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I Soggetti Passivi Dell’IRES: la lettera d)



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01 ottobre 2004


IL DIRITTO TRIBUTARIO

Il DIRITTO TRIBUTARIO è una disciplina giuridica che esamina le norme che regolano le attività dello Stato con lo scopo di conseguire entrate tributarie.

Il DIRITTO TRIBUTARIO fa parte del diritto finanziario che è vasto perché non vige solo per acquisire entrate ma riguarda tutte le attività dello Stato in campo economico. Il diritto amministrativo è ancora più ampio dato che definisce le attività dello Stato in ogni settore e non solo in campo economico.

Il DIRITTO TRIBUTARIO a sua volta è suscettibile di ripartizione:

  DIRITTO PENALE TRIBUTARIO



  DIRITTO PROCESSUALE TRIBUTARIO

  DIRITTO TRIBUTARIO PER L’IMPRESA DELLE PERSONE FISICHE

  DIRITTO COMUNITARIO TRIBUTARIO (norme emanate da organi comunitari e non dal nostro Parlamento)


Il DIRITTO TRIBUTARIO è una branca per la quale valgono criteri speciali e che esamina aggregazioni di norme; è una scienza giuridica, si differenzia dalla scienza delle finanze che è di carattere economico. Si occupa delle norme che disciplinano l’attività dello Stato diretta al conseguimento delle entrate. Ma ci sono entrate di diritto pubblico ed entrare di diritto privato (ad esempio, se lo Stato stipula un contratto di locazione con un privato, questa operazione non rientra nell’ambito del DIRITTO TRIBUTARIO).

Noi ci occuperemo delle entrate di diritto pubblico caratterizzate dal fatto che lo Stato le consegue sulla base della sua potestà di imporre in modo coercitivo determinati comportamenti, determinati amenti.


Distinzione nell’ambito dei tributi ci sono varie tipologie:

  1. IMPOSTE sono quelle entrate che lo Stato consegue, destinate a finanziare i servizi pubblici di carattere generale (esercito, magistratura, polizia, . ), servizi indispensabili per uno Stato. Sono versate dai cittadini sulla base del principio della capacità contributiva. Il principio del beneficio non è praticabile. Il costo dei servizi viene ripartito in funzione della capacità economica dei cittadini: “Chi più ha, più deve contribuire”, “Chi più ha contribuisce anche per chi non può farlo” si costituisce un legame di solidarietà.
  2. ENTRATE DERIVANTI DAL MONOPOLIO FISCALE storicamente erano importanti ma ora stanno perdendo valore.
  3. TASSE sono prestazioni di carattere economico finalizzate a finanziare servizi pubblici industriali percepite dallo Stato quando il cittadino ne faccia richiesta (ad esempio, l’imposta di registro).
  4. CONTRIBUTI sono entrate che si hanno perché a volte lo Stato mentre soddisfa un bisogno pubblico, avvertito dalla collettività, arreca un particolare vantaggio a particolari cittadini.

Le imposte, le entrate derivanti dal monopolio fiscale, le tasse ed i contributi hanno alcuni elementi in comune:

  sono dovute ad un ente pubblico;

  hanno il loro fondamento nella potestà d'imperio (lo Stato deve comunque sottostare a determinati principi che tutelano il cittadino di fronte ad un eventuale abuso della potestà di imperio);

  sono finalizzate al conseguimento di entrate per il finanziamento dei servizi pubblici.


Costituzione, art. 23 riserva di Legge: nessuna prestazione può essere imposta ai cittadini se non in base alla Legge; riserva di Legge relativa: per Legge devono essere emanati solo gli elementi essenziali del tributo.


Capacità contributiva occorre che il contributo dei cittadini sia apportato in base alla capacità contributiva di ogni soggetto(la potenzialità economica deve essere effettiva/reale, non presunta); è espressa da diversi parametri (reddito, ma anche patrimonio, consumi).

In epoca fascista c’era l’imposta sul celibato, ora è ILLECITO perché è indifferente il fatto che una persona sia sposata o meno.

C’è un livello verso il basso della capacità contributiva dove il reddito è appena sufficiente a coprire le esigenze essenziali di vita del cittadino principio che il livello più basso necessario per coprire il tenore di vita minimo vitale è intangibile, non è legittimo intervenire con un prelievo tributario.

Il prelievo tributario se indirizzato a colpire il reddito deve colpire il reddito e non si deve ricorrere alla vendita dei beni patrimoniali.


Problema: FISCAL DRAG il reddito tende normalmente ad aumentare ma per effetto della salute delle imposte (progressive), il prelievo tributario è più forte imposta maggiore rispetto a quando il reddito era di un ammontare minore sono stati introdotti meccanismi correttivi consistenti nell’attenzione della progressività.

Costituzione, art. 53 i cittadini devono concorrere alla spesa pubblica secondo la capacità contributiva.

Il criterio della progressività è in crisi oggettivamente: la progressività richiede che l’imposta colpisca il reddito complessivo del contribuente.

Si dice che la progressività sia uno strumento di giustizia sociale.


La fonte di produzione del DIRITTO TRIBUTARIO è costituita da leggi: Fonti Statali Leggi Ordinarie emanate e approvate dal Parlamento; le norme tributarie possono assumere anche la forma di Decreti Legge (emanati dal Governo in situazioni d’emergenza) e di Decreti Legislativi (emanati dal Governo sulla base della Legge di delega del Parlamento). È frequente che il Parlamento affidi una delega al Governo in materia di DIRITTO TRIBUTARIO ci sono tanti decreti legislativi. Inoltre ci sono Testi Unici, emanati dal Governo sulla base di una delega del Parlamento.

Una norma tributaria una volta emanata deve essere interpretata il contenuto deve essere capito, è necessario per il contribuente.

I criteri che devono essere tenuti in considerazione non sono particolari, sono quelli generali applicati alle altre norme e cioè: interpretazione letterale, interpretazione logica (criterio storico e criterio sistematico). Per il DIRITTO TRIBUTARIO non ci sono criteri speciali. In passato sono stati proposti criteri interpretativi specifici alla materia (interpretazione funzionale).

Integrazione della norma tributaria analogia. Se per ipotesi, il sistema tributario prevede l’assoggettamento a tassazione di tutti i redditi, l’ordinamento giuridico contiene una falla e fino a quando la norma correttiva non sarà emanata è possibile ricorrere all’analogia? L’analogia è un procedimento giuridico con il quale si può sanare la falla.

La norma, una volta emessa, produce i suoi effetti. Occorre che sia pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, e che sia passato il periodo di Vacatio Legis per far sì che il cittadino non possa eccepire la sua non conoscenza della Legge. Il Decreto Legge è immediatamente in vigore ma deve essere convertito in Legge formale entro 60 giorni pena la perdita di efficacia retroattiva (fin dall’inizio).

C’è abrogazione tacita quando lo stesso argomento viene disciplinato da una norma più recente. C’è abrogazione espressa quando una norma dichiara esplicitamente abrogata una norma già esistente.

Le norme tributarie secondo il principio generale hanno efficacia non retroattiva disciplina che vale per il futuro, non per il passato. ½ sono norme retroattive in eccezione alla regola e norme penali o sanzionatorie che stabiliscono sanzioni più lievi di quelle comminate da norme più remote norma d’equità. Anche le Leggi interpretative hanno di norma efficacia retroattiva perché vale fin dal momento in cui la norma di indubbia interpretazione è stata emanata. Sono normalmente retroattive le Leggi d’ordine pubblico (ad esempio, il divieto di commercio di una certa sostanza).


Prodotto della norma tributaria fa nascere l’obbligo coercitivo di are una determinata somma di denaro l’obiettivo è l’obbligazione tributaria.

Ci sono varie teorie:

  teoria dichiarativa l’obbligazione nasce con il verificarsi del presupposto di imposta (determinato fatto economico che ha come conseguenza l’obbligo tributario); occorre che il reddito venga quantificato, non basta dire che c’è, il conseguimento del reddito è una premessa ma un obbligo vero e proprio non c’è;

  teoria costitutiva teoria contrapposta alla teoria dichiarativa: il reddito costituito non determina l’insorgere dell’obbligazione tributaria.

Allo stato attuale, ha più seguito la teoria che lega le due precedenti.


L’accertamento tributario è necessario. Vige il principio dell’AUTOACCERTAMENTO. La Dichiarazione dei Redditi è il risultato di questo procedimento e quindi si denuncia il reddito conseguito il fisco ha un potere di controllo.


Il DIRITTO TRIBUTARIO ha ordini di giustizia speciali (non ordinari) le Commissioni Tributarie:

Commissione Provinciale

Commissione Regionale ci sono tre gradi di giudizio

Cassazione


Dichiarazione dei Redditi bisogna individuarne la natura era vista come un qualche cosa che ha la natura della confessione; a questa natura è susseguita la teoria che vede nella dichiarazione un atto di volontà ma anche questa tesi non ha avuto valore: i redditi sono di un determinato importo; la terza teoria vede nella Dichiarazione dei Redditi una dichiarazione di scienza, non occorre una manifestazione di volontà. Questo ha dato il via alla retroattività della modificabilità della Dichiarazione dei Redditi diritto per il contribuente di ristabilire la verità dei fatti.


I soggetti della contribuzione tributaria sono due:

il SOGGETTO ATTIVO è il destinatario del gettito, l’ente pubblico che incanala a titolo definitivo una determinata imposta; non sempre coincide con il soggetto attivo del rapporto tributario (soggetto che gestisce il tributo e devolve il gettito ai diversi enti);

il SOGGETTO PASSIVO è il contribuente, colui che deve are il tributo (persona fisica, soggetto di diritto, persona giuridica), non deve essere confuso con il soggetto inciso dall’imposta (colui che subisce l’onere dell’imposta).

Ci sono anche SOGGETTI PASSIVI SPECIALI il responsabile d’imposta e il sostituto d’imposta sono soggetti che non hanno realizzato il presupposto d’imposta ma a cui tuttavia l’ordinamento tributario fa nascere in capo l’obbligazione tributaria.


Solidarietà tributaria il presupposto dell’imposta può essere realizzato da un solo soggetto. Ad esempio, quando un soggetto compra un appartamento da un privato, deve are l’imposta di registro dell’8%. Se invece due o più persone acquistano in comproprietà, l’imposta dovuta dai compratori con rapporto di solidarietà significa che il fisco, che ha il credito dell’imposta, può pretendere l’intera imposta da ognuno; poi ovviamente il singolo ha il diritto di regressione nei confronti degli altri. La solidarietà tributaria è la stessa identica SOLIDARIETÀ CIVILISTICA che comporta la solidarietà esterna e che si estende anche agli atti d’accertamento purché siano favorevoli al contribuente.















































08 ottobre 2004


IL SISTEMA SANZIONATORIO:

Il SISTEMA SANZIONATORIO è composto da sanzioni amministrative e da sanzioni penali.



LE SANZIONI DI CARATTERE AMMINISTRATIVO

Le sanzioni di carattere amministrativo. Nel 1997 il SISTEMA SANZIONATORIO è stato riformato. Il sistema previdente, prima del 1997, prevedeva due tipi di sanzioni:

  1. la pena pecuniaria doveva applicarsi esclusivamente agli illeciti non costituenti reato penale; era alternativa rispetto alle sanzioni penali; era prevista dalla legge in un minimo e in un massimo, spettava poi al funzionario la determinazione in concreto dell’ammontare della pena pecuniaria;
  2. la soprattassa aveva l’obiettivo di risarcire l’Erario del ritardo con cui il contribuente veniva a are le imposte, partendo dal presupposto che il contribuente avesse fatto una dichiarazione e che fosse passato del tempo prima che l’Erario avesse incassato il contributo. Il contribuente deve risarcire l’Erario attraverso il amento di una soprattassa (che quindi ha carattere risarcitorio) consistente in un importo fisso (o la percentuale rispetto alla maggiore imposta dovuta o un importo fisso: ad esempio 5.000,00 €) rispetto alla pena pecuniaria.

Con il tempo questo sistema si è andato deteriorando la pena pecuniaria, che doveva essere alternativa rispetto alla sanzione penale, era diventata aggiuntiva; la soprattassa veniva applicata insieme ad interessi moratori si è sentita l’esigenza nel 1997 di cambiamento.


La pena pecuniaria e la soprattassa sono state eliminate e sostituite da una sanzione pecuniaria generica consistente in una somma di denaro stabilita dal legislatore (o come importo da definirsi nell’ambito di un minimo e di un massimo o come percentuale rispetto all’imposta base o come importo fisso). Quando la sanzione viene vista come entità da definirsi spetta al funzionario dell’amministrazione finanziaria determinarne l’importo.

Ci sono principi di carattere generale che consentono di limitare la discrezionalità del funzionario. Quest’ultimo deve tenere presente diversi aspetti:

  la gravità della sanzione commessa più grave è il reato commesso e più la sanzione deve essere applicata in un importo vicino al massimo;

  la personalità di chi compie l’illecito se ad esempio si tratta di un evasore incallito la sanzione pecuniaria sarà applicata in un importo vicino al massimo;

  le condizioni economiche e sociali della gente l’infrazione compiuta da una persona con alto livello di cultura deve essere valutata in modo più severo rispetto ad una persona poco istruita; oppure se evade un poveraccio deve essergli applicata una sanzione minore rispetto a quella applicata ad un riccone.

