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ETNICA nel '900

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Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo. Non farà più in tempo a dimostrarlo . Conflitti tra etnie, nazionalismi, genocidi, guerre civili, dittature e totalitarismi: le vittime del Novecento ammontano a circa 170 milioni di persone. Il secolo delle grandi rivoluzioni scientifiche e della definitiva affermazione della democrazia passerà alla storia come uno dei più sanguinosi nella vicenda dell'uomo.

Alla fine di questo millennio, che celebra i suoi successi scientifici e tecnologici, vige ancora, quindi, un tragico principio: quello secondo cui il fine giustifica i mezzi

Quaranta milioni di morti fu il tragico bilancio della seconda guerra mondiale: un carico di dolore che non ci ha insegnato assolutamente nulla. Il misterioso e atroce gioco dei potenti continua a svolgersi senza nessuna interruzione, usando come pedina la vita dell'uomo.

C'è però da osservare che è cambiato il genere di conflitto che attraversa il mondo da un antipode all'altro. Augurandoci che il modello di conflitto mondiale su scala internazionale sia del tutto tramontato, perché potrebbe portare soltanto alla ssa del genere umano sotto forma di catastrofe nucleare, ci troviamo di fronte a metodologie diverse di contesa armata, non meno pericolose ed insidiose.



La realtà della guerra di oggi è quella del conflitto armato tra etnie diverse, che si contrappongono con un accanimento e una violenza inaudite. Ai margini del sistema bipolare della guerra fredda, infatti, si sono moltiplicate, a partire dal 1945, nuove guerre che si possono definire "postmoderne", scatenate da assurde passioni ideologiche e intolleranze, in cui i civili non sono più le vittime "collaterali", ma gli obiettivi principali. Questi massacri postmoderni esplodono alla luce del sole in Africa e in Asia e si perpetuano in Medio Oriente. Il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, la cui azione è ormai sempre più vicina a un'incriminazione formale da parte del Tribunale internazionale dell'Aja, li introduce nel cuore dell'Europa. Le sue vittorie e le sue uniche imprese d'armi sono città rase al suolo, assediate, martirizzate, sterminate. In Croazia, in Bosnia, nel Kosovo, non vince le sue battaglie contrapponendo un esercito a un altro: le sue truppe si battono principalmente contro donne, bambini e anziani disarmati.

Inestirpabile, il seme della violenza dà nuovi frutti a due passi dall'Italia. Gli albanesi del Kosovo sono le ultime vittime di un secolo colmo di odio, ferito in profondità da crimini efferati, che sconvolgono per la sistematicità con cui sono stati perseguiti. La dignità umana ne esce distrutta, irrimediabilmente.

Ci aveva ingannato la tregua atomica, il fatto che aveva del miracoloso che, pur avendo armi capaci di distruggere il mondo, le superpotenze non le usassero, e la generale e ancor più miracolosa sicurezza della gente che si potesse continuare a vivere, che l'apocalisse atomica non ci sarebbe mai stata perché irragionevole. Dopo aver sperimentato le mille volte che la ragione conta poco o nulla nei rapporti fra i popoli e in genere nelle umane vicende, la tregua atomica ci aveva convinto a fidare nella ragionevolezza dei potenti, e questa fiducia si basava sulla convinzione che con la seconda guerra mondiale, con l'Olocausto, con il sacrificio di sessanta e più milioni di uomini si era superato il peggio, che follie, ferocie e catastrofi di queste dimensioni non ce ne sarebbero state più o, almeno, che non avrebbero più riguardato i grandi imperi e i loro alleati, che sarebbero state maledizioni periferiche. E invece ci risiamo con angoscia e disperazione, perché questa guerra di Serbia ripropone le assurdità, le maledette catene di errori, di pregiudizi, di stupidi orgogli, di assurde presunzioni e arroganze che sono state alle origini di tutte le guerre passate. Ma questa volta il non capire è se possibile più amaro, più confuso. Nessuno dichiara più le guerre e non si sa esattamente chi le voglia. L'unico che sembra saperlo è il serbo Milosevic che vuole la pulizia etnica, una tentazione barbara ancora diffusa in tutti i continenti, l'illusione che annientando i diversi si cancellino la complessità e le pene del vivere associato.

Dopo il dramma di Sarajevo, di Mostar, di Vukovar, quello che resta della Jugoslavia è ancora dilaniato dalla guerra. I Balcani sembrano stati proiettati indietro di ottanta anni: vittime della politica delle divisioni, degli stati etnici, dei nazionalismi, degli interessi delle grandi potenze, che in nome dei diritti umani hanno portato la guerra dove non c'era, permettendo che i massacri si facessero ancora più sanguinosi dove già avvenivano. Esecuzioni sommarie, espulsioni forzate di decine di migliaia di famiglie, bambini terrorizzati separati dai loro genitori, colonne senza fine di rifugiati disperati: sulla scia di Sarajevo e Srebrenica, il Kosovo è entrato nella lunga e sanguinosa lista delle tragedie che disonorano il nostro secolo che volge al termine.

