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SINISGALLI E LA CRITICA

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SINISGALLI E LA CRITICA

Il 31 gennaio ricorrono i vent'anni dalla ssa di Leonardo Sinisgalli, poeta lucano abbastanza centrale nel Novecento italiano, eppure, come spesso accade, assai poco ricordato dopo la morte. Chi non lo ha mai dimenticato è un altro lucano, Giuseppe Appella, che gli ha dedicato numerosi titoli postumi nelle sue Edizioni della Cometa. Per celebrare l'anniversario, Appella dà ora alle stampe Infinitesimi, la raccolta cui Sinisgalli stava lavorando al momento della ssa. Un libro denso (oltre duecento liriche), dove fa piacere ritrovare la voce essenziale del poeta, il suo procedere per immagini rapide, scattanti, mai sentenziose. È l' occasione per ripercorrere alcuni temi tipici di Sinisgalli, a partire dal furore per la matematica. Senza eccessi, tuttavia, perché nel tardo Sinisgalli ogni passione sembra diminuita dalla sensazione della morte. Una presenza incombente, soprattutto dopo la ssa della moglie, avvenuta nel 1978. La sua mancanza i spira alcune delle poesie più toccanti: 'Non fa che piovere / dopo che sei morta. / Siamo già a febbraio / il cielo è sempre triste / ci sono pochi rami fioriti / sparsi qua e là'; 'Non c' è niente / che ti convinca a tornare'. Il poeta non sa rasseg narsi alla nuova condizione di vedovo: 'Ho ripetuto il tuo nome / tra me e me / tutta la giornata / Vado a leggere le tue lettere / sparse per la casa'. E questo continuo ripensare alla morte della moglie porta a immaginare la propria: un presagio che occupa ampia parte del libro, soprattutto nella sezione intitolata Più vicino ai morti: 'Fai di tutto per attrarmi, / nemica mortale'; 'Passa la voglia di vivere, / viene la voglia di dormire'. Eppure, Infinitesimi non è un libro cupo. In nanzitutto perché questa sensazione di sofferenza non diviene mai affliggente, come suggerisce Giuseppe Tedeschi, al quale si deve il non facile riordino di questi versi. Inoltre, il dolore viene costantemente superato proprio attraverso la poesia. S inisgalli è lettore onnivoro e curioso: rilegge Rimbaud, riflette su Pound, su Apollinaire, ripensa a Cardarelli. E poi c' è la poesia scritta, naturalmente. Quella che sola sa generare immagini liberatorie: 'Sulla mia testa / il bambino galoppa / a cavallo di una scopa'. È il 21 gennaio 1981: dieci giorni più tardi, Sinisgalli muore.



BRANDELLI DI VITA

I frammenti qui proposti sono tratti da prose di Sinisgalli, a cui si rimanda in nota. Arbitrariamente è stato dato un titoletto. Non c'è ordine. È tutto casuale, è una sorta di piccolo vocabolario autobiografico, non alfabetico e non autorizzato, dell'esistenza e delle passioni di Sinisgalli.

Il terrore delle valanghe

Siamo cresciuti attorno al fuoco fino ai nove o ai dieci anni nel terrore delle valanghe di creta che inghiottono case e alberi e lasciano un immenso vortice di fango che si chiude via via fino a ridursi a una pozzanghera, e poi a un buco che si riempie da sé

La dolce collina

Per qualche anno vissi bambino dietro una finestra separata dalla collina di fronte da un profondissimo baratro che raccoglieva nei giorni di pioggia le acque tumultuose del torrente. La dolce collina punteggiata di ciottoli, cosparsa di piccoli ulivi del colore di cenere, era solcata da una strada che soltanto a tratti veniva a sporgere sul precipizio

Angeli neri

Noi non avevamo l'aureola ma delle vere teste di turco e pidocchiose per giunta. Angeli eravamo senza dubbio, ma non di questa specie bionda, angeli neri e lucidi come i calabroni

Le vigne

In quelle nostre due strisce disposte a differente livello, un paio di metri spezzettati in gradini dentro una murgia, riuscivano a ricavare un tomolo di grano, un centinaio di litri d'olio, ceste di fichi, un cofano di cotogne, un paniere di noci. Non c'erano che poche viti sparse e qualche riquadro per le fave e le patate


Il prezzo della fuga

  Rimossa la mia inerzia infantile con l'accettazione di una sorte imprevedibile e un distacco che sarebbe divenuto ineluttabile, non ho più trovato l'energia per un ripensamento. Non mi sono potuto più fermare. Al ragazzo reveur, al sonnambulo, si sostituì progressivamente un personaggio volitivo, deciso, anche spietato. Mi feci riare dal mondo un po' per volta il prezzo sacrificato non alla mia, ma all'ambizione di mia madre e dei miei tutori spirituali


I professori delle scuole pubbliche di Caserta e di Benevento mi ammiravano e mi detestavano i miei successi erano accolti con disagio, perché creavano troppi problemi per la tranquilla convivenza con gli altri. Come succede in tutte le comunità gli sconfitti fanno lega e tentano con tutti i mezzi, ma soprattutto in ragione del numero, di umiliare il più forte. La memoria i riporta a tratti i malvagi tentativi di burle, di dispetti, di ricatti che imbastirono i miei nemici nel periodo più critico, dai tredici ai quindici anni, contro di me.