Là dove la sanzione è prevista da un minimo e un massimo non c’è una discrezionalità totale e il funzionario amministrativo che decide deve tener conto di diversi elementi.


Principi generali di diritto punitivo principi generali ai quali il diritto punitivo di carattere amministrativo si attiene:

  PRINCIPIO DELLA LEGALITÀ (principio a garanzia del contribuente) deve essere chiaro che un cittadino debba essere chiamato a rispondere delle sanzioni se c’è una Legge che prevede le sanzioni stesse se la Legge non c’è, la sanzione non può essere comminata.

  PRINCIPIO DELL’IRRETROATTIVITÀ le sanzioni amministrative esplicano efficacia per il futuro e non per il passato ma c’è ad eccezione il principio del favor rei (favore del reo) che rende retroattive le sanzioni amministrative quando sono ridotte rispetto al passato. In campo tributario quest’ultimo principio prima non valeva norma del 1929: assoluta irretroattività, a nulla importava che eventuali Leggi successive imponessero sanzioni più lievi. Ora però la norma del 1929 è stata abrogata con la riforma del 1997.

  PRINCIPIO DELLA TASSATIVITÀ (o PRINCIPIO DELLA DETERMINATEZZA) completamento del principio di legalità non solo la legge deve prevedere la sanzione ma deve anche prevedere delle fattispecie precise in modo che l’interprete non abbia problemi d’individuazione degli illeciti che sono puniti. Questo principio fa sì che il campo legislativo sanzionatorio non possa ricorrere al principio di analogia.

  PRINCIPIO DELLA PERSONALITÀ (principio più innovativo, introdotto nel 1997) emerge quando l’illecito amministrativo viene compiuto da una persona non fisica (ad esempio, da una società): le sanzioni in passato si applicavano alla società. Nel sistema riformato del 1997, le sanzioni non sono più applicabili alle società ma alle persone che hanno operato per conto della stessa. Una legge del settembre 2003 ha modificato in parte questo principio e ha introdotto un’eccezione per le società con personalità giuridica: la responsabilità per le sanzioni amministrative grava sulla società stessa. In base a questo discorso, quando noi ci troviamo di fronte ad una società con personalità giuridica (società commerciali: SRL, SPA, SAPA, . ), essa non deve sottostare al principio della personalità.


In genere sono previste delle sanzioni accessorie, sanzioni aggiuntive anche molto gravi, come ad esempio l’interdizione per molto tempo dalla possibilità di rivestire la qualità d’amministratore o di sindaco di società, oppure l’interdizione dalla possibilità per un imprenditore di partecipare agli appalti pubblici, . . Queste sanzioni accessorie non possono essere comminate per un periodo superiore a sei mesi.


Particolare ura introdotta dalla riforma del 1997 è il cosiddetto autore mediato c’è un soggetto che compie materialmente l’illecito ma egli soggiace alla volontà di un altro individuo che costringe il primo a compiere l’illecito (ad esempio, attraverso la coercizione fisica). Se una persona minaccia un’altra persona costringendola a compiere un illecito di carattere tributario, la sanzione è applicata a chi esercita la coercizione e non a chi la compie in concreto.


Il ravvedimento operoso è il caso in cui il contribuente compie l’illecito ma in un momento successivo si ravvede cercando di rimediare in tutto o in parte all’illecito stesso. Quando ci sono queste situazioni di recupero da parte del contribuente che ha commesso in prima battuta l’illecito amministrativo, il ravvedimento operoso fa sì che la sanzione venga ridotta in modo marcato (ad esempio, ad un sesto o ad un quarto), secondo quanto prevede la Legge.



L’ACCERTAMENTO

Il sistema è basato sul contribuente che deve dichiarare il suo reddito e versare le imposte. Storicamente esisteva l’amministratore finanziario che prendeva contatto con il contribuente e richiedeva le imposte dovute. Con una riforma del 1973 si è ribaltata la situazione: è il contribuente che, nei rapporti con lo Stato, è tenuto al computo, alla liquidazione e al versamento delle imposte. In un sistema basato sull’auto-liquidazione deve essere possibile controllare le dichiarazioni dei contribuenti se non ci fossero controlli, tutti sarebbero evasori.

L’ACCERTAMENTO ha sostanzialmente a che fare con il potere di controllo dell’amministrazione finanziaria.

Il contribuente, per ciascun esercizio d’imposta (anno civile per le persone fisiche), è tenuto alla liquidazione e all’ACCERTAMENTO delle imposte. Fare la Dichiarazione dei Redditi vuol dire liquidare le imposte. Si hanno determinati tipi di reddito (in base alle diverse categorie: reddito da lavoro dipendente, reddito agricolo, reddito fondiario, . ) che danno degli imponibili e quindi si ha una base imponibile alla quale si tolgono delle detrazioni liquidazione dell’imposta: io sono debitore nei confronti dello Stato di un determinato ammontare.

Ulteriore onere che viene addossato al contribuente è quello di versare le imposte calcolate all’Erario.


Cosa fa lo Stato per controllare che il contribuente abbia agito in maniera corretta? Prima di tutto le dichiarazioni dei redditi passano all’interno di un meccanismo chiamato LIQUIDAZIONE FORMALE. La liquidazione formale è fatta meccanograficamente (a computer) dall’amministrazione finanziaria e consiste solamente nel controllare che il contribuente abbia compilato correttamente il modello di dichiarazione e che abbia liquidato correttamente le imposte (cioè che abbia fatto correttamente i conti). Se ho un reddito di 100 e mi viene concessa una detrazione di 20, il computer va a vedere che nella Dichiarazione dei Redditi io abbia messo effettivamente 100 tra i redditi e 20 tra le detrazioni. Senza entrare nel merito della qualità, la liquidazione formale serve solamente a far sì che i conti posti in essere dal contribuente siano corretti. Questo viene fatto su quasi tutte le Dichiarazioni dei Redditi ed è fatto entro il termine di presentazione della dichiarazione dell’anno successivo.

In seguito, l’amministrazione finanziaria, su alcune dichiarazioni prese a campione, inizia a fare il CONTROLLO FORMALE che va un po’ più nel merito. Si parte dalla liquidazione formale dove si può avere 1 € di reddito e 100 milioni di € di detrazioni e l’amministrazione finanziaria non dice niente perché controlla solo se le detrazioni sono calcolate matematicamente in modo corretto; e si arriva al controllo formale dove si inizia a chiedersi com’è possibile che si verifichi una situazione simile. In questo caso l’amministrazione finanziaria può fermarsi, richiedere al contribuente determinate spiegazioni e fare determinate verifiche. Se all’amministrazione finanziaria la situazione non è chiara o se ci sono dei presupposti che potrebbero fare pensare ad un’evasione d’imposta può iniziare la PROCEDURA DI ACCERTAMENTO. La procedura d’accertamento è disciplinata da una sezione specifica del D.P.R. n. 600/1979, chiamato anche il decreto dell’ACCERTAMENTO, dunque non dal Testo Unico delle Imposte sul Reddito. All’amministrazione finanziaria è consentito di fare nei confronti del contribuente quelli che si chiamano gli accessi d’ispezione operistica. Nel caso in cui l’amministrazione finanziaria non fosse convinta dalla liquidazione formale avvenuta, dal controllo formale avvenuto e dalla situazione generale, può procedere iniziando la procedura d’ACCERTAMENTO tramite gli accessi sono verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza presso il contribuente.


Ci sono due cose importanti da ricordare:

La Guardia di Finanza ha libero accesso al domicilio, in altre parole al luogo di lavoro, e a tutti i documenti che vuole ispezionare. Nel caso di persone fisiche e quindi di un’abitazione privata, ha necessità della richiesta da parte del Sostituto Procuratore della Repubblica.

Il contribuente è l’unico ad esibire tutta la documentazione richiesta e nel caso in cui non venga esibita, ciò che non è esibito non vale ai fini processuali vale solo quanto esibito e dimostrato durante il periodo della verifica tributaria.


La procedura d’ACCERTAMENTO si distingue sostanzialmente in due grandi filoni:

  1. Se il controllo è eseguito su persone fisiche si parla di ACCERTAMENTO ANALITICO e di ACCERTAMENTO SINTETICO.

  L’ACCERTAMENTO è analitico quando si provvede ad effettuare la verifica tributaria basandosi sui dati concernenti il reddito e sui costi evidenziati dal contribuente si parte e si opera su dati esistenti comunicati dal contribuente o desumibili da altra documentazione connessa (si va nel merito della situazione ma su cose esistenti).

  Quando però l’amministrazione finanziaria ritiene per fondate ragioni che il reddito della persona potrebbe discostarsi in aumento per più del 25%, può procedere all’ACCERTAMENTO sintetico che è normalmente un ACCERTAMENTO che si basa sulle spese: disconosce completamente i dati forniti dal contribuente e procede ad una ricomposizione del reddito sulla base di indicatori a cui l’amministrazione finanziaria può accedere. Per le persone fisiche, ad esempio, c’è una costruzione matematica che, su determinati indicatori di spesa, da’ determinati redditi minimi sufficienti a sostenere quelle spese (redditometro ad esempio, tiene presenti i numeri di immobili posseduti, i contributi ati alle domestiche, . ). Se io dichiaro 10.000 € di reddito annuale e dal redditometro si vede che ho due barche a vela, venti appartamenti, diciotto persone di servizio e un aereo privato l’amministrazione finanziaria capisce che è difficile che io possa mantenere tutto questo con il mio reddito. Quindi in questo caso, l’amministrazione finanziaria può disconoscere completamente quelli che sono i dati analitici che ha riscontrato dalla dichiarazione.


  1. Se il controllo è effettuato su soggetti tenuti per Legge alle scritture contabili (ad esempio: le società, gli imprenditori, i professionisti, . ) si parla di ACCERTAMENTO ANALITICO CONTABILE e di ACCERTAMENTO INDUTTIVO (o anche chiamato EXTRA-CONTABILE). L’ACCERTAMENTO analitico contabile delle società è abbastanza simile all’ACCERTAMENTO analitico delle persone fisiche, e anche l’ACCERTAMENTO induttivo ha caratteristiche affini all’ACCERTAMENTO sintetico.

  L’ACCERTAMENTO analitico contabile è un ACCERTAMENTO classico in cui i funzionari dell’amministrazione finanziaria verificano i dati su cui la società si è basata per computare gli elementi (eventualmente disconoscere un eccesso di elementi negativi e aggiungere componenti positivi per le più svariate ragioni). Possono nascere problemi di competenza economica (ad esempio, se io ho un costo di competenza del 2005 e lo porto a deduzione del reddito del 2004) e problemi di non inerenza (ad esempio, se un imprenditore porta al ristorante la moglie, prende la fattura e la porta in deduzione all’impresa). Il controllo viene fatto ma sempre tutto, come per le persone fisiche, basato sulla contabilità o su quanto fornito dalla società.

  L’ACCERTAMENTO induttivo è un po’ più diffuso rispetto all’ACCERTAMENTO sintetico perché, mentre per le persone fisiche si fa solo se si ha uno scostamento maggiore di reddito, per le società sono espressamente elencati i motivi che possono far cambiare l’ACCERTAMENTO da analitico contabile a extra-contabile. Nella sostanza, quest’ACCERTAMENTO consiste nel disconoscere quanto esiste e ricostruire qualcosa sulla base di opzioni. Le differenze tra l’ACCERTAMENTO sintetico e l’ACCERTAMENTO induttivo sono che il primo parte da uno scostamento del 25% del reddito mentre nel secondo caso ci sono motivazioni specifiche definite per Legge: omissione della Dichiarazione dei Redditi; mancata tenuta della contabilità o tenuta assolutamente irregolare (devono esserci evidenti segni di maneggiamento, correzioni, . ); il non soddisfacimento di richieste di documentazioni da parte dell’amministrazione finanziaria.


CASO: soggetto tenuto alla presentazione delle scritture contabili.

Una società presenta una propria Dichiarazione dei Redditi correttamente in via telematica (ormai le dichiarazioni inviate in via telematica non hanno in allegato documenti giustificativi di quanto si evidenzia; una volta si faceva un pacchetto contenente la dichiarazione a cui si allegavano tutte le spese). L’amministrazione finanziaria, entro il termine della presentazione dell’anno successivo, fa la liquidazione formale controllando se tutti i dati esposti nella dichiarazione sono stati messi al posto giusto, se tutti i calcoli sono stati fatti in modo corretto e se tutti i versamenti sono stati effettuati in modo adeguato e alle date stabilite. La liquidazione formale verifica che dal punto di vista della forma sia tutto corretto, senza entrare nel merito: anno dopo anno viene fatto il controllo formale, si va più a fondo e allora si comincia a vedere, ad esempio, una società che evidenzia un ammontare spropositato di spese. L’amministrazione finanziaria può o fermarsi qua o chiedere spiegazioni sulle spese documentate e se questo è un indice di qualcosa di non corretto può mandare i suoi funzionari o gli ufficiali della Guardia di Finanza ad eseguire un accesso d’ispezione operistica e quindi dare inizio alla procedura d’ACCERTAMENTO. Certamente non si parte mai con l’ACCERTAMENTO induttivo a meno che ci sia omissione della Dichiarazione dei Redditi. I funzionari della Guardia di Finanza incominceranno con l’ACCERTAMENTO analitico ma se arrivano all’interno della società e il titolare incomincia a non evidenziare o a nascondere dei documenti, o si nota che la contabilità è soggettivamente contraffatta oppure si hanno informazioni da persone terze (ad esempio, informazioni soggettive dalla banca), a questo punto quello che era l’ACCERTAMENTO analitico diventa un ACCERTAMENTO extra-contabile e quindi sulla base di presunzioni si va a ricostruire un reddito presunto.