Il mondo assiste incredulo al dramma dei Kosovari, sradicati sistematicamente e con violenza brutale dalle loro terre e dalle loro case. Ma le loro sofferenze hanno radici antiche: risalgono alla formazione dell'Albania e alla nascita della Jugoslavia e sono il frutto del tragico tentativo di tenere insieme popoli e Paesi diversi. Dal Medioevo ad oggi la regione balcanica è stata il teatro di guerre e battaglie infinite. Il Kosovo non è mai stato autonomo, ma durante la dominazione italiana le violenze furono compiute dagli albanesi verso i serbi. Così la catena delle vendette non ha mai avuto fine. E, passando per il sogno "jugoslavista" di Tito, l'unico nella storia jugoslava che cercò di mettere fine alle implacabili inimicizie di etnia e di religione accorpando le minoranze, è arrivata fino a oggi. Ma la storia sembra non aver insegnato nulla alle potenze occidentali, e così la Nato ha scelto la via delle bombe. È una vera tragedia di fine secolo che turba e divide le menti e le coscienze.

Prima dell'intervento della Nato se ne sentiva parlare da qualche tempo, soprattutto a causa degli arrivi sulle spiagge pugliesi di profughi scappati dalle loro case, aggrediti dalle milizie serbe. Ora il Kosovo e la sua collocazione sono conosciuti a tutti, anche a coloro che di questa regione non sospettavano neanche l'esistenza. Si parla di "pulizia etnica" vale a di­re di cacciata e deportazione delle po­polazioni da interi villaggi e città, verso zone etnicamente unitarie, e addirittura di "genocidio" e, cioè, di organizzazione sistematica, filosofica e militare di una persecuzione violenta ai danni di un'intera etnia. Oggi, questa piccola regione montuosa grande quanto l'Abruzzo, che sta a cavallo su una strada di importanza vitale tra Europa, Asia e Medio Oriente e che ha quindi, proprio per la sua posizione geopolitica, un'importanza strategica notevolissima, è, di fatto, un'enclave albanese in terra jugoslava: su due milioni di abitanti, il novanta per cento è albanese, mentre il restante dieci per cento è serbo.

Le garanzie di autonomia sancite dalla Costituzione di Tito sono state cancellate nel 1989 dal presidente jugoslavo Milosevic. La reazione della popolazione albanese, dopo anni di resistenza pacifica, ha portato alla costituzione della milizia dell'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo, e allo scontro con le forze serbe. Milosevic incarna il tentativo di inventare, sulle rovine del comunismo e nel risveglio del nazionalismo, una nuova visione totalitaria che gode del sostegno popolare. L'ultra-nazionalismo serbo esprime, oltre che una forte inclinazione a delinquere sul piano del diritto internazionale, un progetto politicamente e storicamente suicida che ha già amputato la vecchia Jugoslavia titina della Slovenia, della Croazia, della Macedonia, della Bosnia-Erzegovina e che spinge il Montenegro sulla via dell'indipendenza. Che altro destino potrebbe avere oggi, se non il fallimento, un progetto sciovinista, egemonizzante, in una parte del mondo che è un caleidoscopio (crogiolo) di nazioni, culture e osservanze religiose?

Uomini, donne e bambini di qualsiasi etnia, abitanti dei Balcani, hanno subito le violenze di un dittatore alla ricerca di consenso al suo nazionalismo. Alla logica dell'odio, la comunità internazionale, però, non ha saputo opporre una tenace e proficua battaglia diplomatica.

Dal 1989 la gente del Kosovo ha chiesto aiuto all'Europa e al mondo per ottenere, in modo pacifico, il rispetto dei propri diritti. Da anni le diplomazie europee disponevano degli elementi di analisi necessari per definire e difendere attivamente un confine ideale invalicabile fra barbarie e legalità, fra legge del più forte e stato di diritto. In tutte le cancellerie europee si è invece, contro ogni logica politica, sperato, minimizzato, procrastinato (rimandato).