Scrivere

C'è l'aria leggera che mi sta intorno nel mio Camerone dove cominciai a scrivere e scarabocchiare verso il 1922 quando c'era appesa la camomilla alle travi e c'erano mucchi di castagne per terra

SINISGALLI E QUASIMODO ( Clelia Martignoni)

La grande mostra Quasimodo, che si inaugura mercoledì a Milano a Palazzo Reale, rappresenta un' ottima occasione per una riflessione finalmente unitaria sul poeta. La mostra raccoglie infatti, oltre a un ricco percorso artistico (con opere di Morandi, Sironi, Guttuso, Manzù, Cantatore, etc.), una sezione biografico-letteraria con imponenti testimonianze autografe del lavoro di Quasimodo, ricostruito nelle sue articolazioni interne e nel suo sviluppo cronologico. Gli autografi provengono dal Fondo Salvatore Quasimodo del Centro Manoscritti dell' Università di Pavia, acquisito per una recente donazione della Cariplo, del Gruppo L' Espresso e della Regione Lombardia. Di questi materiali la mostra offre ora una vasta rassegna, completata da libri, documenti, immagini. Certo il loro esame si rivelerà molto produttivo per gli studi su Quasimodo, poiché ne riguarda tutti gli aspetti (con particolare ricchezza dopo l' arrivo a Milano nel 1934), dalla formazione vivace e ibrida in Sicilia (dove Quasimodo nacque nel 1901) all' esperienza ermetica, al rinnovamento civile-resistenziale, alle ultime raccolte meditative più asciutte e desolate. Notevolissime, si sa, le traduzioni, di straordinaria varietà (dato questo che colpisce), e che non solo sono eccellenti per l' intrinseca qualità, ma hanno spesso comportato fecondi ritorni sul personale lavoro creativo di Quasimodo, in una movimentata partita di dare e avere. Penso all' esemplare incontro con i Lirici greci (1940), in sintonia con la poetica della 'poesia pura' e del 'frammento', ma anche, valicato il ristretto ermetismo, all' allargamento pluristilistico, comunicativo e drammatico, indotto dalle traduzioni dell' epica omerica, del Virgilio georgico, del teatro (antico e moderno), degli epigrammisti palatini, della poesia civile, magnanima ed enfaticamente sostenuta di Pablo Neruda, di altri vari e disparati moderni. Ma si rinvia per tutto ciò sia alla mostra sia al relativo catalogo (ed. Mazzotta). Il documento che qui si riproduce ci trasporta nel cuore della stagione ermetica, elaborata nella piccola capitale Firenze dove la raffinata rivista Solaria pubblicò nel 1930 il libro d' esordio di Quasimodo, dal bellissimo e 'primordiale' titolo Acque e terre, già mitizzante. Nel decennio che segue Quasimodo, con le raccolte successive (Oboe sommerso, Erato e Apòllion), ha una grande responsabilità nella fondazione del linguaggio ermetico (che tante polemiche avrebbe poi suscitato per la sua 'separatezza'), e in particolare nell' individuazione di certi tratti indeterminati, allusivi, analogici, frammentari, e della altrettanto rarefatta e anti- realistica mappa dei contenuti. La giovane 'scuola', naturalmente provvista di varietà e distinzioni interne, costituiva un forte sodalizio. La guida critica è fornita soprattutto da Carlo Bo (è del 1938 l' intenso saggio Letteratura come vita), con il vivace contributo dell' ispanista Oreste Macrì. Le maggiori presenze poetiche sono quelle dei toscani Luzi, Bigongiari, Parronchi, del salernitano Gatto, del più defilato e anziano Betocchi, e di altri comni di strada come Sinisgalli e De Libero. L' esperienza è unitaria soprattutto in quel decennio; quindi ognuno cerca laboriosamente la propria strada, spesso impegnandosi in forti cambiamenti di rotta e rinnovamenti. L' inedito qui proposto (che si troverà anche in mostra) è un appunto autografo senza data, ma steso nel 1936 o poco oltre, in cui Quasimodo, molto consapevole del suo ruolo egemone, annota con non innocente puntiglio una serie di riprese e recuperi di sue immagini (dalla raccolta Erato e Apòllion del 1936) nei testi del più giovane Leonardo Sinisgalli, lucano, che nello stesso anno stampò per Scheiwiller le 18 Poesie. La tavola dei debiti (puntualissima, con tanto di rinvio alle ine, e che coinvolge anche un riscontro di Leopardi non riprodotto) è piuttosto convincente. E' significativo ad esempio il recupero in Sinisgalli di un tema-chiave quasimodiano, l' 'esilio'; o la corrispondenza di un' altra immagine tipica, la 'pace d' acque'; o l' affinità tra 'tempo d' api' (Quasimodo) e 'tempo delle vespe d' oro' (Sinisgalli); eccetera. Ma non può emergere di qui una valutazione riduttiva di Sinisgalli, allora pressoché esordiente, però già dotato di grandi qualità e di una sua precisa autonomia. Del resto Sinisgalli non avrebbe tardato a rivelare la sua personalissima misura, all' incrocio - lui ingegnere e matematico - tra arte ed esattezza scientifica, e sempre più incline in seguito a coltivare fantasie poetiche ironico-amare e una limpida vena epigrammatica. Certo, nel 1936 non poteva non avere assimilato profondamente la lezione di Quasimodo, e, oltre a Quasimodo, l' insegnamento di ciò che era più in generale nell' aria, cioè l' intero e coeso linguaggio immaginoso, astratto, ellittico, vigente nella 'scuola' e dintorni, dunque ricco di altre interferenze e di scambi. Meglio ne emerge, insomma, al di là delle intenzioni di Quasimodo, che peraltro con Sinisgalli era in cordialissimi rapporti (una fotografia esposta alla mostra, e circa coeva, ce li fa vedere in una amichevole gita in barca nella Riviera Ligure), ciò che resta il dato criticamente più interessante: la solidarietà stilistica e immaginativa di quell' esperienza, l' aria di famiglia comune, al di là dei tratti singoli. Una curiosità. Sul fondo della carta è appuntato di corsa, con scrittura più affrettata, un indirizzo: quello perugino di Gianfranco Contini, che infatti dopo gli studi universitari a Pavia e il perfezionamento a Parigi, insegnò per qualche anno, tra ' 34 e ' 38, italiano e latino in un liceo di Perugia. E' ben noto che Contini fu parecchio vicino all' ermetismo fiorentino (infatti rappresentato con larghezza e consenso nella sua sempre preziosa antologia Letteratura dell' Italia unita del 1968). Dunque il riferimento qui al suo nome non è affatto esterno né casuale.

