 è stata definita legislazione della crisi o dell'emergenza, diretta com'era ad attutire le conseguenze delle avverse fortune economiche.

Gli interventi sul salario:

A)Un primo gruppo di interventi si occupa del salario e segnatamente dei meccanismi automatici di rivalutazione della retribuzione (c.d scale mobili). Si imputava infatti a tali meccanismi di alimentare fenomeni inflattivi, in un circolo vizioso in cui ad ogni aumento salariale corrispondeva un aumento dei prezzi di beni di consumo ed ogni aumento dei prezzi corrispondeva un ulteriore aumento salariale e così via. Gli interventi di carattere strumentale si occupano di diboscare le scale mobili anomale, unificando i sistemi di indicizzazione del salario; quelli di carattere congiunturale giungono fino al punto di "espropriare" una parte della retribuzione, congelata in buoni del tesoro riscuotibili a scadenze prefissate nel tempo.

B) Un secondo gruppo di leggi cerca di dare una risposta ai problemi posti dalle grandi ristrutturazioni industriali, rivitalizzando gli ammortizzatori sociali (segnatamente la cassa integrazione guadagni) e piegandoli talvolta ad un uso "mirato" a risolvere la crisi di uno specifico gruppo imprenditoriale

C)Un terzo gruppo di interventi si preoccupa di incentivare e sostenere l'occupazioone giovanile, fortemente penalizzata e dalla caduta delle occasioni di lavoro e dalla protezione dell'area forte della forza-lavoro (i lavoratori espulsi dal circuito delle grandi imprese).


L'insieme di tali interventi è poi accumulato non solo dalla necessità di fronteggiare le conseguenze della crisi economica ma anche: a) da un mutamento nel metodo della formazione della legge, b) da una diversificazione dei luoghi di mediazione del conflitto, c) e dall'inversione di taluni tratti strutturali della norma lavoristica. Si segnala, anzitutto, sul piano della tecnica di formazione della legge, il ricorso al metodo della c.d concertazione sociale. In buona sostanza il governo concorda con le parti sociali (i rappresentanti delle grandi confederazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro) i contenuti dei provvedimenti legislativi da emanare ed il raggiungimento del consenso fra le parti è covalidato in "protocolli d'intesa". Altra caratteristica della legislazione d'emergenza è il decisivo ruolo affidato all'intervento (autorizzativo o concessivo) della pubblica amministrazione (è il ministro del lavoro che decreta l'intervento della cassa integrazione guadagni; è il ministro dell'industria che, sentito il CIPI, autorizza i piani di risanamento delle grandi imprese in amministrazione straordinaria; è l'ispettorato del lavoro che autorizza le assunzionia termine nel caso di "punte stagionali" di attività, etc). L'amplificazione del ruolo dei pubblici poteri si giustifica, in tali circostanze, x il fatto che la protezione del lavoratore tende a collocarsi, più che sul piano del singolo rapporto, direttamente sul mercato. Infine degna di rilievo è la considerazione secondo cui viene meno il principio di assoluta inderogabilità in pejus della legge, che costituisce un dato strutturale nel rapporto tra le fonti del diritto del lavoro (art 2077 cod. civ. e l'art 40 dello statuto dei lavoratori). La legge invece comincia a presentarsi in talune situazioni (ad es gli interventi calmieratori sul salario) come tetto massimo, invalicabile in melius anche ad opera dell'autonomia (individuale o collettiva). In sostanza il legislatore vieta all'autonomia collettiva di stabilire trattamenti più favorevoli.


La legislazione più recente

Gli anni che stiamo vivendo si caratterizzano, sul piano economico, x quella che è stata definita, con una certa enfasi, "quarta rivoluzione industriale", conseguente all'avvento delle tecnologie informatiche ed altresì per la c.d "globalizzazione", cioè x la formazione di un unico mercato economico a livello etario. Il diritto del lavoro deve quindi confrontarsi con una nuova modificazione dell'assetto dell'impresa che sta producendo-e continuerà a produrre in futuro-mutamenti che non riusciamo ancora ad intravvedere in maniera chiara. Si pensi anche solo al c.d "telelavoro", alla possibilità cioè che il prestatore di lavoro sia liberato dal rapporto "fisico" con lo stabilimento, eseguendo la prestazione lavorativa a casa propria. X il momento dobbiamo constatare che (anche) la rivoluzione informativa ha già prodotto talune modificazioni significative. In primo luogo a quella che si definisce "terziarizzazione"dell'economia, cioè la crescita esponenziale delle imprese (e degli occupati) nel settore terziario (commercio, servizi, etc.), a discapito del settore industriale che, come si è visto, costituisce l'originario e tradizionale referente della nostra disciplina. Inoltre-così come avvenne x la prima rivoluzione industriale-l'aumento dell'automazione ha prodotto una riduzione dei posti di lavoro. Di fronte a tali fenomeni la risposta dei governi (non solo di quello italiano) si è orientata anzitutto nella direzione di una accentuazione del coinvolgimento delle parti sociali nelle scelte, spesso dolorose, di politica economica (concertazione). Sul piano normativo il diritto del lavoro si è sviluppato alla luce della parola d'ordine della flessibilità, con l'intento di stimolare il decollo delle imprese e garantire nuova occupazione. La flessibilità è stata richiesta dalle imprese inoltre x far fronte alla spietatata concorrenza internazionale ed alla mutevolezza dell'andamento dei mercati. Inutile dire che ciò ha comportato (non uno smantellamento, ma) un ridimensionamento del sistema di garanzie approntato nei decenni precedenti ed in varie direzioni. Sono state anzitutto introdotte forme flessibili di impiego della manodopera attraverso la creazione di "sottotipi", rispetto al tipo contrattuale del rapporto di lavoro ovvero riducendo gli ostacoli all'utilizzo temporaneo o parziale dei lavoratori. Rientrano in questa categoria il contratto di formazione-lavoro, il contratto di lavoro a tempo parziale, il contratto di lavoro temporaneo, il contratto di lavoro a termine. Più di recente con il d.lgs.10 Settembre 2003- i sottotipi flessibili sn stati ulteriormente ampliati con l'introduzione del lavoro intermittente, del lavoro ripartito, del lavoro accessorio, nn kè cn la previsione del contratto di somministrazione di lavoro anke a tempo indeterminato. Una seconda variante della flessibilizzazione è consistita in interventi di deregolazione pura nei confronti di obblighi incombenti sulle imprese. Basti pensare anche sl alla disciplina del collocamento della mano d'opera, pressocchè integralmente liberalizzata ed aperta alla mediazione privata,all'esito della riforma della seconda metà degli anni 90'. una terza variante di flessibilizzazione si avvale della tecnica della deregolazione contrattata. Nel caso la legge, anziché procedere ad eliminare il vincolo o la limitazione alla libertà di impresa rinvia tale compito alla contrattazione continua. Si pensi agli spazi aperti alla contrattazione collettiva in materia di lavoro a tempo parziale, lavoro a termine, lavoro temporaneo, contratti di solidarietà o alla riduzione dei costi del finanziamento della mobilità, ove l'impresa abbia concordato con il sindacato le condizioni relative al licenziamento collettivo x riduzione di xsonale e così via. In questo ambito si collocava il c.d "Pacchetto Treu" che conteneva un insieme di misure dirette ad introdurre maggiore flessibilità, attraverso la riforma della disciplina dell'orario di lavoro, dell'apprendistato, del lavoro a termine e l'introduzione nel nostro ordinamento del lavoro temporaneo. A tale metodologia si contrappone ora quella accolta dal d.lgs. n. 276 del 2003, che ha allargato ulteriormente gli orizzonti della flessibilità ed ha fortemente attenuato il ruolo della contrattazione collettiva, concedendo maggiori spazi all'autonomia individuale o rafforzando i poteri unilaterali del datore di lavoro. X smentire l'assolutezza delle categorizzazioni è peraltro sufficiente constatare che convivono con gli interventi del tipo appena descritto discipline che si riannodano al tradizionale filone garantista. Si pensi alla legge 10aprile 1991, n. 125, che introduce le c.d azioni positive, x la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, o alla legge 11 maggio 1990 n. 108, che xfeziona la disciplina relativa ai licenziamenti individuali, ampliando lo spettro della tutela . E si pensi altresì alle incisive previsioni in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro di cui alla l. n. 626 del 1994 o alla normativa di tutela (anche) del lavoratore rispetto al trattamento dei dati personali o, ancora, alla l. n. 68 del 1999, contenente una nuova disciplina x il lavoro dei disabili o alla revisione della tradizionale regolamentazione sui congedi x maternità, sostituita da una normativa che regola i congedi parentali e familiari. Nel medesimo filone si collocano, infine, i d.lgs.n.215 e 216 del 2003 di recepimento delle direttive Ce in materia di parità d trattamento indipendetemente dalla razza e dall'origine etnica e di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. Infine un costante stimolo alla produzione normativa viene dall'adempimento degli obblighi dello stato italiano nei confronti della comunità europea. Nell'originario Trattato di Roma del 25marzo 1957 (istitutivo della Comunità economica europea), infatti, l'ottica era quella di consentire la libera circolazione die lavortori fra un Paese e l'altro ed evitare k regolamentazioni diversificate in materia lavoristica creassero situazione di squilibrio nella concorrenza fra le imprese. Nei decenni successivi, peraltro, ed in misura crescente, la comunità europea si è dotata di strumenti più specificamente diretti a promuovere, in positivo, l'occupazione ed il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (v. in particolare il Trattato di Amsterdam del 1997 che ha introdotto numerose modifiche al Trattato ist del 1957).


Le componenti basiche del diritto del lavoro

La storia del diritto del lavoro, ci restituisce un'immagini del lavoratore come il soggetto sociale sottoprotetto (o moderno capite deminutes), la cui debolezza contrattuale deve essere riequilibrata da una forte integrazione eterenoma di origine legale. La circostanza che il corpus giuridico della nostra materia si sia formata in modo"alluvionale", sviluppandosi "con la velocità impercettibile dei ghiacciai" e, come questi ultimi, avanzando "ricoperto di detriti piovuti da chissà dove", nn ci impedisce di indviduare distintamente delle componenti basiche e strutturali. Un primo dato strutturale è costituito dall'inderogabilità della norma lavoristica cui è collegata una (parziale) indisponibilità dei diritti. Si ricorderà che l' inderogabilità è sancita dall'art 17 della l. del 1924 sull'impiego privato, è poi riaffermata, in generale dall'art.2077 cod. civ. Ed è riconfermata dall'art.40 dello statuto dei lavoratori. L' indisponibilità (parziale) invece, scaturisce dall'art 2113 cod. civ., nella parte in cui dichiara invalide le rinunce o transazioni su diritti preurati di norme inderogabili (di legge o di contratto collettivo). Una seconda componente basica del diritto del lavoro è la rigidità del tipo contrattuale. Le parti del contratto di lavoro non sono libere di dare ad esso un contenuto in contrasto con la disciplina inderogabile. Infine caratteristica essenziale del diritto del lavoro è la peculiarità delle tecniche di tutela che la norma lavoristica ha elaborato nel tempo, allo scopo di tener dietro alla direttiva di politica del diritto di proteggere la persona del lavoratore nel processo produttivo. Occorre notare che, la formazione progressiva del corpud della materia e la compresenza di spezzoni normativi concepiti in epoche tanto diverse, non hanno impedito una forse (paradossale) coesione interna, venendo le singole innovazioni metabolizzate nell'organismo complessivo. È quasi un luogo comune che i nostri tempi sono profondamente segnati da una ripresa dell' "individualismo". Il che, applicato al diritto del lavoro , può significare: A)che esistono sempre più lavoratori dotati di un certo potere negoziale (perchè evidentemente dotati di professionalità non facilmente reperibili sul mercato), per i quali il contratto individuale di lavoro può costituire garanzia sufficiente alla soddisfazione dei propri interessi ovvero, B) che un numero sempre crescente di lavoratori guarda al proprio itinerario lavorativo non come percorso lineare (un posto "fisso" x tutta la vita), ma come una strada variamente frazionata da impegni a tempo pieno e/o a tempo parziale, con una accentuata mobilità fra posto e posto, C) che un numero crescente di lavoratori risulti difficilmente collocabile entro la dicotomia e rigida alternativa fra autonomia e subordinazione ed aspiri ad una collocazione intermedia fra le due. Alle descritte esigenze come risponde il diritto del lavoro? Il diritto posto risponde evidentemente in modo rigido. Quel che è ragionevolmente acquisibile è che è ben difficile che il diritto del lavoro intenda rinnegare del tutto la propria vocazione e ragion d'essere, per non trasformarsi in un indistinto diritto "delle professioni" o "dell'impresa".


Diritto del lavoro e diritto civile.

Il problema dei rapporti fra diritto del lavoro e diritto civile costituisce un topos della letteratura manualistica. La questione consiste nel chiedersi se il diritto del lavoro, nato da una costola del diritto civile, sia "cresciuto abbastanza x trovare la (propria) strada e svilupparsi per proprio conto". Al fine di proporre il confronto è forse maggiormente produttivo individuare i "punti caldi" dell'attrito fra le due discipline. Sono: a) la contrapposizione fra contrattualismo e acontrattualismo nell'individuazione della fonte del rapporto e nella complessiva sistemazione della materia; b) la tensione, nell'ambito del rapporto obbligatorio, fra subordinazione e organizzazione; c) la diseguale distribuzione dei poteri fra datore e lavoratore. Non si può confrontare il diritto del lavoro alle soglie del terzo millennio con il diritto civile dei pandettisti di fine ottocento. È da tempo assodato, nella dottrina civilistica, che il contratto è strumento "a plurimo impiego", che può essere piegato anche al xseguimento di interessi superindividuali, cosicchè il contratto si inserisce, a pieno titolo, entro tale categoria. Anzi si può dire che alla revisione della tradizionale concezione del contratto come terreno d'elezione della libertà dei privati abbia contribuito proprio la normativa lavoristica e le riflessioni della sua dottrina. Sennonchè la circostanza che la fattispecie fondamentale del diritto del lavoro abbia natura contrattuale, con il rifiuto di prospettive acontrattualistiche, non è certo sufficiente a giustificare una sorta di anacronistico "primato" sul diritto del lavoro. Il diritto privato (e la teoria generale) forniscono al discorso lavoristico le "infrastrutture e gli snodi" indispensabili x consentirgli di dialogare. In questa dimensione è innegabile la centralità del libro IV del codice civile, che mantiene la propria attualità, proprio perchè si tratta di concettualizzazioni piegabili ad un impiego "neutro", nel cui ambito è in qlk modo possibile prescindere da specifici "valori" nella soluzione dei conflitti fra i due contraenti. È dunque questa la miglior riprova del significativo contributo del diritto del lavoro ad un profondo rinnovamento del diritto dei contratti. Il diritto delle obbligazioni costituisce la parte più vitale del diritto dei privati, che ha resistito anche al processo di progressiva frantumazione, fino al dissolvimento, della centralità del codice. Il codice ha xso non solo la funzione di condensato di principi generali di garanzia dei diritti fondamentali dell'individuo, sostituito su questo piano dalla Carta costituzionale, ma anche di dettare regole x la soluzione di specifici conflitti. In tal modo le discipline residuali restano "nel codice come rami secchi, settori normativi superati da nuovi principi generali e ricchi di semplice prestigio o suggestione storica. Nel diritto del lavoro lo sviluppo della disciplina speciale può dirsi avvenuto non contro ma dentro la struttura del codice. In questo ambito è la stessa fattispecie fondamentale, riassunta dall'art.2094, che garantisce la mediazione fra esterno ed interno. Si può dire in sostanza che la normativa speciale abbia contribuito ad una rilettura e sistemazione della fattispecie fondamentale che è e rimane all'interno del tessuto del codice. La permanente centralità della definizione codicistica è stata garantita in questo ambito dalla rigidità del tipo contrattuale, che ha altresì impedito il processo di frantumazione e dispersione delle tutele.



CAPITOLO II:

IL LAVORATORE SUBORDINATO


SEZIONE I   IL TIPO CONTRATTUALE


La subordinazione: profili introduttivi

Quella della "subordinazione" è una questione che ha un significato ad un tempo culturale e pratico. Sotto il primo profilo interrogarsi intorno ad essa significa interrogarsi intorno all' "essere" di una disciplina giuridica che fa del lavoro dipendente l'epicentro del proprio interesse. Non meno rilevante- ed anzi fondamentale- è il profilo pratico della questione. Sotto qst aspetto si tratta di circoscrivere i tratti caratteristici di un contratto tipico (il contratto di lavoro subordinato) e dunque di individuare a quali rapporti della vita di relazione siano applicabili le norme giuridiche che si riferiscono a quel contratto. Basti pensare che se un determinato rapporto si qualifica come subordinato scattano x il datore di lavoro ina serie di (onerosissimi) obblighi (e correlativi diritti x il lavoratore): anzitutto, la costituzione del rapporto giuridico obbligatorio di previdenza sociale, con l'obbligo x il datore di versare i contributi all'INPS (al fine di consentire al lavoratore di maturare i vari trattamenti pensionistici) e- ove il datore rientra nel relativo campo d'applicazione-i premi all'INAIL (ai fini dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro) e poi l'osservanza da parte del datore di tutta la legislazione di garanzia x il lavoratore (ad es. limiti all'orario, ferie retribuiti, riposi settimanali, ecc, limiti ai poteri direttivo, disciplinare, di controllo, ecc), cioè l'estinzione del diritto del lavoro. Viceversa se si assume che un determinato rapporto è di lavoro autonomo l'unica conseguenza - a parte la regolamentazione data dalle parti alle relative obbligazioni-è quella dell'applicabilità degli art. da 2222 a 2228 cod. civ. che regolano esclusivamente i diritti delle parti sulla materia prima ed i problemi relativi all'esecuzione e sulla difformità o i vizi dell'opera, al corrispettivo, al recesso ed all'impossibilità sopravvenuta. Abbiamo detto che il referente originario del diritto del lavoro è l'operaio dell'impresa industriale, è cioè quel soggetto (artigiano proletarizzato, contadino inurbato) che- x usare una terminologia cruda, ma efficace-è costretto, x sopravvivere, a vendere la propria forza lavoro ad un imprenditore che ha i mezzi x produrre e che, conseguentemente, detiene il potere di organizzare l'attività di una gran massa di soggetti a lui "subordinati" (o da lui "dipendenti"), operando una sintesi fra l'apporto di capitali, la produttività delle macchine e il lavoro dell'uomo. Un carattere essenziale di tale relazione giuridica è dunque quello dell' estraneazione del lavoratore dal risultato finale della sua prestazione. In sostanza il lavoratore fornisce all'imprenditore delle generiche energie, che quest'ultimo utilizza nel processo produttivo, coordinandole a quelle degli altri lavoratori ed assumendosi il rischio del risultato finale dell'attività economica. Il prestatore è invece responsabile esclusivamente della corretta esecuzione della propria prestazione. Sul piano sociologico è facile cogliere allora la differenza che intercorre con il lavoro autonomo: nell'ambito di quest'ultimo il lavoratore auto-organizza i mezzi ed i modi della prestazione e si impegna a fornire al committente un prodotto finito, che può essere un bene materiale (pensiamo al sarto che confeziona un abito) o un servizio (pensiamo alle c.d professioni liberali: il medico, l'ingegnere, l'avvocato).


Il codice civile del 1865 ed il contributo di Lodovico Barassi

Il codice civile del 1865 non contempla alcuna regolamentazione del contratto di lavoro subordinato. Esso allude, in generale, con l'art 1570, al fenomeno della locazione delle opere, che qualifica come "il contratto x cui una delle parti si obbliga a fare x l'altra una cosa mediante la pattuita mercede", ma ci spiega contestualmente, all'art 1627, che di tale categoria fanno parte sia le obbligazioni della "propria opera all'altrui servizio", sia il contratto di trasporto, sia le obbligazioni "degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo". Come si vede il prototipo della locazione di opere identifica, nell'economia del codice del 1865, fattispecie che oggi inqudreremmo tanto nel lavoro subordinatonel lavoro autonomo o nell'appalto. Per converso quel complesso di disposizioni protettive del lavoratore subordinato che prendono corpo a cavallo dei due secoli, e che definiamo sinteticamente "legislazione sociale", muove da un ben diverso punto di vista. Dovendo identificare il proprio ambito di applicabilità, tale normativa richiama nn uno schema giuridica astratto (contratto di lavoro subordinato), ma un soggetto dotato di specifica individuabilità sul piano sociologico. Così, a titolo esemplificativo, la disciplina del lavoro nelle miniere, cave e torbiere si riferisce al lavoro manuale. Proprio facendo perno su tali definizioni normative una parte della dottrina lavoristica di fine secolo esprime il convincimento della assoluta inadeguatezza del codice civile ( e del concetto di locatio operarum) a regolare la nascente realtà del lavoro industriale. Essa giudica ke, al più la disciplina codicistica possa valere a dare regolamentazione alla attività del c.d. "operaio a giornata" o del domestico. È in qst quadro, segnato dalla scarsezza di dati deducibili dal codice e dalla pressaente avanzata della legislazione speciale, che si colloca la riflessione di Lodovico Barassi, che è, x unanime riconoscimento, il giurista che più ha influito sll formazione ed il consolidamento delle strutture del diritto del lavoro. Il contributo di barassi alla sviluppo della discussione agisce su un duplice piano. In primo luogo barassi, pur aderendo alla prospettiva che collocava il contratto di lavoro nell'ambito dello schema della locazione, sostituisce al criterio distintivo fra le 2 specie di locazione basato sulla distinzione fra attività e risultato, il diverso criterio che si basa sulla circostanza della direzione della prestazione lavorativa (nella quale risolve la subordinazione del lavoratore). Allaluce di tale criterio x barassi la prestazione di lavoro subordinato si caratterizza x il fatto di essere eterodiretta dal datore di lavoro, a differenza della prestazione di lavoro autonomo che è invece auto-organizzata dal lavoratore stesso. In secondo luogo e soprattutto egli ritiene che, una volta individuata la fattispecie del lavoro subordinato, ad essa si debba collegare, quale effetto, l'applicazione della legislatizione sociale, cioè della normativa lavoristica. Come si vede dunque barassi in buona sostanza allarga l'ambito di estensione del di diritto del lavoro. Cosicchè è da addebitarsi a questa concezione originaria anche la propensione del nostro diritto del lavoro a regolare tanto il lavoro dell'umile operaio quanto quello del dirigente e a sottoporli -con limitate eccezioni- alla medesima tutela.