L'Europa, quindi, alle soglie del Duemila è in guerra: non si tratta di un conflitto lontano da casa e neppure di uno ai confini che coinvolge solo i "barbari" di turno. La guerra coinvolge direttamente milita­ri dell'Europa occidentale, sta avendo effetti devastanti sui rapporti tra est ed ovest (sta ingigantendo il fossato tra est ed ovest), riportando indietro di decenni, mentre gli aerei decollano da aeroporti poco distanti dalle nostre case. Sarebbe stato più logico far precedere la scelta del taglio dei rifornimenti, dell'embargo sul petrolio contro Milosevic a quella dell'aggressione armata, che ha provocato effetti devastanti: l'intensificarsi dell'odio tra serbi e albanesi, l'esacerbarsi dell'ultranazionalismo serbo e kosovaro, il massacro delle popolazioni, la distruzione delle infrastrutture, l'accresciuta difficoltà delle trattative in sede diplomatica.

L'intervento della Nato è stato semplicemente una presa d'atto del volere americano. Si tratta, però, di un intervento sbilenco: manca il coinvolgimento dell'Onu, che è stata messa fuori gioco perché Russia e Cina, all'interno di essa, potevano esercitare il potere di veto contro un'azione di guerra

L'Onu, oggi, appare la vera sconfitta: è stata messa, infatti, in condizioni tali da non poter svolgere il ruolo istituzionale che le è proprio, ossia quello di garantire la pace e di rappresentare democraticamente tutti i popoli. Di essa ci serviamo quando fa comodo, e lo facevamo con maggiore premura quando il mondo si divideva in due grandi blocchi e si sentiva l'esigenza di un arbitro, ma l'abbandoniamo quando non favorisce i nostri interessi. E allora le nazioni più forti, collegate tra di loro, impongono la loro volontà nascondendola pudicamente dietro motivazioni ideali.

Questa guerra travalica la legalità inter­nazionale faticosamente costruita attorno alle Na­zioni Unite, la cui Carta ha esplicitamente come obiettivo la salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale e consente l'uso della forza a con­dizioni determinate che, nel caso, sono state disat­tese. È lecito, inoltre, il dubbio circa lo sco­po dichiarato della difesa dei diritti umani per l'i­nefficacia e la sproporzione, di giorno in giorno più evidenti, tra fini e mezzi. Allo stato degli atti, lungi dall'alleviare le condizioni dei perseguitati del Kosovo, altre sofferenze e ingiustizie si sono aggiunte con i bombardamenti, per l'inevi­tabile logica della guerra che spesso finisce col tra­volgere anche i migliori propositi.

Questa ultima guerra del secondo millennio pone delle questioni. La prima è questa: lo statuto della Nato prevede che gli interventi dell'Alleanza atlantica abbiano carattere esclusivamente difensivo e siano autorizzati da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. L'intervento della Nato in Kosovo non possiede nessuno di questi due requisiti. L'utilizzo delle cluster-bomb, cioè delle bombe a grappolo, che hanno provocato decine di morti tra i civili, pone un'altra non irrilevante questione: se l'intervento della Nato ha carattere umanitario come si può giustificare l'utilizzo di un'arma micidiale che, esplodendo, uccide senza scampo nell'area di mezzo chilometro? Ultima, ma non meno importante, questione: chi finanzierà la ricostruzione della Jugoslavia distrutta? E chi si occuperà dei profughi che già vanno diffondendosi nelle varie parti del mondo, che non potranno tornare nelle loro case perché sono state distrutte e che si riverseranno inesorabilmente verso l'Europa, e in particolare verso l'Italia, inseguendo la speranza di rifarsi una vita dopo aver perduto tutto?

L'aggressione della Nato alla Jugoslavia è, senza dubbio, il fallimen­to della politica europea e mondiale. Sembrava di essere arrivati, specialmente in questa realtà dell'Unione europea, alla persuasione che le controversie si risolvono nel loro confronto giuridico e culturale, ma ora ci cade addosso la scorciatoria della brutalità. La guerra non è la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma semplicemente la sconfitta del buon senso, della ragione e dell'intelligenza politica. Non c'è alcun indizio di giuridicità in un'azione che pretende di giustificare la brutalità dei mezzi con la bontà del fine.

Si sostiene che questa guerra sarebbe "giusta", come punizione dei serbi che negano ai kosovari albanesi l'autonomia e l'identità nazionale. Sono nati così, e sono stati teorizzati, i paradossi culturali della "guerra umanitaria". Attorno alla guerra si è, in tal modo, costruita una nuova, fragile ideologia: quella del "male che produce il bene", quella dell'"intervento umanitario" anche al di fuori delle strutture del diritto internazionale. In realtà è sempre difficile trovare dei tratti umanitari sul volto truce della guerra: "bombardare per proteggere" è una contraddizione.

Einstein, papa Giovanni e Gorbaciov ci hanno insegnato che, dopo la nascita dell'arma atomica, in grado di distruggere insieme al vinto anche il vincitore e l'intero pianeta, è impossi­bile considerare la guerra come uno strumento praticabile per ottenere la pace e la giustizia. Da sempre la violenza scatena altra violenza e le soluzioni pacifiche saranno, se ci saranno, costruite sui morti e sulle macerie.