"VIDI LE MUSE"

Esiste soluzione di continuità tra la poesia antecedente all'ermetismo e l'ermetismo? Qualche ricordo, alla buona: della poesia di D'Annunzio furono gloriosamente salvi lo studio accanito della forma, l'esemplare e costante premura d'osservazione. I crepuscolari ne subirono, a loro fisiche spese, l'impetuosità del contenuto. Gozzano lasciava i libri di Nietzsche per aiutare le disperate cetonie capovolte: doveva egli aver ben letto e sofferto Nietzsche se sapeva tradirlo così opportunamente (gli elementi in contrasto su un piano di convinzioni sono sempre uno all'altro complementari: Gozzano aveva nel sangue il 'metodo' poetico del Poema paradisiaco e delle Elegie romane) A fianco, i 'vociani', tanto distanti tra loro da formare un tutto di incertezze positive: crepuscolare Palazzeschi, pieno di tutto e ribelle alle sue condanne Papini, impressionista Soffici, ecc. Pascoli era nell'orecchio di tutti. Il suo tono, meno inquinato dalle barderie del costume, lasciava pure una traccia. Da Pascoli a Boine è breve il cammino. Ci vedo in mezzo Mario Novaro, un altro responsabile che è impossibile dimenticare, che cantava: È l'alba ­ incantata ­ apparizione del mondo! ­ oh che a Dio nei cieli, ­ freccia d'oro, ­ io mandi un saluto Sfrondata la sua poesia da un intimo bagaglio di impressioni goethiane e naturalistiche, dagli echi pascoliani e talvolta carducciani, egli ha un posto ben evidente nel susseguirsi delle nuove scoperte poetiche, Boine gli si accosta, con un caratteristico frasario (un rosario) dolorante, un'incuria del verso, una particolare cura del nascosto ritmo: l'impressionismo italiano ha qui una voce ben distesa, lo conferma il frammentismo di Boine, quello di Sbarbaro. L'endecasillabo con i liguri, i toscani, con i futuristi, s'era già rotto: le estreme illazioni ne furono tratte da Ungaretti.