L'art 2094 cod. civ.

Abbiamo già ricordato che il vigente codice civile colloca la definizione del contratto di lavoro (art 2094 cod. civ) nell'ambito del libro V e non nel libro IV, come x gli altri contratti tipici ed abbiamo spiegato le ragioni di tale singolarità. Prestatore di lavoro subordinato è "colui il quale si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze o sotto la direzione dell'imprenditore". Come si vede gli elementi essenziali della definizione sono:a) la collaborazione nell'impresa, b) la dipendenza dall'imprenditore c) l'eterodirezione. Cominciamo dalla nozione di collaborazione. Che si tratti di un dato generico appare ictu oculi: si può infatti collaborare con altri soggetti quale che sia la veste giuridica che si assume (in forma autonoma e subordinata). D'altra parte lo stesso ordinamento lavoristico fornisce indicazioni contraddittorie al riguardo, anche nell'ambito del lavoro subordinato, se è vero che la collaborazione connota un modo di essere dell'attività lavorativa dell'impiegato. Ed allora se l'impiegato è qualificato come collaboratore dell'imprenditore come può assumersi che la collaborazione costituisca un elemento essenziale di caratterizzazione di tutti i prestatori di lavoro? La tradizionale risposta a tale quesito, secondo cui l'impiegato collabora all'impresa ed il prestatore tout court (l'operaio) collabora nell'impresa. Non dissimili rilievi valgono x l'elemento dell'etero-direzione. Si tratta del profilo di diretta derivazione barassiana che "fotografa" il potere del datore di lavoro di dirigere la prestazione verso un risultato a sé utile. Anche l'utilizzabilità di tale requisito, come elemento distintivo della subordinazione, si presta ad un'obiezione a suo modo classica: quella secondo cui il potere del creditore di indirizzare la prestazione (di lavoro) del debitore verso la soddisfazione del proprio interesse è comune anche ad altre specie contrattuali. Residua l'elemento della dipendenza. Di esso un certo filone della dottrina ha dato una lettura che tende a valorizzare lo stato di subordinazione socio-economica del lavoratore, il quale non avendo i mezzi per produrre è costretto a mettere a disposizione del datore le proprie energie lavorative. Sennonchè anche rispetto ad essa è facile contraporre che il concetto di dipendenza così inteso si presta a dar conto della ratio dell'intervento del legislatore a protezione del lavoratore dipendente, ma non costituisce un elemento valorizzabile ai fini selettivi. In sintesi dunque nessuno degli elementi individuati dall'art.2094 cod. civ. appare dotato di qualità definitoria della subordinazione o perchè legato a modi di essere delle relazioni di lavoro ormai superati o perchè comune ad altri contratti in cui è implicato il lavoro o perchè rinviene al di fuori dei dati giuridici e direttamente nella realtà sociale gli elementi di distinzione.


L'impostazione dottrinale tradizionale.

È escluso che nel sistema nato dalla Costituzione potesse ancora fornirsi un'immagine della collaborazione nei termini (quasi)di una comunione di scopo fra datore e lavoratore e si è invece ritenuto che essa potesse essere identificata nella nozione di subordinazione in senso tecnico-funzionale. Più in specifico si è ritenuto che il lavoratore si obbliga ad un facere specifico (il lavoro), in attuazione di un contratto di scambio. Peraltro, poiché tale dato essenziale è comune ad altre relazioni che hanno ad oggetto il lavoro, la specificità del rapporto descritto dall'art.2094 si individuerebbe alla stregua del requisito della subordinazione. Attraverso essa il datore di lavoro (imprenditore e non) vedrebbe garantito il proprio interesse ad organizzare l'attività produttiva x il raggiungimento delle proprie finalità. Alla soddisfazione di tale interesse sarebbe ordinato il potere di dirigere la prestazione dedotta nel contratto -una prestazione da qualificarsi come "fedele"- impartendo disposizioni sul come e sul quando di essa nonché il potere di infliggere sanzioni disciplinari in caso di violazione delle disposizioni impartite.


La nozione di subordinazione nell'elaborazione giurisprudenziale.

Ciò acquisito è indispensabile verificare quale impiego abbia fatto la giurisprudenza della definizione data dall'art.2094 cod.civ. In sostanza occorre riferire sul procedimento seguito dai nostri giudici x qualificare il rapporto, nelle situazioni di incertezza in cui oggetto di discussione è proprio la natura autonoma o subordinata della relazione giuridica esaminata. La giurisprudenza utilizza degli indici empirici di riconoscimento esteriore della subordinazione. Gli indici più ricorrenti sono: l'inserimento nell'impresa del datore di lavoro, la continuità della prestazione, la sottoposizione ai poteri di controllo e direzione del datore, il carattere personale della prestazione, la cessione delle energie lavorative (quale oggetto del contratto), l'estraneazione dal risultato produttivo (assenza di rischio). Si tratta di indici dedotti dalla disciplina applicabili al rapporto di lavoro subordinato e che quindi dovrebbero costituire gli effetti della fattispecie (una volta qualificata). Cosicchè si può dire che la giurisprudenza ribalta il procedimento logico di qualificazione. Anziché valutare preliminarmente la fattispecie, x poi collegare ad essa i relativi effetti (applicabilità della disciplina inclusiva di diritti ed obblighi) muove proprio da questi ultimi, riconoscendo in essi qualità evocativa della fattispecie. ½ è inoltre un evidente sfasatura fra la posizione della dottrina-fedele al riconoscimento di una fattispecie tipica, unica ed elementare, di prestazione di lavoro in forma subordinata-e la posizione della giurisprudenza che polverizza la definizione in una serie di indici empirici. La questione che si pone allora è se l'operazione complessivamente condotta dalla giurisprudenza sia conforme alla definizione di cui all'art.2094 o se essa sia piuttosto eversiva e dunque si avvalga di dati dedotti non dalle indicazioni normative ma direttamente dalla realtà sociale. Un atteggiamento indulgente nei confronti della giurisprudenza è quello proposto da chi (Persiani) ritiene che, in realtà, al di là delle formule usate, i nostri giudici farebbero ricorso ad un criterio sostanzialmente unitario: l'individuazione della funzione del contratto realizzato. Essa verrebbe rinvenuta non, sulla base delle suggestioni provenienti dalla dottrina tradizionale, negli elementi della direzione del lavoro altrui e dell'utilizzazione del risultato, bensì in quello dell' "organizzazione di tale attività e della stessa persona che la presta". Un diverso orientamento dottrinale (Snuolo Vigorita) si mostra assai più critico nei confronti del procedimento seguito dalla giurisprudenza. Tale orientamento, all'esito di una approfondita analisi storico-critica intorno al concetto di subordinazione ed alle incrostazioni stratificatesi negli anni intorno ad essa, denuncia con spregiudicatezza, si direbbe, l'inutilità degli sforzi diretti a ridurre ad unità la contraddizione fra la sussistenza di un'unica ed indivisibile fattispecie negoziale, tipica, cui ricollegare l'applicazione della disciplina lavoristica, ed i multiformi dati del reale riflessi nell'analisi giurisprudenziale. E il discorso critico è ancora una volta centrato proprio sulla congruità degli "indici" empirici elaborati dalla giurisprudenza al fine di qualificare correttamente la prestazione di lavoro in posizione "subordinata", in contrappunto con la definizione del concetto di "dipendenza" contenuta nel codice civile. La conclusione dell'analisi è, questa volta, diretta a rimarcare la sostanziale estraneità all'indicazione normativa dei risultati a cui fa capo la giurisprudenza. In sintesi secondo Snuolo Vigorita: 1) la giurisprudenza "dice" di mantenersi fedele al presupposto di un'unica fattispecie negoziale tipica, che fa perno sul concetto di "subordinazione", intesa come sottoposizione al potere direttivo e decisionale del datore di lavoro; 2) nella soluzione del caso concreto, viceversa, essa abbandona il criteri della subordinazione, così intesa (o le attribuisce un significato estraneo alla "norma" ), e richiama quali indici tipizzanti altri elementi: la continuità, l'inserimento nell'impresa, l'alienità dei mezzi di produzione, ecc; 3) tali elementi, peraltro, non sono "scritti" nell'art.2094 cod.civ., ma vengono direttamente desunti dal contesto socio-economico. Ciò che resta da verificare è invece il presupposto interpretativo da cui muove tutto il discorso critico: e cioè l'inconsistenza degli elementi di giudizio forniti dal sistema normativo lavoristico (nel suo complesso) ai fini dell'individuazione della fattispecie tipica del lavoro subordinato. Il che vale quanto chiedersi se gli elementi utilizzati dalla giurisprudenza x individuare la fattispecie siano eversivi rispetto al sistema normativo ovvero in esso in qlk modo codificati.


La subordinazione fra Costituzione, codice e leggi speciali

Per attenuare la evidente contrapposizione fra il dato sociale ( e la ratio del diritto del lavoro), da una parte, e la fattispecie legale tipica, dall'altra, bisogna dunque verificare se l'ordinamento stesso ha assunto positivamente nella sua orbita, quale criterio di discriminazione fra i contratti che hanno ad oggetto il lavoro (segnatamente fra lavoro autonomo e subordinato) il riferimento alla situazione di inferiorità economica del lavoratore, caratterizzata dalla alienità del lavoro e del suo risultato, direttamente derivante dalla mancanza di disponibilità dei mezzi x produrre. Non vi è dubbio che il protagonista della legislazione a cavallo fra i due secoli fosse un soggetto "espropriato" dei mezzi x produrre e costretto a "vendere" all'imprenditore la propria forza lavoro. La situazione di subordinazione (in senso socio-economico) di una gran massa di soggetti non è peraltro mutata in grande misura, cosicchè non solo è ancora da dimostrare che la legislazione abbia abbandonato la direttiva di mettere al centro del proprio interesse una determinata categoria di soggetti, ma che tale atteggiamento non sia proprio dell'art.2094 cod.civ. Non ci si può rifiutare di procedere ad una rilettura dell'art.2094 alla luce della Carta costituzionale e della normativa speciale cresciuta dopo la codificazione. Abbiamo già visto come la Costituzione, in più luoghi evochi la ura del lavoratore dipendente e ne faccia oggettodi una tutela privilegiata, cosicchè la originaria ratio ispiratrice della normazione protettiva è stata inequivocabilmente fatta propria dal sistema costituzionale. ½ è un filo continuo che lega le varie norme costituzionali che assumono il "lavoro" quale oggetto del proprio interesse; x qnt ognuna persegua obiettivi diversi (ma collegati) è pur sempre logicamente e giuridicamente distinguibile la strategia di tutela a favore di chi dal lavoro trae i mezzi di sostentamento, ma è sprovvisto della possibilità di intraprendere un'attività economica indipendente, da quella connessa con la protezione-attraverso l'individuazione di un autonomo diritto di libertà- di chi ha i mezzi x produrre (x la valorizzazione dell'impianto costituzionale anche in ordine al procedimento di qualificazione). Univoche e concordanti indicazioni provengono poi dalla disciplina speciale lavoristica cresciuta sul tronco della regolamentazione codicistica. È chiaro peraltro che, nel contesto di tale disciplina, occorre distinguere quella parte che presuppone già risolto il problema della qualificazione del rapporto cui debba essere applicata da quell'altra che, viceversa, preliminarmente delimita sul piano definitorio lo schema giuridico di riferimento. È proprio su quest'ultima che occorrerà appuntare l'interesse, per utilizzarla, quanto meno, per arricchire di significati interpretativi le scarne indicazioni dell'art 2094 cod civ. Una prima serie di importanti indicazioni ce le fornisce il fenomeno giuridico dell' interposizione nei rapporti di lavoro, che caratterizza quelle situazioni in cui il datore frappone fra sé ed i lavoratori lo "schermo" costituito da un soggetto interposto allo scopo di eludere la discplina protettiva. Tale fenomeno era vietato nel nostro ordinamento dall'art 1 della legge 23 ottobre 1960, n.1369, che appunto inibiva all'imprenditore di "affidare in appalto, subappalto o in qls altra forma" ad un soggetto interposto "l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro", realizzate da lavoratori assunti e retribuiti dall'interposto medesimo. La legge presumeva che si avesse lo schema dello pseudo-appalto qnd il soggetto che si incaricava di eseguirlo non avesse "capitali, macchine ed attrezzature". In tali circostanze la legge prevedeva che i lavoratori che i lavoratori fossero considerati "alle dipendenze di colui il quale avesse effettivamente utilizzato" le loro prestazioni. Orbene il peculiare oggetto del divieto normativo era, in modo chiarissimo, il conferimento al di fuori dello schema tipico di cui all'art 2094 cod. civ. di "mere prestazioni di lavoro " a favore di un soggetto (l'interposto) che, pur "retribuendo ed assumendo" la manodopera, non poteva essere considerato datore di lavoro, perchè sprovvisto dei mezzi di produzione (capitali, macchine e attrezzature) e perchè non "utilizzava effettivamente" le prestazioni di lavoro dei propri pseudo-dipendenti. In buona sostanza la legge vietava la cessione di "lavoro subordinato altrui" stabilendo il principio che il datore di lavoro dovesse essere riconosciuto nel soggetto che "effettivamente utilizzava" all'interno della propria organizzazione le prestazioni di lavoro. La legge nell'imporre la costituzione di un rapporto di lavoro diretto in capo al datore interponente non sanzionava all'esterno, con una sorta di interventoautorizzativo, siffatta relazione giuridica, ma agiva riconoscendo che già nei fatti l'effettiva utilizzazione dei lavoratori da parte dell'interponente integrasse gli estremi di un rapporto di lavoro subordinato. Tale conclusione veniva giustificata in funzione sia della comune origine storica dei fenomeni interpositori e della nascita alle dipendenze di un'impresa industriale, sia sopratutto dalla circostanza che la giurisprudenza, allo scopo di individuare il soggetto titolare del contratto in caso di interposizione vietata, utilizzava i medesimi parametri, usualmente impiegati per individuare la subordinazione (inserimento nell'impresa del committente, continuità, cessione di energie lavorative, ecc). In pratica la legge proponeva la necessaria sovrapposizione fra interposizione e subordinazione, consentendo di valorizzarne le indicazioni normative al fine di meglio chiarire le espressioni adoperate dall'art 2094 cod.civ scandendone in via interpretativa i momenti essenziali. Ciò posto è tempo è tempo di avvertire che l'intervenuta abrogazione della l. n. 1369 del 1960 non ha minimamente modificato i termini della questione. L'abrogazione della legge del '60 no ha infatti comportato una totale liberalizzazione nell'impiego del lavoro nell'impresa, con una sorta di detipizzazione degli schemi negoziali utilizzazbili. Il legislatore è invece intervenuto allo scopo di di consentire la somministrazione di lavoratori a favore di imprese, ad opera di soggetti autorizzati (le agenzie di somministrazione). Ha cioè costruito una ipotesi di lecita interposizione, riproponendo lo schema in cui datore di lavoro formale è l'Agenzia, mentre il datore di lavoro "sostanziale" è l'impresa destinataria che utilizza effettivamente le prestazioni lavorative dei lavoratori somministrati, al pari di quelle dei propri dipendenti diretti. Si ripropone così il fenomeno -questa volta autorizzato, entro i limiti della legge-della scissione fra titolarità formale del rapporto (in capo all'agenzia) ed effettiva destinazione delle prestazioni (a favore dell'utilizzatore). Siffatta scissione autorizzata continua però a costituire un'eccezione rispetto alla regola generale secondo cui chi utilizza le prestazioni di lavoro altrui, in condizioni date (sottoposizione al potere direttivo, continuità, assenza di mezzi di produzione, ecc) né è inequivocabilmenteil datore di lavoro. Non è quindi x nulla casuale che la legge continui a prospettare l'esistenza dell'interposizione illecita, quale ovvio rovescio di quella lecita. In caso di violazione della disciplina prevista x la somministrazione (classico il caso del ricorso ad un soggetto somministrante non autorizzato) il lavoratore vanta infatti un diritto a tutto tondo al riconoscimento di un rapporto di lavoro diretto in capo all'utilizzatore. Si ripropongono così quelle chiarissime assonanze fra la disciplina della somministrazione di lavoro e la fattispecie della subordinazione, che consentono un arricchimento interpretativo dei dati forniti dall'art 2094 cod civ. Anzitutto l'anodina formula della "collaborazione nell'impresa" e del "prestare lavoro" alle altrui "dipendenze" (che caratterizza il contenuto tipico del contratto) diviene impegno alla "somministrazione di lavoro", cioè alla cessione di energie lavorative (altrui), con la conseguenza che l'oggetto del contratto di lavoro viene a coincidere la cessione di energie lavorative proprie. Connotato caratteristico di tale cessione di energie è poi il dato della loro "effettività". Non basterebbe, infatti, ad integrare la fattispecie interpositoria la semplice messa a disposizione (cioè l'offerta) delle energie da parte dell'interposto, in assenza dell'effettiva utilizzazione di queste da parte del datore committente. Alla stessa stregua quindi-x aversi nella sua completezza la fattispecie tipica del lavoro subordinato-è necessario che l'offerta della prestazione di energie si traduca in cessione "effettiva" di queste a vantaggio dell'utilizzatore (che potrà ritornare ad essere anche formalmente datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina eccettiva). È l'accento posto sul contenuto del contratto di lavoro come cessione di energie lavorative ad essere indicativo della necessaria situazione di "dipendenza", almeno sul piano socio-economico, di chi è costretto a cedere ad altri tali energie. Sennonchè la fattispecie interpositoria rende ancora più chiara l'indicazione secondo cui il requisito della subordinazione va individuato proprio nella "esautorazione" ed "alienazione" del risultato del lavoro (e della persona stessa che lo presta) all'altrui iniziativa x la realizzazione dell'attività di lavoro. Nel caso di interposizione illecita riprende infatti il sopravvento il principio generale, che nella norma definitoria del codice rimane in ombra, secondo cui il datore nn va individuato staticamente come "parte" del contratto o formalisticamente come destinatario degli effetti di questo, bensì sul piano dei rapporti economici di produzione. Datore di lavoro è l'"effettivo utilizzatore delle prestazioni di lavoro altrui", è cioè colui il quale trae di fatto giovamento, all'interno della propria organizzazione produttiva, dalla messa a disposizione delle altrui energie di lavoro. Datore di lavoro è inoltre- colui il quale ha i mezzi economici neccessari x produrre ( o scambiare) i beni realizzati attraverso la collaborazione dela manodopera assunta e retribuita dall'interposto. Il dato del lavorare alle altrui "indipendenze" individuato efficacemente dall'art.2094 cod. civ. nn può essere riduttivamente considerato come sinonimo del lvorare sotto l'altrui "direzione". Ognuno dei due riferimenti normativi ha una specifica valenza qualificatoria: è solo il secondo (il requisito della "direzione") che allude all'esercizio del tipico poteredel datore di lavoro di coordinare la prestazione lavorativa, venendo quindi a collocarsi in una zona successiva alla posizione dell'obbligo contrattuale. Invece il requisito della "dipendenza" identifica, proiettandosi dal piano dei rapporti socio-economici a quello dell'individuazione dell'essenza tipica del contratto di lavoro, lo stato di assoggettamento e passività del prestatore di lavoro direttamente connesso alla disponibilità dei mezzi per promuoverne l'iniziativa economica. Si è visto poi che un ulteriore dato valorizzato dalla giurisprudenza a fini qualificatori è quello della continuità della prestazione. A questo proposito rileva fondamentalmente l'art 409 n.3 cod.proc.civ. che ha esteso la speciale tutela processuale assicurata dal nuovo rito del lavoro anche ai rapporti di collaborazione che si concretino "in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale , anche se non a carattere subordinato" (cd parasubordinazione). Come si vede la legge pone un messo di necessaria corrispondenza fra l'esistenza della fattispecie nogoziale ed il dato della continuità della prestazioni. Cosicchè quando si tratta di estendere porzioni di normativa a favore di soggetti che tecnicamente non sono lavoratori subordinati il legislatore si preoccupa x altro di individuare almeno taluni elementi comuni alle due prestazioni. E tali elementi sono sistematicamente rinvenuti dal legislatore nei dati della continuità e della coordinazione della prestazione delle altrui direttive.


Il procedimento di qualificazione della fattispecie.

Acquisiti gli elementi utili x l'individuazione della fattispecie fondamentale del lavoro subordinato, resta il problema del metodo più corretto x collegare gli elementi desunti dall'analisi di fatto ai parametri normativi assunti dall'ordinamento. Il problema si pone in particolare in ragione della mancanza di compattezza della fattispecie. Per quanto la questione rimanga di carattere empirico, cionondimeno essa è ineludibile, data la necessità di mediare il dato normativo ed il dato sociologico dalla cui dialettica non è possibile prescindere ai fini del procedimento valutativo. L'analisi del modus procedendi della giurisprudenza dimostra chiaramente come questa si avvalga di un criterio che valorizza assai spesso l'insieme della disciplina del rapporto (e dunque i suoi effetti) x risalire alla fattispecie. In buona sostanza la giurisprudenza valorizza il complesso degli elementi che definiscono il c.d "tipo normativo". Un contributo alla razionalizzazione dell'impiego di tale tecnica viene da quella parte della dottrina che la ritiene conforme al c.d metodo tipologico di ricognizione della realtà giuridica, in contrapposizione al metodo sussuntivo. Il metodo tipologico consente di valorizzare non solo la definizione "concettuale" di un determinato contratto speciale, ma il complesso della disciplina (quindi anche gli effetti della fattispecie normativa); di utilizzare proficuamente le azioni sul piano della disciplina normativa nei confronti dei contratti affini; di raffrontare la disciplina legale legale con quella di origine pattizia; di acquisire una serie di elementi "indiziari" dal cui insieme dedurre la caratteristica dell'articolarsi concreto della specifica prestazione. Attraverso l'utilizzazione del metodo tipologico, che, come si è detto, è di fatto messo a frutto dalla giurisprudenza, è possibile fornire criteri dotati di maggiore elasticità x la risoluzione dei singoli casi concreti rispetto ai connotati di rigidità ed astrattezza caratterizzanti il ragionamento x concetti. Resta, per altro verso, la questione di fondo della compatibilità del metodo tipologico con il nostro sistema nel quale i tipi contrattuali sono "fissati in concetti definitori" ed in cui "il momento finale dei processi di qualificazione non può essere che un giudizio sussuntivo". La contrapposizione fra le due metodologie d'indagine può, peraltro, perdere significato, se si considera che, rispetto al concetto di subordinazione, che più di altri rispecchia l'evoluzione dei rapporti socio-economici, resta cmq indispensabile uno strumento che garantisca il costante adeguamento della "norma giuridica" alla "realtà sociale". È pacifico infatti che i dati esibiti dall'art 2094 cod.civ (dipendenza, eterodirezione, collaborazione) "non hanno un vero significato al di fuori di modelli storici di organizzazione del lavoro". Una proposta risolutiva può dunque essere quella di coordinare i due punti di vista, scindendo la metodologia qualificatoria in due fasi distinte: a)l'articolazione "tipologica"di una serie di fattispecie specifiche di subordinazione (secondo la tecnica di fatto messa a frutto dalla giurisprudenza),b) il raffronto fra tali fattispecie astratte e le fattispecie concrete, condotto secondo il tipico metro del metodo sussuntivo.