Il "pretesto umanitario", comunque, fallito nella forma e nella sostanza, copre ragioni di ben più complessi interessi ed equilibri; se così non fosse il documento di Rambouillet avrebbe proposto al "criminale" Milosevic un "patto" e non una resa alle forze militari della Nato.

Nella concezione della guerra etica e umanitaria si celano alcune fra le più drammatiche eredità di tesi e concezioni vec­chie e superate, nient'affatto moderne. L'idea della guerra, in genere atroce e condannabile, come "strumento di giustizia e di protezio­ne" per i kosovari può essere, infatti, ricondotta alla radicata concezione secondo cui "il fine giustifica i mezzi" A ben riflettere, molti degli errori e degli orrori di cui è cosparsa, ad esempio, la storia del mo­vimento comunista, tra cui lo stalinismo, fu­rono impregnati di questa convinzio­ne: un fine nobile, ossia il riscatto degli op­pressi, può anche essere raggiunto con mezzi esecrabili.

Sostenere, come fa una sempre più insistente pubblicistica, che quella della Nato contro la Jugoslavia è una "guerra etica", "la prima guerra etica del mondo moderno", presenta probabilmente qualche vantaggio proandistico e politico, ma certo non rende la situazione meno allarmante, né avvicina la pace. È evidente che la giustificazione "etica" è in grado di creare consenso ad un intervento che, sempre più clamorosamente, appare contraddittorio e privo di chiari obiettivi politici e persino militari. Tuttavia essa nasconde dei pericoli, perché inevitabilmente costringe ad una progressiva enfatizzazione del carattere "criminale" del "nemico", e quindi rende sempre meno plausibile l'ipotesi di un accordo con esso. La guerra «etica», insomma, può avere un solo esito: la distruzione totale dell'altro, la vittoria del "buono" sul "cattivo", del bene sul male. E così la politica e la diplomazia diventano un inutile strumento, di fronte alla sacralità della «guerra giusta». Se ci riflettiamo, questo è il meccanismo di tutte le guerre di religione, le più atroci fra quante siano state prodotte dalla follia del genere umano.

Le guerre fatte per obiettivi politici, territoriali o economici sono, certo, altrettanto crudeli e probabilmente altrettanto folli, ma contengono in sé la possibilità della conclusione: una acquisizione confinaria, un compromesso diplomatico, un vantaggio strategico o commerciale. Ma la guerra etica? Se il nemico non è soltanto un nemico, ma un mostro, un criminale internazionale, è evidente che con lui non si potrà trattare nessuna intesa, non si potrà firmare nessun accordo. Ciò rende più deboli, perché prive di sbocco, le stesse azioni militari e allo stesso tempo rivela la fragilità di chi sostiene la buona causa. Distribuire con tanta sicurezza torti e ragioni, ridurre l'intera realtà ad un semplicistico dualismo: di qua i buoni, di là i cattivi, assumere se stessi come rappresentanti del bene e giustificare l'odio costruendo l'immagine di qualcuno che incarna il male, è possibile soltanto a persone il cui apparato mentale funziona in modo estremamente primitivo. Non è nutrendo un senso di rivalsa che si vendicano le vittime del Kosovo. Non è con il sangue serbo che si possono consolare le vittime albanesi. Il riscatto dei kosovari non si può fondare sull'annientamento umano, culturale ed economico di un altro popolo. È forse sangue meno degno della compassione dell'Occidente solo perché versato dai "cattivi" della situazione? Chi aiuterà la Serbia a rialzarsi? La coscienza dell'Occidente si risveglia soltanto ora? Se è una coscienza che agisce in nome degli ideali e non degli interessi, perché ignora le cause africane, kurde, tibetane, ecc . ? Occorre ricordare all'Occidente che, mentre si legittima l'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo, si lascia che il "terrorista" Ocalan possa essere condannato a morte in Turchia.

La guerra del Kosovo ha cambiato le regole del ­mondo. Tutti san­no, ormai, che il principio dell'"ingerenza umanitaria" supera i vecchi schemi delle "sovranità nazio­nali". Ciò significa, in teoria, che una potenza militare guidata dagli Stati Uniti, ossia la Nato, può interveni­re, d'ora in poi, per castigare ogni governo oppressivo, per dirimere ogni brutale controversia etnica, politica, tribale o religiosa.