Comincia qui la particolar avventura degli 'ermetici'. È assai interessante seguirne il respiro. (Ne estraggo subito Montale. Entrato nella storia letteraria con una incrollabile fede musicale ­ rotta e sussultoria, ma sempre intonata ­ il ligure è l'unico dei contemporanei che abbia soverchiato la sua esperienza sulle lezioni degli antecessori. L'occasione poetica, a tratti simile all'ispirazione crepuscolare, si personalizza nei risultati finali: vedi il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case, la farfalla entrata nella stanza. Certe sue prove dannunziane ­ anche qui il contrasto è evidentissimo: staticità per conclusione ragionata di fronte a dinamicità per partito preso, sospirata divina indifferenza di fronte a perpetuo bollore ­ non durano mai più d'un verso, si perdono nell'inondante sua aria. Montale ha usato la sua tecnica per ricchezza spontanea e ne ha regalato un po' a tutti. Del resto, oggi, in tanti poeti, laureati e novizi, il calcar le impronte di Montale mi par più improntitudine che obbedienza a giusti dettami. Ungaretti dunque, partito da certe sue esclamazioni a mo' di poesia, attrasse le voglie ricostruttive dell'endecasillabo così provato ­ o della musicalità in tono classico: notevole quindi ogni sua dichiarazione d'attaccamento al leopardi. Toltagli però quella ben nota lucidità francese, il suo lavoro di riallacciamento invece di raggiungere al primo salto la sponda leopardiana, rivelò a fior d'acqua lo scoglio di quel primo impressionismo che nulla aveva di rivoluzionario, almeno nei programmi. Si pensi che gli ultimi appunti di Boine, pubblicati postumi sulla 'Riviera Ligure', erano stati affiancati dal destino iminatore alle prime liriche quasi monostrofiche di Ungaretti Il ritorno alla storia dell'uomo, alla felice ('allegra') scoperta delle proprie inquietudini, non ci pare ormai extra ordinario: pure, Ungaretti uomo di pena, il cui sentimento appena bastava per un bozzetto lirico (il poco bene che mi nasce ­ così piano mi nasce da cui non si può trarre gran dissetamento, se non l'esame del 'come' gli nasce), attento solo alla sua schiavitù di parole, avaro persino con la propria espressione, formò realmente il clima di una nuova poetica i cui termini fissi erano sì, l'illuminazione favolosa, il mito, la divinazione metafisica, ma i cui risultati però imponevano una secchezza di umanità a stento sufficiente al poeta per scoprirsi in epigrammatiche conclusioni là dove un altro poeta più libero, più abituato alla verità, più confidente sarebbe corso via senza scandali né allarmi. Da queste spinte non nacque mai quell'ermetismo maudit che sarebbe stato facile immaginare pensando ai casi di Rimbaud, ma se ne supplì un altro, piuttosto dolente agli inizi e attratto da un lene senso diaristico dell'impegno creativo del poeta, vicino a piccoli spunti iniziali, a riferimenti naturali, a private avventure; non mai giudizio o entusiasmo e neppure serenità o idillio (charme) lo contenevano, ma uno sconsolato senso di solitudine, di labilità, di dubbio sistematico: la formula dell'analogia, l'elisione del 'come', la trasposizione dei valori e le proposizioni, il contatto insomma tra ciò che più è distante servivano alla sua poetica: la lontananza tra le creature, l'impossibilità di movimento (ed io son gerbido; oppure ed il cuore diventa, o forse è già, la pietra; come gli ossi di seppia svanire poco a poco; è folle e usata l'anima) ne accentuavano l'eccentricità.

Viene posta oggi alla luce delle librerie la poesia di Leonardo Sinisgalli, presentata da una chiara introduzione di Gianfranco Contini, meravigliosamente acuto come non mai, poesia nata in un decennio poco più, con inizi contemporanei a quelle del Sentimento del tempo, di Oboe sommerso. Porremo per questo Sinisgalli come una risultante dell'addizione Ungaretti più Quasimodo più il tono surrealista, che allora aveva profumo nuovo? Le differenze sono innanzi tutto metriche, in parlar povero; che qui l'endecasillabo è una rara scoperta, né la parola irradia musica Più dimesso e di facile accontentatura. Sinisgalli iniziò il suo cammino poetico con un attaccamento alla natura solito ormai alla poesia dei contemporanei, ove pensassimo ad un esilio giovanile, una nostalgia di terra e tardo commemorare una rozza felicità di sangue in pena, sensuale traccia d'una giovinezza perduta di cui si ricerca il filo istintivo: 'tra noi è il tanfo della terra ­ e il triste sangue fa ressa col sereno', 'il lamento del sangue', 'l'ombra del mio triste sangue', 'la sera sulle selci calda è come sangue', 'l'ombra del sangue fa oscura siepe alla nostra estate sulla terra'. Il sangue è testimonio avvertitore di percezioni, motore poi di sensazioni, misura preferita in servizio di sineddoche. Di questa fatta, dunque, i segni del primo Sinisgalli: la concreta persona assorbiva i miracoli occasionali della poesia, risolvendoli e dandosene ragione, mischiando ai valori descrittivi la coscienza di sé: 'la tua voce ci cresce nelle ossa', 'l'alba preme sul petto', 'dai nostri corpi nasce il giorno', 'la rondine ti garriva tra le vesti', 'tu muovevi la polvere dietro le spalle', 'alle spalle muovevi il prato', 'la sera incendia le fronti, infuria i capelli', 'fa radice la sera e il suo acre sentore mi risale sul dorso', in cui i capelli, le ossa, le spalle, il dorso erano elementi d'un simbolo oggettivo pari al destino del tempo ridotto in momenti entusiasmanti, sera, alba, giorno che nasce; per giungere ad un culmine: 'la luce ha la sua statura ­ e regge il gesto', 'il giorno prende in terra ­ misura del tuo passo' in cui è più evidente una parentela tra la storia dell'uomo e la storia del tempo. Ricordiamo il Sentimento del tempo di Ungaretti: la lontananza aperta alla misura Anche in Sinisgalli dunque un sentimento (un sentore) del tempo misurò il movimento dell'uomo: in ogni sua poesia il tempo è stato colto nei suoi momenti di transizione, alba, tramonto, corsa notturna della luna, quando cioè la luce, mutando, trasforma (rinnova) uomini e natura. In Ungaretti era (con ben altra nobiltà di tono) l'invito ad una conclusione morale, e vi si sentiva la faticosa responsabilità: 't'affretta, o tempo, a pormi sulle labbra ­ le tue labbra ultime'. Ciò in Sinisgalli resta soltanto come scoperta della momentaneità, un rifiuto ad esser deciso con i propri sentimenti: 'sgocciola il giorno ­ dalle cime dei tetti', 'chiamavi l'ultima luce ­ all'inganno della fonte', 'l'aurora è appena uscita dai forni' Colore: che par qui la maggior preoccupazione di Sinisgalli. A tratti nasce poi una rottura, un colpo violento, ed è il primo passo verso una maggior maturazione: 'infanzia gridata dagli uccelli', 'la luce era gridata a perdifiato', 'i fanciulli gridano a squarciagola'.