La procedura d’ACCERTAMENTO deve concludersi con un atto formale cioè con l’emissione da parte dell’agenzia delle entrate del cosiddetto AVVISO DI ACCERTAMENTO che è un documento soggetto ad un procedimento particolare e le cui tre peculiarità sono sostanzialmente che:

deve essere evidenziato analiticamente al contribuente il tipo dell’imposta di cui sto parlando, qual è la base imponibile dichiarata da lui e qual è la base imponibile che io ritengo essere giusta;

questo avviso d’ACCERTAMENTO deve essere motivato

deve essere notificato al domicilio fiscale del contribuente


La dottrina dominante dice che la mancanza di uno solo di questi elementi rende nullo l’avviso d’ACCERTAMENTO che è quell’atto contro cui il contribuente potrà poi difendersi instaurando la procedura contenziosa.


Mentre gli accessi, le ispezioni e le notifiche possono essere fatti sia dall’agenzia delle entrate che dalla Guardia di Finanza, l’emissione dell’avviso d’ACCERTAMENTO può essere solamente fatta dall’agenzia delle entrate competente sul domicilio fiscale del contribuente.



15 ottobre 2004


LE SANZIONI DI CARATTERE PENALE

Le linee generali del nuovo sistema tributario entrato in vigore nel 2000. L’attuale DIRITTO TRIBUTARIO è stato introdotto nel nostro ordinamento non tantissimo tempo fa: nel 1999. Entrato in vigore nel 2000, sostituisce completamente il precedente SISTEMA SANZIONATORIO PENALE introdotto nel 1982. L’attuale disciplina penale deriva per così dire dalla crisi del vigente sistema pecuniario per cui si è dovuto sostituire il precedente sistema con uno nuovo.

Il sistema colpiva con sanzioni penali gli illeciti di evasioni ma accanto a questi reati erano previsti anche reati che consistevano in comportamenti preparatori ad una futura evasione (ad esempio, la mancata o l’insufficiente contabilizzazione dei ricavi). Non erano puniti solo reati di evasione già consumata ma anche comportamenti transitori all’evasione. Erano considerati inoltre reati penali le irregolarità certe e le irregolarità formali (ad esempio, chi non teneva la contabilità o chi non la teneva in modo corretto).


Questo sistema è entrato in crisi:

  per cause endogene i contribuenti stessi riconoscevano che il sistema qualificava come reati penali anche dei comportamenti puramente di carattere formale e quindi si è perso il senso della gravità del reato penale; e

  per cause esogene i procedimenti penali instaurati sono stati tantissimi, il nostro sistema si è visto sommergere da un gran numero di procedimenti tributari penali e di conseguenza questi ultimi non riuscivano ad avere una prosecuzione in quanto il sistema si bloccava.


Il sistema degli evasori prevedeva due tipi di reati:

le contravvenzioni illeciti che il legislatore qualificava di minore gravità e che erano puniti con una pena detentiva (arresto) e/o con una pena pecuniaria (multa). Questi reati potevano essere estinti tramite il procedimento di oblazione, vale a dire attraverso il amento di una somma di denaro;

i delitti reati penali di maggiore gravità che erano puniti con una pena detentiva e/o con una pena pecuniaria.


Ora sono conurati come reati penali SOLO i reati di evasione, non più i reati preparatori ad una futura evasione e nemmeno quelli derivanti o consistenti da irregolarità formale. Per il nuovo SISTEMA SANZIONATORIO del 2000, sono reati soltanto quelli che risultano da un’evasione vera e propria, già consumata. È stata prevista dal legislatore l’estinzione dei reati contravvenzionali, ora ci sono solo più i delitti, che non possono, a differenza di prima, essere estinti esclusivamente con il amento di una somma di denaro. Sono reati solo quelli più gravi, come la dichiarazione infedele, la dichiarazione omessa, l’uso di fatture false per aumentare i costi e altri reati di gravità eminente.


La sanzione contemplata è la reclusione maggiorata da alcune sanzioni accessorie, con durata maggiore rispetto alle sanzioni amministrative accessorie: interdizione non inferiore a 6 mesi e non superiore a 3 anni; incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione (impossibilità di partecipare agli appalti pubblici) non inferiore a 1 anno e non superiore a 3 anni.

Il contribuente che ha commesso il reato può avere un comportamento positivo nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Il comportamento di cui sopra si manifesta attraverso il amento spontaneo delle imposte una volta che il reato vi sia stato contestato. Ed allora, se il contribuente manifesta questa sua disponibilità ad eliminare l’illecito commesso in passato, le sanzioni possono essere ridotte: in particolare le sanzioni penali possono essere ridotte fino alla metà e le sanzioni accessorie possono essere annullate completamente (meccanismo determinante per il contribuente).


La norma penale in linea di principio non è retroattiva; la norma penale è però retroattiva quando un determinato reato viene colpito con una pena minore. La Legge del 1929 impediva questa retroattività delle norme più favorevoli al contribuente. È stata abrogata. Adesso il principio della retroattività è un principio che si applica in tutti i rami del nostro ordinamento tributario.


È possibile che lo stesso illecito sia previsto sia dalle sanzioni amministrative che dalle sanzioni di carattere penale (ad esempio, la dichiarazione infedele darebbe luogo sia a sanzioni di carattere amministrativo che a sanzioni penali). Ma nel nostro ordinamento c’è il principio della alternatività (una o l’altra) non può essere comminata sia una sanzione penale che una sanzione amministrativa: ci devono essere criteri in base ai quali deve essere operata dal magistrato una scelta. Questo problema si risolve in base al principio di specialità la specialità implica un’identità di tutti gli elementi che compongono le due fattispecie, però in un settore, o in quello amministrativo o in quello penale, vi è almeno un elemento ulteriore caratterizzante. Ad esempio, nel caso della dichiarazione omessa, se un contribuente ha escluso intenzionalmente una dichiarazione che darà luogo ad un’imposta di 180.000.000 di £, ci sarà una sanzione di carattere amministrativo più una sanzione di carattere penale; però in sede penale c’è quell’elemento in più che è la specialità: la norma penale prevede l’applicazione delle sanzioni penali nel caso in cui si superi la soglia di 150.000.000 di £.



LE IMPOSTE DIRETTE PRESENTI NEL NOSTRO ORDINAMENTO

Il sistema delle IMPOSTE DIRETTE è dato dal Testo Unico, Decreto Delegato n. 917 del 22/12/1986. Questo Testo Unico è stato riformato e aggiornato recentemente con la Legge n. 344 del 12/12/2003 entrato in vigore l’01/01/2004 il nuovo SISTEMA TRIBUTARIO non è ancora quello che la Legge Delega aveva preurato: vi sono alcune parti che non sono ancora state completamente attivate relativamente all’IRPEF, l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche. La Legge Delega è stata completamente attuata per la seconda IMPOSTA DIRETTA che era l’IRPEG, l’Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche e che ora si chiama IRES, Imposta sul Reddito delle Società. La terza IMPOSTA DIRETTA di cui si compone il nostro ordinamento è l’IRAP, Imposta Regionale sulle Attività Produttive relativamente alla quale si parla di una possibile abrogazione.


Imposta Sul Reddito Delle Persone Fisiche

L’IRPEF è un’imposta sul REDDITO ed ha come soggetti passivi le PERSONE FISICHE. Queste ultime sono potenziali soggetti passivi perché devono essere prodotti redditi per far sì che ci sia il presupposto di imposta. Le persone fisiche sono assoggettate all’imposta se hanno redditi in denaro o in natura (art. 1) i redditi in denaro o in natura rientrano nell’elenco delle diverse categorie in base a quanto prevede l’art. 6. Il problema è quello di tassare i redditi.

L’imposta colpisce i redditi non i proventi lordi per passare dai proventi lordi ai redditi bisogna sottrarre i costi le regole che il legislatore impone per questo passaggio sono diverse per il professionista da quelle per l’imprenditore.

Si è ritenuto necessario suddividere i redditi in categorie per disciplinare questo passaggio. Per ogni categoria, il legislatore dice quali sono le regole da applicare:

REDDITI FONDIARI, suddivisi in REDDITI DA FABBRICATI e REDDITI DA TERRENI, questi ultimi a loro volta sono composti da REDDITI DOMINICALI e REDDITI AGRARI;

REDDITI DERIVANTI DA LAVORO DIPENDENTE

REDDITI DERIVANTI DA LAVORO AUTONOMO

REDDITI DERIVANTI DA CAPITALE

REDDITI D’IMPRESA

REDDITI DIVERSI


L’IRPEF è un’imposta personale in quanto colpisce il cumulo dei redditi, cioè il reddito complessivo, non il singolo reddito ma il totale dei redditi.

L’IRPEF è un’imposta progressiva, questo significa che l’aliquota non è fissa come avviene nelle imposte proporzionali ha una percentuale di imposta che cresce all’aumentare del reddito e lo fa a scaglioni. La progressività dell’IRPEF si può rappresentare come una scala: fino ad un certo ammontare di reddito l’aliquota ha un certo valore, oltre quella determinata somma l’aliquota sarà diversa.


Le PERSONE FISICHE, soggetti passivi di imposta, possono essere:

  RESIDENTI vale il presupposto mondiale: i redditi che vanno a comporre il reddito complessivo sono tutti i redditi posseduti dalla persona fisica nel mondo, quindi redditi ovunque prodotti. Nel caso di una persona fisica residente in Italia che ha in Italia redditi da lavoro autonomo, ha in Italia redditi dominicali, e che possiede, ad esempio, un fabbricato in Sud Africa: il reddito complessivo sarà dato dal totale dei redditi conseguiti in Italia sommati al reddito realizzato in Sud Africa. La persona fisica residente si distingue a seconda che la residenza sia:

formale sono iscritti nell’anagrafe della popolazione residente; il periodo d’imposta è l’anno solare, occorre che la persona fisica sia iscritta nell’anagrafe suddetta per la maggior parte dell’anno (6 mesi e 1 giorno), non necessariamente continuativi;

effettuale persone fisiche che pur non essendo iscritte nell’anagrafe, risiedono in Italia per più di 6 mesi e 1 giorno nel corso dell’anno.

  NON RESIDENTI NELLO STATO vale il presupposto limitato: si considerano imponibili solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato italiano. Quindi se ho di fronte a me una persona fisica residente in Uganda che però in Italia possiede un terreno, questa persona è soggetta passivamente in Italia limitatamente ai redditi prodotti nel territorio italiano.


Nel nostro ordinamento tributario c’è un principio per cui sono vietate le doppie imposizioni nazionali o internazionali dovendo eliminarle è stato introdotto il meccanismo del CREDITO D’IMPOSTA: in questo modo il reddito prodotto all’estero entra nella formazione del reddito complessivo che vale ai fini IRPEF, in relazione all’importo del reddito complessivo si determina l’ammontare di aliquota dell’imposta, dall’imposta dovuta si tolgono le imposte che il contribuente ha ato agli Stati esteri per il reddito prodotto all’estero. Ad esempio, se ho una casa a New York, il reddito relativo a questo fabbricato rientra nel reddito complessivo ma alle imposte dovute allo Stato italiano si sottraggono le imposte già ate negli Stati Uniti. In questo modo il reddito prodotto all’estero entra nella formazione del reddito complessivo ma non avviene una doppia imposizione.

Supponiamo che una persona fisica abbia un reddito complessivo prodotto in Italia tale per cui l’imposta dovuta sia pari a 100; questa persona fisica residente ha anche un reddito prodotto all’estero, un appartamento a New York. Questo reddito, in base al presupposto mondiale, viene incluso nella base imponibile; quindi l’inclusione dell’imposta dovuta porta l’imposta totale da 100 a 120. Deve essere però concesso il credito di imposta. Quindi supponiamo che questa persona fisica residente in Italia per questo appartamento a New York abbia ato 25 all’Erario statunitense; ecco allora che per determinare l’imposta da versare all’Erario italiano dovrebbe essere consentito a questa persona di togliere da 120 le imposte già ate all’Erario statunitense (120 – 25 = 95). È successo che la diversa considerazione di questo appartamento per gli Stati Uniti e per l’Erario italiano ha comportato una diminuzione delle entrate: da 100 sono scese a 95. Però al massimo può succedere che il credito di imposta sia pari all’ammontare riconosciuto dall’Erario italiano per i redditi prodotti all’estero. Ed allora il credito di imposta non viene riconosciuto in misura totale ma solo per 20 (non per 25) l’imposta ata all’estero può portare ad un aumento dell’imposta ma mai ad una diminuzione della stessa (non si va al di sotto di 100): vale l’imposta ata all’estero ma il credito d’imposta non può produrre anche l’effetto di ridurre le entrate dell’Erario italiano per un importo superiore a quello che sarebbe stato se l’imposta del reddito prodotto all’estero non fosse stata corrisposta.