Questi interventi possono provocare distruzioni catastrofiche, morti classificati come "effetti collaterali", e infliggere danni strazianti anche alle popolazioni che si vogliono tutelare. Ma ciò non sembra molto rilevante. A quanto pare, conta soltanto un "principio": il tiranno che commet­te crimini deve essere punito a ogni costo. Si tratta di un "princi­pio" di giustizia globale che, però, viene applicato sporadicamente e capricciosamente da una "comu­nità internazionale" diretta soltan­to dai Paesi più ricchi, più "evolu­ti" e più potenti del pianeta. Questi Paesi, di volta in volta, possono scegliere chi meriti il castigo e chi il perdono. Possono decidere do­ve, come e quando si debba affib­biare il marchio di "nuovo Hitler" a un qualsiasi despota, e accusarlo di genocidio, e distruggere i ponti, le strade, le fabbriche della sua nazione, e rischiare di colpire, per sbaglio, anche i suoi sudditi inermi.

Questo immenso potere rischia di trasformarsi in un estremo arbi­trio, in una specie di "dittatura etaria" delle democrazie. Con quale criterio si sceglie il regime delinquente da domare? Due personalità molto diverse, il reveren­do Jesse Jackson, eroe nella lotta per i diritti civili, e l'ex segretario di Stato Henry Kissinger, esprimono dubbi devastanti, dall'interno della società politica americana. I loro argomenti e le loro denunce ci obbligano a riflettere. Perché nes­suno ferma i massacri nella Sierra Leone, perché nessuno interviene nella regione dei Grandi Laghi africani, perché nessuno contrasta i Talebani in Afghanistan, perché nessuno si occupa dello Sri Lanka, del Kashmir, del Tibet? E perché i kurdi del Pkk sono bollati come terroristi, mentre i kosovari dell'Uck sono venerati come eroi?

Domande inutili, forse. A fin di be­ne (naturalmente) la generosa "de­mocrazia globale" decide con so­vrana fermezza dove sia necessa­rio mobilitarsi. E dove sia conve­niente o possibile. Se, per assurdo, la Cina si azzardasse a invadere Taiwan, non crediamo che la Nato bombarderebbe Pechino. E se, per assurdo, gli indiani d'America, vittime di un'antica "pulizia etni­ca", decidessero di ribellarsi, sa­rebbero tranquillamente sotto­messi dagli elicotteri che si chia­mano Apache.

Domani, forse, il sereno Occidente regalerà all'intero pianeta la Pax (pace) Atlantica, con le sue bombe "intelligenti" e "civili". Ma poi dovrà mantenerla, nei Balcani e altrove. Dovrà insediare governi "amici" e finanziarli, e difenderli con le armi in pugno, perché le ostilità etniche, religiose, politiche e tribali sono piuttosto tenaci: non basta la firma di una tregua, per estinguerle. A fin di bene, insomma, le ricche democrazie tenteranno di dettare le proprie regole ai popoli "adolescenti". Questo atteggiamento, un tempo, avrebbe suscitato sospetti di "neocolonialismo". Oggi ci limitiamo a parlare di "ingerenze umanitarie", e prevediamo soltan­to qualche "protettorato". In realtà è difficile notare un vero progresso.

La guerra nei Balcani, nonostante l'impegno molte volte teatrale dei mezzi di comunicazione e la necessità di onorare le alleanze sottoscritte a difesa dell'Occidente, continua a non essere compresa da larghi strati della pubblica opinione. Che Milosevic, per la sua eccessiva ambizione di voler governare tutti i Balcani, abbia compiuto i delitti efferati di cui è accusato nessu­no può negarlo. Ma si può schiantare tutto un popolo per punire un tiranno?

Le colpe di Milosevic sono davanti agli occhi di tutti, con il dramma dei rifugiati che entra nelle nostre case quotidianamente tramite la televisione e i giornali; ma gli sforzi per incriminarlo dinanzi al Tribunale internazionale dell'Aja nascondono la volontà di compensare il senso di colpa per non essere intervenuti quando avremmo potuto prevenire i crimini che poi lui ha commesso. Gli abbiamo, infatti, dato il modo e il tempo necessario a organizzare le stragi. Prima abbiamo trattato con lui, considerandolo una pedina fondamentale per la stabilità dei Balcani, e ora invece ci accorgiamo che è un criminale di guerra: è un comportamento contraddittorio, che sembra nascondere solo l'intenzione di mascherare le nostre colpe.

Secondo alcuni esistono, a suo carico, gli estremi per un'accusa di genocidio. Il genocidio è l'intento e il desiderio di estirpare dalla faccia della Terra un popolo, è lo sterminio sistematico di un gruppo nazionale, razziale, etnico o religioso. Nel nostro secolo l'esempio più evidente di genocidio è stato l'Olocausto, in cui un'intera popolazione è stata rimossa con la forza, e poi distrutta. Nel caso del Kosovo, il primo crimine, ossia la deportazione pensata, organizzata ed eseguita dai serbi, è sicuramente provato, mentre il secondo è ancora incerto: questo fa la differenza con lo sterminio degli ebrei. Qualcuno crede realmente che Milosevic e i suoi seriamente abbiano pianificato lo sterminio di tutti i bosniaci, gli albanesi e i musulmani del mondo?