Dalle prime poesie, stese su una discorsività assai semplice; con punteggiatura comunissima di punti e rare virgole; con aggettivazione sostantivata ('ansia di foglie', 'insidia delle cisterne', 'insidia delle serpi'); con metrica assolutamente libera, in cui l'incontro dell'endecasillabo e dei suoi derivati è casuale, quasi gratuito, Sinisgalli passò ad un gioco più accessibile di stesure, obbedendo a certi richiami autobiografici in cui veniva dolce la rima al mezzo, capitavan buone altre facili rime a fondo verso, nasceva cordialmente una cadenza di canzone: 'Fresca è la ghiaia: sui passi ­ tuoi la ruota non la spezza. ­ Perduta alle spalle la fanciullezza ­ si fa più lontana, ombra ­ cieca nella polvere' (notiamo qui una coincidenza: 'In un pulviscolo, indietro ­ cavo mi volgo! ­ Mi abbandona irraggiunto': è di Laurano). Ecco le illuminazioni sulla propria sorte di uomo: 'Ora e sempre più viva ­ sarà la smania di far notte in me solo ­ e cercar scampo e riposo ­ nella mia storia più remota', 'la mia vita è questo esilio ­ che chiama le dolci erbe', 'mi ritorna la triste ­ vocazione ad esistere, ­ la brama di cercarmi in ogni luogo'. (Simile ricerca potremmo trovare, negli stessi anni in Quasimodo).

Da certe aperture poetiche ('Il cielo è una roccia aperta e l'occhio ­ un'ape chiara') che sarebbero bastate a dargli un tono esclusivo, Sinisgalli trasse ancora l'impressione delle sue immagini più ostinate e precise: 'Sera stremata in rive morte', 'l'alba indugia a sollevarsi ­ come una vela fresca sul mio corpo' e, più bella ancora: 'siamo in fondo alla valle ­ come in fondo ad un lago'. Pure, la facilità dell'ispirazione rendeva molto larga e quasi ambigua l'accettazione dei simboli poetici: 'Naturalmente ogni cosa, anche un sasso ­ una rosa potrà bastare al mio cuore'. Sinisgalli ò quindi il suo tributo alle occasioni montaliane annotando con l'ordine e i propri ricordi: 'la cagna ­ bianca sulla cenere dei forni, le bugie ­ sotto le ascelle, gli anni belli sulla nuca, ­ il lezzo delle fave calpestate dai cavalli'; a tutto Montale: 'Un baleno verde che s'apre a uno schiocco di frusta', 'il tuo piede legato ­ alla staffa del cavallo fulminato', 'bello e fiero tu eri e dritto come le penne ­ dello sparviero fucilato' (simili a 'così suona talvolta ­ nel silenzio ­ della camna un colpo di fucile' all''infanzia dilaniata dagli spari': la chiusa della poesia nello schiocco, nello sparo, nel colpo inaspettato e violento è di effetto sicuro!), 'mia madre su quest'aia ­ ha battuto la mazza' ('al mio paese a quest'ora ­ si sentono fischiare le lepri'). Dirò che il gusto di invocare un personaggio, com'è di Montale, è il lato che più s'offre a Sinisgalli per tentare una maggiore distensione, quasi di trama: legga il lettore 'Strepita la campana al capolinea' (occorrerà aggiungere che la poesia di Sinisgalli ha da essere detta a bassa voce, lentamente? Già è superato il minimum ungarettiano, poesia da legger senza voce, secondo gli esperimenti di De Robertis): 'eccoti sola, e la piazza ti sperde ­ al bivio, e tu non sai più vivere, non sai dimenticare', 'stravolta tu cammini, io ti chiamo'.

Abolito insomma il cerchio privato, la poesia segue una sua legge di libertà che le sproporzioni surreali non penseranno ad ostacolare. Sinisgalli non perderà nulla di sé, insomma, rivedendo con maggior vigore quelle muse che tanto cautamente lo hanno sino ad oggi meravigliato.