Per il presupposto limitato sono tassati i redditi prodotti nel territorio dello Stato dalle persone fisiche non residenti. Allora il problema da affrontare a questo punto consiste nel definire quali sono questi redditi. Se noi ci trovassimo di fronte ad un terreno o ad un fabbricato il problema non sussisterebbe; però la questione esiste nel momento in cui si tratta di altri tipi di reddito, diversi dai redditi fondiari. Il legislatore è intervenuto per stabilire quali condizioni deve avere un reddito per essere considerato prodotto in uno Stato e quindi tassato in capo a una persona fisica non residente:

REDDITI FONDIARI sono prodotti nel territorio di uno Stato quei redditi che derivano da beni immobili siti sul territorio dello Stato stesso;

REDDITI CHE DERIVANO DA LAVORO AUTONOMO sono prodotti nel territorio di uno Stato quei redditi derivanti da un’attività professionale sorta nel territorio dello Stato stesso. Ad esempio, un ingegnere tedesco che svolga un’attività professionale affermata a Berlino, viene chiamato in Italia per realizzare una perizia. L’ingegnere, che è sempre stato a Berlino e che ha la sua attività a Berlino, viene a Torino. In Italia si ferma 7 giorni, fa quello che deve fare, mette giù la sua relazione che consegna al cliente e torna in Germania. Arrivato a casa prepara la fattura e la manda al committente, la società torinese. Questo compenso per lavoro autonomo incassato dall’ingegnere è soggetto a tassazione in Italia. Risolto il problema dello stabilire se un reddito è tassabile o meno, sorge poi un quesito simile che è quello di come procedere con l’esazione dell’imposta. Quest’ultimo problema, il legislatore fiscale lo risolve rivolgendosi al cliente italiano, che viene designato come sostituto d’imposta e che deve fare una ritenuta alla fonte a titolo d’imposta trattenendo e versando l’importo che l’ingegnere dovrebbe are all’Erario italiano.

REDDITI CHE DERIVANO DA LAVORO DIPENDENTE la situazione è pressoché analoga: sono prodotti nel territorio di uno Stato quei redditi che vengono prodotti là dove l’attività viene svolta. Se, ad esempio, un dipendente della Ford viene mandato in Italia per svolgere un’attività a favore della Ford ma in Italia, quello che la Ford a a questo dipendente deve essere assoggettato a tassazione. Il problema è che il dipendente viene retribuito dal suo datore di lavoro e quindi manca il soggetto residente in Italia che possa essere designato come sostituto di imposta. Perciò in queste situazioni è abbastanza normale che il tributo non venga corrisposto per problemi di esazione che il sistema non è ancora riuscito a risolvere.

REDDITI CHE DERIVANO DA CAPITALE sono prodotti nel territorio di uno Stato quei redditi creati là dove risiede il soggetto che a gli interessi. Ad esempio, si pensi all’ipotesi in cui una banca francese conceda un finanziamento ad un’impresa italiana e quindi che ci siano dei capitali che dalla Francia affluiscono verso l’Italia. La società italiana, una volta ricevuti i flussi reddituali, dovrà are periodicamente degli interessi. Questi interessi sono prodotti in Francia perché il capitale utilizzato ha una fonte francese o in Italia perché sono il frutto del capitale utilizzato dall’impresa italiana che ha ricevuto il finanziamento? Il legislatore ha dato una disposizione precisa: i redditi di capitale si considerano prodotti in Italia perché vi risiede il soggetto che a gli interessi.

REDDITI D’IMPRESA sono prodotti nel territorio di uno Stato quei redditi dell’impresa creati in Italia e attraverso una stabile organizzazione, deve essere qualcosa di identificabile in modo concreto. Si pensi ad un’impresa francese che produce pneumatici e che compra delle parti importanti della fabbricazione del pneumatico in Italia. L’Italia è importante per questa impresa non solo perché è un mercato di approvvigionamento ma anche perché è un mercato di sbocco (non c’è solamente un aspetto produttivo ma c’è anche un aspetto commerciale). Infatti la società francese è presente a Torino con un centro di vendita e quindi è presente in Italia una stabile organizzazione della stessa.


I soggetti passivi sono le PERSONE FISICHE.

Per quanto riguarda la famiglia c’è da dire che ad essa non è riconosciuta la soggettività passiva di imposta come insieme di persone contribuenti. Soggetti passivi sono separatamente i coniugi o i li o comunque i componenti della famiglia che producano reddito.

Un problema che sorge è relativo ai redditi derivanti dal patrimonio familiare. I coniugi hanno la possibilità di scegliere tra due opzioni: la comunione o la separazione dei beni. Nel caso della separazione, ogni coniuge ha i propri beni e quindi non c’è problema. Se invece si ha comunione, i redditi prodotti da beni in comunione familiare sono attribuibili per il 50% a ciascun coniuge.

Questione ulteriore si pone per i redditi dei li minori che ad esempio possiedano patrimonio cospicuo. I soggetti passivi dell’imposta sono i genitori in quanto esercitano la potestà tutoria dei li minori senza l’obbligo di rendiconto.

Un caso particolare è quello del minore che sia lavoratore dipendente (ad esempio, un ragazzo di 17 anni che percepisce una retribuzione conseguente alla prestazione del proprio lavoro). Questo comporta una sorta di emancipazione: i soggetti passivi dell’imposta non sono i genitori ma è il minore stesso; gli obblighi formali sono tuttavia in capo ai genitori (ad esempio, il dovere di presentare la dichiarazione dei redditi).

La famiglia ha riconoscimenti nel senso che vengono concesse agevolazioni a chi ha l’obbligo di mantenimento nei confronti di altri componenti della stessa. Se, ad esempio, tra due coniugi, uno solo consegue reddito vi è l’obbligo civilistico al mantenimento dell’altro. In questo caso al coniuge che si deve occupare del sostentamento viene concesso un alleggerimento tributario in termini di detrazioni di imposta. Dall’imposta dovuta all’Erario si detrae un determinato importo che va a ridurre le imposte che devono essere corrisposte. Se entrambi i soggetti possiedono redditi è chiaro che questa agevolazione non viene riconosciuta a nessuno. Ma la detrazione viene riconosciuta anche quando vengono mantenuti i li, in funzione al numero di essi.

In questo caso si è parlato di detrazione di imposta in altri casi si parlerà di deduzione di imposta. La deduzione è un certo importo che va a ridurre l’imponibile, cioè la somma dei redditi. La detrazione è un certo importo che va a ridurre l’imposta (ad esempio, coniuge o li a carico).


Le PERSONE FISICHE sono soggetti passivi dell’IRPEF, per quanto riguarda le persone giuridiche c’è una nuova imposta che prima si chiamava IRPEG.


Imposta Sul Reddito Delle Società

L’IRES è un’imposta personale, in quanto colpisce tutti i redditi conseguiti.

I soggetti passivi sono le società commerciali con personalità giuridica. Nel nostro ordinamento vi sono alcuni tipi di società che hanno personalità giuridica: le società per azioni, le società a responsabilità limita, le società in accomandita per azioni, le società a conduzione pubblica a responsabilità limitata.


Imposta Regionale Sulle Attività Produttive

L’IRAP è un’imposta reale che colpisce alcuni tipi di reddito e non il reddito complessivo.



Le imposte personali, IRPEF e IRES, riguardano quindi rispettivamente le persone fisiche e le persone giuridiche. Il campo dei soggetti economici che conseguono redditi però non è esaurito perché vi sono altre persone, non fisiche né giuridiche, che possono conseguire redditi anche importanti. Ad esempio, le società in nome collettivo sono società commerciali, non sono persone fisiche perché sono una società, non sono persone giuridiche perché non hanno personalità giuridica e quindi non sono soggette né ad IRPEF né ad IRES.

In effetti restano al di fuori le società di persone: le società in nome collettivo, le società in accomandita semplice, le società di fatto, le società semplici. È vero che non sono soggetti passivi né dell’IRPEF né dell’IRES, sono però soggetti passivi di accertamento. Il legislatore ha deciso che quando ci si trova davanti ad una delle suddette società, una volta determinato il reddito che essa consegue, quest’ultimo non è tassato in capo alla società ma viene imputato ai soci; automaticamente entra nel reddito complessivo di ciascun socio e subisce la tassazione ad opera dell’imposta personale. La tassazione del reddito della società avviene per imputazione in capo ai singoli soci. L’imputazione è diversa dalla distribuzione il reddito deve essere tassato a prescindere dalla distribuzione, e quindi a prescindere dalla decisione dei soci di distribuire o meno gli utili conseguiti. L’utile distribuito non è soggetto a tassazione, perché dato che la tassazione avviene per imputazione è chiaro che in un momento successivo, quello della distribuzione, non ci può essere un’altra tassazione.

Per quanto riguarda le società di capitali, non viene tassato l’utile imputato ai soci ma SOLO l’utile distribuito. Se, ad esempio, ho un’azione della società Fiat, per me socio conta solo la quota che mi viene distribuita come dividendo e non la quota imputata.


L’IRPEF è un’imposta progressiva e colpisce il reddito complessivo: entrano a comporre il reddito complessivo in prima battuta tutti i redditi conseguiti dalla persona fisica. Però vi sono redditi che la persona fisica consegue, che vengono percepiti in un certo momento ma che sono stati prodotti invece in un arco di tempo a volte pluriennale (ad esempio, il trattamento di fine rapporto di lavoro indennità che il lavoratore percepisce in una circostanza, il momento in cui cessa il rapporto di lavoro, ma che è maturato durante tutta la durata del rapporto). Se questo tipo di reddito entrasse in un certo momento a concorrere alla formazione del reddito complessivo comporterebbe che quest’ultimo subirebbe un grande innalzamento e che quindi le aliquote dell’imposta sarebbero soggette anch’esse a questo aumento. Il reddito in questione subirebbe dunque una tassazione veramente forte proprio perché verrebbe tassato in un determinato momento, quello in cui viene corrisposta. Per queste ragioni si è tenuto giusto sottoporli a una tassazione separata stralciandoli cioè dal cumulo degli altri redditi.









21 ottobre 2004


I REDDITI CON TASSAZIONE SEPARATA

Vi sono alcuni redditi che vengono recepiti in un determinato momento, ma sono prodotti in più anni. Ad esempio, il trattamento di fine rapporto di lavoro il lavoratore dipendente percepisce al momento della cessazione del lavoro questa indennità che però matura attraverso accantonamenti versati nell’arco della vita lavorativa, arco di tempo pluriennale. È una somma cospicua che, tassata nel momento in cui viene percepita, farebbe aumentare notevolmente l’imponibile di quel periodo; di conseguenza la progressività farebbe aumentare l’imposta in modo più che proporzionale. Questo reddito subirebbe una tassazione molto forte. E allora questa particolare incidenza è stata ritenuta dal legislatore come non imponibile ai fini IRPEF. Il legislatore ha introdotto dei sistemi di tassazione più favorevoli al contribuente, definendo questi come redditi con TASSAZIONE SEPARATA rispetto agli altri ricavi. Questi redditi fanno eccezione alla regola perché non concorrono alla formazione del reddito complessivo; sono invece tassati separatamente con criteri di favore.



I due casi particolari da mettere in evidenza sono i seguenti:

  L’indennità di fine rapporto di lavoro è una somma che il lavoratore dipendente percepisce quando il rapporto di lavoro cessa ma che matura in un arco di tempo pluriennale. Sulla base del Codice Civile e dei contratti di lavoro, ogni anno il datore accantona in un fondo una certa base della liquidità di fine rapporto che in genere corrisponde ad una mensilità, cioè un dodicesimo della retribuzione annua; questo fondo con l’andare del tempo si incrementa sempre più, non solo per l’accantonamento annuo. Il legislatore ha stabilito che queste somme accantonate possano essere viste come crediti che fanno maturare interessi: occorre che questi compensi siano accreditati al fondo nella percentuale dell’1,50%. Il legislatore mette in evidenza anche la presenza di una svalutazione che purtroppo opera: occorre che questi redditi accantonati siano rivalutati tramite un’ulteriore maggiorazione pari al 75% dell’indice ISTAT, per tenere conto del fatto che sono redditi a scadenza. Quindi, ogni anno l’accantonamento aumenta per la quota di competenza (la mensilità) più l’1,50% degli interessi più lo 0,75% tenuto conto della svalutazione.

Annualmente il datore di lavoro che viene istituito come sostituito di imposta deve versare un dell’1,50% e dello 0,75%. Questo 11% di imposta è una tassazione definitiva di tali componenti. Quando il rapporto di lavoro cessa, non tutta l’indennità è sottoposta a tassazione perché una parte è già stata assoggettata durante il rapporto di lavoro. Resta da tassare la quota accantonata dal datore di lavoro corrispondente alla mensilità.