Slobodan Milosevic continua ad evocare i peggiori richiami storici. C'è una parte d'opinione pubblica che ha accettato addirittura l'equazione «Milosevic uguale Hitler». Contro Hitler, in realtà, fu combattuta una guerra, che fece anche tante vittime civili, ma che fu inevitabile combattere. Ma poi, ha una qual­che ragionevolezza il paragone fra Mi­losevic, mediocre tiranno dei Balcani con vocazione alla pulizia etnica fra le mura di casa, e Adolf Hitler, con la sua terrificante potenza economica e mili­tare e il suo concreto progetto di ster­minio totale delle «razze inferiori» e di dominio del mondo?

Molti, tuttavia, vorrebbero giustificare l'intervento della Nato richiamandosi alle mo­tivazioni della seconda guerra mondiale e all'errore di non aver fermato il nazismo prima che diventasse fanatismo di massa. Sono asserzioni destituite di ogni fondamento o soltanto strumentali. La Germania di Hitler aveva aggredito o sottomesso nazioni indipendenti; essa mirava al dominio di tutta l'Europa, e aveva per farlo forze sufficienti. Lo stato hitleriano era, in realtà, una costruzione perfetta per cancellare dalla faccia della terra altre nazioni. La Jugoslavia, qualunque cosa si voglia di essa pen­sare, non ha certo la capacità distruttiva della Ger­mania hitleriana.

Gli atti compiuti in Kosovo da Milosevic non possono essere definiti, per quanto ne sappiamo sinora, atti di genocidio, ma discriminazione sulla base di caratteristiche etniche e trasferimento in massa di popolazioni. Tali azioni sono purtroppo presenti in tutta la storia del ventesimo secolo in Europa. Per questo non si dovrebbe fare riferimento alla persecuzione degli ebrei, che prese forme più estreme, ma all'impossibilità per numerose minoranze di ottenere una qualsiasi autonomia, di vedere riconosciuta la loro identità linguistica, religiosa o culturale. La loro sorte fa pensare ai trasferimenti di popolazioni all'interno dell'impero sovietico o all'indomani della seconda guerra mondiale. Da questo punto di vista Milosevic non ha inventato nulla.

Uno degli effetti del disfacimento dell'Urss, del crollo del sistema imperiale sovietico è stato, infatti, l'emergere delle istanze nazionalistiche nei paesi che facevano capo a tale sistema. L'insorgere dei nazionalismi etnici ha prodotto conseguenze negative per la pace e per gli equilibri europei: conseguenze già oggi rilevabili drammaticamente nella ex Jugoslavia.

La morte del comunismo, la crisi dell'Urss e la dissoluzione dell'impero sovietico in Europa centro-orientale ci riconducono per molti aspetti all'Europa del 1919. Anche oggi come allora il crollo di una grande potenza multinazionale ha improvvisamente liberato le energie nazionali che essa imprigionava all'interno delle sue frontiere e della sua zona d'influenza. Anche oggi, come allora, lo Stato «nazionale» sembra essere la naturale aspirazione dei popoli, il necessario traguardo della loro evoluzione politica. E anche oggi come allora la nascita degli Stati nazionali o il ripristino delle sovranità perdute si scontrano con difficoltà obiettive, economiche, etniche, geopolitiche, che rischiano di riprodurre le tensioni e i conflitti degli anni '20 e '30.

La disintegrazione del blocco sovietico e l'emergere delle nazionalità in Urss o in Jugoslavia coincidono con il fallimento del comunismo: ne sono l'effetto non la causa. Ma la dissoluzione di un impero, come afferma il giornalista Sergio Romano, "non garantisce necessariamente il futuro delle sue membra": il riaprirsi di rivalità e di conflitti, spesso difficilmente controllabili, può essere la conseguenza perversa della caduta di un sistema superiore di controllo, quali erano l'Urss e la Jugoslavia. Riemergono intatte, in tal modo, le rivalità che avevano a suo tempo giustificato l'esistenza dell'impero o di un potere arbitrale: lituani contro polacchi, uniati contro ortodossi, moldavi ­contro ucraini e russi, ucraini contro tatari, cechi contro slovacchi, croati contro serbi, serbi contro albanesi.