8.1 La rigidità del tipo contrattuale ed il ruolo della volontà delle parti

Altra e diversa questione è quella che attiene al ruolo della volontà nel procedimento di qualificazione. Su questo piano incide il principio di rigidità (o tassatività) del tipo contrattuale, che sottrae alle parti individuali il potere di determinare il contenuto del contratto di lavoro subordinato è necessario far capo al comportamento complessivo delle parti più che alle loro eventuali dichiarazioni. Siffatte valutazioni corrispondono ad orientamenti tralatici e pacifici della giurisprudenza che è stata da sempre orientata a ritenere che il nomen juris adottato dalle parti del rapporto (anche) di lavoro, x definire la relazione giuridica fosse scarsissimamente rilevante, dovendosi piuttosto verificare la concreta articolazione in fatto del rapporto stesso. Da qlk anno circolano massime giurisprudenziali che, quanto meno nei casi dubbi, intenderebbero valorizzare la volontà delle parti nel procedimento di qualificazione, anche se tale orientamento non è privo di contrasti. A tale (relativamente nuovo) filone giurisprudenziale ha fatto eco chi, in dottrina, nel contesto di un programma inteso a rivalutare l'autonomia individuale come "garanzia di emersione a tutela giuridica di esigenzeche possono essere (o sovente sono) ignorate o sottovalutate dal legislatore e dalle associazioni sindacali nella determinazione dei modelli standards di tutela" (che include nel procedimento di qualificazione la volontà espressa dai contraenti circa la natura della retribuzione). Si tratta di una costruzione che, se nasce dall'esigenza, del resto chiaramente esplicitata, di valorizzare gli spazi di libertà individuale in un contesto caratterizzato dalla preminenza della imperatività delle norme, non riesce però a scalfire la fondatezza dell'orientamento tradizionale. È pressocchè ovvio che anche la volontà costituisca uno degli elementi da porre a base del procedimento di interpretazione dell'attività privata, ma la spendita di volontà può essere diretta solo in ambiti predeterminati dall'ordinamento. Non a caso la giurisprudenza, da sempre e rispetto ai più vari tipi negoziali, disconosce ogni significato vincolante ai nomina assegnati dai contraenti alle loro pattuizioni. Cosicchè la riscoperta giurisprudenziale di un'efficacia discretiva del nomen juris adoperato proprio dalle parti del contratto di lavoro per non apparire paradossale deve potersi leggere come una, se pur minima,elasticizzazione del procedimento di qualificazione in situazioni che presentano tratti di particolare ambiguità. A completare il discorso-ed a conferma delle idee svolte-valga altresì ricordare che i descritti limiti nel procedimento valutativo dell'attività privata valgono anche x il legislatore.


8.2 La certificazione dei contratti di lavoro

Ci si chiede se sia opportuno mantenere un sistema basato sull'inderogabilità della disciplina da parte dell'autonomia individuale o se non sia invece il caso di aprire ulteriori spazi alla disponibilità delle obbligazioniche fanno capo al contratto di lavoro. In tale contesto si colloca la riflessione di chi segnala, in particolare, che sarebbe proprio l'irrigidimento del rapporto di lavoro, quale naturale conseguenza della regola di inderogabilità, a produrre effetti sperequativi nel mercato del lavoro. Sarebbe cioè per l'appunto l'iper-protezione assicurata a (relativamente) pochi lavoratori del settore forte dell'economia (i c.d insiders) a relegare fuori dal circuito lavorativo una gran parte di aspiranti all'occupazione (i c.d outsiders) e/o a mantenerli in condizioni di disagio sociale. Fra le proposte messe in capo allo scopo di risolvere il problema si segnala anche quella diretta a consentire al lavoratore di ridisegnare il contenuto del contratto, con l'inserimento di clausole derogative e/o abdicative rispetto alle previsioni di norme inderogabili. Il sistema proposto è quello della c.d volontà assistita tramite il quale, al pari di quanto avviene con riferimento alle rinunce o transazioni poste in essere dal lavoratore su diritti già entrati nel suo patrimonio, un organo imparziale ed autorevole (di estrazione burocratica e/o sindacale) possa sorreggere la volontà del lavoratore all'attodella formazione del contenuto del contratto. Si tratta di una proposta che condurrebbe, pari pari, verso la detipizzazione del contratto di lavoro subordinato, il cui contenuto potrebbe così essere ridisegnato in sede individuale, con l'inserimento di deroghe alla disciplina vincolistica di fonte legale o contrattuale collettiva. Si superebbe in sostanza il principio del numerus clausus dei contratti che hanno ad oggetto un'attività lavorativa e si romperebbe il nesso-che abbiamo visto risalire agli albori della nostra disciplina-fra la sussistenza della subordinazione e l'applicazione della disciplina protettiva. Un progetto di tale portata era contenuto nel Libro Bianco sul mercato del lavoro, presentato dal governo di centro-destra nell'ottobre del 2001. nella successiva legge di delegazione 14 febbraio 2003 n.30 l'idea era peraltro già assai edulcorata, prevedendosi solo un meccanismo sperimentale di certificazione dei contratti di lavoro (e non di tutti gli schemi negoziali), con lo scopo di riduzione del contenzioso sulla qualificazione del medesimo. Siffatto meccanismo è stato puntualmente regolato dal d.lgs. n.276/2003. Il decreto ribadisce anzitutto la finalità deflattiva del contenzioso in materia di qualificazione dei contratti, preurando una procedura volontaria, tramite la quale le parti, "su istanza scritta comune", possono ottenere la "certificazione del contratto". La certificazione riguarda oggi (a seguito delle modifiche introdotto ad opera del d.lgs n.251 del 2004, correttivo del d.lgs n.276 del 2003) tutti i contratti di lavoro e non, come nella precedente versione, solo alcuni sotto-tipi contrattuali (il lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale e parasubordinato a progetto, nonché il contratto di associazione in partecipazione). La medesima procedura è estesa ai regolamenti delle cooperative, riguardanti le tipologie di rapporti di lavoro nonché alla certificazione delle rinunce e transazioni "a conferma della volontà abdicativa" del lavoratore. La certificazione è, dal punto di vista strutturale, un atto con cui un'autorità pubblica ( o un soggetto privato, come i c.d enti bilaterali) esprime una sorta di parere valutativo motivato intorno alla qualificazione di un regolamento contrattuale posto in essere dalle parti. Giuridicamente ha natura di atto amministrativo ed è riconducibile all'attività di certazione dei rapporti privati, con lo scopo di conferire loro certezza pubblica. Tale qualificazione non cambia anche se la funzione amministrativa sia espletata da soggetti privati (come gli enti bilaterali). Come si vede all'autorità accertatrice non è dato solo il potere di sorreggere la volontà abdicativa del lavoratore, ma più riduttivamente di verificare la corrispondenza dello schema negoziale realizzato rispetto ai tipi contrattuali previsti dall'ordinamento, dando certezza intorno alla qualificazione data dalle parti. La procedura di certificazione deve dunque muoversi necessariamente entro l'orizzonte dei modelli consciuti e regolati. Tale lettura esclude possibili profili di costituzionalità, profili che risorgerebbero ove si ritenesse che le commissioni possono autorizzare deroghe alla disciplina perchè persino il legislatore incontra limiti costituzionali nella disciplina tipo, al di fuori della creazione di nuove tipologie. Le parti che intendano ottenere la certificazione del rapporto devono incontrare la relativa istanza scritta alle Commissioni di certificazione, competenti x territorio, istituite presso: le direzioni provinciali del lavoro o le province, le università pubbliche o private (registrate in un apposito albo) o gli enti bilaterali (organismi, questi ultimi, costituiti a iniziativa di una o più associazionidei datori e dei prestatori di lavoro ativamente più rappresentative. La procedura è volontaria ed è scandita da una serie di adempimenti, che prevedono la comunicazione dell'istanza alle autorità pubbliche interessate (normalmente gli enti previdenziali), che possono far pervenire osservazioni, e la conclusione dell'iter entro 30gg dal ricevimento dell'istanza. I contratti di lavoro certificati devono essere conservati, per un periodo di 5anni, presso la sede di certificazione. L'atto di certificazione, oltre a dover essere motivato, deve contenere la menzione degli effetti civili, amministrativi, fiscali e previdenziali, per i quali le parti richiedono la certificazione, nonché "il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere". Il cuore della disciplina ed il suo effettivo significato sta tutto nella sua efficacia giuridica. Gli effetti dell'accertamento acquisiscono una (temporanea) stabilità sia nei confronti delle parti che dei terzi interessati (le autorità pubbliche "nei confronti delle quali l'atto di cerificazione è destinato a produrre effetti"). Il limite di tale stabilità degli effetti è costituito dalla sentenza di merito (fatti cmq salvi i provvedimenti cautelari), con cui venga accolto un ricorso giurisdizionale avverso la certificazione. In buona sostanza la certificazione resta vincolante, per le parti del rapporto di lavoro nonché x gli istituti previdenziali ed eventualmente l'amministrazione finanziaria (che quindi non potranno procedere a contestazioni e/o ad avanzare pretese economiche), fino a che sulla vicenda non si pronunci il giudice del lavoro. Il che conferma che quest'ultimo non è minimamente espropriato del potere di procedere ad un'autonoma (e vincolante) qualificazione del contratto di certificato dalla Commissione. Per converso, nelle more dell'accertamento giurisdizionale, l'eventuale ordinanza-ingiunzione o sectiunella esattoriale emessa dall'ente previdenziale, che presupponga una qualificazione del contratto diversa da quella certificata, va considerata tadicalmente nulla. Attraverso l'atto di certificazione le parti ed i terzi interessati possono esperire molteplici rimedi sia davanti al giudice ordinario che davanti a quello amministrativo. Quanto ai rimedi spendibili davanti al giudice ordinario, gli interessati possono anzitutto contestare l'erroneità della qualificazione giuridica del contratto. Si tratterebbe in tal caso di una sorta di errore di diritto (che accede all'atto amministrativo di accertamento), per violazione delle norme che regolano i canoni di interpretazione dei contratti. La certificazione può essere altresì impugnata "per vizi del consenso". Si ipotizza, in tal caso, che il regolamento negoziale sia affetto da errori-vizio che, rendendo annullabile il contratto, non ossono che travolgere conseguentemente anche l'atto di accertamento della Commissione. La certificazione può essere infine impugnata per difformità "tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione". L'accertamento giurisdizionale ha, nei primi due casi, effetto ex tunc, la corretta qualificazione del contratto opera cioè fin dal momento dell'originaria manifestazione di volontà. In caso di difformità fra programma e realizzazione l'effetto si produce, invece, solo dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio la difformità. A garanzia della serietà della certificazione la legge prevede che il che il giudice possa tener conto, ai fini delle spese (o della condanna per lite temeraria), del comportamento delle parti. In caso di impugnativa dell'atto di certificazione il previo tentativo obbligatorio di conciliazione va effettuato davanti alla Commissione di certificazione che ha adottato l'atto certificato. Di diversa natura è viceversa il rimedio consistente nell'accesso alla giurisdizione amministrativa. Quest'ultima sarà infatti competente esclusivamente in relazione allo scrutinio dei vizi del procedimento o in caso di eccesso di potere dell'atto di certificazione. La possibilità di ricorso al giudice amministrativo non esclude cmq il potere del giudice ordinario di disapplicazione dell'atto illegittimo. Una funzione ulteriore svolta dalle commissioni di certificazione è quella di espletare attività di "consulenza ed assistenza" a favore del contratto di lavoro e del relativo programma negoziale che in relazione alle modifiche del programma, concordate in sede di attuazione del rapporto di lavoro. L'oggetto dell'attività di consulenza ha in particolare riguardo alla disponibilità dei diritti ed alla corretta qualificazione dei contratti. Una norma che ha creato notevoli difficoltà interpretative è quella secondo cui i diritti derivanti dalle disosizioni relative al lavoro a progetto potevano "essere oggetto di rinunzie o transazioni tra le parti in sede di certificazione del raporto di lavoro". La disposizione era stata oggetto di interpretazioni opposte a seconda di come fossero state redistribuite le scorrettezze lessicali e giuridiche contenute del testo. La conferma della correttezza di tale lettura è venuta ora dalla riformulazione del comma unico dell'art 68, contenuta nel decreto correttivo n.251 del 2004 che ha chiarito che nella riconduzione ad un progetto, programma di lavoro o fase di esso dei contratti in questione possono essere oggetto di rinunzie o transazioni, in sede di certificazione, solo i diritti derivanti da un rapporto di lavoro già posto in essere.


SEZIONE II - I RAPPORTI DI LAVORO.


Il lavoro autonomo, il lavoro parasuordinato (occasionale e a progetto), il lavoro accessorio e oltre.

Non esiste all'interno del codice civile una definizione normativa del lavoro autonomo, ma solo del contratto d'opera . Ed , a sua volta, la definizione di contratto d'opera è largamente lacunosa. Secondo l'art.2222 si ha infatti contratto d'opera "qnd una xsona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione". L'unico dato formulato in positivo nella definizione di contratto d'opera è quello del "lavoro prevalentemente personale", laddove contestualmente emerge un profilo proposto in negativo (l'assenza di subordinazione). X altro verso il dato del "lavoro prevalentemente personale" evoca un ulteriore e signigicativo confronto, denso di conseguenze giuridiche: quello con la nozione di "piccolo imprenditore", definito dall'art.2083 cod.civ. Anche quest'ultimo, nella struttura codicistica, è un produttore che svolge "un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia". Come si vede dunque la nozione di lavoratore autonomo vive come schiacciata nell'interstizio fra imprenditorialità e subordinazione. Si può dire che il lavoro autonomo confina a nord con l'impresa e a sud con il lavoro subordinato. Ed allora, x cogliere il proprium della ura, occorre esaminare due questioni fondamentali: a)la regolamentazione di confini fra le nozioni di lavoratore autonomo e (piccolo) imrenditore; b) la verifica dei dati strutturali della fattispecie nel gioco fra le regole preurate x il contratto d'opera e quelle descritte nelle singole ure contrattuali del libro IV. La soluzione della rima delle due questioni evocate dipende, in larga parte, dalla nozione di impresa che si ritiene accolta dall'ordinamento. Sul punto la dottrina giuscommercialista ci presenta due scenari contrapposti. Vi è chi muove dall'idea che il requisito dell'imprenditorialità vada riconosciuto anche nell'auto-organizzazione. Si tratterebbe -secondo tale prospettiva-di un indirizzo che riunirebbe, sotto la nozione di imprenditore, tutti i produttori, a prescindere dai modi nei quali viene organizzata in concreto l'attività. "Nel codice civile" si assume infatti in questa prospettiva "il concetto di impresa si è ampliato al punto da trasformare in un possibile oggetto di affare o speculazione anche il lavoro manuale proprio. La rimunerazione del lavoro manuale autonomo è stata trattata alla stregua di un profitto d'impresa: la prestazione di opera manuale è stata espostaallo stesso rischio economico dell'impresa caitalistica". Da tale proposta ricostruttiva discende che nella nozione di impresa rientrerebbero anche ure minime e residuali di operatori economici (ovviamente, se autonomi), quali ad es: il facchino, la guardia giurata, il bagnino. Diversi ed opposti sono gli esiti ricostruttivi se si accede ad una nozione di impresa in cui elemento centrale della definizione è l'organizzazione di lavoro altrui (oltre che di capitali e di mezzi). X il momento però dobbiamo verificare il rapporto fra le scarne regole dettate x il contratto d'opera e l'applicabilità delle norme del libro delle obbligazioni. Secondo l'art 2222 cod. civ allo specifico contratto si applicano le regole di cui agli art 2223-2228, solo nell'ipotesi in cui la specie non sia inquadrabile in uno schema tipico del libro delle obbligazioni. La disciplina sul contratto d'opera manifesta così la sua evidente residualità a fronte di quella dei contratti tipici. In tal modo il lavoro autonomo esce dal riferimento al contratto d'opera x rinvenire una serie di regolamentazioni differenziate nelle varie fattispecie del libro delle obbligazioni. Non esiste quindi una nozione unica di lavoro autonomo, ma una serie di nozioni a seconda della specifica funzione che il contratto intende xseguire e dei modi della sua realizzazione. Una forma di lavoro autonomo ancor più prossima al lavoro subordinato è il c.d lavoro parasubordinato. L'antesignano di tale ura è costituito dal contratto di agenzia, che è una (ennesima) forma di lavoro autonomo in cui l'agente "assume stabilmente l'incarico di promuovereverso retribuzione, la conclusione di contratti di una determinata zona" e che è analiticamente regolato nel codice civile oltre che nelle fonti collettive. La deifinitiva consacrazione legale della categoria del lavoro parasubordinato si è avuta successivamente con l'art 409,n.3 del cod.proc.civ che riferisce l'applicabilità del rito lavoristico, altresì ai rapporti, che si concretano "in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato". La ura del lavoratore parasubordinato è assunta sotto l'ala protettiva del lavoro in ragione della sussistenza di una situazione di sottoposizione sociale analoga a quella del lavoro dipendente, con il quale condivide alcuni requisiti tipici della prestazione: x l'appunto la continuità, la personalità e la coordinazione rispetto all'organizzazione dell'impresa. Al lavoratore parasubordinato, in questa logica, si estende una parte delle tutele previste x il lavoro subordinato e precisamente la tutela processuale ed oggi anche una forma di tutela previdenziale obbligatoria. Inoltre è stata estesa ai "lavoratori parasubordinati l'applicazione dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. Infine, più di recente, la legge finanziaria x il 2007 ha previsto, pu sempre " in attesa della riforma degli ammortizzatori sociali", il sostegno finanziario a "programmi x la riqualificazione professionale ed il reinserimento occupazionale" x i collaboratori a progetto, che abbiano prestato la loro opera presso aziende in crisi. Ulteriori provvidenze hanno riguardato l'indennità di malattia e l'indennità di maternità. Alla stregua della nuova disciplina infatti non è più possibile convenire liberamente un contratto di prestazione d'opera continuativa e coordinata, secondo la definizione dell'art 409 cod.proc.civ, ma quest'ultimo deve essere riconducibile " ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l'organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato x l'esecuzione dell'attività lavorativa". D'ora in avanti dunque l'unico sotto-tipo di lavoro parasubordinato ammesso dall'ordinamento è quello che è riferibile ad un progetto o un programma di lavoro, i quali ultimi in tal modo divengono componenti essenziali dello schema negoziale. Ulteriore limitazione all'impiego del lavoro parasubordinato è dato dalla circostanza che esso non è più convenibile a tempo indeterminato, ma deve essere necessariamente a termine. Di qui la doppia chiave limitativa: quella oggettiva (esistenza di un progetto o programma) e quella temporale (tempo determinato). Sul piano strutturale la nuova disciplina conferma i tratti di autonomia della prestazione, laddove richiama la gestione "in funzione del risultato" ed al contempo la coordinazione con l'organizzazione del committente. Una relativa novità è costituita dalla sostanziale indifferenza rispetto al "tempo impiegato x l'esecuzione dell'attività lavorativa", che lascia aperta l'eventualità che il collaboratore osservi un orario di lavoro. Si prevede che il lavoratore a progetto possa avere una pluralità di committenti, salvo diversi accordi fra le parti. Il contratto di lavoro a progetto possa avere una pluralità di committenti , salvo diversi accordi fra le parti. Il contratto di lavoro a progetto va stipulato in forma scritta; la forma è richiesta ad probationem. Esso deve contenere oltre all'indicazione della durata del rapporto-determinata o determinabile-quella del progetto o programma, il corrispettivo ed i criteri x la sua determinazione, le forme di coordinamento del lavoratore al committente (anche con riferimento alle scansioni temporali della prestazione), le misure x la tutela della salute del collaboratore. Il lavoratore a progetto ha diritto ad un compenso proporzionato alla quantità e qualità della prestazione. Poiché il giudice non potrà tener conto di tariffe salariali previste dalla contrattazione collettiva, la legge richiama quale parametro l'entità dei compensi normalmente praticati nella zona x analoghe prestazioni di lavoro autonomo e dunque, in buona sostanza, gli usi locali. Il medesimo ha diritto ad essere riconosciuto autore dell'eventuale invenzione realizzata nello svolgimento del raporto. La gravidanza, la malattia e l'infortunio sospendono il rapporto, senza diritto a compenso x il collaboratore. Peraltro, in caso di malattia ed infortunio, la sospensione non comporta una proroga della durata del contratto, se questa è determinata ovvero superiore a 30gg se la durata è solo "determinabile". La gravidanza riceve invece una tutela più marcata, prevedendosi la proroga della durata del rapporto x 180gg, salva disposizione più favorevole del contratto individuale. Al collaboratore a progetto fa carico un obbligo analogo a quello previsto dall'art 2105 cod.civ x i lavoratori subordinati, consistente nel divieto di svolgere un'attività in concordanza e di divulgare notizie e "apprezzamenti", attinenti ai programmi e all'organizzazione di essi nonché di "compiere, in qls modo, atti in pregiudizio dell'attività dei committenti". Trattandosi di un'obbligazione a termine, legata all'attuazione di uno specifico progetto, le cause di estinzione si ricollegano o alla realizzazione del progetto o alla scadenza del termine. Va da sé che le parti possono esercitare il recesso anticipato rispetto alla scadenza ove sussista una giusta causa. A quest'ultimo presupposto generale la legge aggiunge le "diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto individuale". La norma sembra alludere alla possibilità che le parti preurino giusti motivi di recesso, anche con la previsione di un termine di preavviso. Corrisponde ai principi anche la previsione secondo cui, ove il rapporto nei fatti, si sia conurato quale rapporto di lavoro subordinato il giudice lo debba qualificare come tale, imponendo altresì il riconoscimento della "tipologia negoziale" effettivamente realizzata. In tali situazioni peraltro non è corretto assumere che il rapporto "si trasforma in atro da sé, come impropriamente ci dice l'art.69,2°comma, laddove deve ritnersi che il rapporto è sottoposto all'ordinario procedimento di qualificazione ad opera del giudice che lo inquadra in uno dei tipi previsti dall'ordinamento. Meno comprensibilmente la legge pretende che i raporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di un progetto o programma vengano ex lege considerati "rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data della loro costituzione". Si tratta, in tal caso, di un intervento a carattere sanzionatorio, che impone una qualificazione aprioristica ad una relazione giuridica che, nei fatti, può non presentare i requisiti caratteristici del lavoro subordinato, precludendo anche legittime forme di lavoro autonomo. Si ripresentano xtanto rispetto alla norma i medesimi dubbi di costituzionalità già accolti dalla Corte in relazione a quelle disposizioni che limitavano il potere giudiziale di qualificazione dei contratti secondo la loro effettiva natura. La disciplina riferita fino a qst punto non si applica al lavoro parasubordinato occasionale, che la legge si incarica di fissare come sotto-tipo autonomo, caratterizzato dalla circostanza che la collaborazione non superi i 30gg x anno solare o cmq un compenso di 5mila euro. Sono altresì esclusi dall'ambito di applicazione della legge i rapporti con professionisti iscritti in albi, i rapporti di collaborazioni coordinate e continuative e cmq rese e utilizzate a fini istituzionali in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, i contratti di agenzia, i componenti degli organi di amministrazione e controllo società e i partecipanti a collegi e commissioni nonché i percettori di pensioni di vecchiaia. Inoltre, poiché l'intera normativa di cui al d.lgs n 276 del 2003 è inapplicabile nei confronti delle pubbliche amministrazioni, queste ultime ben possono continuare a stipulare contratti di lavoro parasubordinato senza il vincolo del progetto e/o programma. Si tratta di una previsione (al pari di quella che esonera le società sportive) di dubbia costituzionalità, non foss'altro perchè è ben noto che la pubblica amministrazione ricorre sovente a prestazioni di lavoro parasubordinato, anche allo scopo di aggirare i divieti di assunzione, previsti dalla legislazione in funzione di riduzione della spesa pubblica. L'introduzione del nuovo sottotipo contrattuale del lavoro a progetto non ha eliminato le strategie dirette ad eludere la costituzione dei rapporti di lavoro parasubordinato. Ne è derivata la necessità, x il legislatore, di introdurre specifiche regole dirette ad incentivare la trasformazione dei contratti di lavoro parasubordinato a progetto in contratti di lavoro subordinato. In particolare, ancora una volta, la legge finanziaria del 2007 ha costruito una procedura che fa leva su una commistione fra autonomia collettiva ed individuale, all'esito della quale i lavoratori, con atti di conciliazione individuale, rinunciano ai diritti di natura retributiva, contributiva e risarcitoria x il periodo pregresso, consentendo alla trasformazione dei precedenti rapporti parasubordinati in rapporti di lavoro subordinato (almeno) a tempo determinato. X parte sua il datore di lavoro-committente è incentivato alla regolarizzazione potendo limitare l'onere economico conseguente alla regolarizzazione con il versamento di un contributo straordinario integrativo, che comporta l'estinzione di ogni reato o sanzione amministrativa connessi all'evasione contributiva pregressa. Infine occorre ricordare un nuovo tipo contrattuale, estraneo all'area della subordinazione, dell'autonomia e della parasubordinazione: il lavoro accessorio. Esso è caratterizzato sul piano oggettivo dallo svolgimento di "attività lavorative di natura meramente occasionale" e su quello soggettivo dall'essere rese "da soggetti a rischio di esclusione sociale o cmq non ancora entrati nel mercato del lavoro ovvero in procinto di uscirne". Le attività lavorative devono essere espletate, al di fuori di un contesto economico organizzato, e quindi nell'ambito dei piccoli lavori domestici a carattere straordinario, dell'insegnamento privato supplementare, della realizzazione di manifestazioni sociali, culturali o sportive, della collaborazione con enti pubblici ed associazioni di volontariato x lo svolgimento di lavori di emergenza dell'impresa familiare (solo nei settori del commercio, turismo e servizi). Le prestazioni devono avere altresì il carattere dell'occasionalità, rientrando in tale categoria le attività che non danno luogo con riferimento al medesimo committente a compensi superiori a 5mila euro l'anno. I soggetti abilitati a tale tipo di lavoro sono i disoccupati da oltre un anno, le casalinghe, i pensionati e gli studenti, i disabili e i soggetti in comunità di recupero, i lavoratori extra-comunitari, nei 6mesi successivi alla perdita del posto di lavoro. Gli aspiranti allo svolgimento di prestazioni di lavoro accessorio devono munirsi di una tessera megnetica, dalla quale risulti la loro condizione. Essi vengono compensati attraverso dei buoni, che il beneficiario della prestazione acquista presso rivendite autorizzate. Il compenso viene erogato presso l'ente o la società concessionaria che provvede al amento dei buoni, dopo aver trattenuto una quota x il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi, oltre ad una quota x il rimborso-spese.