Per procedere ci sono due fasi che occorre affrontare. La prima è una fase di acconto, la seconda è una fase di tassazione definitiva. La fase di acconto corrisponde ad un prelievo che il datore di lavoro deve effettuare nel momento in cui corrisponde l’indennità di fine rapporto al lavoratore dipendente. Il datore di lavoro trattiene una determinata somma. Poi c’è una fase di conguaglio di tassazione definitiva, attuata dall’amministrazione finanziaria in diversi stadi. L’indennità di anzianità corrisponde all’accantonamento di una mensilità effettuata in ogni anno di durata del rapporto di lavoro. Se questa indennità viene divisa per il numero di anni di durata del rapporto suddetto si ottiene una annualità media. Se questa mensilità media la divido per 12, si ottiene una mensilità media retributiva che sarà di un determinato ammontare. Applico a questo risultato le percentuali di tassazione IRPEF previste dalla Legge. Istituisco poi un rapporto ponendo al numeratore l’imposta che ho ottenuto e al denominatore l’annualità media retributiva; ho in questo modo una percentuale che applico all’indennità di fine rapporto e ne risulta in fine la somma che il datore di lavoro deve trattenere al momento in cui a il TFR. Questa non è però una tassazione definitiva: è una tassazione d’acconto.

L’amministrazione finanziaria prevede che vengano considerati i redditi complessivi del quinquennio precedente dei quali si fa la media. L’imposta si calcola applicando a questa media l’aliquota IRPEF prevista dalla Legge. Questa è la percentuale di tassazione definitiva, un certo importo però era già stato richiesto al dipendente nel momento in cui ha subito la tassazione in via d’acconto e quindi sarà chiesta al dipendente solo la differenza.


  L’avviamento è un reddito a formazione pluriennale; è il maggior valore che un’azienda possiede rispetto agli elementi patrimoniali che la compongono il maggior valore che consiste nella capacità di reddito e che flette l’impegno dell’imprenditore. Questa non è una cosa che si ipotizza, è un plusvalore che tende ad incrementarsi anno dopo anno, dal momento di inizio dell’azienda fino al momento in cui essa viene ceduta. L’avviamento è tassato separatamente, non fa parte del reddito complessivo in quanto è un reddito a formazione pluriennale.

Il legislatore ha fatto una considerazione ulteriore a favore del contribuente. È sempre bene togliere l’avviamento dal reddito complessivo? Non è che per il contribuente è più conveniente lasciarlo? Dipende, in base al fatto che l’impresa produca un’utile o una perdita. Ad esempio, se l’impresa è ceduta lo 01/10/2004 e dallo 01/01/2004 ha prodotto una perdita, quella perdita concorre alla formazione del reddito complessivo. Non procedendo a tassazione separata quella perdita può annullare il valore dell’avviamento ai fini tributari. Se quindi vendendo si realizza un valore di avviamento di 100.000 € e dallo 01/01/2004 allo 01/10/2004 è stata prodotta una perdita di 80.000 €, facendo partecipare l’avviamento al conteggio del reddito complessivo, verrebbero tassati 20.000 € (100.000 € – 80.000 €). In quel caso è possibile che l’imprenditore stabilisca che l’avviamento sia tassato nel cumulo dei redditi piuttosto che con tassazione separata.

Siccome in sostanza si ha l’interesse del contribuente, gli si dà la possibilità di scegliere in base alla situazione in cui si trova. La tassazione separata non è un obbligo ma è una facoltà. Se l’imprenditore decide di procedere a tassazione separata, si deve tassare l’avviamento con l’aliquota corrispondente al reddito medio complessivo del biennio precedente, ottenendo così una certa percentuale che si applica al valore dell’avviamento.



LE SEI CATEGORIE DI REDDITO

I Redditi Fondiari

I REDDITI FONDIARI (Testo Unico, capo II, art. 25 e ss) sono quei redditi inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono iscritti con attribuzione di rendita nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano.

Il REDDITO DEI TERRENI si distingue in:

  Reddito dominicale parte del reddito che spetta al proprietario che dispone del fattore produttivo terra;

  Reddito agrario parte del reddito che compete al soggetto che coltiva il terreno.

I due tipi di reddito possono competere allo stesso soggetto o a due soggetti diversi (ad esempio, il coltivatore diretto che affitta il fondo da un terzo).

La determinazione di questi redditi avviene su base catastale: il territorio è diviso in tante particelle a ciascuna delle quali sono attribuiti un reddito dominicale e un reddito agrario che non corrispondono al reddito effettivo, ma ad un reddito medio.

Il REDDITO DEI TERRENI è determinato periodicamente ma con una cadenza lunga; durante questo periodo è però possibile che il legislatore fiscale introduca una percentuale di rivalutazione.

Il nostro è un sistema catastale puro, non superabile e obbligatorio. Si dice che il fatto che il reddito agrario corrisponda a un reddito medio ordinario è un qualcosa di positivo è un elemento di incentivazione perché in sostanza ci possiamo trovare di fronte ad un agricoltore particolarmente attivo che riesce a realizzare un soprareddito che non è soggetto a tassazione. Tuttavia per l’agricoltore non preparato o che non abbia voglia di lavorare c’è una penalizzazione perché se consegue un reddito minore viene comunque tassato il reddito agrario. Per questi motivi si parla di “incentivo” per l’agricoltore ad essere maggiormente efficiente.

Il sistema catastale è obbligatorio ma non ceco ad esempio, prevede che, se in un determinato anno ci sono stati elementi naturali eccezionali (inondazioni, grandine, . ) che hanno provocato danni, vengano rivisti gli estimi redditizi catastali che riguardano non soltanto i terreni ma anche i fabbricati.


Anche per quanto riguarda i REDDITI DEI FABBRICATI, la tassazione avviene su base catastale: tutti i fabbricati con esclusione di quelli agricoli hanno un catasto il catasto dei fabbricati urbani in cui ogni fabbricato è diviso in unità abitative ciascuna delle quali ha un determinato reddito che tiene conto di vari fattori che possono incidere sulla redditività.

C’è una differenza tra sistema catastale dei fabbricati e sistema catastale dei terreni: il primo non è puro come quello dei terreni ma è per così dire “ibrido” nel senso che per determinare la base imponibile d’imposta occorre considerare anche il reddito effettivo, vale a dire il canone, e quindi non solo la rendita catastale. Il reddito catastale è quindi un’entrata stabilita dal catasto che corrisponde alla redditività ordinaria di una determinata zona, però è un reddito netto cioè tenuto conto anche degli oneri che il proprietario deve sostenere per il fatto di essere tale (ad esempio: spese assicurative, oneri ordinari e straordinari, costo dell’amministrazione se si tratta di condominio, . ). Il legislatore ha tenuto conto di queste spese e così la rendita catastale è un reddito medio netto continuativo. Il canone invece è un provento lordo al quale devono sottrarsi le spese sostenute dal proprietario per ottenere il reddito netto. Ma se ogni proprietario deve documentare dimostrando le spese sostenute, c’è il pericolo che si vada incontro a difficoltà che potrebbero rendere il sistema troppo pesante. La Legge allora prevede che le spese relative alla proprietà siano pari al 15%, quindi è stata stabilita una percentuale e non vengono sottratte le spese che effettivamente il proprietario ha sostenuto. Togliendo questa percentuale al provento effettivo lordo si ha il canone che si confronterà con il reddito catastale per decidere quale dei due debba essere preso in considerazione in sede fiscale. Il legislatore impone che sia preso in considerazione il più alto dei due importi.


I Redditi Derivanti Da Capitale

I REDDITI DI CAPITALE sono prodotti da un capitale che viene impiegato dove il reddito è dovuto in misura predeterminata l’elemento rischio non c’è perché altrimenti sarebbe considerato reddito d’impresa e non REDDITO DI CAPITALE (ad esempio, un soggetto fa un prestito ad un terzo e su questo finanziamento è dovuto un determinato tasso di interesse).

I REDDITI DI CAPITALE sono redditi sui quali non grava il rischio della gestione, quindi sono dovuti in misura fissa. Il legislatore non da’ una nozione di carattere generale ma fa’ un’elencazione. Il REDDITO DI CAPITALE più caratteristico è costituito dagli interessi; sono REDDITI DI CAPITALE anche gli utili distribuiti dalle società di capitali (i dividendi: se, ad esempio, io ho un’azione della Pirelli e la Pirelli mi a 0,40 € per ogni azione che possiedo, questo dividendo corrisposto dalla società di capitali è un REDDITO DI CAPITALE).


Relativamente agli interessi bisogna affrontare 2 problemi: il problema del quanto e il problema del quando. Il primo è il problema di identificare i criteri sulla base dei quali un provento lordo si trasforma in reddito netto identificare quali, quante e a quali condizioni queste spese sono fiscalmente deducibili dai proventi lordi al fine di trasformarsi in proventi netti. Anche in relazione ai REDDITI DI CAPITALE si possono facilmente ipotizzare delle spese di produzione (ad esempio, le spese di trasferimento in relazione al amento degli interessi). In che misura il legislatore fiscale riconosce la possibilità di ridurre queste spese? In nessuna misura i REDDITI DI CAPITALE vengono considerati nel nostro sistema come redditi netti.


Il problema del quando è quello di individuare il momento in cui gli interessi diventano tassabili. Il legislatore si pone due alternative: vale la competenza o il recepimento? Ad esempio, stipulo un contratto con una terza persona con ad oggetto un prestito di una certa somma di denaro sulla quale è stato convenuto che la rendita è equivalente ad una data percentuale d’interesse con maturazione al 31/12. Il 27/12 il debitore mi chiama e mi chiede se mi può are gli interessi con un mese di ritardo, e quindi entro il 31/01, perché ha problemi di liquidità. La tassazione deve essere fatta al 31/12 oppure nell’anno dopo perché gli interessi sono stati recepiti a gennaio? Vale il recepimento per cui questi REDDITI DI CAPITALE dovranno essere dichiarati nell’anno successivo.


A proposito delle presunzioni, nel Codice Civile è stabilito che il denaro si presume per sua natura produttivo di frutti. Per cui quando si effettua un finanziamento quest’ultimo si suppone produttivo di interessi. Le parti possono superare questa definizione e pattuire che quel particolare finanziamento non preveda una remunerazione. In questo caso deve essere redatto un atto scritto. Dal punto di vista fiscale la presunzione è diversa: c’è una presunzione di percepimento, cioè si presume, sulla base del diritto tributario, che gli interessi presunti siano stati recepiti.


La distribuzione di dividendi che non costituiscono redditi di natura capitale. I dividenti distribuiti da società di capitali costituiscono redditi di natura capitale; però vi sono casi in cui i dividendi distribuiti da società di capitali non creano reddito di natura capitale e questo avviene quando le riserve utilizzate dalla società ai fini della distribuzione sono riserve di capitali, cioè riserve non costituite con utili (ad esempio, la riserva da sovrapprezzo azioni). A volte succede che la società ritenga che il proprio patrimonio sia eccessivo e quindi procede alla distribuzione di riserve e a volte riserve di questo tipo. Questi dividendi non sono soggetti a tassazione ciò che il socio riceve non è un dividendo costituito con utili della società ma si è in una situazione di restituzione di capitale, di un patrimonio in precedenza versato alla società.


Azioni con quote gratuite. A volte le società che hanno delle riserve nel proprio patrimonio decidono di trasferirle al capitale sociale aumentandolo. A fronte di questo aumento vengono emesse nuove azioni che vengono assegnate ai soci in proporzione alle azioni o alle quote da loro possedute. Per il socio che si vede assegnare delle azioni gratuite, queste azioni rappresentano reddito? No, non sono reddito per il socio perché riceve quote gratuite, non si è arricchito, ha solo nel portafoglio più carta, la quota che aveva prima è rimasta invariata il PN è rimasto lo stesso!



I Redditi Derivanti Da Lavoro Dipendente

I REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE (Testo Unico, capo IV, art. 49 e ss) sono redditi che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro alla dipendenza e sotto la direzione di altri. Il lavoro è la fonte del reddito. La dipendenza è l’elemento caratterizzante. Irrilevante è il tipo di qualifica (operai, impiegati, dirigenti, . ).


Anche per questa categoria di reddito, bisogna affrontare il problema del quanto e il problema del quando. Le spese di produzione del lavoratore dipendente sono ad esempio il costo della benzina, l’ammortamento dell’auto con cui ci si reca sul posto di lavoro, il pranzo, l’abito (certi posti di lavoro ne richiedono uno particolare), . . Queste spese di produzione sono in deduzione? No, non sono ammesse in deduzione in alcuna misura ma il legislatore si è reso conto che questa è un’ingiustizia. Ai fini fiscali queste spese non vengono riconosciute, nessun costo è ammesso in deduzione perché il rapporto fiscale diventerebbe estremamente complesso. Al lavoratore dipendente viene però riconosciuta una detrazione in termini di imposta, detrazione graduale che tende a diminuire con l’aumentare del REDDITO DA LAVORO DIPENDENTE per tenere conto in modo forfetario delle spese di produzione che non sono dedotte dall’ammontare del reddito.


Per quanto riguarda il problema del quando c’è l’alternativa tra la competenza (maturazione) o il percepimento (cassa). Ad esempio, viene effettuato un lavoro straordinario nel mese di dicembre di un dato anno: la maturazione del lavoro sorge nel mese di dicembre ma il amento viene compiuto a gennaio per il lavoratore dipendente vale il recepimento, la maturazione è irrilevante. La retribuzione non è solo composta dalle somme di denaro che devono essere corrisposte per contratto ma anche da altre somme che il datore di lavoro a ad alcuni dipendenti pur non essendovi obbligato: anche queste somme rientrano nel concetto di retribuzione perché hanno origine dal rapporto di lavoro.