L'idea che ad ogni Stato dovesse corrispondere un solo popolo, inoltre, è stata causa di immani tragedie per tutto il Novecento. Nella sola Europa e nel bacino del Mediterraneo, questa follia ha provocato l'esodo di decine di milioni di persone. È il caso dell'Armenia, del Kurdistan, dell'Europa centrale, della Palestina, fino alla Jugoslavia, per la quale si continua a inseguire il miraggio di uno Stato per ogni popolo. La guerra in Kosovo ci ha lasciati attoniti per la dimensione che l'esodo dei profughi kosovari ha raggiunto, sotto la spinta delle violenze dei militari serbi e dei bombardamenti della Nato. Ma l'idea, atroce, di risolvere i problemi di convivenza fra etnie diverse cercando di far coincidere gli Stati con i popoli che li abitano, ha radici antiche e profonde e ha raggiunto il suo culmine nel Novecento. Molteplici sono stati i casi tragici di pulizia etnica e di trasferimento forzato di popolazioni in Europa e nel bacino del Mediterraneo, con il suo corollario di massacri, e in taluni casi, come in quello armeno, di veri e propri genocidi. Questi gli episodi principali di pulizia etnica in Europa, verificatisi nel nostro secolo: è il caso di un milione e 750 armeni, che fra il 1915 e il 1916 furono deportati in Siria e in Mesopotamia; quello dei greci, che nel 1923 in 1 milione e 300 mila dovettero lasciare la Turchia e dei turchi che dovettero abbandonare la Grecia in 400 mila; e, poi, il fenomeno dei profughi della Seconda guerra mondiale, dopo la quale 20 milioni di persone furono costrette a lasciare la loro terra; fra questi i tedeschi che dall'Europa centrale dovettero trasferirsi in Germania e i polacchi che, dalle regioni del loro Paese passate all'Unione Sovietica, si trasferirono nelle regioni che la Polonia aveva prese alla Germania; infine i kurdi, massacrati e deportati da irakeni e turchi, e i popoli della ex-Jugoslavia, dove la pulizia etnica e la violenza sembrano non vedere mai la fine. A queste tragedie si deve aggiungere quella immane degli ebrei, che prima videro l'orrore della deportazione e poi lo sterminio di massa che causò la morte di sei milioni di uomini, donne, bambini, e le centinaia di migliaia di oppositori politici che svero nei lager di Stalin negli anni Trenta.

È indubbiamente giusto che i Paesi di un'area geografica come l'Europa esprimano la loro indignazione quando tali azioni vengono commesse in un Paese vicino, e che cerchino di impedirle. Questi Paesi non sono invece più nel loro diritto se chiedono a uno Stato di rinunciare a una parte del suo territorio, col pretesto che un gruppo militante vuole la secessione. È bene chiedersi in primo luogo quale sia il fine dell'azione intrapresa attualmente nella ex Jugoslavia: è assicurare i diritti delle minoranze etniche, rendere più armonica la coesistenza delle popolazioni con tradizioni culturali, religiose e linguistiche differenti? Bombardare una parte della popolazione in nome dei diritti dell'altra non può certo contribuire alla loro futura coesistenza pacifica. Al contrario, questa azione non può che riaccendere gli antagonismi e aprire ferite che si richiuderanno soltanto tra molto, moltissimo tempo. Il mezzo non corrisponde dunque al fine: ma esisteva un'alternativa? Gli uomini hanno bisogno di riconoscimento sociale per esistere: se non lo trovano altrove, non resta loro che ricorrere all'appartenenza a un'identità collettiva. Diventano allora sensibili ai capi fanatici o cinici, e sono pronti a trasformare in capri espiatori quelli che vivono tra loro, ma non sono come loro.

Come convincerli a cambiare? Dicendo loro che tutto ciò è male, che il loro dovere consiste nell'amare il prossimo, ovvero lo straniero, minacciandoli di una punizione? Dovremmo ormai aver imparato da tempo quanto questi rimedi siano poco efficaci. L'intolleranza finisce quando non serve più: se un individuo ha la possibilità di realizzarsi nella sua esistenza, allora non avrà più bisogno di aggrapparsi alla magra consolazione di appartenere alla comunità dei musulmani, o dei cristiani, o dei serbi, o degli albanesi. I Paesi dei Balcani si trovano in una situazione economica e sociale disastrosa. Non sono mai stati ricchi e il comunismo ha precipitato la loro rovina. In tutti questi Paesi vivono importanti minoranze etniche. Se gli europei e gli americani non vogliono che domani si incendi un altro angolo dei Balcani dovrebbero aiutarli a uscire dal marasma economico e sociale. I capi fanatici o cinici, come Milosevic, diventerebbero allora assurdi anacronismi, e sirebbero da soli. Tutto questo costa caro? Certo, ma l'Europa e l'America stanno già spendendo molti soldi per costruire aerei, missili e bombe, per armare i guerriglieri e aiutare i rifugiati, e su queste terre è meglio riversare soldi che bombe. Non è con la guerra che si possono risolvere i contrasti fra le diverse etnie, dovuti principalmente alla povertà delle popolazioni: solo un intervento economico dell'Occidente può essere risolutivo