Rapporto di lavoro e rapporti associativi

I rapporti di lavoro autonomo e subordinato non esauriscono ovviamente i contesti giuridici al cui interno può essere spesa attività di lavoro: l'universo del lavoro è infatti molto più esteso della (piccola) galassia descritta fino ad ora. Tanto x cominciare mentre essi sono caratterizzati dallo scambio fra lavoro e retribuzione (o compenso x il lavoro autonomo) sussistono delle situazioni nelle quali la causa del contratto ha natura associativa. Il lavoro può essere cioè oggetto di conferimento in società: si legge infatti nell'art.2247 cod.civ che oggetto del conferimento possono legittimamente essere beni o servizi. L'ipotesi è d'altra parte confermata dall'art 2263 ,2°comma cod civ, che si occupa di regolare le tecniche di ripartizioe dei guadagni a favore del socio d'opera. La prestazione di lavoro in tale circostanza viene resa dunque non in funzione dello scambio con la retribuzione, bensì quale adempimento del contratto sociale. In questa logica essa postula la spendita di attività lavorativa in vista del raggiungimento dello scopo comune. Un genere particolare di conferimento di lavoro in società è quello che si ha nell'ambito delle cooperative di produzione e lavoro. Com'è noto il movimento cooperativistico ha basi ideologiche assai risalenti, che postulavano il riscatto della classe operaia dal giogo del lavoro salariato. In questa logica lo scopo della società cooperativa è proprio quella di assicurare un'occupazione e migliori condizioni di vita (oltre che l'accrescimento professionale) ai soci cooperatori, laddove il profitto -tipico fine dell'impresa capitalistica- rappresenta esclusivamente una condizione di efficienza della cooperativa. È altrettanto noto peraltro che il fenomeno, via via che si è evoluto ha spesso più brutalmente "mascherato" il lavoro subordinato sotto le spoglie del lavoro societario (secondo lo schema simulatorio). Il legislatore viceversa si è a lungo astenuto dal regolare il fenomeno almeno dal punto di vista della qualificazione. A prescindere dai problemi di qualificazione del rapporto del socio, le cooperative sono state oggetto da tempo di interventi legislativi: quelli più tradizionali erano diretti ad estendere forme di tutela previdenziale, quelli più recenti hanno piuttosto privilegiato il sostegno alla cooperazione nella prospettiva della creazione di nuove forme di imprenditorialità con il mantenimento delle occasioni di lavoro. Il rapporto mutualistico nelle cooperative deve avere ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio, sulla base di previsioni di regolamento che definiscono l'organizzazione del lavoro. I soci lavoratori infatti devono concorrere alla gestione dell'impresa, partecipando alla formazione degli organi sociali, all'elaborazione dei programmi di sviluppo ed alle decisioni strategiche, contribuire alla formazione del caitale sociale e mettere a disposizione le loro capacità professionali in relazione al tipo ed allo stato dell'attività svolta. Accanto ed oltre al rapporto associativo poi vive (anzi deve vivere) un ulteriore rapporto (di lavoro) di scambio che può assumere molteplici vesti: subordinata, autonoma, para-subordinata (prestazione continuativa e coordinata) o "qls altra forma". Ed è solo dall'instaurazione di tali rapporti associativi e di lavoro che discendono i "relativi effetti" di natura fiscale, previdenziale e gli altri effetti giuridici previsti dall'ordinamento, purchè compatibili con la posizione del socio lavoratore. Alle fonti interne delle cooperative (regolamenti) è demandata la complessiva organizzazione dell'impresa e dei rapporti (associativi e di lavoro) dei soci ed in particolare la determinazione delle "modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci, in relazione all'organizzazione aziendale della cooperativa ed ai profili professionali dei soci stessi, anche nei casi di tipologie diverse da quelle del lavoro subordinato". Si esclude che il legislatore abbia attuato una forma di detipizzazione. Lo si esclude perchè alla conurazione di ciascun rapporto di scambio la legge ricollega i relativi effetti e dunque non consente che vengano riconnessi effetti diversi. Quanto al riferimento ad altre possibili tipologie costituisce solo un ponte verso la preurazione di nuove forme di rapporti di lavoro da parte del legislatore e non sottende l'attribuzione di siffatti poteri all'autonomia negoziale (i regolmenti delle cooperative). La legge poi risolve in modo originale la contrapposizione, propria del dibattito tradizionale, fra mutualità e scambio e rifiuta le posizioni radicali che volevano che il rapporto del socio si risolvesse x intero nell'adempimento del contratto di società ovvero, all'opposto, che discendesse da una fonte collaterale di lavoro subordinato. Ambedue le posizioni sono state riproposte all'indomani della legge, l'una x rivendicare l'illegittimità della scelta legislativa rispetto al principio di tutela della cooperazione, basata sulla mutualità e sull'assenza di fini di lucro, di cui all'art 45 Cost. e l'altra x prospettare l'impostazione legislativa come una sorta di avamposto di un nuovo diritto del lavoro che può fare a meno della rigidità del tipo contrattuale. Al contrario la legge risolve il conflitto fra mutualità e scambio coordinando, in qlk misura, i due profili. Infatti la mutualità che ovviamente supone una logica associativa, si realizza attraverso un contratto di scambio. Tale risultato è in qlk misura garantito dal collegamento genetico e funzionale fra i due rapporti (associativo e di lavoro) e fra le rispettive cause, che vengono valutate unitariamente nell'ambito di una più ampia operazione economica. Quanto al trattamento spettante al socio si prevede che, se l'ulteriore rapporto è di lavoro subordinato, si applichi lo statuto dei lavoratori, con eccezione dell'art 18 tutte le volte in cui venga a cessare anche il rapporto associativo. Al medesimo si applica altresì la normativa in materia di sicurezza ed igiene. Peraltro l'esercizio dei diritti sindacali trova applicazione compatibilmente con lo stato di socio lavoratore, sulla base delle determinazioni disposte da accordi collettivi tra le associazioni del movimento cooperativo ed i sindacati ativamente più rappresentativi. Agli altri soci lavoratori si applicano in ogni caso le norme dello statuto a tutela della dignità del lavoratore e contro le discriminazioni ed altresì la disciplina in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. Venendo agli aspetti retributivi, ai soci lavoratori deve essere riconosciuto un trattamento economico complessivo proporzionato alla qualità e quantità del loro apporto e cmq non inferiore ai minimi previsti, x prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine ovvero, x i rapporti diversi da quello di lavoro subordinato, in assenza di accordi specifici, ai compendi medi in uso x prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo. Trattamenti economici ulteriori (a titolo di maggiorazioni retributive o di ristorno) possono essere deliberati dall'assemblea. Le controversie relative al rapporto di lavoro subordinato sono di competenza del giudice del lavoro, mentre quelle che riguardano il rapporto mutualistico rientrano nella competenza del giudice civile ordinario. L'attività di lavoro può altresì rientrare nello schema contrattuale dell'associazione in partecipazione. Secondo tale schema l'associazione attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della propria impresa verso il corrispettivo di un determinato apporto. La gestione dell'impresa spetta peraltro all'associante e l'associato ha diritto di controllare l'andamento aziendale, sulla base degli accordi fra le parti, avendo cmq diritto al rendiconto (quanto meno annuale) della gestione. Salvo patto diverso l'associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, salvo che le perdite x l'associato non possono superare il valore del suo apporto. La distinzione rispetto al lavoro dipendente sta in una attenuazione, nel ruolo dell'associante, dei poteri tipicamente datoriali (direttivo, di controllo, disciplinare) e nella sottoposizione dell'associato al rischio dell'impresa (ivi compreso quello di non xcepire alcun compenso x l'opera prestata). Ciò spiega peraltro come lo schema dell'associazione possa costituire espressione di forme di elusione della discipilna di tutela del lavoro dipendente, mascherando l'esistenza della subordinazione. Infatti in caso di rapporti di associazione in partecipazione resi "senza una effettiva partecipazione e adeguateerogazioni a chi lavora", il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge o dai contratti collettivi x il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondentedel medesimo settore di attività o, in mancanza di contratto collettivo, in una corrispondente posizione secondo un contratto di settore analogo, a meno che non sia provata da parte del datore e/o committente e/o utilizzatore una diversa qualificazione del contratto. La norma sembra quindi escludere la riconducibilità del contratto al prototipo di cui all'art 2549 cod civ in mancanza di una partecipazione reale (e non fittizia) agli utili dell'impresa, con diritto di controllo sul rendiconto, e senza adeguate contropartite economiche. Tutto si risolverà pertanto nel controllo sulla adeguatezza dei compensi, che non potrà ovviamente prescindere dall'andamento economico dell'impresa, alle cui fortune o sfortune l'associato cmq partecipa. Un problema diverso si pone avendo riguardo alla possibilità di cumulo fra la osizione di amministratore-socio e la posizione di lavoratore subordinato. È ovvio che le società (sia di persone che di capitali) hanno bisogno di fruire dell'attività di soggetti che si incarichino di svolgere l'attività di amministrazione. Tali soggetti sono assai spesso soci che, talvolta, svolgono attività di lavoro a favore della società. Si pensi, a titolo esemplificativo, al cumulo fra la posizione di consigliere di amministrazione e direttore generale (o dirigente di minore livello). Secondo l'opinione più accreditata può in tali situazioni conurarsi l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato, purchè sia individuabile una qlk entità (consiglio di amministrazione, presidente del medesimo, amministratore delegato, ecc), alla quale il lavoratore debba rendere conto della propria attività e dalla quale riceva le necessarie direttive. Significative, dal punto di vista dell'esame della loro struttura, anche se non più da quello del rilievo sociale, sono infine le forme associative in agricoltura. Si pensi alla soccida, che in qlk modo, costituisce il prototipo del moderno contratto di società ed altresì alla mezzadria o alla colonia parziaria. Nonostante la struttura associativa si trattava di rapporti in cui la posizione del lavoratore agricolo (mezzadro, colono, ecc) presentava tratti sociali non lontani da quelli del lavoratore diendente. X questa ragione con la legge 15settembre 1964 n.756 il legislatore è intervenuto x disboscare la selva dei contratti associativi agrari, riducendoli, in buona sostanza, allo schema dell'affitto, attraverso il divieto della stipulazione di nuovi contratti di mezzadria o colonia parziaria. Il processo è stato successivamente ampliato e xfezionato.


Lavoro familiare, lavoro gratuito, volontariato

Il lavoratore, secondo lo schema dell'art.2094 cod.civ.,si impegna a svolgere la prestazione "mediante retribuzione": il contratto è xtanto caratterizzato dall' onerosità, rafforzata fra l'altro, dalla garanzia costituzionale che riceve il diritto alla retribuzione nell'art 36. Tale circostanza non esclude che possa esservi spendita di attività lavorativa in assenza di controprestazione retributiva. Classico terreno di elezione della gratuità del rapporto è tradizionalmente il lavoro che si svolge entro le mura domestiche tra familiari (si pensi al lavoro della casalinga) o cmq di un familiare a favore di un altro, che sia titolare di un'attività produttiva o professionale. La giurisprudenza rispetto a tale fenomeno ha ritenuto conurabile una sorta di presunzione di gratuità dell'attività prestata (ovviamente suscettibile di prova contraria), sul presupposto che la prestazione verrebbe resa non in attuazione di un rapporto oneroso di lavoro, ma solo in ragione dell'affectio parentale. Si è così stabilito che il familiare (intendendosi x tali: il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado) che presta attività continuativa di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto: a) al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e b)a partecipare agli utili ed ai beni acquistati con essi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Con particolare riferimento alle attività agricole il legislatore ha peraltro di recente previsto che non costituiscono rapporti di lavoro subordinato o autonomo le prestazioni svolte da parenti e affini sino al terzo grado in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligo morale senza corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento ed esecuzione dei lavori. Un altro ambito nel quale ha rilievo la mancanza di onerosità del rapporto è quello che riguarda il fenomeno del volontariato. Come si sa esistono ed operano nella società civile innumerevoli associazioni che, x fini religiosi o genericamente solidaristici, si dedicano alla loro funzione avvalendosi del lavoro prestato volontariamente dagli associati. Così come, nello stesso ordine di idee, può menzionarsi l'attività lavorativa svolta (gratuitamente) dal militante di un partito o di un sindacato o da un religioso nell'ambito dell'ordine cui appartiene. Il fenomeno quindi si differenzia sia dalle c.d prestazioni di cortesia, che, in quanto tali non raggiungono nemmeno la soglia della giuridicità sia dal c.d praticantato, che nella sua forma genuina-è un'attività solo apparentemente gratuita, laddove, in realtà, i termini dello scambio sono non lavoro contro retribuzione, ma lavoro contro apprendimento. E si differenzia altresì dal lavoro familiare, rispetto al quale, come si è visto, può non porsi nemmeno un problema di sussistenza della subordinazione. Se il complesso dei descritti indizi poteva fino a qlk tempo fa avvalersi solo del processo di tipizzazione sociale, oggi il legislatore ha fornito una significativa cornice legislativa al fenomeno con la legge-quadro sul volontariato. L'importanza della legge sta anzitutto nel riconoscimento e nel sostegno complessivo al fenomeno del volontariato, "come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo". Di rilievo è poi (ovviamente) la definizione normativa dell'attività di volontariato i cui elementi vengono individuati nella personalità,spontaneità e gratuità della prestazione, nel contesto di organizzazione senza fine di lucro anche indiretto e x fini di solidarietà. Tale attività è ritenuta, in quanto tale, incompatibile con altri rapporti onerosi con l'organizzazione. In coerenza con tale affermazione si ammette altresì la possibilità che l'organizzazione si avvalga di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato, peraltro rigidamente distinte da quelle dei soci, esclusivamente nei limiti necessari al regolare funzionamento oppure concorrenti a qualificare o specializzare l'attività svolta. A tutela dei lavoratori la legge prevede a carico delle organizzazioni l'obbligo assicurativo contro gli infortuni e le malattie, conseguenti all'attività, nonché x la responsabilità civile verso i terzi. Un sostegno indiretto all'attività di volontariato viene poi dalla possibile attivazione di forme flessibili di orario o di turni nell'ambito dei rapporti di lavoro di cui siano titolari i volontari. Nella stessa logica si segnala infine la legge 8novembre 1991, n.381 sulle cooperative sociali che ammette la possibile presenza, nella comine sociale, di soci volontari, che prestino la loro attività gratuitamente ed al di fuori dello schema della subordinazione.