Accanto ai redditi di lavoro in senso proprio, vi sono dei redditi assimilati ai REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE equiparati a questi ultimi dal legislatore tributario: ad esempio, i compensi agli amministratori e i compensi ai sindaci.


Vi sono poi somme corrisposte ai dipendenti che ai fini fiscali non costituiscono reddito: ad esempio, i rimborsi delle spese a piè di lista (accomnati da pezze d’appoggio) ed i rimborsi spese a base diaria, stabiliti cioè a priori che non costituiscono REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE a patto di non superare un certo importo.


Le stock options si concretizzano con la facoltà concessa ai dipendenti di sottoscrivere azioni della società dalla quale dipendono, non da’ luogo a reddito nel caso in cui, in un momento iniziale, il datore di lavoro da’ la possibilità di sottoscrivere azioni della società (con valore non inferiore al valore delle azioni). Questo potere dura un certo arco di tempo (ad esempio, 2 o 3 anni); se però il valore delle azioni aumenta, il potere di sottoscrivere le azioni è sulla base del valore proposto inizialmente, per questo il dipendente sarà portato ad impegnarsi affinché la società raggiunga risultati positivi le azioni assumono un maggiore valore perché la società va bene, produce utili e quindi si ha un guadagno che non costituisce reddito ai fini fiscali. Le stock options sono diffuse ma hanno delle controindicazioni.



Il REDDITO DA LAVORO AUTONOMO ha una definizione un po’ complicata perché bisogna tenerlo separato dal REDDITO D’IMPRESA. Finiscono entrambi nella stessa macro classe ma le regole per la determinazione del reddito netto sono differenti.

29 ottobre 2004


I Redditi Derivanti Da Lavoro Autonomo

La nozione è abbastanza complessa occorre individuare da quali casi deriva il REDDITO DA LAVORO AUTONOMO e da quali casi deriva il REDDITO D’IMPRESA. A seconda che l’attività sia collocata in un ambito o in un altro i criteri variano.

Il primo problema è quello di sapere cosa si deve intendere per REDDITO DA LAVORO AUTONOMO.

I REDDITI DA LAVORO AUTONOMO (Testo Unico delle Imposte Dirette, Capo V, art. 53) derivano dall’esercizio per professione abituale (non si tratta di attività sporadiche ma di attività caratterizzate dalla continuità nel tempo) ancorché non esclusivo (non deve essere svolta per forza da sola).

Il criterio di individuazione del reddito è particolare: è di segno negativo. La Legge dice che bisogna considerare l’area complessiva del lavoro non dipendente ed allora consideriamo sia il lavoro autonomo, sia l’attività d’impresa (lavoro non svolto alle dipendenze di altri).

Il legislatore dà quindi dei principi precisi per i quali si determinano i REDDITI D’IMPRESA; ciò che resta è il REDDITO DI LAVORO AUTONOMO (per questo è un criterio negativo).

Art. 55 del Testo Unico i REDDITI D’IMPRESA derivano dall’esercizio di imprese commerciali, esercitate per professione abituale, non esclusiva e dall’esercizio di altre attività indicate nell’art. 2195 del Codice Civile: nozione di imprenditore commerciale elencazione delle attività:

  attività industriali dirette alla produzione di beni

  attività industriali dirette alla prestazione di servizi

  attività di trasporto

  attività bancarie e assicurative

  attività ausiliarie alle precedenti

Il soggetto che svolge una di queste attività realizza REDDITO D’IMPRESA. La Legge però dice che queste attività danno luogo a REDDITO D’IMPRESA anche se non sono organizzate in forma di impresa secondo il Codice Civile la forma materiale che assume l’impresa è costituita dall’azienda. A questo punto c’è una diramazione tra diritto tributario e diritto civile: secondo la dottrina prevalente non esiste impresa civilistica se essa non si avvale di un’azienda per lo svolgimento dell’attività (senza l’azienda non c’è l’impresa); per il diritto tributario per aversi REDDITO D’IMPRESA occorre che siano svolte quelle attività indicate dall’art. 2195 del Codice Civile anche se non ci si avvale di un’azienda.

Ad esempio, un agente (intermediario collaboratore dell’imprenditore) è un soggetto autonomo che svolge un’attività indipendente consistente nel promuovere affari per conto dell’imprenditore. Sui contratti così conclusi viene remunerata una commissione o una provvigione. L’agente è un ausiliario dell’imprenditore quindi svolge una di quelle attività indicate nell’art. 2195 del Codice Civile. Questo agente può avvalersi di una struttura anche considerevole: può essere contattato da diversi clienti e avere un certo numero di dipendenti che dispongono, ad esempio, di mezzi di trasporto di proprietà dell’agente che inoltre può avere anche una struttura amministrativa importante. Questo soggetto perciò svolge un’attività a favore dell’imprenditore avvalendosi di una struttura organizzativa significativa quindi di un’azienda si tratta perciò di REDDITO D’IMPRESA.

Un esempio diverso: un’agente promuove affari per un imprenditore che produce tondini di ferro e per far stipulare i relativi contratti ha un elenco di venti potenziali clienti. Il suo mestiere è di interpellare periodicamente questi possibili clienti per sentire se hanno bisogno dei tondini. Si può ipotizzare che l’agente non abbia un’azienda, che faccia questo lavoro a casa e quindi non disponga di una struttura. È svolta una delle attività indicate nell’art. 2195 del Codice Civile, non occorre che si avvalga anche di una struttura organizzativa importante, è sufficiente che svolga l’attività perciò si tratta anche in questo caso di REDDITO D’IMPRESA (è irrilevante la forma dell’impresa!)

Ulteriore ipotesi in cui si conura il REDDITO D’IMPRESA, nel caso dei REDDITI AGRARI, e precisamente dell’agricoltore che esercita un’attività di allevamento di centinaia di capi (forma di allevamento intensivo). Il reddito derivante da quell’allevamento non è REDDITO AGRARIO perché il legislatore ha dato un limite. Se si supera questa soglia si esce dal REDDITO AGRARIO e si entra nel REDDITO D’IMPRESA.

Ad esempio, l’allevatore che svolge l’attività di trasformazione del latte producendo prodotti caseari, rientra nel REDDITO AGRARIO. Ma se il nostro agricoltore, per completare la potenzialità dell’impianto di cui si è dotato, compra del latte dai vicini: il latte prodotto da lui deve essere almeno la metà del latte che trasforma. Se il latte che acquista da terzi diventa prevalente, l’attività di trasformazione non darà più luogo a REDDITO AGRARIO ma a REDDITO D’IMPRESA.


Sono REDDITI D’IMPRESA i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma di impresa diretti alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 del Codice Civile. Stiamo prendendo in considerazione la prestazione di servizi non rientranti nell’art. 2195 del Codice Civile che invece tratta di servizi uniformi. Qui si parla di servizi ad personam (ad esempio, la mia auto ha un guasto meccanico, vado da un meccanico che mi fa una riparazione cioè mi presta un servizio che è diverso da quello che può fare ad un’altra macchina): non c’è uniformità di servizi, non sono servizi standard ma tengono conto delle caratteristiche volute da chi li richiede. Sono servizi che danno luogo a REDDITI D’IMPRESA purché siano prestati nell’ambito di attività organizzate in forma d’impresa (questa eccezione ritorna ma in modo diverso rispetto ai casi precendenti). Ad esempio, ho bisogno di un vestito e invece di comprarlo fatto me lo faccio fare da una sarta. Entro in una sala dove ci sono 10/12 lavoratori, ognuno ha il proprio tavolo, ognuno ha delle attrezzature: questo complesso di beni organizzati da’ luogo ad un’azienda, c’è la forma di impresa quindi si tratta di REDDITI D’IMPRESA. Oppure, seguendo sempre lo stesso esempio, vado da una sarta, un’amica che lavora da sola, prende le misure con il suo metro, ha le forbici, ha la macchina da cucire: la struttura aziendale è inesistente, non c’è la forma di impresa, c’è lo svolgimento di un’attività, c’è una prestazione di servizi ad personam ma manca la condizione dell’organizzazione in forma di impresa quindi si tratta di REDDITO DI LAVORO AUTONOMO.


Tutti i redditi conseguiti dalle società commerciali devono essere considerati come realizzati nell’ambito dei REDDITI D’IMPRESA.


Ora sappiamo quali attività danno luogo a REDDITI D’IMPRESA e quindi per il criterio negativo sappiamo anche quali danno luogo a REDDITI DI LAVORO AUTONOMO.


Il problema del quanto: come si determina il REDDITO DA LAVORO AUTONOMO? Si tolgono dai corrispettivi conseguiti tutte le spese inerenti sostenute nello svolgimento dell’attività di lavoro autonomo. Ad esempio, un commercialista va a Roma ad un convegno sul diritto tributario e fa fronte a spese sostenute nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo: questo soggiorno romano può essere deducibile. Si può fare un’altra ipotesi: la visita a Roma è una vacanza, magari trascorsa con la moglie. Gli oneri sostenuti non potranno essere dedotti perché non inerenti all’attività. Il principio di inerenza è condizione determinante.


Il problema del quando: quando un componente positivo deve essere considerato ai fini della tassazione del reddito? Il principio è quello del momento in cui la spesa è sostenuta o il ricavo é conseguito principio di cassa, conta il momento del percepimento. Ad esempio, un commercialista ha fatto una consulenza di carattere tributario a fine novembre di un certo anno e il cliente lo a a gennaio dell’anno successivo. La tassazione dovrà essere effettuata nell’anno successivo. Altrettanto le spese: questo è un principio che riguarda sia i componenti positivi che i componenti negativi di reddito.

A questo principio però ci sono due eccezioni:

  l’accantonamento a trattamento di fine rapporto di lavoro il momento di cassa del T.F.R. si verifica alla fine del rapporto di lavoro, nel momento in cui sarà corrisposto. L’accantonamento è deducibile (si ammette la deducibilità della quota maturata).

  gli ammortamenti il costo dei beni che il lavoratore autonomo acquista per lo svolgimento della sua attività (beni strumentali) non è deducibile direttamente ma lo è con quote di ammortamento del 20%, quindi in 5 anni.


I Redditi D’Impresa

La nozione del REDDITO D’IMPRESA è stata vista come principio determinante per la nozione del REDDITO DA LAVORO AUTONOMO. Quindi passiamo al problema della determinazione del REDDITO D’IMPRESA. L’art. 52 del vecchio Testo Unico (art. 56 del nuovo Testo Unico) dice che l’imprenditore, ai sensi del Codice Civile, è tenuto ad un obbligo di contabilità sistematica ed è tenuto ad un obbligo di redigere annualmente il Conto Economico e la Situazione Patrimoniale. Il legislatore tributario precisa che si parte dal risultato civilistico che emerge dal Conto Economico. A quest’ultimo vengono apportate variazioni in aumento e variazioni in diminuzione per via dell’esigenza determinata dal fatto che su alcuni punti importanti la disciplina tributaria non coincide con la disciplina civilistica. Quindi la correzione del risultato civilistico, per portarci ad avere il risultato fiscale, avviene attraverso variazioni.

Prima della riforma del 1973 era attuato il sistema del doppio binario: in sede civile si partiva dall’inizio e si determinava il risultato civilistico; in sede tributaria altrettanto, si iniziava da capo e si determinava il risultato fiscale. Le due procedure si svolgevano in modo separato e autonomo, di conseguenza non si confondevano.

Ora, ai fini tributari, si assume il risultato civilistico e poi si assumono le variazioni in aumento o in diminuzione. Le regole sono diverse.


Il percorso parte dall’individuazione di principi di carattere generale di determinazione del REDDITO D’IMPRESA. Principi che consistono nella risoluzione dei seguenti problemi.


Il problema del quando: i componenti positivi e i componenti negativi del REDDITO D’IMPRESA sono fiscalmente rilevanti in funzione della cassa o in funzione della competenza? Per il REDDITO D’IMPRESA ciò che conta è la competenza, a differenza dei REDDITI DA LAVORO AUTONOMO per i quali conta la cassa. Il principio della competenza è ancora un principio indeterminato. Il legislatore entra nel dettaglio e indica con precisione cosa si deve intendere per competenza. Per quanto riguarda la vendita di beni mobili è rilevante la consegna ed è irrilevante l’eventuale amento o l’emissione della fattura. Per i beni immobili e per i beni mobili registrati ciò che conta è la stipula dell’atto scritto. I servizi possono essere considerati ai fini della formazione dei ricavi nel momento in cui vengono ultimati.

La sola competenza non è sufficiente. Deve sussistere un ulteriore requisito la determinabilità oggettiva, cioè la certezza dei componenti negativi e positivi di reddito. Ad esempio, una macchina operatrice si rompe in un’officina di Torino, viene chiamato un esperto di Padova per ripararla; questo signore, una volta arrivato a Torino con il suo furgone e le sue attrezzature, comincia a fare la riparazione. Presta quindi all’impresa un servizio e il momento fiscalmente rilevante è quello dell’ultimazione. L’esperto finisce e la macchina funziona perfettamente. Ovviamente l’aspetto che rimane da prendere in considerazione è relativo alla fattura. Si arriva al 31/12 e quest’ultima non è ancora stata ricevuta. Questo tipo di reddito è di competenza però non è certo, non è determinabile l’ammontare. I componenti negativi di reddito, per essere deducibili, devono essere di competenza ma devono essere anche certi. Se questa condizione aggiuntiva non si verifica, quel componente negativo non perde per sempre la sua deducibilità ma la acquisterà solo al momento della ricezione della fattura e quindi nell’anno successivo, anche se la competenza è dell’anno precedente.