Se si crede che gli "Stati etnici" siano l'unico scenario futuro possibile per l'ex-Jugoslavia si può stare certi che ci saranno altri cento anni di guerra. Ce ne sono stati già dieci, ma ciò non è servito comunque a far vincere questo progetto. L'idea di creare Stati "etnicamente puri" non è solo aberrante, è anche perdente. La corsa alla "disgregazione", però, non è soltanto un problema balcanico: è una grande questione europea, legata alla lenta agonia dello Stato-nazione. Ci sono spinte locali ovunque. La soluzione potrebbe essere una prospettiva federalista, che però non è in sé sufficiente a proteggere i gruppi etnici: la convivenza va costruita nel tempo, favorendo la democrazia e sostenendo economicamente le aree coinvolte da questi processi. Insomma, per la democrazia e la stabilità nei Balcani occorrerà attendere, secondo gli studiosi, almeno venti o trenta anni. Ma d'altronde quanto abbiamo impiegato per realizzare una democrazia compiuta nei Paesi usciti distrutti dalla Seconda guerra mondiale?

Questa guerra è la risposta sbagliata contro la politica criminale di Milosevic in Kosovo, perché colpisce solo chi soffre, aggravando incredibilmente il livello di atrocità perpetrate nei confronti dei civili, serbi e albanesi, e innescando una spirale di odio fra i due popoli. Bisognava investire di più sugli aiuti economici alla Jugoslavia, sulla educazione alla convivenza, sulla reintegrazione dei Balcani in Europa. Si sapeva da dieci anni quello a cui si sarebbe andati incontro, ma fare investimenti a lungo termine, evidentemente, non frutta in termini politici.

In tutto questo che fine fa l'Europa? Quale mente immaginifica avrebbe potuto soltanto pensare, appena pochi mesi fa, che il primo atto dell'Europa finalmente unita, sotto le bandiere dell'euro, sarebbe stato quello di combattere, sul proprio stesso continente, una guerra a guida americana? Questo è il problema posto dall'opera­zione della Nato: se serve ad affermare la potenza unica degli Stati Uniti, allora è co­me se fosse una bomba lanciata diretta­mente contro l'Europa per impedirle di svolgere se non una funzione di arbitro, almeno una funzione di equilibrio.

Il dramma dei profughi kosovari, sradicati dalle loro terre e dalle loro case, è l'altra faccia della medaglia dell'euro: è la tragica dimostrazione del fatto che l'Europa non esiste ancora come soggetto politico in grado di superare gli egoismi nazionali in materia di politica estera e di difesa e di recuperare rispetto agli Stati Uniti la sua autonomia politica, culturale, militare.

L'Europa del Duemila ha, dunque, una moneta unica, una banca centrale, ma non ha un ideale unitario, non ha valori umanitari sui quali fondare le sue costruzioni economiche. Ed è forse per questo che, con tutta la buona volontà dei grandi media televisivi e giornalistici, la nascita dell'Unione monetaria europea è stata una festa comandata ma non sentita, un'unione senz'anima. Forse non si poteva far altro; forse nei tempi che corrono l'economia, la moneta è l'unico valore che possa tenere assieme undici Paesi; forse l'unica vera frontiera europea di cui oggi si capisca la difesa è quella della moneta forte, stabile, inattaccabile dall'inflazione.

L'Europa che dobbiamo impegnarci a costruire deve essere soprattutto un'Europa di pace, un'"Europa dei popoli", impegnata nell'ambito dell'Onu a creare sviluppo e sicurezza per tutti: non possiamo assolutamente accettare un'Europa in cui l'unico valore comune, l'unico modello ritenuto "vincente" sia quello americano del capitalismo sfrenato, né tantomeno possiamo accettare un'Europa prigioniera della logica della guerra.

(Il principio ispiratore della nuova Europa, inoltre, deve essere il rifiuto della separazione etnica e l'affermazione di una società tollerante multiculturale. Il sogno multirazziale è la speranza di iniziare il prossimo millennio fuori dalla angosciante ambivalenza dei nostri giorni per cui metà del mondo si illude di aver superato ormai ogni diversità, e l'altra metà ancora si affronta barbaramente in nome delle differenze di razza, religione, cultura, abitudini e altro ancora. Non è la speranza illusoria di ritrovarsi tutti uguali, ma quella più concreta di imparare a rispettarsi davvero nelle reciproche diversità e nelle diverse ricchezze culturali. La speranza insomma di coniugare dialetticamente la globalizzazione e il localismo. Il globale, in questa visione, può rispettare il locale, e viceversa.)




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