12. Il lavoro alle dipendenze di enti pubblici economici e le privatizzazioni


Ha sempre giocato un ruolo essenziale la distinzione fra enti pubblici economici ed enti pubblici non economici. Solo i secondi svolgono infatti un ruolo istituzionale nella struttura dello stato-apparato (ad es. comuni, regioni, province, ecc), laddove i primi operano nel mercato, talora in regime di concorrenza con le altre società private del settore (era il caso, ad es, delle casse di risparmio e delle altre banche pubbliche) talaltra in regime di monopolio (era il caso dell'ENEL). Una posizione analoga, anche se con qlk maggiore peculiarità, si ha nel settore dei pubblici servizi gestiti da aziende "municipalizzate". Si tratta di aziende che sono costituite dagli enti locali (ad es comuni), con svariati oggetti (igiene urbana, acquedotti e gas, farmacie, servizi funebri, trasporti ecc) e che, peraltro, operano, con autonoma organizzazione, distinta da quella pubblicistica dell'ente e con modalità tipicamente imprenditoriali. Emblematica è, in qst'ultimo ambito, la posizione dei lavoratori dipendenti dalle aziende municipalizzate di trasporto (c.d autoferrotramvieri). La regolamentazione del rapporto nelle aziende autoferrotramviarie costituisce infatti un sottosistema o un sistema parallelo sia nell'insieme più ampie delle aziende municipalizzate che rispetto al generale contesto del lavoro subordinato. In particolare costituisce oggetto di regolamentazione speciale la materia delle promozioni e degli avanzamenti, la definizione delle qualifiche e degli inquadramenti, la disciplina del trasferimento d'azienda, le norme sull'esercizio del potere disciplinare, ecc. sul piano della disciplina applicabile al rapporto degli autoferrotramvieri è tuttora oggetto di aspre dispute giudiziarie il tema dell'estensibilità dll'art 2103 cod civ. l'atteggiamento pacifico della Cassazione, proprio sul presupposto della "specialità" della disciplina continua a negare l'ingresso all'estensione della norma codicistica. Più di recente si può peraltro segnalare una cauta apertura della Corte costituzionale, rivolta come invito nei confronti del legislatore a ripensare e ad ammodernare il rapporto degli autoferrotramvieri. La necessità discenderebbe dal confronto con il rapporto di lavoro dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato, cuo ora a seguito della trasformazione dell'azienda in società x azioni, si estende la disciplina generale. Quanto esposto sommariamente fino a qst punto rappresenta in qlk modo l'antefatto rispetto all'imponente fenomeno che sta interessando il nostro, come atri paesi industrializzati, che va sotto il nome di "privatizzazione". Lo scopo di questa è quello di rendere maggiormente efficienti servizi o settori appannaggio dello Stato attraverso l'utilizzazione di strumenti privatistici di festione degli enti e del personale dipenente. In generale si distingue fra privatizzazione formale e privatizzazione sostanziale: la prima indica la trasformazione della forma giuridica del soggetto imprenditore, che, ad es, da ente pubblico diviene società per azioni; la seconda evoca invece il mutamento della titolarità della proprietà di un'impresa che ha già natura privatistica, il cui controllo passa dalla "mano pubblica" a quella privata. Nell'ambito del primo tipo si possono distinguere trasformazioni, x così dire, autoritative in società x azioni di ex enti pubblici come come l'ENEL, IRI, INA, ENI,ecc ovvero trasformazioni solo favorite dallo Stato, ma in concreto lasciate all'autonomia dei singoli enti: è il caso ad es delle banche ex pubbliche (casse di risparmio, Istituto S.Paolo di Torino, Banco di Napoli ecc). X quanto riguarda il diritto del lavoro la distinzione appena evocata è sostanzialmente ininfluente. Di vera e propria privatizzazione può invece parlarsi, x il diritto del lavoro, qnd ci si riferisce ad un mutamento delle fonti di regolamentazione del rapporto, che esce da una regolamentazione pubblicistica ed autoritaria x entrare in una privatistica e paritaria. È quanto sta avvenendo con l'imponente fenomeno della contrattualizzazione del pubblico impiego. Così x i dipendenti dell'ENEL, dell'IRI o dell'INA o di tutte quelle società che lo Stato ha dismesso o sta dismettendo, non è cambiato né cambierà praticamente nulla, permanendo il rapporto di lavoro entro l'orizzonte privatistico. In analoga misura non molto è cambiato anche x i dipendenti delle banche ex-pubbliche se non qlk marginale profilo. Quanto alle aziende municipalizzate, veicolo della trasformazione è stata la legge 8 giugno 1990, n.142 di riforma delle autonomie locali. Tramite tale intervento normativo si è anzituttoprevista una variegata tipologia di tecniche di gestione dei pubblici servizi locali (in economia, in concessione a terzi, a mezzo azienda speciale, a mezzo di "istituzione", tramite società x azioni a prevalente caitale pubblico). Più in particolare poi le aziende municipalizzate che erano già munite di autonomia gestionale e contabile, vengono ridefinite "aziende speciali" e dotate di xsonalità giuridica autonoma, dividendo entri strumentali dell'ente locale con autonomia imprenditoriale. Tali aziende devono improntare la loro attività ai criteri di efficienza ed economicità ed hanno l'obbligo del pareggio in bilancio. Anche la descritta rivoluzione nella qualificazione giuridica degli enti-datori di lavoro ha prodotto solo marginali conseguenze sul piano dei rapporti di lavoro (ad es in materia di titolarità del potere disciplinare). X gli autoferrotramvieri il processo di svecchiamento delle strutture vetero-pubblicistiche ha inciso, almeno in parte, sulla normativa speciale. Una trasformazione che ha invece agito sul sistema delle fonti e che è quindi paragonabile al fenomeno della contrattualizzazione del pubblico impiego è quella che ha riguardato la trasformazione in società x azioni delle Ferrovie dello Stato. Il processo di privatizzazione si è svolto gradualmente. Dapprima le Ferrovie sono state trasformate da "azienda autonoma", con rapporti di lavoro d diritto pubblico disciplinati dalla font legale, in "ente pubblico economico", con il passaggio ad una disciplina privatistica e negoziale del rapporto. In un secondo momento si è proceduto a deliberare la trasformazione dell'ente Ferrovie dello Stato in società x azioni; quest'ultima ha poi ricevuto dal Ministro dei trasporti la concessione dei servizi e delle attività di trasporto ferroviario x la durata di 70anni. Comune a tutti i casi appena esaminati, quali esempi di "privatizzazione", è la preurazione di una disciplina di passaggio x qnt riguarda i c.d diritti acquisiti nel precedente sistema nonché una disciplina di diritto transitorio che garantisca una transizione graduale fra i due sistemi di amministrazione e governo del personale.


La contrattualizzazione del pubblico impiego

Le caratteristiche fondamentali del pubblico impiego ante riforma sono a) la regolamentazione per legge delle condizioni di lavoro; b) la riconduzione della fonte del rapporto ad un atto amministrativo e non ad un contratto; c) la soggezione del dipendente, in costanza di rapporto, ai poteri datoriali di supremazia speciale, in ragione del perseguimento da parte del datore di lavoro di interessi generali di natura pubblica; d) l'accentuata formalizzazione del rapporto del tutto impermeabile dell'articolazione in fatto della prestazione (il dipendente aveva il trattamento economico che gli derivava dalla sua collocazione nel "ruolo organico", a prescindere dalle mansioni, eventualmente superiori che svolgesse in fatto); e) la conseguente negazione della struttura di "scambio" propria del rapporto privatistico. A suggello e baluardo del mantenimento del sistema stava poi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che tendeva a valutare le vicende giuridiche del rapporto attraverso il filtro dell'atto amministrativo. A partire dagli anno 70 cominciò peraltro a maturare la consapevolezza della necessità di riformare la materia del pubblico impiego nella direzione di una sostanziale convergenza verso le regole privatistiche. Ma non erano soltanto le esigenze di maggiore tutela del pubblico dipendente che orientavano verso il cambiamento. ½ era la fondamentale esigenza di garantire una migliore amministrazione della cosa pubblica attraverso una maggiore efficienza organizzativa e gestionale, importando gli stili di comportamento caratteristici dell'impresa privata. La vera svolta verso una riforma radicale matura negli anni 90 ed è da ricondurre alle leggi di delegazione x la razionalizzazione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego e di finanza territoriale e per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo. In attuazione di tali deleghe la normativa-base è ora costituita dal d.lgs.3febbraio,n.29. La materia è stata poi raccolta in una sorta di testo unico ("norme generali nell'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche"). Le finalità della riforma rispondono alle esigenze di accrescere l'efficienza delle pubbliche amministrazioni, razionalizzare il costo del lavoro pubblico e realizzare l'uniformità di trattamento fra dipendenti pubblici e privati, x la migliore utilizzazione del personale. Lo statuto giuridico del pubblico dipendente è di regola il medesimo di quello del lavoratore privato e le eccezioni a siffatta regola hanno carattere di tassatività ed altresì che la fonte di regolamentazione del medesimo è costituita da un contratto di lavoro privatistico. Sul piano delle fonti di regolamentazione del rapporto l'art 2, 1° comma lett.c stabilisce la ripartizione di confini fra legge e contrattazione collettiva circa le rispettive competenze. Restano conferite alla norma di legge (riserva di legge): 1)le responsabilità giuridiche dei singoli operatori dell'espletamento delle procedure amministrative; 2) la determinazione degli organi, degli uffici e dei modi di conferimento della titolarità dei medesimi; 3) i principi fondamentali di organizzazione degli uffici; 4) i procedimenti di selezione x l'accesso al lavoro e di avviamento al lavoro 5)i ruoli e le dotazioni organiche 6)le garanzie della libertà di insegnamento e l'autonomia professionale nello svolgimento dell'attività didattica, scientifica e di ricerca 7)la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l'impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici. Sono esclusi dalla contrattualizzazione del rapporto, restando i relativi rapporti affidati ai rispettivi ordinamenti, solo quei dipendenti, rispetto ai quali appare maggiormente riconoscibile il nesso di immedesimazione organica, in ragione dell'espletamento di attività che attengono a funzioni statuali assunte come fondamentali. Rientrano in questo gruppo (fra gli altri): i magistrati (ordinari, amministrativi e contabili), gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e delle forze di polizia, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia (quest'ultima a partire dalla carriera di viceconsigliere di prefettura, con la significativa esclusione del xsonale che svolge mansioni solo strumentali al perseguimento di fini pubblici), i professori e ricercatori universitari (anche se "in attesa della disciplina specifica cheregoli la materia in modo organico ed in conformità ai principi dell'autonomia universitaria"). La tendenziale universalità della riforma è segnata dall'art 1, 2°comma del d.lgs 29/93 (ora del d.lgs n.165 del 2001), nella parte in cui definisce il proprio ambito di applicazione con riferimento a tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e le amministrazioni ad ordinamento autonomo, gli enti locali (comprese le comunità montane e i loro consorzi ed associazioni), le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi x le case popolari, le camere di commercio, tutti gli enti pubblici non economici, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale. La riforma inoltre estende i propri effetti anche nei confronti dell'ordinamento regionale, posto che le sue disposizioni costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art 117 Cost. Le regioni a statuto ordinario devono attenersi ad esse, "tenendo conto delle peculiarità dei rispettivi ordinamenti". Quanto alle Regioni a statuto speciale si prevede che i principi relativi alla ripartizione delle materie fra legge e contrattazione collettiva nonché quelli dela contrattualizzazione del rapporto costituiscono un punto di riferimento essenziale x la relativa attività legislativa, ponendosi come "norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica". Un ruolo essenziale x l'attuazione dei principi di efficienza della pubblica amministrazione, voluti dalla riforma, è affidato ai dirigenti pubblici. Infine-ed è questo presumibilmente l'effetto più rilevante e rivoluzionario della riforma- le controversie relative ai rapporti di lavoro contrattualizzati sono devolute alla cognizione del giudice del lavoro ordinario, del giudice cioè che ha competenza sulle controversie x i rapporti di lavoro privatistici (attualmente il "giudice unico" del lavoro di primo grado del Tribunale). Ricordiamo altresì la previsione, rilevantissima x gli esiti della riforma, secondo cui nella meteria devoluta al giudice ordinario, quest'ultimo conosce anche degli atti amministrativi, implicati nel rapporto, e, qualora siano illegittimi, li disapplica, senza che l'eventuale impugnazione di essi davanti al giudice amministrativo possa essere causa di sospensione del processo. All'esito della riforma dunque il rapporto di pubblico impiego si presenta come un rapporto di lavoro "speciale", nel senso che, pur appartenendo all'unico genus del rapporto privatistico di lavoro, ha in sé taluni elementi di deviazione rispetto allo schema generale, che connotano alcuni aspetti della regolamentazione. Il che consente di riaffermare che la materia del pubblico impiego è ormai ascritta al diritto del lavoro.


SEZIONE III: I RAPPORTI DI LAVORO SPECIALI


La categoria dei rapporti di lavoro "speciali"

La categoria della "specialità" è in realtà in una categoria eterogena elaborata dalla dottrina più risalente ai fini eminentemente classificatori. Una delle versioni più onnicomprensive distingue tali rapporti facendo riferimento alla specificità dell'oggetto o della causa, alla peculiarità della posizione giuridica del prestatore e/o del contesto nel quale si svolge la prestazione (ad es il lavoro domestico, il lavoro sportivo) ovvero all'incidenza sullo schema negoziale di norme di ordine pubblico che ne modifichino sostanzialmente alcuni istituti regolativi (ad es il lavoro nautico, il lavoro giornalistico, il portierato). Maggiormente rilevante si presenta l'attributo della specialità qnd è riferito ai rapporti nei quali o è carente uno degli elementi di identificazione del tipo negoziale generale ovvero ad esso se ne sovrappongono di ulteriori. Siffatta situazione si presenta anzitutto nel lavoro a domicilio, ove manca il controllo sul tempo di lavoro e dunque l'assoggettamento al potere di direzione della prestazione. Si presenta altresì nei contratti formativi (aprendistato, contratto di formazione,ecc), in cui alla tradizionale funzione dello scambio lavoro/retribuzionesi sovrappone la funzione formativa. Di recente, ancora, si presenta nella fattispecie della somministrazione di lavoro tramite agenzia. X esplicita previsione normativa infatti la deviazione dello schema di riferimento comporta l'eliminazione della funzione causale specifica, con un ritorno alla disciplina generale del contratto a tempo indeterminato. Si tratta ancora una volta della classica operatività del peculiare regime di nullità del contratto di lavoro, piegato ai rapporti di lavoro "speciali". In questo ambito il processo di invalidazione voluto dall'ordinamento colpisce i tratti di specialità della disciplina che torna elasticamente a quella usualmente applicabile al prototipo generale. Più di recente si è propsto di inquadrare i problemi discussi, non secondo la contrapposizione fra genere e specie, ma secondo la logica dei rapporti fra tipo e sottotipo. In questa prospettiva sono state segnalate nuove "relazioni funzionali" tra le ure esistenti e segnatamente l' "elettività" del tipo e della sua "reversibilità" in caso di violazione delle regole di protezione poste dal legislatore a favore del prestatore. In realtà, se ben si riflette, non sembrano sussistere ragioni x discostarsi dalla usuale conurazione strutturalistica che riordina i nessi fra il tipo generale ed i sottotipi specifici attorno allo schema di generalità/ specialità. X potersi attribuire pregnanza ad una speciale tipologia contrattuale, tendenzialmente suscettibile di elezione, occorrerebbe per poter dimostrare che il particolare modello negoziale ha tratti caratteristici del tutto simili al prototipo generale di riferimento, differenziandosene esclusivamente sotto il profilo dell'esistenza di un minor apparato protettivo. Solo in questa ridotta dimensione potrebbe assumersi che le parti, in funzione di certe controprestazioni premianti, scelgono autonomamente un tipo contrattuale in cui vi è l'abdicazione da una serie di diritti automaticamente connessi al tipo generale. Viceversa qui il lavoratore non sceglie di sottoporre un "normale" contratto di lavoro ad una disciplina meno favorevole, ma sceglie do obbligarsi in un contesto negoziale che ha tratti strutturali di deviazione rispetto alla disciplina standard, secondo le puntuali connotazioni del rapporto di "specialità". Ne deriva che il problema continua a porsi nello stesso identico modo in cui si pone tutte le volte in cui si tratta di verificare la corrispondenza del programma negoziale rispetto all'assetto di interessi realizzato. Ancor più di recente infine la categoria dei rapporti di lavoro "speciali" è stata abbandonata a favore dell'idea secondo cui una buona parte di essi potrebbe essere invece collocata "nella vasta ed accogliente categoria di lavoro subordinato-o meglio nella ancor più vasta categoria del lavoro a carattere personale e continuativo-salvo applicare a ciascuno di essi la disciplina speciale che la legge x esso detta". In tal modo essi verrebbero a costituire una pluralità di tipi legali "del lavoro protetto, fra i poli estremi della subordinazione piena e della piena autonomia".


Il lavoro sportivo

Il fenomeno sportivo è classicamente riconducibile alla presenza nell'ambito del sistema generale di una pluralità di ordinamenti giuridici. Tutti sanno infatti che il relativo ordinamento tende a porsi in una posizione di spiccata autonomia a fronte di quello statuale, elaborando norme, procedure e sanzioni "interne" al mondo sportivo ed indifferenti all'ordinamento generale. Ciò non toglie che il primato dell'ordinamento statuale nelle situazioni in cui l'attività sportiva non costituisca soltanto l'esercizio di una libera espressione dell'homo ludens, ma si atteggi in chiave professionistica, cioè come occupazione esclusiva o prevalente, da cui lo sportivo ragga le fonti di sostentamento x sé e la propria famiglia. Un punto fermo nella materia è fuor di dubbio costituito dalla legge 21marzo 1981 n.91, che ha una propensione regolativa tendenzialmente egemonica, intendendo estendersi a tutti i rapporti (di lavoro) fra società e sportivi professionisti. L'esercizio dell'attività sportiva sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma professionale o dilettantistica, è libero. Una implicita limitazione nell'ambito di applicabilità della legge deriva peraltro dall'identificazione della nozione di "sportivi professionisti" avendo riguardo a quei soggetti (atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici) che esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso con carattere oneroso con carattere di continuità, ma solo "nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione delle federazioni sportiva nazionali. Il problema centrale della qualificazione dell'attività dell'atleta è risolta con una definizione ad hoc, nella quale-ferma la natura subordinata della "prestazione a titolo oneroso dell'atleta"-in presenza di determinati indici la prestazione diviene oggetto di lavoro autonomo. Più precisamente sono indici della natura autonoma del rapporto: a)lo svolgimento dell'attività nell'ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo, b) la mancanza di un vincolo contrattuale che impegni l'atleta alla frequenza delle sedute di preparazione o allenamento, c)lo svolgimento di una prestazione che, pur avendo carattere continuativo, non superi 8ore settimanali oppure 5gg al mese o 30gg all'anno. È possibile quindi, sulla base delle indicazioni normative, asumere, a contrario, che la prestazione a carattere subordinato, nel lavoro sportivo, debba avere i tratti a)della non occasionalità b)della sottoposizione a poteri di coordinamento da parte della società datrice, c)di una apprezzabile durata, che sia espressiva di uno status di dipendenza. A tali elementi occorre aggiungere l'obbligo-da inserirsi necessariamente nel contratto di assunzione-del rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite x il conseguimento degli scopi agonistici. La legge limita la speciale definizione dei tratti della subordinazione e dell'autonomia al rapporto dei soli atleti professionisti. Se ne deduce usualmente che la natura della prestazione dei restanti professionisti sportivi, definiti come tali dall'art 2 (allenatori, direttori,ecc) va scrutinata alla luce degli usuali parametri generali di cui agli art 2094 e 2222 cod civ. Quanto alle fonti di regolamentazione del rapporto si prevede esplicitamente che con accordo fra le singole federazioni sportive ed i rappresentanti delle categorie interessate venga definito, ogni 3anni, un contratto-tipo, al quale il singolo contratto di lavoro deve uniformarsi. L'accordo generale funziona, nei rapporti con il contratto individuale, secondo la tecnica dell'inderogabilità, apparentabile a quella dei rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale, posto che le clausole del contratto individuale "contenenti deroghe peggiorative sono sostituite di diritto da quelle del contratto tipo". Il rapporto si costituisce mediante assunzione diretta ed il contratto deve avere, a pena di nullità, la forma scritta, prevedendosi altresì l'onere a carico della società di deposito del medesimo presso la federazione sportiva nazionale x l'approvazione (tale approvazione si risolve in un controllo di mera legittimità e non di merito). Quanto al potere disciplinare la legge pone una netta regolamentazione ai confini fra illecito sportivo, sottopsto alle sanzioni federali, ed illecito contrattuale, cui sembra inveceapplicabile l'art 7 dello statuto. Particolare attenzione è posta dalla legge alla tutela sanitaria a favore dello sportivo, con la revisione dell'obbligatoria istituzione di una scheda personale e di controlli medici periodici.

La maggiore innovazione contenuta nella legge del 1981, sul piano del trattamento del rapporto, è cmq costituita dall'abolizione del c.d vincolo sportivo, che legava lo sportivo professionista alla società, anche oltre la cessazione del rapporto di lavoro. In realtà l'abolizione di fatto non opera entro il periodo di durata del contratto, al quale è stato imposto il limite massimo di 5anni (prorogabile su accordo fra le parti). X compensare le società sportive dell'abolizione del vincolo l'art 6 della legge prevedeva l'obbligo di versamento da parte della società cessionaria alla società cedente di un'indennità definita di "preaparazione e promozione dell'atleta professionista". Sennonchè in materia è intervenuta la Corte di giustizia CE sul ben noto caso del calciatore Bosman. La Corte ha anzitutto ritenuto che la displina nazionale, in forza della quale un calciatore professionista, cittadino di uno stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società, può essere ingaggiato da società di un altro stato membro solo se questa ha versato alla società di provenienza un'indennità di trasferimento, formazione e promozione, vìola l'art 48 del Trattato CE sulla libera circolazione dei lavoratori in ambito comunitario. X la Corte l'art 48 del Trattato è altresì violato in caso di norme emanate dalle federazioni sportive in forza delle quali, nelle partite che organizzano, le società calcistiche possono schierare solo un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri stati membri. X rimediare all'evidente situazione di illegittimità in cui versava l'ordinamento italiano sportivo, a fronte della decisione comunitaria, il legislatore è intervenuto modificando l'art 6 della legge 1981 e sancendo che il neo-istituto premio di addestramento e formazione tecnica (in ostituzione della precedente indennità) spetta esclusivamente alla società od associazione sportiva presso cui l'atleta ha svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile. A quest'ultima spetta altresì il diritto di stipulare il primo contratto professionistico.