I componenti negativi di reddito devono essere inerenti, devono cioè essere stati sostenuti nell’esercizio dell’impresa per l’esercizio della stessa. Bisogna fare attenzione a questo proposito: è vietata la deducibilità di quelle spese che non hanno prodotto un vantaggio nell’esercizio dell’impresa. Ad esempio, un imprenditore, che produce una perdita, pensa di fare una camna pubblicitaria per sostenere la domanda. Quindi si organizza e sostiene dei costi, ma poi decide di non produrre più il bene perché non è ben accetto da parte del mercato. A questo punto, tutte le spese sostenute sono perse, sono costi che non producono nessun vantaggio all’imprenditore però sono deducibili perché sono stati sostenuti nel raggiungimento dell’attività di impresa a prescindere dal fatto che questa spesa possa produrre effetti positivi oppure no. Quindi la deducibilità dei costi è subordinata al requisito dell’inerenza.


Un ulteriore requisito è invece relativo alla forma i componenti negativi di reddito sono deducibili dal REDDITO D’IMPRESA a condizione che siano stati prettamente imputati al Conto Economico civilistico.

Per la determinazione del reddito fiscale si parte dal risultato civilistico. Dal Conto Economico civilistico si prendono i componenti positivi e i componenti negativi di reddito. I componenti negativi deducibili in sede fiscale sono soltanto quelli che risultano imputati al Conto Economico civilistico. Ad esempio, un’impresa produce un determinato bene il cui bilancio viene fatto dal responsabile amministrativo di questa impresa. Sta di fatto che quest’ultimo si ammala ma qualche giorno prima riceve la fattura di un fornitore che viene messa in un cassetto con l’intento di prenderla in considerazione e registrarla il giorno dopo. Però si ammala e non dice nulla dimenticandosi della fattura. Un suo collaboratore fa il bilancio civilistico senza quindi prenderla in considerazione (nella realtà succede che ci si dimentichi di contabilizzare un documento!). Arriva il momento della dichiarazione dei redditi. Il nostro responsabile torna, apre il cassetto e trova la fattura che non è stata presa in considerazione ai fini del risultato civilistico. Questo componente negativo di reddito non è rientrato nel conto economico e quindi per il requisito della forma non c’è riconoscimento fiscale.

Un altro esempio: un giornalaio vede il suo utile come il differenziale tra il prezzo di acquisto e il prezzo di vendita dei giornali. Ha redatto il proprio Conto Economico civilistico evidenziando tra i ricavi un differenziale pari a 50.000, indicandolo come la differenza tra il volume delle vendite e il volume degli acquisti. Si è comportato così perché pensa di non essere un imprenditore economico, perché quando vende un giornale lo fa ad un prezzo imposto dalla casa editrice e quando compra i giornali lo fa sempre ad un prezzo dato. Si è comportato quasi come se il suo guadagno fosse una provvigione, come se fosse quasi estraneo alla compravendita dei giornali. Invece no. In realtà il giornalaio è un imprenditore che compra i giornali dalla casa editrice e li rivende. Quindi il responsabile della legislazione fiscale che ha ricevuto questa dichiarazione con 50.000 tra i proventi non la accetta in quanto rileva che i ricavi non sono stati realmente quelli il funzionario ha computato ricavi per 500.000 e costi per 450.000, per cui il differenziale è di 50.000. Il fatto che si dichiari solo la differenza tra i due e non gli effettivi costi/ricavi è sbagliato. Sono stati dichiarati ricavi per 50.000, però ci si accerta invece che danno diritto a 500.000; sono stati dichiarati costi per Ø, ma i costi effettivamente sostenuti sono stati pari a 450.000. C’è quindi una regola per il diritto tributario il componente negativo può essere ammesso in deduzione in sede fiscale se è presente in sede civile. Di conseguenza, il giornalaio si è visto aumentare il proprio reddito da 50.000 a 500.000 senza però vedersi dedurre i costi che ha sostenuto. Il risultato che si ottiene è inaccettabile e a questo proposito il legislatore fiscale ha introdotto un’attenuazione alla regola formale: sono comunque deducibili, anche se non imputati al Conto Economico civilistico, i componenti negativi di reddito che riferiscono direttamente ai ricavi. Ed allora dato che il nostro giornalaio aveva le fatture di acquisto dei giornali, grazie alla modifica della Legge, ha potuto detrarre i costi di acquisto (450.000). Ma se il giornalaio non avesse imputato al Conto Economico costi come la locazione del chiosco, essi non sarebbero stati comunque dedotti in sede fiscale in quanto non inerenti direttamente all’attività svolta.


Quindi ci sono requisiti generali di carattere sostanziale e requisiti generali di carattere formale.


Vi sono poi regole particolari utilizzate per determinare i componenti positivi e i componenti negativi di reddito. Tra i componenti positivi di reddito, i ricavi certamente costituiscono la principiale voce positiva del Conto Economico dell’imprenditore. Il legislatore ne da’ una nozione abbastanza articolata: Art. 85 del nuovo Testo Unico sono considerati ricavi i corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività d’impresa. Ma danno anche luogo a ricavi:

  i corrispettivi delle cessioni di materie prime e semilavorati l’ipotesi che si fa è quella dell’imprenditore che per la propria attività ne ha bisogno e quindi si approvvigiona di materie prime o di materie sussidiarie o di semilavorati; in un secondo momento rivende, per proprie esigenze, una parte di questi beni che ha acquistato: la vendita di questi beni da’ luogo a ricavi;

  i corrispettivi di cessione di azioni/partecipazioni/quote danno luogo a ricavi a condizione che le azioni, le quote o le partecipazioni non siano iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie se l’imprenditore ha acquistato delle partecipazioni e fanno parte dell’attivo circolante, una volta cedute, esse danno luogo a ricavi;

  le indennità conseguite a titolo di risarcimento anche in forma assicurativa per la perdita o il danneggiamento di beni di cui alle precedenti lettere si prenda ad esempio l’imprenditore che produce sectiunelle e immagazzina il prodotto finito in un locale. Ad un certo punto si sviluppa un incendio che brucia tutte le sectiunelle; l’imprenditore che però si è assicurato è risarcito con un certo indennizzo assicurativo, il danno costituisce anche esso un ricavo, così come sarebbe stato un ricavo la cessione delle sectiunelle.

  i contributi in denaro conseguiti in base a contratto supponiamo che il produttore di sectiunelle abbia bisogno di procurarsi una cerniera che serve per la chiusura delle sectiunelle; lo stilista studia una cerniera particolare e ne parla al fornitore al quale ordina 500 cerniere a 10 € ciascuna. Però il fornitore per produrre quelle cerniere deve comprare una macchina speciale utile solo a quel tipo di produzione. Questo macchinario costa 5.000 €, allora per contratto si stabilirà che per ogni cerniera si heranno 10 € e in più saranno ati 5.000 € per il macchinario. Il problema è relativo alla qualificazione di questi 10.000 € (500 × 10 € + 5.000 €). La Legge dice che il maggior costo per l’imprenditore che sostiene la spesa è un costo aggiuntivo della fornitura mentre per l’imprenditore che consegue questo corrispettivo è un ricavo, così come è un ricavo per lui il corrispettivo di 10 € per ogni singola cerniera. Questi contributi devono essere conseguiti in base al contratto, sono contributi in conto esercizio a norma di Legge. Ad esempio, un artigiano ha bisogno di un finanziamento per acquistare una macchina operatrice. Varie Leggi che si sono succedute permettono finanziamenti a condizioni favorevoli. L’agevolazione consiste normalmente nel fatto che l’interesse è minore. L’artigiano ottiene il finanziamento. L’istituto di credito domanda all’artigiano il tasso corrente. Poi ci sarà l’ente dello Stato che herà una somma di denaro, ad esempio, pari al 4%: cosicché il 6% l’artigiano lo a all’istituto finanziatore, il 4% è un contributo in conto esercizio ricevuto dallo Stato che va a ridurre gli interessi dovuti all’istituto finanziatore (2%). Questo 4% costituisce un ricavo, va cioè al conto economico allo stesso modo degli interessi passivi.


Prima di chiudere questo discorso relativo ai ricavi, c’è ancora una falla da colmare: la destinazione dei beni ai congiunti familiari e personali dell’imprenditore. Ad esempio, un imprenditore produce sectiunelle, il nipote va a scuola e ne ha bisogno di una. L’imprenditore va in magazzino, prende una sectiunella e gliela da’. Quella sectiunella era un bene destinato alla vendita quindi rientrava nell’economia dell’impresa. Si ha un atto di consumo che genera ricavo e quindi dovrebbe esserne corrisposto il prezzo. Il legislatore indica l’elemento al quale fare riferimento in mancanza del valore normale, cioè in mancanza del prezzo che normalmente l’impresa realizza a seguito della vendita di quel certo tipo di sectiunelle. Quindi i ricavi dell’azienda devono comprendere anche la sectiunella che è stata prelevata e che è stata destinata ad un familiare.




































05 novembre 2004


I beni che fanno parte del complesso aziendale sono beni di cui dispone l’imprenditore per lo svolgimento della propria attività e che non danno luogo a ricavi.


Le Partecipazioni In Società E I Dividendi

Nell’ambito dei beni immobili ci sono beni particolari, le partecipazioni, che sono una parte di patrimonio di una società. Se la partecipazione è collocata nell’attivo circolante la cessione della stessa da’ luogo a ricavi; se al contrario la partecipazione è collocata nelle immobilizzazioni finanziarie allora si pone un problema. Per arrivare a parlare delle plusvalenze delle partecipazioni iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie occorre fare un passo indietro.


Nei REDDITI DI CAPITALE rientrano anche i dividendi corrisposti da società con personalità giuridica le società di capitali conseguono utili e li distribuiscono ai soci che ricevono queste somme di denaro. A questo punto bisogna parlare di un problema che si pone ed è quello della possibile doppia tassazione dei redditi prodotti da una società di capitali. Ad esempio, la S.p.A. α produce un determinato bene e realizza utili per
100.000 €, utili tassati in capo alla società stessa con l’aliquota del 33% dell’IRES. Ciò che resta dell’utile dopo aver ato l’imposta viene distribuito in tutto o in parte ai soci che ricevono un dividendo. Se questo dividendo viene tassato nuovamente in capo ai soci in base all’IRPEF ecco che gli utili distribuiti dalla S.p.A vengono tassati due volte: la prima volta presso la società che li ha conseguiti, la seconda volta presso il socio che riceve i dividendi.


In linea di principio le doppie tassazioni sono viste come un fatto negativo da evitarsi. Ma come? I meccanismi escogitati sono stati diversi nel tempo. Fino al 31/12/2003 il nostro ordinamento, per evitare la doppia tassazione, adottava un meccanismo particolare: la tassazione definitiva dell’utile conseguito dalla società doveva avvenire presso il socio che percepiva il dividendo. L’Erario non poteva rinunciare a tassare il reddito conseguito dalla società di capitali. L’IRPEG che la società di capitali ava (allora era il 35%) era considerata come un’imposta versata dalla società ma con la funzione di acconto dell’imposta personale. Il tutto è stato escogitato sulla base di un credito d’imposta riconosciuto al socio nei confronti dell’Erario e calcolato con l’aliquota del 56,25%. Questo credito d’imposta non era altro che una quota parte dell’IRPEG che la società aveva versato all’Erario.


Dal 2004 il sistema è cambiato perché si è spostata l’attenzione dal socio alla società la tassazione definitiva avviene in capo alla società, non presso il percettore ma presso la società che produce il reddito. Quando questo dividendo viene distribuito, se si procede ad una nuova imposizione fiscale in capo al socio, abbiamo una doppia tassazione. Per evitarla occorre che il dividendo percepito dal socio non venga tassato. Questa è l’impostazione teorica perché all’atto pratico non è applicata in tutti i casi. La nuova riforma non elimina totalmente la doppia tassazione ma soltanto la riduce.

Se il socio è una persona fisica, il legislatore introduce una distinzione a seconda che la partecipazione nella società sia o meno una partecipazione qualificata. I parametri possono essere due: occorre distinguere a seconda che la società in cui la persona fisica possiede un’azione sia quotata in borsa oppure no.

  Supponendo che la società non sia quotata in borsa allora la partecipazione non è partecipazione qualificata se attribuisce un diritto di voto nell’assemblea ordinaria inferiore al 20%. Nella seconda ipotesi, può dar luogo a partecipazione qualificata quella partecipazione che a prescindere dall’entità del diritto di voto dia luogo ad un possesso del capitale sociale superiore al 25% (non sempre il diritto di voto coincide con il possesso di capitale perché ci sono anche azioni che non ne danno diritto).