"AL SERVIZIO DI DUE MUSE"( Silvio Ramt)

Leonardo Sinisgalli moriva, settantatreenne, il 31 gennaio del 1981. Da allora, un velo di disattenzione è colpevolmente calato sulla sua opera, che 'Poesia' oggi ricorda, invece, nella straordinaria originalità che la caratterizza tanto nei registri del verso che in quelli della prosa. Di professione ingegnere, Sinisgalli ha còlto e celebrato l'avventurosa poeticità della scienza, fin dal giovanile Quaderno di geometria, svolgendo con pari calore un'esperienza di poesia, che privilegia e accerta la fisicità elementare della parola, del costrutto (donde, in qualche critico, l'impressione forse fallace, di un'appartenenza di Sinisgalli alla linea essenzialistica ungarettiana)

L'antologia che abbiamo approntata (l'articolo introduce, oltre ad altri contributi, una silloge di poesie, ndc) a vent'anni dalla ssa dello scrittore non può render conto appieno della genialità della sua dedizione alle due Muse congiunte. Calliope e la Matematica. Ma b asti ad accreditarla questa citazione: 'La natura entra placidamente nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formula dell'acqua e del sale. Dio è laconico'. E, a specchio, potremmo leggere questo frammento, molto più tardo, che riconduce 1'autobiografia all'immortale Matematica: 'Siamo qui per dividerci / un'eredità di stenti. / Non spezziamo quello che intero. / Diventa zero'.

In attesa che un grande editore si prenda il compito di pubblicare, col doveroso corredo filologico, l'opera omnia di un grande poeta (e prosatore), il suggerimento ai volonterosi è di cercare ­ tutte già edite presso Mondadori ­ almeno le Poeie di ieri, 1966, rielaborato regesto dei versi dal '31 al '42, in cui Vidi le Muse assume il giusto risalto. E L'età della luna, raccolta di liriche e prose riflessivo-aforistiche (1962): senza trascurare i racconti-ricordi di Un disegno di Sczpione dove anche ha spazio il mondo dei pittori, lungamente praticato da Sinisgalli. Infine, fra i titoli dell'ultimo periodo, Mosche in bottiglia, sempre del '75, con insorgenze del pathos della 'terza età' ­ fatalmente al centro dei successivi Il passero e il lebbroso e Dimenticatoio ­ che realizza, con materiali minimi, una serie di asciutti capolavori, come 'L'albero secco: 'È tornato il cardellino / a cantare su1le nostre teste. Abbiamo detto ai guardiani / di riporre le scuri, / ci teniamo lo scheletro'.

"LE MUSE DI SINISGALLI" (Giuseppe Pontiggia)

A Sinisgalli le Muse apparvero per la prima volta su una collina, 'appollaiate tra le foglie', intente a 'mangiare ghiande e coccole': 'Vidi le Muse su una quercia / secolare che gracchiavano. / Meravigliato il mio cuore / chiesi al mio cuore meravigliato / io dissi al mio cuore la meraviglia'.

Lo sviluppo della sua poesia è già contenuto in questo incontro: dalla posizione di rilievo, arcaica e insieme modernamente visionaria, di quel passato remoto in prima persona ('Vidi') all'essere e al divenire fusi nella 'quercia / secolare', dalla meraviglia che gli antichi ponevano all'origine della conoscenza e che qui viene trasferita ai moti del cuore (alla mente matematica sarà riservato il 'furor': 'il giuoco intellettuale mi inebria', dirà in una intervista a Camon) alla metamorfosi grottesca, quasi sarcastica, delle Muse che 'appollaiate gracchiavano': una presenza che ristabilisce, ma per deformarli ed esorcizzarli, sottili e complessi legami con l'antichità. L'etimologia di Musa ci riporta infatti a 'mons', alle solitudini montane della Grecia e al sentimento di smarrimento e di paura che esse suscitavano nel viaggiatore. L'incontro con le ninfe dei monti fu sempre sentito come un rischio, giacché esse potevano dare la luce della poesia, ma togliere quella del sole, come accadde a Demodoco (0dissea, VIII, 63 sg.); oppure potevano essere menzognere, come confessarono a Esiodo sulle falde dell'Elicona (Teogonia, 22 sg.). Le Muse di Sinisgalli sono state invece svuotate di pericolosità, non sono più divinità, ma simulacri, proiezioni che rivelano la loro natura di doppio; esse invecchiano perciò con il poeta, che, circa trent'anni dopo, in Commiato, scriverà: 'O musa, vecchia musa decrepita, il poeta è ogni anno più cieco, il tuo riso è una smorfia Calliope nel losco mattino. Su una striscia di sole il gattino va a caccia di mosche. Anche il poeta reumatico stenta a cogliere a volo un pensiero, sempre meno matematico, sull'essenza dello Zero'.

Sono rimaste la dimensione grottesca ('decrepita', 'reumatico'), la visività della poesia (evocata dal suo contrario, il poeta che è sempre più cieco), ma il tono si è fatto più grave e le immagini domestiche e familiari care a Sinisgalli, gli improvvisi primi piani che ingigantiscono un particolare, qui appaiono percorsi da una crudeltà ironica (il gatto e le mosche), anche se attenuata e resa sommessa dalla striscia di sole e dal diminutivo dell'animale: mentre fa la sua tardiva apparizione nella poesia, in presenza di Calliope, l'altra Musa di Sinisgalli, la Matematica: ma solo ora che il pensiero sembra eluderla e superarla con una meditazione, sempre più torpida e passiva eppure sensibile e desta, sull'essenza dello Zero.