Il lavoro nautico

La nozione di "lavoro nautico" identifica l'attività lavorativa del personale navigante a bordo di navi ed aereomobili. Il relativo rapporto di lavoro è regolato all'interno di un apposito codice, il codice della navigazione, nel cui ambito viene distinto il personale marittimo (gente del mare, addetti ai servizi aeroportuali e tecnici delle costruzioni navali), il personale della navigazione interna (navigante ed addetto ai servizi dei porti) ed il personale della navigazione aeronautica o gente dell'aria (personale di volo, addetti ai servizi a terra e tecnici delle costruzioni aeronautiche). La specialità del rapporto discende non solo dalla regolamentazione del medesimo ad opera in una fonte autonoma e diversa rispetto a quelle che regolano l'universo del lavoro dipendente "comune", ma anche dalla circostanza che tale regolamentazione introduce tutta una serie di deviazioni rispetto allo schema generale, ispirate alla tutela dell'interesse pubblico alla sicurezza della navigazione. Essa si esprime sul piano giuridico x bocca dell'art 1 del codice della navigazione, che attribuisce alle altre e diverse fonti di diritto comune solo il ruolo eventuale e sussidiario di colmare le lacune di regolamentazione. L'apparato pubblicistico costruito intorno al lavoro nautico si esprime fondamentalmente attraverso la predisposizione di norme relative all'inquadramento del personale, ai poteri organizzativi x l'attività a bordo della nave, all'accentuazione dei doveri connessi con la navigazione. I lavoratori nautici sono distinti in varie categorie: il personale di stato maggiore e di bassa forza, gli addetti ai servizi di coperta, di macchina e di servizi tecnici di bordo e gli addetti ai servizi complementari di bordo (per il lavoro mrittimo) ed il personale addetto al comando, alla guida ed al pilotaggio di aereomobili, gli addetti al controllo degli apparati motori e gli addetti ai servizi complementari di bordo (x la navigazione aeronautica). I lavoratori, appartenenti alle varie categorie, devono essere obbligatoriamente iscritti in matricole, registri ed albi, essendo siffatta iscrizione presupposto di validità del contratto di arruolamento. L'iscrizione ha luogo con la qualifica corrispondente alla specializzazione o al titolo professionale posseduto dal lavoratore. L'interesse pubblico alla sicurezza della navigazione si esprime fondamentalmente negli speciali principi che regolano l'organizzazione del lavoro a bordo, al cui interno spicca il concetto di equigio. Quest'ultimo può essere definito come l'insieme del personale che opera a bordo ed è soggetto all'autorità del comandante, secondo un rigido rapporto di gerarchia. La violazione della disciplina di bordo può comportare, oltre che provvedimenti disciplinari di matrice pubblicistica, altresì sanzioni penali. È conseguenziale che sull'equigio gravino altresì una lunga serie di doveri pubblicistici, quali ad es quello di prestare l'opera per il recupero dei relitti o di partecipare all'assistenza e salvataggio di navi o aeromobili, diversi da quelli su cui si è imbarcati. Quanto alla disciplina del rapporto di lavoro rileviamo anzitutto che il contratto di arruolamento va stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico ricevuto dall'autorità marittima o all'estero, da quello consolare. La contrattazione collettiva ha esteso l'onere della forma scritta anche al contratto di lavoro del personale di volo. Sia il contratto di arruolamento che quello del personale di volo possono essere stipulati a tempo indeterminato o a termine (per il contratto di arruolamento l'art 325 1°comma cod navig prevede altresì il c.d "contratto a viaggio", che è una sorta di contratto con un termine indirettamente determinato in funzione della natura del viaggio). È oggetto di accese discussioni la questione dell'estensibilità al lavoro nautico della disciplina generale sul lavoro a termine. La Corte costituzionale ha rigettato la questione relativa alla mancata estensione al lavoro nautico della norma che consente la conversione a tempo indeterminato del rapporto a termine che prosegua oltre la scadenza. Per effetto dell'art 13 dello statuto dei lavoratori, si è fatta questione dell'estensibilità al lavoro nautico del diritto alla promozione, in caso di adibizione del lavoratore a mansioni superiori x oltre 3mesi. La relativa questione di costituzionalità è stata però ritenuta manifestamente infondata dalla Cassazione. Da ultimo si segnala la particolare tutela prevista per il lavoro nautico rispetto alla prescrizione dei crediti di lavoro. Tali diritti si prescrivono decorsi 2anni dallo sbarco nel porto di arruolamento o nel luogo di assunzione, a decorrere dalla cessazione del rapporto. La Corte costituzionale preurava x il lavoro nautico un termine di 2anni a fronte dei 5 previsti x gli altri lavoratori. La diversità di trattamento fu peraltro giustificata dalla Corte costituzionale avendo riguardo alle peculiari esigenze dei traffici marittimi, che impongono di esaurire rapidamente i rapporti economici. La questione della disparità di trattamento ha peraltro ragione di porsi di nuovo per il privilegio assicurato al lavoro nautico, in considerazione del fatto che, mentre x la generalità dei lavoratori dipendenti, i cui rapporti siano assistiti da stabilità, la prescrizione decorre in costanza di rapporto, x gli addetti alla navigazione essa decorrerebbe sempre e cmq dalla cessazione del rapporto. La Corte costituzionale ha giustificato la differenza di trattamento sul presupposto della particolare difficoltà che il lavoratore nautico incontrerebbe nell'esercizio dei suoi diritti, x la natura della sua prestazione.


Il lavoro giornalistico

Il rapporto di lavoro giornalistico ha corso fra un giornalista, iscritto all'albo in qualità di professionista, pubblicista o praticante, ed un'impresa editrice di giornali o un'agenzia di informazioni x la stampa. La definizione dell'attività in questione verte sulla rielaborazione e commento delle notizie, dirette ad informare con ogni mezzo idoneo. In questa chiave è essenziale il contributo di "creatività" che apporta il giornalista, il che consente di inserire anche il "giornalismo x immagini" del tele-foto-cine-operatore, ma di escludere il semplice collaboratore redazionale. Il rapporto di lavoro con il giornalista non iscritto al relativo albo è nullo, ma non x violazione dell'oggetto o della causa. Ne deriva che il giornalista "di fatto" ha diritto al compenso x l'opera prestata. Fondamentale, nell'ambito dell'impresa editoriale, è il ruolo del direttore cui competono non solo i poteri di organizzazione dell'attività, ma anche quelli di indirizzo politico della testata. Fra le ulteriori ure previste dalla contrattazione collettiva ricordiamo: il capo-servizio, il capo-redattore, il redattore, il corrispondente, l'inviato speciale. Giova ricordare la particolare tutela che la contrattazione collettiva di settore riconosce all'ideologia professata dal giornalista. Quest'ultimo ha infatti il diritto di dimettersi x giusta causa nel caso di sostanziale mutamento dell'indirizzo politico del giornale, mantenendo il diritto ad una speciale indennità definita "indennità fissa" (c.d clausola di coscienza). Viene così intuitivamente tutelato quel patto non scritto che lega il giornalista alla testata e che ha ad oggetto proprio l'orientamento ideologico professato, sul quale erano state fissate le intese all'atto dell'assunzione.


Il lavoro domestico

Il "rapporto di lavoro che ha x oggetto la prestazione di servizi di carattere domestico" costituisce un caso paradigmatico di rapporto estraneo ad un'organizzazione imprenditoriale. L'art. 224 cod.civ., in apertura del Capo e, in quanto più favorevoli al prestatore di lavoro, dalla convenzione e dagli usi. Le norme successive (art.2241-2246) regolano i momenti essenziali el rapporto (periodo di prova, vitto alloggio e assistenza, riposi, recesso, indennità di anzianità e certificato di lavoro). La materia è altresì regolata dalla l. n. 339 del 1958, peraltro relativamente ai lavoratori impegnati in attività eccedenti le quattro ore giornaliere. Il datore di lavoro domestico e esonerato dall'obbligo di comunicare l'assunzione (diretta) alla Sezione di collocamento, essendo sufficiente alla scopo la denuncia all'INPS a fini contributivi. Secondo l'art.2241 cod.civ. Il patto di prova si presume x i primi otto giorni di lavoro. Si tratta di una evidente deroga al principio generale della pattuizione x iscritto del patto, di cui nell'art.2096 cod.civ., giustificabile in ragione della spiccata fiduciarietà del rapporto. Ulteriori indicazioni sul periodo di prova sono contenute nell'art.5 della l.n. 339 del 1958, secondo cui x i lavoratori con mansioni impegantizie (precettori, istitutori, governanti, bambinaie diplomate, maggiordomi,dame di comnia) ed altri lavoratori con analoghe funzioni il periodo di prova nn può superare un mese. Per i prestatori di opera manuale (cuochi, giardinieri, balie, domestiche tuttofare, etc..) nn può superare gli otto giorni. La regolamentazione del rapporto è ormai pressochè integralmente contenuta nella contrattazione collettiva di settore. I diritti e doveri del prestatore di lavoro sono previsti, a parte gli ovvii svolgimenti di cui alla contrattazione collettiva. Fra i doveri ricordiamo quello della diligenza "secondo le necessità e gli interessi della famiglia" e quello di "mantenere la necessaria riservatezza x tutto quanto si riferisce alla vita familiere". Fra i doveri segnaliamo, oltre alla retribuzione, rispetto alla quale la giurisprudenza ammette l'applicabilità dell'art. 36 Cost. quelli connessi con la tutela della salute del lavoratore domestico. In caso di fornitura dell'alloggio il datore dovrà predisprre un ambiente sano nonché, in generale, dovrà tutelarne la salute "particolarmente qualora vi siano in famiglia fonti di infezione". Si discute se sia applicabile al lavoratore domestico il potere disciplinare. Al rapporto di lavoro domestico è applicabile l'istituto della sospensione, in relazione agli eventi di cui all'art 2110 cod civ. In particolare la tutela della maternità è ad esso esplicitamente estesa per efetto dell'art 1, 3°co.della legge n.1204 del 1971, datto salvo il divieto di licenziamento durante il periodo di gestazione e fino ad un anno di età del bambino.


Il portierato

Tradizionalmente inserito nella categoria dei rapporti speciali, il portierato, in realtà, ha assai poco di eversivo rispetto allo schema generale, se non la caratteristica di non inerire "all'esercizio dell'impresa", derivandone l'applicabilità dell'art 2239 cod civ. Ed è in fondo proprio questa caratteristica che ne condiziona gli istituti fondamentali. Basti pensare ai tratti della necessaria continuità della prestazione, che comportava, un tempo la ura del c.d "sostituto" (normalmente designato entro il nucleo familiare del portiere) e che, in qlk misura, escludeva il carattere strettamente personale della prestazione o alle caratteristiche obiettive della prestazione (semplice attesa o custodia, con obblighi collaterali, quali la distribuzione della posta o la pulizia dell'androne) o, ancora, alla previsione pattizia della possibilità x il portiere di esercitare un mestiere collateralmente all'esecuzione della prestazione o, infine, alla normale garanzia-in funzione remuneratoria- di un alloggio all'interno dello stabile condominale. La definizione della ura del portiere è da farsi risalire, nella sostanza, al contratto collettivo corporativo 30aprile 1938 ed è stata rirodotta nei successivi contratti. Tradizionalmente si distinguevano solo le ure del portiere adibito alla vigilanza e custodia di stabili ad uso di abitazioni o ad altro uso, con o senza le prestazioni di pulizia. La regolamentazione di confini con attività affini è operata dall'autonomia collettiva che esclude dall'ambito della disciplina del portierato, da una parte, il lavoro domestico e, dall'altra, gli addetti alla custodia di stabili ad uso prevalentemente industriale o commerciale. Ulteriore peculiarità che caratterizza la fase normativa del rapporto di portierato è l'iscrizione del lavoratore in un registro tenuto presso la locale autorità di pubblica sicurezza. Istituto caratteristico della normativa contrattuale di settore è quello che riguarda la "sostituzione"del portire, in funzione dell'esigenza di garantire la continuità del servizio durante tutto il corso dell'anno e x 7gg alla settimana. Allo scopo fin dal contratto corporativo del 1938 fu previsto l'obbligo x il portiere di designare all'atto dell'assunzione una persona "idonea" a sostituirlo nel servizio. È questo uno dei casi di eccezione alla regola del carattere xsonale della prestazione lavorativa. La previsione del sostituto non aveva cmq, nell'economiadei previgenti contratti, solo la funzione di garantire la continuità del servizio, ma anche di consentire al portiere di godere dei riposi settimanali, delle festività infrasettimanali e delle ferie. In qst prospettiva la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire l'illegittimità di quelle clausole contrattuali collettive che valutavano la retribuzione mensile del portiere come comprensiva altresì della quota del sostituto. Così ha statuito che la retribuzione del portiere è contrattualmente preurata con riferimento a 26 giornate lavorative al mese, con la conseguenza che l'eventuale attività lavorativa prestata nei gg di riposo va retribuita con maggiorazione. È anche in ragione di tali sviluppi giurisprudenziali nonché dell'evoluzione dei rapporti sociali che la contrattazione collettiva più recente ha eliminato l'obbligo di nomina del sostituto ed ha definitivamente sancito che il rapporto di lavoro debba intercorrere direttamente fra proprietario e sostituto. A quest'ultimo poi se convivente spetterà il trattamento contrattuale del portiere, mentre al sostituto convivente spetterà il diritto al salario ed all'indennità x il mancato godimento dell'alloggio. Infine degna di menzione è la previsione della contrattazione collettiva secondo cui le vicende successorie relative all'immobile, nel quale si svolge il rapporto di portierato, non comportano l'estinzione di ques'ultimo ed il portiere conserva i diritti e gli obblighi nei confronti del proprietario subentrante.


SEZIONE IV: I LAVORATORI SUBORDINATI


Eguaglianza e parità: contraente debole e classi di soggetti

Il lavoratore subordinato, colui che vive esclusivamente dei frutti del proprio lavoro, svolto in condizione di dipendenza, è il protagonista della nostra disciplina. L'ordinamento lavoristico si è impegnato nel tempo a riequilibrare la soverchiante forza contrattuale del datore di lavoro attribuendo al lavoratore tutta una serie di osizioni giuridiche soggettive di vantaggio, posizioni che si traducevano nella creazione di un vero e proprio diritto diseguale già all'interno del contratto: basti pensare anche solo al potere di sciogliersi dal vincolo negoziale, limitato x il datore di lavoro e sostanzialmente libero x il lavoratore. Il diritto diseguale, poi, si proietta anche al di fuori del contratto, se è vero che al lavoratore viene assicurata una tutela "differenziata", rispetto agli soggetti di diritto in particolari materie: si pensi alla tutela processuale introdotta x le controversie di lavoro , al diritto al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria, sancito legislativamente alle origini ancora una volta x i soliti crediti di lavoro. In sostanza il diritto del lavoro non ha superato il tradizionale punto di riferimento dell'unità del soggetto di diritto e dell'eguaglianza di esso di fronte alla legge, ma ha solo costruito dei correttivi che consentissero di eliminare talune condizioni soggettive di svantaggio sociale, analiticamente individuate, quali ostacoli alla crescita di chi vive del suo lavoro. Fin dagli albori il diritto del lavoro ha infatti individuato sottoclassi di soggetti, ulteriormente svantaggiate, a cui favore approntare una tutela ulteriormente "differenziata" rispetto agli altri lavoratori dipendenti. A parte la posizione di classi di soggetti precariamente svantaggiate (i lavoratori del sud, i lavoratori espulsi dal circuito della grande impresa industriale in ristrutturazione,ecc), ve ne sono altre che anche le norme costituzionali assumono come stabilmente svantaggiate, per particolari condizioni personali o socili: fra quelle di maggior rilievo ricordiamo la posizione degli invalidi (e categorie equiparate) e, sopratutto i minori e le donne. Vi era anzitutto-ed è la questione sociale affrontata fin dai primordi dell'industrialismo-un problema di tutela; occorreva cioè proteggere con norme limitative l'impiego dell donne e dei minori in ragione della loro maggiore fragilità fisico-psichica o in relazione alla condizione della donna in quanto madre. Di qui tutto il filone legislativo sulla limitazione dell'orario, sul divieto di lavoro notturno x le donne, sul divieto dell'adibizione a lavori pesanti o faticosi, sulla tutela delle lavoratrici madri,ecc. ½ era poi il problema di far sì che particolare condizione personale dei minori e delle donne lavoratrici non comportasse conseguenze sul piano del trattamento. La posizione della donna si è viceversa differenziata, negli anni più recenti, qnd il sostanziale fallimento delle poltiche antidiscriminatorie ha indotto il legislatore ad adottare misure che favorissero positivamente e concretamente l'accesso alle donne dei posti di lavoro. È stata così introdotta una normativa di promozione delle pari opportunità d'impiego delle donne.


Il lavoro femminile: tutela e partà nella Costituzione

La difficile coesistenza fra tutela e parità nel lavoro femminile è già in qlk modo iscritta nel suo DNA. La Carta fondamentale, infatti, al primo comma dell'art 37 da una parte statuisce il principio paritario, secondo cui "la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spetano al lavoratore", mentre dall'altra ribadisce la necessità dell'intervento protettivo, assumendo che "le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una spciale ed adeguata protezione". Proprio nel quadro dei progetti di politica legislativa diretti a ridisegnare i difficili equilibri fra tutela e parità si inserisce la disciplina dei c.d congedi parentali. La nuova disciplina si propone non solo, secondo l'ottica tradizionale, di fornire un sostegno all'istituzione familiare, ma anche di redistribuzione, con maggiore vigore ed ampiezza, gli oneri relativi anche sul padre-lavoratore, così contribuendo a sdrammatizzare, almeno in parte, il problema del maggior costo del lavoro femminile. Essa dà attuazione alle indicazioni provenienti dalla Comunità europea (direttiva di recepimento dell'accordo quadro sul congedo parentale) che, innovando rispetto al passato, pone al centro della propria attenzione non soltanto la protezione della salute della lavoratrice-madre, ma fondamentalmente la cura del lio nei primi anni di vita.


1 La tutela


21. 1.1 La tutela della persona della lavoratrice nel rapporto

Il più risalente nucleo protettivo x le lavoratrici, accomunate sotto questo profilo ai minori, quali "mezze forze", ha riguardo proprio alla tutela della persona. In primo luogo si ammette l'adibizione della donna anche a lavori pesanti, salvo che la contrattazione collettiva non ritenga di apportare deroghe al principio con riferimento a lavori particolarmente gravosi. La previsione ha posto qlk problema con riferimento al richiamo ai poteri della contattazione collettiva, nulla disponendo in relazione al livello della contrattazione abilitato a prevedere la limitazione dell'impiego delle donne in lavori particolarmente gravosi. È stato inoltre eliminato il divieto di lavoro notturno, divieto che è restato in vigore x le sole lavoratrici-madri o, a determinate condizioni, x il padre lavoratore.


21. 1. 2. La tutela contro i licenziamenti a causa di matrimonio e x i genitori lavoratori

L'ordinamento prevede poi una forte accentuazione della tutela della donna lavoratrice nelle situazioni in cui può essere particolarmente esposta: e cioè in occasione del matrimonio e della maternità. Si tratta di un complesso di interventi che hanno riguardato fondamentalmente alla preurazione: a) di un periodo di irrecedibilità assoluta x il datore di lavoro (divieto di licenziamento in determinati periodi; b) della limitazione all'impiegodella lavoratrice in stato di gravidanza in attività insalubri o pericolose; c) del diritto alla sospensione del rapporto in caso di gravidanza e puerperio (periodi di astensione dal lavoro); d) del diritto per la lavoratrice di assentarsi dal lavoro in relazione alle cure del bambino. Con la legge sui congedi parentali una buona parte delle precedenti provvidenze è stata estesa anche al padre-lavoratore.


1. 2. 1 Il divieto di licenziamento delle lavoratrici x causa di matrimonio

Con la legge 9 gennaio 1936 n.7 è regolato il divieto di licenziamento delle lavoratrici x causa di matrimonio. La legge intende reagire nei confronti della possibilità che il datore di lavoro-consapevole che il matrimonio può essere foriero, in sé e nella prospettiva della maternità, di maggiori costi del personale femminile- proceda a licenziare la lavoratrice che contragga matrimonio o predisponga delle clausole negoziali (c.d clausole di nubilato) secondo cui il rapporto si estingue automaticamente all'atto della celebrazione del matrimonio. Si spiega così la ragione x cui la legge non solo considera nulle e/o non apposte le clausole di qls genere contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano cmq la risoluzione del rapporto di lavoro x le lavoratrici in conseguenza del matrimonio, non solo considera nullo il licenziamento x causa di matrimonio, ma collega la medesima sanzione anche alle dimissioni. Più recentemente il licenziamento è considerato connesso al matrimonio della lavoratrice (e dunque nullo) qnd sia posto in essere nel periodo intercorrente fra il gg della riciesta di pubblicazioni, in quanto segua la celebrazione, ed un anno dopo la celebrazione stessa. In tale periodo il licenziamento si presume intimato a causa di matrimonio e, x quel che più conta, tale presunzione può essere vinta solo dalla prova che il licenziamento sia avvenuto x una delle ipotesi prevista dalla disciplina a tutela delle lavoratici-madri. Quattro però sono le eccezioni al divieto di licenziamento a causa di matrimonio: a) x colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa di recesso, b) x cessazione dell'attività dell'attività dell'azienda cui essa è addetta; c) x ultimazione della prestazione x la quale la lavoratrice è stata assunta o x la risoluzione del rapporto x scadenza del termine; d) x esito negativo della prova. Alla stessa stregua sono considerate nulle le dimissioni presentate dalla lavoratrice nel medesimo periodo, salvo che siano confermate, entro un mese, davanti all'Ufficio del lavoro. X effetto della sanzione della nullità collegata alle due forme di recesso (licenziamento e dimissioni) il rapporto giuridicamente continua, il che secondo la previsione dell'art 2 della legge, comporta la corresponsione alla lavoratrice allontanata dal lavoro, della retribuzione globale di fatto sino al gg della riammissione in servizio. La sanzione della nullità comporta altresì che la lavoratrice non ha alcun oneredi impugnare il licenziamento entro 60gg dalla comunicazione. La lavoratrice che, invitata a riprendere servizio, dichiari, a sua volta, di recedere dal contratto, ha diritto al trattamento previsto per le dimissioni x giusta causa, fermo ovviamente il diritto alla retribuzione fino alla data del recesso. Qlk giudice di merito ha affermato che la tutela della legge del 1963 si estende anche ai licenziamenti a causa di matrimonio del lavoratore.


1. 2. 2 Le tutele x la lavoratrice madre e x il padre lavoratore.

La materia è stata oggetto di numerose riforme. Con il d.lgs 151 del 2001 si voleva valorizzare la famiglia e la cura del bambino e tentare di superare i tradizionali ruoli genitoriali.


A) come si è detto anche rispetto alla lavoratrice madre opera anzitutto il divieto di licenziamento. Il periodo in cui opera tale divieto va dall'inizio del periodo di gestazione fino al termine del periodo di interdizione obbligatoria del lavoro nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. Il divieto opera con riferimento allo stato oggettivo di gravidanza e dunque, ove la lavoratrice, ignara della propria situazione, sia stata licenziata, la medesima ha diritto al ripristino del rapporto, mediante presentazione della certificazione da cui risulti l'esistenza, all'epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. L'art 54 del d.lgs 151/2001 ha eliminato il termine di 90gg entro cui lalavoratrice doveva presentare il ceritificato. La giurisprudenza cmq era prevalentemente orientata ad escludere il carattere vincolante del termine, a condizione che la lavoratrice dimostrasse che, a prescindere dalla certificazione, il datore di lavoro fosse cmq a conoscenza dello stato di gravidanza (peraltro, pur escludendo il diritto al ripristino del rapporto, dà titolo alla lavatrice ad ottenere, come risarcimento dei danni, le retribuzioni fino al trmine del periodo di divieto). Il licenziamento della lavoratrice madre è nullo (e non temporaneamente inefficace) per il periodo in cui perdura il divieto, fermo restando che il datore di laoro può far valere l'eventuale motivo di licenziamento, se ancora sussistente al termine del periodo. X la lavoratice madre valgono le quattro eccezioni al divieto già ricordate a prposito del licenziamento a causa di matrimonio. Durante il periodo di irrecedibilità la lavoratrice non può nemmeno essere sospesa dal lavoro, salvo che sia sospesa l'attività dell'intera impresa o del reparto cui la lavoratrice è addetta e purchè il reparto abbia autonomia funzionale. La lavoratice-madre inoltre non può essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cassazione dell'attività dell'impresa. Il d.lgs 151/2001 ha previsto anche le dimissioni della lvoratrice madre-al pari di quelle x causa di matrimonio-devono essere oggetto di convalida davanti al servizio isettivo del Ministero del lavoro competente x territorio. In caso di dimissioni volontarie durante il periodo di irrecedibilità la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali x il caso di licenziamento. Resta cmq fermo che in caso di dimissioni la lavoratrice non è tenuta al preavviso. Il d.lgs n.151 del 2001 considera altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e x la malattia del bambino. La nuova legge ha sancito altresì il cd diritto al rientro (al termine dei periodi di divieto di lavoro nonché dei periodi di divieto di lavoro nonché nei periodi di congedo , permesso o riposo) nella medesima unità produttiva presso cui operavano in precedenza o in altra ubicata nello stesso comune ed alla permanenza fino al compimento di un anno di età del bambino. Viene inoltre ribadito l'ovvio diritto all'adibizione delle mansioni da ultimo svolte o equivalenti. La violazione delle norme sul diritto al rientro comporta una sanzione amministrativa. Ciò posto la più significativa della più recente legislazione è quella di avere esteso tutte le tutele appena descritte anche al lavoratore che fruisca del congedo x paternità, x tutta la durata del congedo e fino al compimento di un anno di età del bambino. Inoltre le medesime provvidenze si applicano anche in caso di adozione e di affidamento, con estensione del divieto di licenziamento fino ad un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare (in caso di fruizione di congedo x maternità o paternità). La violazione del divieto di licenziamento comporta l'applicazione di una sanzione amministrativa.


B)L'ulteriore e tradizionale territori di intervento della disciplina di protezione della gestante riguarda le condizioni fisico-biologiche. Si prevede allo scopo il divieto di adibizione della lavoratrice (durante la gestazione e fino a 7mesi dopo il parto) al trasporto ed al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri. Le lavoratrici adibite ai lavori vietati devono essere trasferite ad altre mansioni, in ipotesi anche inferiori, ma con il mantenimento del trattamento acquisito in precedenza, fermo il diritto alla promozione, nei limiti previsti dall'art 2103 cod civ, in caso di adibizione a mansioni superiori. La tutela si applica anche alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o affidamento, fino al compimento dei 7mesi di età. La violazione di tali disposizioni è punita con sanzione penale. Quanto al lavoro notturno se ne stabilisce il divieto dalle ore 24 alle 6, x il periodo che va dall'accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.

C) Il periodo di astensione obbligatoria (quindi il diritto alla sospensione del rapporto) opera durante i 2mesi dalla data presunta del parto e fino al terzo mese successivo. Ove il parto avvenga oltre tale data opera x il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva nonché durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella prevista. Il servizio ispettivo del ministero del lavoro può peraltro disporre l'anticipazione dell'interdizione di lavoro, per uno o più periodi: 1) in caso di gravi complicanze della gestazione o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza; 2) quando le condizioni di lavoro o ambientali sono ritenute pregiudizievoli alla salute della donna o del bambino; 3)quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni. La lavoratrice ha peraltro la facoltà di rendere (relativamente) flessibile il periodo di astensione obbligatoria, spostandone il godimento a partire dal primo mese antecedente la data presunta del parto e fino a 4mesi successivi, a condizione che tale spostamento non rechi pregiudizio alla salute del bambino (e salvo cmq che non sia addetta a particolari lavori da individuarsi con decreto ministeriale). Le ferie e le altre assenze eventualmente spettanti alla lavoratrice non possono essere godute contemporaneamente ai periodi di astensione obbligatoria dal lavoro. Il periodo di astensione obbligatoria è computato ad ogni effetto nell'anzianità di servizio. Inoltre il medesimo periodo è equiparato all'attività lavorativa anche ai fini della progressione in carriera. Infine il diritto di astensione obbligatoria è stato esteso anche al padre lavoratore, per tutto il periodo o per la parte residua che sarebbe spettata alla madre, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono nonché di affidamento esclusivo del bambino al padre (il c.d congedo x paternità). In tali situazioni si applicano al padre le norme che regolano il trattamento economico e normativo della lavoratrice madre. Il diritto all'astensione obbligatoria spetta altresì a determinate condizioni alle lavoratrici che abbiano adottato o ottenuto in affidamento un bambino. Il medesimo-se non è fatto valere dalla madre -spetta al padre-lavoratore. Oltre al periodo di astensione obbligatoria è prevista la possibilità di un eventuale ulteriore periodo di astensione facoltativa. Con la nuova disciplina dei congedi parentali è stato introdotto il principio secondo cui l'astensione facoltativa spetta cmq ad uno dei due genitori, anche se l'altro non ne ha diritto. Tale astensione può aver corso entro un arco di tempo, i primi 8anni di vita del bambino, notevolmente più lungo di quello previsto in precedenza (un anno). Complessivamente i congedi parentali, x ambedue i genitori, non possono eccedere il limite di 10mesi. In questo ambito, trascorso il periodo di astensione obbligatoria : a)la lavoratrice ha diritto di assentarsi, x un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6mesi, b) il padre può assentarsi, a decorrere dalla nascita del lio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a 6mesi, c) il genitore che sia solo per un periodo, continuativo o frazionato, non superiore a 10mesi. Un prolungamento del congedo è previsto x i genitori di minori portatori di handicap gravi. A differenza che x l'astensione obbligatoria il periodo di astensione facoltativa è computato nell'anzianità di servizio esclusi gli effetti relativi alle ferie ed alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia. I periodi di assenza obbligatoria ed, in parte, quelli di assenza facoltativa, sono coperti da un trattamento economico di carattere sociale, gestito dall'INPS. I genitori che usufruiscono dell'astensione obbligatoria hanno diritto ad un'indennità pari all'80% della retribuzione x il periodo di astensione obbligatoria. Durante il periodo di astensione facoltativa spetta al genitore un'indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione, ma solo fino al terzo anno di vita del bambino e cmq per un periodo massimo complessivo fra i genitori di 6mesi. Oltre tali termini (ed ovviamente fino all'ottavo anno di vita del bambino) l'indennità spetta solo nel caso in cui il reddito individuale dell'interessato sia inferiore a 2,5 volte l'importo del trattamento minimo di persone a carico dell'assicurazione generale obbligatoria. Va cmq segnalato che, x venire incontro alle necessità economiche dei genitori nella prima fase di crescita del bambino, è stato previsto che l'astensione facoltativa costituisce una nuova ipotesi di diritto all'anticipazione del trattamento di fine rapporto. Il diritto all'astensione facoltativa spetta anche x le adozioni e affidamenti e può essere fruito entro 8anni dall'ingresso del minore nel nucleo familiare. Giova considerare infine che , allo scopo di consentire al datore di lavoro di ammortizzare con minori danni il complesso sistema di congedi parentali, si è previsto che questi può assumerea termine, in sostituzione di lavoratori in astensione sia obbligatoria che facoltativa, anche con anticipo di un mese (o periodo superiore previsto dalla contrattazione collettiva) rispetto all'inizio dell'astensione. Inoltre nelle imprese con meno di 20 dipendenti tale assunzione a termine dà diritto ad uno sgravio contributivo.

D) Ulteriori provvidenze sono disposte dalla legge con riferimento alle cure x l'allevamento del bambino. Anzitutto il datore di lavoro deve consentire, durante il primo anno di vita del bambino, alle lavoratrici madri due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Tali periodi di riposo hanno la durata di un'ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro, comportando altresì il diritto della lavoratrice di allontanarsi dal posto di lavoro. In caso di parto plurimo i periodi di riposo sono raddoppiati. La retribuzione dei periodi di riposo è a carico dell'ente previdenziale. Il periodo è computato nell'anzianità con esclusione degli effetti relativi alle ferie ed alla tredicesima. Il medesimo diritto spetta altresì al padre lavoratore: a)nel caso in cui i li siano affidati in cia esclusiva; b) in alternativa alla madre, lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d)in caso di morte o grave infermità della madre. Anche il diritto ai riposi è esteso ai casi di adozione ed affidamento, ma sempre entro il primo anno di vita del bambino. Entrambi i genitori hanno poi diritto, alternativamente, ad astenersi dal lavoro per periodi corrispondenti alle malattie di ciascun lio di età non superiore a 3anni. Ciascun genitore inoltre può astenersi dal lavoro, entro il limite di 5gg lavorativi all'anno, x le malattie di ogni lio di età compresa fra i 3 e gli 8anni. Tali congedi spettano al genitorerichiedente, quand'anche l'altro non ne abbia diritto. Si tratta peraltro di congedi non retribuiti, restando salvo il decorso dell'anzianità di servizio (esclusi gli effetti relativi alle ferie ed alla tredicesima mensilità). Anche di siffatti congedi possono usufruire i genitori adottanti o affidatari. Al medesimo scopo di consentire ai genitori l'allevamento e la cura del bambino nei primi anni di vita si dirige infine la previsione del diritto a rifiutare la prestazione di lavoro notturno. La legge prevede infatti che non sono obbligatia prestare lavoro notturno: a) la lavoratrice madre di un lio di età inferiore a 3anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente; b) la lavoratrice o il lavoratore che sia l'unico genitore affidatario di un lio convivente di età inferiore a 12anni.


21. 1. 3 La tutela del reddito

In qlk modo collegata alla conservazione di un reddito da lavoro è la previsione dell'art 4 della l. n.903 del 1977 che dà alla lavoratrice il diritto ad optare x la prosecuzione del rapporto oltre il compimento dell'età pensionabile. In generale deve ricordarsi che sussiste tuttora una situazione di privilegio a vantaggio delle donne in relazione all'età di pensionamento (che con la riforma previdenziale è stata elevata progressivamente dai 55 x le donne e 60 x gli uomini e 60 x le donne e 65 x gli uomini). In questa situazione la previsione della legge del 1977 costituisce, in qlk misura, un modo x ottenere l'unificazione, se pure in via di fatto dell'età pensionabile, demandata alla volontà della lavoratrice, volontà incentivata con l'aumento del trattamento pensionistico x ogni anno di protrazione dell'attività lavorativa.


21. 2 La parità

21. 2. 1. La parità retributiva

L'art 37 Cost stabilisce il principio secondo cui la donna ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, la stessa retribuzione che spetta al lavorarore. Si tratta di una delle tante specificazioni del principio di uguaglianza formale, con cui, nella specie, si esclude che il sesso possa costituire elemento di discriminazione fra personale maschile e femminile nell'ambito del rapporto di lavoro. Si tratta di una previsione sostanzialmente conforme alla Convenzione n.100 dell'OIL, che parla di "lavoro di valor eguale" ed all'art 119 del Trattato CEE, che si riferisce al lavoro eguale. Si assumeva che l'inciso parità di lavoro intendesse parificare le posizioni lavorative della donna e dell'uomo, purchè sussistesse parità di rendimento, dall'altra invece si riteneva che l'inciso alludesse alla parità di inquadramento contrattuale. La prima interpretazione peraltro poneva più problemi di quanti non ne risolvesse. La prospettiva interpretativa esprimeva un intento di politica del diritto palesemente ripudiato dalla Costituzione, che alludeva invece alla xfetta parificazione economica e normativa fra uomini e donne a parità di qualifica e durata del rapporto. Peraltro, a riprova delle difficoltà di rimuovere discriminazioni che si radicano nel cuore dei rapporti sociali, è necessario ricordare che il principio della parità retributiva e di trattamento fra i sessi ha stentato ad affermarsi anche sul piano sindacale. La contrattazione collettiva ha preurato infatti tabelle salariali distinte fra uomini e donne (con ovvia penalizzazione di queste ultime) x lungo tempo, tanto che solo nel 1960 venne raggiunta un'intesa fra le parti sociali, ratificata con l'Accordo Interconfederale del 16luglio 1960, con cui si prevedeva il graduale superamento dei differenziali basati sul sesso. Con tale accordo si introduceva un inquadramento non più basato sul sesso, ma sulle categorie professionali. Cosicchè all'eliminazione dei differenziali salariali non corrispondeva un sostanziale giudizio di parità di valore fra lavoro maschile e lavoro femminile. Al fine di far valere la parità retributiva deve farsi ovviamente riferimento all'intero trattamento economico spettante ai lavoratori x legge e/o contratto collettivo e non ai soli trattamenti minimi.


2. 2 La parità di trattamento e la tutela antidiscriminatoria.

La difficoltà nel rendere effettivi i principi costituzionali è resa manifesta dall'emanazione da parte del legislatore di una specifica normativa antidiscriminatoria. Si è già ricordato che la legge del 1977 si ispira al duplice criterio di ridurre i profili di tutela che irrigidiscono l'impiego del personale femminile ed ampliare le prospettive della parità di trattamento fra uomini e donne. Su quest'ultimo piano rileva anzitutto il divieto di discriminazione diretta. Esso vieta qls discriminazione basata sul sesso , x qnt riguarda l'accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. Il divieto comprende ogni forma di discriminazione anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza ovvero in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione o a mezzo stampa o in qls altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso. L'unica eccezione riguarda il riferimento al sesso x le assunzioni nei settori della moda, dell'arte o dello spettacolo, qnd ciò sia coessenziale alla natura della attività. Inoltre cn il d.lgs. n.145 del 2005 sn state introdotte nell'ordinamento le nozioni di molestia e molestia sessuale, equiparandole alle discriminizioni. La prima si realizza attraverso quei comportamenti indesiderati, posti in essere x ragioni conesse al sesso ed avanti lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e creare un clima intimidatorio, ostile, degardante, umiliante ed offensivo. La seconda è ulteriormente caratterizzata, oltre che dalla connotazione sessuale, altresì del realizzarsi in forma fisica, erbale o non verbale. La sanzione che colpisce i patti o gli atti realizzati, in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti vietati, è quella della nullità. Alquanto delicato è, all'evidenza, il giudizio in ordine all'indesideraterezza della molestia. In materia si dovrà, x quanto possibile, evitare di valorizzare esclusivamente il punto di vista soggettivo della vittima, attestandosi su una valutazione in termini di aprezzabile ragionevolezza. Gli art 2 e 3 della legge sono confermativi del principio di parità retributiva, qnd le prestazioni richieste "siano uguali o di pari valore" e ribadiscono il divieto di discriminazione nell'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e della progressione nella carriera. A completamento del quadro la legge introduce un'aggiunta nel principio generale di divieto di atti discriminatori contenuto nell'art 15 dello statuto dei lavoratori, estendendone le disposizioni anche ai patti o atti diretti a fini di discriminazione "politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso". Ne viene fuori un sistema in cui è fulminato dala nullità qls patto o atto diretto a subordinare l'occupazione, il licenziamento, l'assegnazione delle qualifiche e delle mansioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari o a recare al lavoratore ulteriori pregiudizi, anche in considerazione dell'appartenenza ad un determinato sesso. La prova dell'intenzione discriminatoria incombe sulla lavoratrice, dovendo altresì ragionevolmente ritenersi che la sussistenza di una giustificazion obiettiva del comportamento del datore di lavoro esclude di per sé l'esistenza della discriminazione. X garantire in termini di effettività l'apparato dei divieti operano sia la sanzione penale sia la predisposizione di uno speciale strumento processuale che consente (o dovrebbe consentire) alla donna lavoratrice una soddisfazione rapida dei propri diritti. L'art 15 della legge preura un procedimento, ricalcato sul modello dell'art 28 dello statuto dei lavoratori, con cui la lavoratrice discriminata, o su sua delega, le organizzazioni sindacali, possono adire il giudice del lavoro nel luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato. Il giudice, nei 2gg successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, ordina all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Si tratta di un procedimento cautelare, con cui, in via d'urgenza, il giudice anticipa gli effetti del provvedimento che verrà emanato nel giudizio di merito, disponendo, in caso di accoglimento, x l'immediata soddisfazione delle aspettative della lavoratrice discriminata. L'effettività della tutela è garantita dal riferimento ad ogni comportamento della vita di relazione. Al pari di qnt previsto dall'art 28 dello statuto anche il provvedimento del giudice di cui all'art 15 della l.del 1977 può essere oggetto, entro 15gg, di opposizione da parte del soccombente, davanti allo stesso giudice, che decide con sentenza esecutiva. A rafforzare l'ordine del giudice soccorre poi la previsione secondo cui la sua mancata ottemperanza comporta l'applicazione dell'art 650 cod pen (inosservanza dei provvedimenti dell'autorità).


  1. 3 Le pari opportunità: dalla tutela contro le discriminazioni indirette alle azioni positive (la legge 10aprile 1991, n.125).

Lungi dal limitarsi ad operare (in negativo) con divieti si propose una strategia di vera e propria promozione del lavoro femminile. Siffatto ambizioso obiettivo è affidato alla legge 10aprile 1991, n. 125. Il "programma" dell'intevento è esplicitato nel'art 1 della legge: favorire l'occupazione femminile e realizzare l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità.


3. 1. Le discriminazioni indirette

Allo scopo la legge anzitutto completa ed amplia la disciplina antidiscriminatoria, estendendola anche alle c.d discriminazioni indirette. La discriminazione indiretta viene fatta consistere nella posizione di un trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività. X rendere ancora più incisiva la disciplina sostanziale si prevede altresì una speciale articolazione dell'onere della prova. È pacifico che, secondo i principi generali, la prova della discriminazione (diretta o indiretta) incombe su chi ne invoca la sussistenza. Orbene la legge assume che, qnd la lavvoratrice discriminata fornisce elementi di fatto-desunti anche da dati di carattere statistico, relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ecc- idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto (e quindi al datore di lavoro) l'onere della prova dell'insissistenza della discriminazione. Ciò che appare di notevole delicatezza è l'ampio ventaglio dei fatti suscettibili di consentire la costruzione delle presunzioni, al cui interno un ruolo essenziale è riconosciuto alle risultanze di analisi statistiche, che appaioni di x sé inespressive di un accettabile contenuto di credibilità, condizionate come sono dalla situazione sociale ed economica, in relazione alla distribuzione delle risorse in materia di lavoro. Il che può prestarsi ad amplificare notevolmente x il datore di lavoro le difficoltà di una puntuale prova contraria rispetto alla solo apparente espressività del metodo statistico.


3. 2. Le azioni positive.

Le prospettive maggiormente innovative sono cmq affidate dalle legge del 1991 alle c.d azioni positive. Si tratta di iniziative, delle quali non ci viene fornita una definizione sul piano strutturale e tipologico, ma di cui vengono segnalate le finalità: a) eliminare le disparità di fatto cui le donne sono oggetto; b) favorire la diversificazione delle scelte professionali, nonché l'accesso al lavoro autonomo e all'imprenditoria; c) favorire una diversa organizzazione del lavoro del lavoro o articolazione del tempo di lavoro, allo scopo di eliminare la diversa incidenza dell'assetto organizzativo esistente rispetto ai due sessi; d) promuovere l'inserimento delle donne in attività nelle quali sono sottorappresentate. In qst situazione è evidentemente impossibile indicare a priori in che cosa le azioni positive possano consistere. Qlk indicazione indiretta può dedursi anzitutto dall'individuazione dei soggetti promotori. Essi vengono indicati : a) nel Comitato Nazionale di parità e/o nei consiglieri di parità; b) nei centri x la parità e le pari opportunità a livello nazionale, locale e aziendale, cmq denominati; c)nei centri di formazione professionale, d) nei datori di lavoro privati e pubblici; e)nelle organizzazioni sindacali nazionali e territoriali. Ulteriori dati ricostruttivi si possono trarre dall'art 2 che prevede i (possibili) finanziamenti delle azioni positive. Si assume che i datori di lavoro pubblici e privati, i centri di formazione professionale accreditati, le associazioni, le organizzazioni sindacali nazionali e territoriali e territoriali possono chiedere al Ministero del lavoro di essere ammessi di essere ammessi al rimborso totale o parziale degli oneri finanziari connessi all'attuazione dei medesimi (presentati dal c.d "programma-obiettivo" formulato annualmente dal Comitato nazionale di parità). E sopratutto si prevede che hanno la precedenza nell'accesso al beneficio dei finanziamenti i progetti di azioni positive concordati dai datori di lavoro con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Infine merita segnalazione il principio secondo cui per le amministrazioni pibbliche i progetti di azioni positive costituiscono l'oggetto di un vero e proprio obbligo. Dagli elementi indicati si può dedurre che le azioni positive si realizzano mediante interventi: a) su base volontaria (almeno x i soggetti privati), b) unilaterali o c)consensuali (cioè mediante accordi fra imprese ed organizzazioni sindacali), d)di carattere temporaneo.


3. 3. Profili di costituzionalità delle azioni positive: ancora sul principio di eguaglianza e diritto del lavoro

Le azioni positive costituiscono strumenti di attuazione di un diritto diseguale, quanto meno nel senso che oggetto ne possono anche essere anche interventi di discriminazioni alla rovescia, cioè ai danni dei lavoratori maschi. Ne consegue che è naturale poersi l'interrogativo circa la legittimità costituzionale dell'impianto della legge e segnatamente delle azioni positive. In generale si può dire soltanto che la legittimità di una strategia di azioni positive, x fugare il dubbio di violazione dell'art 3 Cost, deve necessariamente passare attraverso il loro carattere temporaneo e perciò reversibile, volontario e sufficientemente elastico. Peraltro una cosa è ammettere che, in astratto ed in generale, sia proponibile e quindi legittimo costituzionalmete preurare degli x l'attuazione degli obiettivi di pari opportunità, altra cosa è passare al vaglio il singolo progetto di azione positiva. La tecnica di redazione della legge è infatti tale che ogni giudizio di legittimità non può che essere rinviato ad una valutazione delle forme concrete nelle quali le azioni potranno essere calate. Fra l'altro, dal punto di vista tecnico, ove i progetti di azioni positive venissero realizzate con iniziative unilaterali ovvero con accordi privatistici, la questione della compatibilità con l'art 3 Cost. non sfocerebbe in un controllo della Corte costituzionale, ma semmai del giudice ordinario, sulla base della tecnica della nullità x violazione di norma imperativa. Un più marcato supporto istituzionale alla promozione dell'eguaglianza fra i sessi in materia elettorale viene ora dalla modifica dell'art 51, 1° co. Cost ., operata con la legge costituzionale n.1 del 2003, alla cui stregua la repubblica è impegnata a promuovere "con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne". Ulteriore argomento di discussione costituirà altresì la previsione, secondo cui nei piani di azioni positive promosse dalle pubbliche amministrazioni, al fine di garantire l'inserimento delle donne nei settori e nei livelli professionali nei quali sono sottorappresentate, in caso di assunzioni o promozioni "a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile" dovrà essere "accomnata da un'esplicita e adeguata motivazione".