Nella letteratura del nostro Novecento le due Muse di Sinisgalli furono una presenza inquietante e perciò, non poche volte, elusa: stupiva che potessero convivere e coabitare e che non solo lo scrittore ascoltasse le voci di entrambe, ma pensasse talora di fonderle in un unico suono. Né la cosa ha finito di disorientare, abituati come siamo a separare idealisticamente (e sempre in nome dell'unità dello spirito) i campi in cui spazia l'energia mentale e le discipline che si sogliono definire con un nome. Eppure uno dei titoli della grandezza di Sinisgalli è proprio di avere percepito con una intuizione radicale e perseguito con una eccezionale libertà di movimento in tempi politicamente e culturalmente sfavorevoli, Quaderno di geometria è del 1935, l'unità più profonda che è sottesa alle diverse aree di ricerca. Questo spiega anche il suo interesse per Leonardo, per i suoi trionfi e i suoi scacchi. E se un altro poeta del Novecento, Valéry, aveva tentato, nella Introduction à la métòde de Léonard de Vinci, di imprigionarne la sregolatezza in un metodo, Sinisgalli scoprì invece che 'egli ci diede i primi suggerimenti per comporre una fisiologia del poeta, capì innanzi tutto la fulmineità dell'atto creativo. Troppi eventi nella natura e nell'intelletto accadono in un istante: sono cariche e scariche di energia enorme, di energia animale e cosmica, che distruggono la cosa per creare l'immagine'.

L'intervento tardivo della coscienza potrebbe in questi casi essere catastrofico: 'soltanto l'intelligenza del corpo può abolire anche il minimo ritardo di registrazione di tutta l'immensa vita dell'universo in sussulto'.

Perciò Leonardo 'non poteva lasciarci altro che una fisica (una fisica perfino della pittura, come i poeti, i grandi poeti, non ci lasciano che una grammatica (una fisica delle parole)'.

Poetica di Leonardo si intitola il modulo di Furor matematicus (1944) da cui sono tratti questi passi: e già il titolo da un lato suggerisce la mobilità fantastica che precede l'intuizione scientifica, dall'altro collega al suo retroterra la novità della prosa leonardesca, enigma di straordinaria concentrazione allusiva.

A questa chiave di lettura, unica pur nella duplicità apparente, converrà attenersi per penetrare nel mondo di Sinisgalli stesso e, sul versante della sua attività 'matematica', verificare la 'poetica' che la precedeva ('La non-poesia è il territorio segreto della Poesia. La geometria s'ingrandì con la croce di sectiunesio, positiva e negativa. L'algebra toccò il cielo con gl'immaginari. Trovò una scrittura per le forze, oltre che per le forme, scoprì la metrica dell'invisibile'); sarà così possibile ripercorrere anche il senso delle sue scelte: a cominciare dal 1926, quando si iscrisse alla facoltà di matematica dell'Università di Roma ('Posso dire di aver conosciuto giorni di estasi tra gli anni 15 e gli anni 20 della mia vita, per virtù delle matematiche') per arrivare alla crisi del 1929, quando rifiutò l'invito di Fermi a frequentare il suo istituto di Fisica: 'Potevo trovarmi nel gruppo dei ragazzi che hanno aperto l'era atomica, preferii seguire i pittori e i poeti e rinunciare allo studio dei neutroni lenti e della radioattività artificiale'.

Così se, in Quaderno di geometria del 1935, si occupa delle soluzioni impossibili di un'equazione, quali furono individuate da Diofanto alessandrino, è per metterle in rapporto con il germe dell'immaginario, se cita il principio di continuità della retta, quale fu postulato da Dedekind, uno dei 'legislatori dell'infinito', lo enuncia con una battuta di Apollinaire, tratta dalla sua commedia presurrealista Le mammelle di Tiresia, se in Furor matematicus illustra la chiave dell'universo trovata dal suo insegnante di matematica Fantappiè (il regno dell'invisibile è fatto di coni) illumina nel contempo un paragrafo del proprio Horror vacui ('il regno del visibile è fatto di coni'), facendo balenare una unità di invisibile e visibile che 'dovrà somigliare a quell'autoritratto di Jean cocteau contenuto nelle tavole della Maison de la Santé'.

Con lo stesso sincretismo, quando, in un contesto pratico, progetterà la pubblicità della Olivetti, allestirà a Milano, tra il '36 e il '40, vetrine che anticipano le tecniche della pop-art. E se dal '53 al '59 fonderà e dirigerà, per le Aziende della 'Finmeccanica', la rivista 'Civiltà delle macchine', considererà suo precedente il 'Politecnico' di Cattaneo, mentre il suo programma di spiegare le macchine agli ingegneri e ai poeti muoverà dal presupposto, come dirà nell'intervista a Camon del 1965, che 'c'è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario'. Questa simbiosi darà un significato unitario anche alla sua attività successiva, all'ENI di Mattei e come direttore di 'La botte e il violino', un bimestrale dedicato al design ('La fantasia deve trasformarsi in ferramenta. L'universo è in subbuglio; la spirale è la sua linea guida').