3. 4. I soggetti

La l. 125 affida la propria effettività anche a tutta una serie di istituzioni della parità. Viene in evidenzain primo luogo il Comitato Nazionale x l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, del quale fanno parte, oltre al Ministro del lavoro o suo delegato, rappresentanze paritetiche di organizzazioni sindacali dei lavoratori e datoriali, nonché rappresentanti delle associazioni e movimenti femminili più rappresentativi sul piano nazionale e il consigliere di parità componente la commissione centrale x l'impiego. La legge del '91 inoltre definiva la funzione dei Consiglieri di parità. Attualmente tale organo opera a livello nazionale, regionale e provinciale e svolge funzioni di promozione e controllo dell'attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per donne e uomini. Particolarmente interessanti e nuove x il nostro ordinamento sono le funzioni giurisdizionali di tale organo. Il Consigliere di parità può non solo prestare assistenza tecnica nella promozione delle conciliazioni, ma proporre ricorsi, sia su delega delle lavoratrici interessate sia direttamente (ed intevenire nei procedimenti promossi dalle lavoratrici), davanti al giudice del lavoro o al giudice amministrativo. L'azione diretta va qualificata va qualificata come una vera e propria azione pubblica, cui è legittimato il Consigliere di parità territorialmente competente, che non è di x sé sostitutiva di quella (eventualmente) promossa dalle singole lavoratrici.


3. 5 La strumentazione processuale e l'apparato sanzionatorio.

Sul piano procedurale la legge prevede anzitutto il possibile accesso a forme conciliative ex art 410 cod proc civ, anche tramite il Consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente. Completa poi la strumentazione già realizzata con l'art 15 della l. n.903 del 1977, prevedendo la possibilità di ricorsi avverso comportamenti discriminatori di carattere collettivo, anche qnd non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni. La legittimazione a ricorrere è affidata al Consigliere di parità regionale (e, nei casi di rilevanza nazionale, il consigliere di parità nazionale). Si prevede peraltro che i consiglieri di parità possano, prima di promuovere l'azione in giudizio, chiedere all'autoredella discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminaioni accertate, entro un termine non superiore a 120gg, sentite, se la discriminazione è posta in essere da un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, le associazioni locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato idoneo alla rimozione delle discriminazioni il relativo verbale di conciliazione acquista il valore di titolo esecutivo, con decreto del giudice del lavoro. Di rilievo è la constatazione secondo cui, all'esito del giudizio, il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni, ordina al datore di lavoro di definire, sentite le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le organizzazioni sindacali locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché il consigliere di parità, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, fissando un termine per la definizione del piano. Infine il consigliere di parità può anche proporre la medesima azione in via d'urgenza, davanti al giudice del lavoro o al giudice amministrativo. Con un procedimento, ancora una volta calibrato sullo schema dell'art 28 dello statuto dei lavoratori, il giudice convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione, con decreto motivato e immediatamente esecutivo, ordina all'autore della discriminazione la cessazione della medesima e la rimozione degli effetti, ivi compreso l'ordine di definizione ed attuazione di un piano di rimozione delle medesime. Il decreto-come nell'art 28 dello statuto-è opponibile con ricorso, da proporre entro 15gg dalla sua comunicazione, davanti alla medesima autorità giurisdizionale territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva. L'inottemperanza alla sentenza che decide il ricorso a cognizione ordinaria, al decreto ed alla sentenza pronunciata in sede di opposizione comporta l'applicazione della sanzione di cui all'art 650 cod pen. Conclusivamente si deve rilevare che nonostante l'imponenza dell'impianto processuale restano dubbi sulla sua effettività ed anche sulla giustizia sostanziale. X il datore di lavoro anzitutto va constatata l'assoluta indeterminatezza del contenuto dell'ordine giudiziale che appare in contrasto con la circostanza che alla mancata ottemperanza dell'ordine è collegata la sanzione penale. Quanto alla lavoratrice appare palese l'ineffettività della disposizione, in assenza di uno strumentario che garantisca in concreto l'eseguibilità dell'ordine del giudice. Più producente in termini di effettività sembra invece la precostituzione di deterrenti indiretti, che tendono a dissuadere il datore di lavoro da comportamenti discriminatori: in particolare di quelli che prevedono, a titolo sanzionatorio, la perdita dei benefici finanziari, creditizi o previdenziali (perdita della fiscalizzazione) o l'esclusione dai contratti d'appalto con la pubblica amministrazione. Da notare che tutta la legislazione in materia di divieto di discriminazione e pari opportunità è stata accorpata in un unico testo normativo, il c.d "Codice delle pari opportunità tra uomo e donna".


22. Il lavoro dei minori.


1 La tutela

Abbiamo già ricordato che la tutela a favore dei minori ha costituito il primo nucleo della legislazione fin dalla fine del secolo scorso, proprio con lo scopo di limitare lo sfruttamento di soggetti in condizione fisio-psichica di particolare vulnerabilità. X quanto riguarda il diritto vigente occorre muovere anzitutto dalla Carta costituzionale che, all'art 37, 2° e 3° comma, prevede: a) una riserva di legge x la determinazione del "limite minimo di età x il lavoro salariato"; b) l'impegno della Repubblica alla tutela del lavoro dei minori; c) l'impegno della Repubblica x la garanzia ai medesimi, "a parità di lavoro, (del) diritto alla parità di retribuzione". Inoltre, sul piano delle fonti sovranazionali, a parte talune convenzioni dell'OIL e dell'ONU va sopratutto ricordata la Direttiva n.94/33 del 22 giugno 1994 della Comunità europea. A quest'ultima direttiva in particolare è stata specificata attuazione nel nostro ordinamento con il d.lgs 4agosto 1999. Dopo aver distinto tra bambini (minori fino a 15anni) ed adolescenti (minori fra i 15 d i 18anni), la legge fissa l'età minima di accesso al lavoro con riferimento al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria (con il limite minimo di 15anni compiuti). Con la legge finanziaria per il 2007 si è previsto che, a decorrere dall'anno scolastico 2007/2008, la durata del'istruzione obbligatoria deve essere di almeno 10anni. Ne è conseguita l'elevazione a 16anni dell'età minima x l'accesso al lavoro. Al divieto di adibizione al lavoro dei bambini fa eccezione esclusivamente il caso dell'impiego dei minori in attività lavorativa di carattere culturale, artistisco, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purchè si tratti di attività che non pregiudichino la sicurezza, l'integrità psico-fisica e lo sviluppo nonché la frequenza della scuola dell'obbligo. Lo svolgimento di siffatta attività, previo assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale va cmq autorizzato dalla direzione provinciale del lavoro. È necessario anzitutto che il minore sia riconosciuto idoneo all'attività lavorativa, a seguito di esame medico, il cui esito deve essere comprovato da un apposito certificato. L'idoneità inoltre deve permanere nel tempo; allo scopo il minore è sottoposto a visite mediche periodiche, ad intervalli non superiori ad un anno. Per talune attività sono previsti termini più abbreviati di verifica. Si prevede poi il divieto dell'adibizione anche degli adolescenti ad alcune lavorazioni particolarmente pesanti o pericolose tassativamente previste (che ad es espongono ad una pressione atmosferica superiore a quella naturale o in relazione all'impiego di agenti biologici o chimici). L'unica deroga a tale divieto è costituita dallo svolgimento del lavoro x indispensabili motivi didattici o di formazione professionale e solo x il tempo strettamente necessario alla formazione. ½ è poi il divieto di lavoro notturno, identificandosi per notte un periodo di almeno 12ore consecutive comprendente l'intervallo fra le ore 22 e le ore 6 o le 23 e le 7, fatte salve le prestazioni a carattere artistico, rispetto alle quali cmq il lavoro non può protrarsi oltre le ore 24 con il diritto del minore a godere di un periodo di riposo di almeno 14ore consecutive. Tali periodi possono essere interrotti nei casi di attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati o di breve durata nella giornata. L'orario di lavoro x i bambini liberi di obblighi scolastici non può superare le 7ore giornaliere e le 35 settimanali e x gli adoloscenti e le 8ore giornaliere e le 40 settimanali. Si prevede altresì l'obbligo di riposi intermedi, con interruzione dell'attività lavorativa (almeno) dopo 4ore e mezza. Il limite è ulteriormente riducibile da parte da parte della direzione provinciale del lavoro, in caso di lavori pericolosi o gravosi. Infine ai minori è assicurato un periodo di ferie annuali non inferiore a 30gg x coloro che non hanno compiuto i 16anni e 20gg per gli ultrasedicenni.


2 La parità retributiva

Anche x i minori è sancito il diritto alla parità retributiva, "a parità di lavoro". Si è già detto che l'inciso "a parità di lavoro" deve essere inteso come parità di inquadramento contrattuale e non di rendimento, dal momento che, da una parte, sarebbe impossibile un indagine "in fatto" circa il concreto apporto lavorativo del minor rendimento in assoluto del giovane lavoratore non è giuridicamente considerabile alla stregua di un "fatto notorio". Non deve apparire certamente fuori luogo il richiamo al principio di non discriminazione x giustificare l'impossibilità di attribuire ai minori una retribuzione inferiore agli adulti. L'età infatti costituisce una delle "condizioni personali" che, secondo l'art 3 Cost, non devono essere fonti di discriminazione. Ciononostante il principio di parità retributiva ha stentato ad affermarsi nella realtà, tanto che la contrattazione collettiva, fino alla fine degli anni 70, ha conservato tabelle salariali differenziate x età ed, ancora più a lungo, età diverse x la decorrenza dei c.d scatti di anzianità. Su ambedue si è peraltro pronunciata, in modo pressocchè compatto, la giurisprudenza sancendone la nullità. In particolare, x qnt riguarda il problema della decorrenza degli scatti di anzianità i giudici si sono fatti carico anche di confutare l'argomento, secondo cui la previsione dei medesimi sarebbe frutto esclusivo dell'autonomia collettiva ed in qnt tale esulerebbe dalla nozione di retribuzione di cui all'art 36 Cost.


CAPITOLO III

IL DATORE DI LAVORO


SEZIONE I : CONCETTI GENERALI


Profili introduttivi

La nozione di datore di lavoro coincide con quella del creditore di lavoro, che è il soggetto che trae dalla prestazione di lavoro una utilitas. Il che corrisponde alla nozione di prestazione, come oggetto dell'obbligazione, la quale deve essere suscettibile di "valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore". Alla stregua di quest'ultima considerazione si usa sostenere che, in astratto, il concetto di datore di lavoro è unico ed immutabile e prescinde dalle condizioni soggettive o dalla qualificazione della persona o dell'ente che occupa tale posizione. Una prima serie di distinzioni accede alla qualità del soggetto datore: un ruolo essenziale ha anzitutto la distinzione fra datori di lavoro imprenditori e non imprenditori. Sempre sul piano qualitativo può anche essere rilevante, ai fini del trattamento giuridico, la natura dell'attività espletata (si pensi ad es alle c.d organizzazioni di tendenza). Sussistono poi significative differenze di ordine quantitativo fra datori di lavoro, che mettono in luce la rilevanza della dimensione dell'impresa nel diritto del lavoro (valutata sulla base del numero dei dipendenti occupati). Rilevante è anche il dato della (eventuale) frammentazione dell'impresa. Il datore di lavoro in sostanza può presentarsi come un'entità unitaria ovvero essere inserito nell'ambito di una struttura societaria complessa, irta di collegamenti, tali da formare un vero e proprio gruppo di imprese o di società. Sul trattamento del rapporto di lavoro influiscono, ancora, le scelte organizzative dell'impresa. Il datore di lavoro può cioè organizzare la propria attività produttiva decidendo di far tutto da sé ovvero programmando di fare qlcs da altri, cioè di decentrare parte della produzione all'esterno. In quest'ultimo caso l'ordinamento appronta una serie di garanzie x i lavoratori occupati nell'attività decentrata, proprio in ragione dell'esistenza dei rapporti contrattuali fra il proprio datore e l'impresa committente. Così come predispone una disciplina speciale x l'ipotesi in cui il decentramento si attui nella forma (tradizionale) del lavoro a domicilio.


I datori di lavoro non imprenditori.

Come si è detto una prima grande distinzione passa fra datori di lavoro che svolgono un'attività imprenditoriale e datori che non esercitano un'impresa. La distinzione ha fondamento nel diritto positivo negli art 2238, 2239, 2240 cod civ e 98 e disposizioni di attuazione attuazione del codice civile. Secondo l'art 2238 (che riguarda il lavoro autonomo) nel caso in cui l'esercente la professione intellettuale impieghi sostituti o oausiliari, si applicano le disposizioni delle sezioni II, III e IV del Capo I del titolo II del libro V del codice civile. Le medesime norme sono applicabili ai rapporti di lavoro subordinato che (più in generale) non sono inerenti all'esercizio di un'impresa, in quanto compatibili con la specialità del rapporto. Quanto al rapporto di lavoro domestico, infine, l'art 2240 cod civ ne dispone la regolamentazione attraverso le norme del capo relativo e, in quanto più favorevoli al prestatore, dalla convenzione o dagli usi (gli istituti regolati in modo differenziale dagli art 2241-46 sono il periodo di prova, il vitto e l'alloggio, i riposi, il recesso e le indennità di dine rapporto). La disciplina codicistica quindi individua una categoria generale di datori di lavoro definita per quello che non è (datori non imprenditori) ed, in quest'ultimo ambito, due categorie specifiche: il titolare di rapporti di lavoro e il professionista intellettuale. La nomenclatura legislativa è tale da farci ritenere che l'art 2239 intenda riferirsi a qualunque soggetto che provuri ad altri un'occasione di lavoro (ovviamente in regime di subordinazione), ivi compreso, al limite, chi svolga lavori in economia assumendo temporaneamente del personale dipendente. La fattispecie è in sostanza caratterizzata a contrario dalla circostanza che il datore di lavoro non sia titolare di un'attività economica organizzata con lo scopo di trerne profitto. È proprio la scriminante dello scopo di lucro che richiama una delle più importanti categorie di datori non imprenditori: le c.d organizzazioni di tendenza. Si tratta dei "datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto". Una ulteriore definizione è quella che accomuna alle organizzazioni di tendenza (pur essendo in sé imprenditoriali) i giornali quotidiani e i perodici che risultino, attraverso esplicita menzione, riportata in testata, organi di partiti, di sindacati o di enti o comunità religiose. È evidente che la questione più controversa ruoti intorno alla effettiva natura (non) imprenditoriale dell'attività espletata. Allo scopo l'indagine deve essere rivolta a verificare l'esistenza di una finalità di profitto. È chiaro che la questione della natura del datore di lavoro, al fine dell'individuazione della disciplina applicabile al rapporto con le organizzazioni di tendenza, non va confusa con la diversa questione della natura del raporto in sé e x sé. Dato il carattere ideologico dell'organizzazione ben può accadere (e di fatto accade spesso) che il singolo svolga un'attività non in attuazione di un rapporto obbligatorio di lavoro subordinato, ma volontariamente in adesione all'ideologia dell'organizzazione (si pensi al militante del partito politico o del sindacato o al religioso che presti la propria opera all'interno dell'istituto, in adempimento dei voti). In tali situazioni-va da sé -non si pone alcun problema di di disciplina applicabile, esulando esse dallo schema del lavoro subordinato. Venendo alle norme applicabili ai raporti in questione si è già detto che gli art 2238 e 2239 cod civ contemo la Sezione I del Capo I che, x quel che più conta, contiene l'art 2087 cod civ, che regola il tema dell'obbligo di sicurezza negli ambienti di lavoro. L'art 98 delle disposizioni di attuazione del codice civile completa poi la griglia delle norme estensibili al rapporto di impiego al di fuori dell'impresa disponendo che, in mancanza di norme più favorevoli previste dalla contrattazione collettiva o dagli usi, trovano applicazione le disposizioni in materia di trattamento x infortunio, malattia, gravidanza o puerperio, durata delle ferie e indennità di fine rapporto. È ovvio che tali disposizioni si applicheranno oggi nella misura in cui sono ancora vigenti. Più in generale bisogna ancora ricordare che leggi speciali prevedono di volta in volta regimi differenziali di trattamento x i datori di lavoro non imprenditori. Fra questi fin d'ora è sufficiente ricordare l' inestensibilità dello statuto dei lavoratori a chi non eserciti un'attività di impresa, alla stregua dell'art 35 dello statuto dei lavoratori, nonché il trattamento di particolare favore ricevuto dalle organizzazioni di tendenza in relazione alla materia dei licenziamenti.


La dimensione dell'impresa nel diritto del lavoro.

Oltre alla natura e qualità del soggetto-datore, nel diritto del lavoro hanno rilievo altresì profili quantitativi dell'impresa. La legislazione speciale lavoristica infatti costruisce regimi giuridici differenziati a seconda della dimensione aziendale. Simmetricamente non può peraltro assumersi che i tratti giuridici che caratterizzano la nozione di piccola impresa presentino diversità sostanziali rispetto a quelli che caratterizzano la nozione di grande (o non piccola) impresa. Certamente non può ritenersi che la prima si caratterizzi per l'assenza del requisito dell'organizzazione, elemento viceversa caratterizzante la seconda. Più corretto è ritenere che l'organizzazione adempia a funzioni diverse nei due modelli di attività imprenditoriale; mentre nella grande impresa l'organizzazione dell'attività di altri è, in qlk misura, fine a se stessa, nella piccola appare funzionale all'attività dell'imprenditore, direttamente impegnato nel processo produttivo. Il parametro che il diritto di lavoro utilizza x delimitare la dimensione aziendale è quella del numero dei dipendenti. È chiaro infatti che si tratta di un parametro molto approssimativo. Nell'organizzazione economica contemporanea è noto che possono sussistere imprese che, a parità di personale occupato, hanno una ben diversa potenzialità economica. Non è un caso dunque che da tempo sia in discussione la necessità di modificare e differenziare i parametri di riferimento, utilizzando ad es. ulteriori dati esponenziali della capacità economica come il fatturato, l'entità degli investimenti, il valore aggiunto, ecc. Di rilievo è poi constatare che il dato numerico, nella legislazione speciale lavoristica, è a volte riferito all'intera ripresa ("gli imprenditori che occupino più di x dipendenti"), altre volte ad articolazioni minori dell'impresa: si pensi alla nozione di unità produttiva, di cui all'art 35 dello statuto dei lavoratori, che allude ad articolazioni territoriali dell'impresa, dotate di autonomia organizzativa ("stabilimenti, filiali, uffici o reparti autonomi"). Va da sé che quest'ultimo riferimento è maggiormente attento ai profili di effettività della disciplina, giacchè calibra la risposta dell'ordinamento al nucleo organizzativo concreto entro il quale viene espletata la prestazione lavorativa. Come esempi di disciplina differenziata in relazione alla dimensione dell'impresa è sufficiente ricordare i più macroscopici:la disciplina relativa all'obbligo di assunzione di soggetti appartenenti a categorie protette (invalidi e categorie equiparate), quella sui licenziamenti individuali, come quelle sui licenziamenti collettivi e la mobilità, la cassa integrazione, o, ancora, sulla tutela dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro. Anche la contrattazione collettiva, per il suo verso, propone fonti di regolamentazione diversificate in relazione alla dimensione ed alla qualità dell'impresa. Il che corrisponde altresì ad una differenziata articolazione delle rappresentanze sindacali (si pensi alla Confapi che rappresenta le piccole e medie imprese industriali e alle varie reappresentanze delle imprese artigiane, come CONFARTIGIANATO, ecc). La disparità di trattamento che così si ingenera fra i lavoratori a seconda che operino alle dipendenze di una grande o piccola impresa (e per converso il favor verso quest'ultima) è sempre stata giustificata avendo riguardo anzitutto alla direttiva di contenere i costi x le imprese minori. In particolare la disparità rispetto alla tutela contro i licenziamenti è stata inoltre giustificata con riferimento alla maggiore e più spiccata fiduciarietà del rapporto. Una particolare attenzione legislativa ha sempre ricevuto l'impresa artigiana, sulla base della direttiva costituzionale di tutela e sviluppo dell'artigianato. Allo scopo di delimitarne la nozione, x consentire l'applicazione delle agevolazioni e degli sgravi previdenziali (una più favorevole aliquota x il amento dei contributi previdenziali) il legislatore post-costituzionale è intervenuto dapprima con la legge 860 del 1956 e successivamente con la legge 8agosto 1985, n 443 (legge quadro x l'artigianato). La legge definisce come imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità e tutti gli oneri inerenti alla sua gestione e svolgendo in maniera prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo. È inoltre definita dalla legge atigiana l'impresa che, esercitata dall'imprenditore artigiano nei limiti dimensionali previsti, abbia come scopo prevalente lo svolgimento di un'attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazione di servizi. I limiti dimensionali sono diversificati a seconda della circostanza che l'impresa lavori o non lavori in serie (nel primo caso è previsto un numero massimo di 9dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 5, nel secondo, un numero massimo di 18, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 9) ovvero in relazione al settore produttivo (lavorazioni artistiche, trasporto, costruzioni edili, ecc). Per poter usufruire delle agevolazioni previste dalla legge l'impresa deve essere necessariamente iscritta all'albo provinciale delle imprese artigiane; l'iscrizione ha esplicitamente natura costitutiva.







Privacy

© ePerTutti.com : tutti i diritti riservati
:::::
Condizioni Generali - Invia - Contatta