Destino curioso, ma esemplare, di Sinisgalli è di essere stato generalmente considerato un poeta che sconfina nella scienza e nella tecnologia e di non essere stato adeguatamente riconosciuto nella sua funzione eccezionale di precursore: eppure si tratta di non pochi anni di anticipo su orientamenti cui il tempo e la moda daranno l'autorità e l'invadenza, anche se non la qualità, del numero. Inoltre, oggi, strutturalisti e tecnologi tendono soprattutto a ridurre a scheletri la varietà dei corpi, alle cui sparse membra non sanno spesso restituire alcuna vita. Oppure, per converso, la sterminata quantità dei materiali forniti dall'analisi stimola le ipotesi più azzardate e gratuite, da cui c'è solo da aspettarsi l'elisione dell'una ad opera dell'altra. Mentre in Sinisgalli l'ampiezza circolare dell'orizzonte è direttamente proporzionale alla organicità della visione e alla mobilità del suo centro.

La stessa 'poetica' orienta la sua attività creativa sul versante letterario: nelle prose autobiografiche e narrative (da Fiori pari, fiori dispari del 1945 a Belliboschi del 1948), dove le distanze della memoria si fondono con le prospettive spaziali ('La bambina dall'altra parte della vasca era un piccolo punto bianco, reclina a buttare sassolini nell'acqua. La sagoma di un cigno bastava a nasconderla'); nelle ine geniali di quel Furor mathematicus che nella nostra cultura appare come un masso erratico di altre epoche, quasi un isferio rinascimentale in cui l'unità del sapere si realizza ancora una volta in ogni direzione, dai rapporti tra ottica e metafisica nei Greci alle 'macchine oniriche', dalla esperienza torricelliana del vuoto all''horrore' dell'abisso in Pascal (e creando una sorta di genere particolarissimo, che ricorda il gusto di Borges per la 'contaminatio' di mondi apparentemente remoti, ma, a differenza di Borges, conserva, al di là delle suggestioni fantastiche, il reticolo dei nessi nella loro legittimità); la stessa 'poetica', infine, è anche il centro, segreto e arduo, della sua poesia.

Già in una Lettera a Gianfranco Contini, scritta a Milano il 6 novembre 1941, Sinisgalli accennava a una coscienza vettoriale della poesia come energia, esprimibile mediante il binomio a - bj, dove a e b sono quantità reali e j è 'il famoso operatore immaginario', anfibio tra l'ente e il non ente, somma di un reale e di un immaginario, che 'ci darebbe un'idea di quella che è l'alterazione prodotta dal linguaggio sulla realtà', certo seguirlo su questa difficile linea di demarcazione tra i due versanti risulta, almeno per i non matematici, più un presagio che una esperienza della verità. Tuttavia in una Seconda lettera a Gianfranco Contini di alcuni anni più tardi questa coscienza fisico-matematica della poesia sembra diventare più accessibile al linguaggio della parola: ' nell'azione del poeta, per la nascita e lo sviluppo della poesia, entrano in giuoco delle cariche di energia incommensurabili, che vivono magari per attimi infinitesimali e si consumano in un soffio. Tuttavia non sono i fenomeni del mondo fisico che possono offrirci qualche analogia di questi transiti, ma proprio alcuni fenomeni biologici cosmici e nucleari'. E comunque l'essenziale non è tanto di verificare la convergenza dei linguaggi del numero e della parola, quanto di percepirne la correlazione e scoprire dietro a entrambi un'unica intuizione del reale: 'La natura entra placidamente nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. Entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell'acqua e del sale. Dio è laconico'.

Per questa via sarà forse più agevole cogliere il particolare peso specifico che la sua parola possiede già nei primi versi, il retroterra che contribuisce a differenziarla da quella pascoliana e crepuscolare e poi da quella di Ungaretti e Montale (con cui pure la critica maggiore, da Anceschi a Bo, da De Robertis a Contini, l'ha giustamente posta in un vitale e dialettico rapporto).

Tale retroterra è percepibile fin dalle 18 poesie del 1936 che, precedute dal consenso di Ungaretti e seguite da quello di un critico come De Robertis, valsero a Sinisgalli l'immediata collocazione nell'area più interessante e vitale dell'ermetismo, accanto a Betocchi, Gatto, Sereni, Luzi. Al di là però delle comuni ascendenze (al crocevia delle linee Pascoli-crepuscolari e Mallarmé-Valéry) e delle suggestioni esercitate dai contemporanei Ungaretti e Montale, 'l'antieloquenza' che fu subito riconosciuta come uno dei tratti distintivi dell'analogismo di Sinisgalli non era solo un correttivo di ogni enfasi retorica, ma affondava le sue radici in strati più profondi. L'evidenza fisica che le sue ure sprigionano non è infatti tanto visiva e sensoriale, quanto riconducibile a quel capovolgimento della gerarchia anima-corpo che Sinisgalli aveva attribuito a Leonardo.





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