  Se invece la società di cui una persona fisica possiede una partecipazione è quotata in borsa, i parametri cambiano ma i concetti sono gli stessi. La partecipazione non è partecipazione qualificata se attribuisce un diritto di voto nell’assemblea ordinaria inferiore al 2%. Da’ invece luogo a partecipazione qualificata quella partecipazione che consente un possesso del capitale sociale superiore al 5%.


Questa distinzione è importante perché se i dividendi percepiti da una persona fisica sono relativi ad una partecipazione non qualificata allora la tassazione avviene sulla base di una percentuale del . Il dividendo non fa cumulo con tutti gli altri redditi ma subisce una tassazione a sé.

Se invece il dividendo proviene da una partecipazione qualificata, il discorso cambia perché concorre alla formazione del reddito complessivo però limitatamente al del suo ammontare.

Nell’ipotesi che il socio non sia una persona fisica ma sia una persona che svolge l’esercizio di un’attività d’impresa o sia una società di persone, la distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate non è più significativa perché in ogni caso il dividendo concorre alla formazione del reddito complessivo per il 40% del suo ammontare qualunque sia l’entità della partecipazione.

Nel caso in cui il socio di una società di capitali sia un’altra società di capitali (ad esempio, Pirelli è socio di Fiat), il legislatore ha eliminato totalmente la doppia tassazione economica. La società di capitali socia, che percepisce dei dividendi, su questi non deve are nessuna imposta diretta perché la società di cui è socia ha già ato l’IRES.


Occorre considerare un principio che vale per tutte le imposte e che in particolare vale per l’IRES quando una società soggetta a IRES possiede un cespite e il relativo reddito che produce è esente da imposta, tutti gli oneri che la società ha sostenuto per conseguire questo reddito esente non sono deducibili a fine della formazione dell’imponibile. Se una società possiede un determinato fabbricato che è esente (sul canone prodotto dal fabbricato l’Erario non percepisce neanche un centesimo di imposta) e produce un canone che è vero dal punto di vista civilistico ma che è escluso sotto il profilo tributario, allora questo cespite non deve andare ad aggravare le altre fonti di reddito con costi che riferiscono ad esso che è esente.

Ora supponiamo che la società che possiede questo cespite svolga un’attività produttiva che da’ luogo ad un reddito di 100.000 €. Questo reddito è soggetto a tassazione. Non sarebbe giusto che la società dal reddito potesse detrarre dei costi ad esempio di manutenzione di quel fabbricato che ha prodotto un reddito esente. La regola vuole che tutte le spese che la società sostiene in relazione a questo fabbricato non siano deducibili.

È da tenere in considerazione il fatto che la società potrebbe aver acquistato un immobile esente ricorrendo ad un prestito bancario che frutterebbe alla banca degli interessi passivi. Dato che questi interessi passivi sono relativi ad un cespite esente bisogna estendere la regola dell’indeducibilità anche agli interessi passivi che la società ha contratto per l’acquisizione del fabbricato.


Questo principio trova applicazione anche in relazione ai dividendi. Tu socio che hai una partecipazione ed incassi dei dividendi che per evitare la doppia tassazione economica sono esenti, dopo non devi riconoscere in deduzione tutti i costi che hai sostenuto per gestire quella partecipazione.

Il legislatore ha voluto introdurre una norma di semplificazione: anziché considerare esenti tutti i dividendi e non ammettere in deduzione i costi di gestione delle partecipazioni, sono esclusi, non tutti i dividendi, ma soltanto il 95%. Il 5% dei dividendi va soggetto a tassazione perché sono lasciate come deducibili le spese di gestione della partecipazione. Quel 5% è un modo forfetario per tenere conto dei costi sostenuti. I dividendi invece di essere esenti per il 100%, lo sono per il 95%.


Subentra il problema del PRO-RATA patrimoniale c’è una gestione finanziaria dell’impresa e i finanziamenti che la società protrae sono a fronte di esigenze finanziarie perciò le fonti di approvvigionamento dei mezzi finanziari non sono etichettate. Ecco che il legislatore ha voluto fare delle ipotesi la prima riguarda l’ingiunzione di una presunzione assoluta che il patrimonio netto finanzi innanzi tutto l’acquisto delle partecipazioni. Il patrimonio netto esprime il capitale proprio dell’impresa (quindi se la società ha capitale sociale per 100 e riserve per 20, il patrimonio netto ammonta a 120). Si presume che queste risorse proprie siano servite innanzitutto per acquistare delle partecipazioni. Fino a quando la società nell’acquisto delle partecipazioni sostiene un costo inferiore al patrimonio netto allora si dice che non ha dovuto are interessi passivi al sistema bancario perché ha utilizzato le proprie risorse.

Quindi un problema si pone solo nel momento in cui il conto delle partecipazioni sia più alto del patrimonio netto si è dovuto fare riferimento a finanziamento da terzi.

Alla fine dell’anno si vede se il valore delle partecipazioni iscritte nell’attivo patrimoniale è inferiore o superiore al Patrimonio Netto. Se è inferiore non c’è problema, tutti gli interessi passivi che la società ha ato sono deducibili. Se al contrario è superiore succede che i finanziamenti che la società ha contratto possono essere più di uno e a diverse condizioni; quindi bisogna stabilire in modo proporzionato in che misura questo supero è stato attinto a finanziamento posto che siano stati ottenuti a tassi diversi (se per ipotesi le sovvenzioni fossero state ottenute tutte a tassi costanti questo problema proporzionale non sarebbe necessario, ma questa non è un ipotesi realistica). Si va avanti con un procedimento di tipo proporzionale e si fa un rapporto in cui a numeratore si pone l’incidenza e a denominatore si pongono i debiti complessivi verso le banche alla fine del periodo d’imposta. Si ottiene in questo modo una certa percentuale che si applica agli interessi passivi relativi al finanziamento che sono indeducibili.


Questo discorso è da riferire solo alle partecipate che danno luogo alla partecipation exemption, le cui regole si applicano quando ci sono delle partecipazioni possedute da società di capitali in società di capitali. Questa regola afferma che, quando una società di capitali vende una partecipazione realizzando in ipotesi una plusvalenza (per via del fatto che il prezzo è maggiore del costo d’acquisto), quest’ultima non è soggetta a tassazione. Per avere questa esenzione non occorre che la partecipazione sia di un particolare ammontare. (grande novità introdotta dallo 01/01/2004).

Non c’è un vincolo quantitativo, ci sono altri tipi di vincoli:

  C’è un vincolo di carattere temporale in quanto la partecipazione ceduta deve essere posseduta per un minimo di 12 mesi.

  Ci deve essere l’iscrizione nelle immobilizzazioni immateriali. Per le partecipazioni iscritte all’attivo circolante resta l’assoggettamento a tassazione. Si riferisce anche alle società residenti all’estero in cui non c’è il vincolo imposto dallo Stato italiano a meno che non siano Paesi identificati come paradisi fiscali (elencati in un’apposita lista chiamata “black list”).

  La società partecipata deve inoltre svolgere un’attività commerciale; la plusvalenza è tassata se si tratta di società di puro e semplice godimento immobiliare.


Se la società acquista una partecipazione ed ha una perdita, questa non è deducibile.

Una società che consegue utili può decidere se distribuirli (95% esente e 5% tassabile) o meno se non distribuisce, il suo patrimonio netto aumenta.

Le plusvalenze possono essere anche esercitate da persone fisiche in questo caso il regime della taxation exemption non opera. Per le partecipazioni viene adottato lo stesso identico regime al quale sono tassati i dividendi. Se la plusvalenza proviene da una partecipazione non qualificata allora la tassazione avviene sulla base di una percentuale del ; se invece proviene da una partecipazione qualificata, concorre alla formazione del reddito complessivo limitatamente al del suo ammontare.


Le Sopravvenienze Attive

Le sopravvenienze attive sono componenti positivi di reddito caratterizzati dall’imprevedibilità.

Nell’ambito delle sopravvenienze troviamo anche i contributi corrisposti dallo Stato che non possono essere qualificati come contributi in conto esercizio perché non sono a fronte di spese d’esercizio.

Ad esempio, un imprenditore investe 100 in una zona particolare del mezzogiorno e gli vengono corrisposti a fronte dell’investimento 20. Sotto il profilo tributario si parte dal presupposto che il contributo non debba essere tassato tutto, immediatamente, ma nel tempo. Deve essere visto come un minor costo d’acquisto del cespite: 80. Così procedendo il 20 è soggetto a tassazione lungo tutto l’arco di durata dell’ammortamento. Le quote di ammortamento si riferiscono ad 80 e sono inferiori rispetto a quelle che avrebbe dovuto sostenere.

Ad esempio, coloro che iniziano un’attività imprenditoriale nel campo dello sport entro il 31/12/2005 riceveranno un contributo da parte dello Stato è un quid residuale che da’ luogo ad una sopravvenienza attiva, componente positivo di reddito che permette al contribuente la facoltà di scegliere di ripartirla in 5 quote capitale o di avere una tassazione immediata.


Le Giacenze Finali Di Magazzino

Occorre determinarne il valore e quindi si pone un problema di valorizzazione.

Il legislatore su questo modulo è stato di larghe vedute perché ha detto al contribuente che non c’è un criterio fiscale obbligatorio, si può adottare qualsiasi criterio (LIFO, FIFO, costo medio, . ), viene lasciata quindi una grande possibilità di scelta al contribuente. Però sicuramente una preferenza il legislatore fiscale l’ha manifestata nei confronti del LIFO a scatti perché si è preoccupato di descriverlo nelle sue diverse fasi (lo preferisce ma non lo impone). Gli altri metodi sono solo nominati.

Vale il principio della continuità una volta che si adotta un criterio si è vincolati nel continuare a farlo.


LIFO a scatti annuale. Ad esempio, un imprenditore decide di iniziare un attività di commercializzazione di tondini di piombo (no attività di trasformazione) lo 05/05/2000. Arriva il 31/12 e si pone il problema delle rimanenze finali. L’operatore economico va in magazzino e facendo un conteggio risultano 10 pezzi.

Come valorizzarli? In base al costo medio del periodo che si ottiene dal rapporto in cui a numeratore si mettono tutti gli acquisti effettuati durante il periodo d’imposta e a denominatore va la somma della quantità acquistata. Tornando all’esempio, i 10 pani che si trovano in magazzino vengono valorizzati sulla base del risultato da questo rapporto.

Le rimanenze finali del 2000 sono uguali alle rimanenze iniziali del 2001 10 pani di piombo valorizzati in base del prezzo medio dell’anno 2000. Durante l’esercizio 2001 si svolge l’attività commerciale. Al 31/12 l’imprenditore torna in magazzino, conta che ci sono 15 pani di piombo e li mette in relazione con le rimanenze iniziali. Le quantità finali sono più elevate delle quantità iniziali. Questi 15 pezzi vengono divisi in 2 parti: 10 vengono valorizzati con il costo medio del 2000, 5 sono ad incremento dell’esercizio e viene fatto un ricalcalo del prezzo medio in base agli acquisti del 2001.

Le rimanenze iniziali del 2002 sono le rimanenze finali del 2001. Passa l’anno 2002 e a fine esercizio i pani sono 12 le rimanenze finali sono minori delle rimanenze iniziali. Le quantità che sono venute meno devono essere considerate attinenti dalla stratificazione più recente. Perciò i 12 pani presenti in magazzino vengono valorizzati 10 sulla base del prezzo medio del 2000 e 2 sulla base del prezzo medio del 2001.

In sintesi gli incrementi del magazzino sono valutati sul costo medio del periodo ed i decrementi devono essere imputati alle stratificazioni precedenti.


Le cose si complicano se l’operatore svolge un’attività di trasformazione il problema si aggrava nel momento in cui si deve fare il calcolo del periodo dato che l’attività non comprende solo gli acquisti e le vendite ma anche la produzione di un determinato bene. Per il calcolo del costo medio non sarà sufficiente mettere al numeratore gli atti di fornitura ma tutti gli approvvigionamenti di beni e servizi necessari per produrre il bene (somma acquisto di materie prime + retribuzioni + quote di ammortamento dei beni strumentali). Al denominatore è necessario porre la quantità prodotta. Si ottiene così il costo di produzione a livello industriale di ogni singolo bene.





































12 novembre 2004


[ . ] Le Rimanenze Finali Di Magazzino

A proposito delle giacenze finali di magazzino, quali sono i criteri di valorizzazione? Il fisco non obbliga ad adottare un criterio particolare però una volta fatta una scelta bisogna conservarla.

Sulla base di questi criteri di valorizzazione può risultare che il valore attribuito al magazzino sia più alto della misura reale. Ad esempio, si pensi ad un’impresa che produce apparecchi televisivi. A fine esercizio in magazzino ci sono 100.000 televisori che però hanno una tecnologia superata e quindi l’imprenditore vede che se continuasse ad applicare il criterio di valorizzazione adottato in passato (ad esempio 100) dato che il mercato non accetta più volentieri questo tipo di beni non riuscirebbe a vendere l’intera gamma; quindi valorizza a 60. A questo punto la legge fiscale consente una deroga al principio della continuità dei valori. Perciò permette di ridurre il valore attribuito a ciascun televisore da 100 a 60, cioè consente di svalutarli e di adottare un valore normale come prezzo di mercato e non più il criterio precedentemente usato.


La Valutazione Delle Opere Ad Esecuzione Ultrannuale

L’esecuzione di opere che richiedono per la loro realizzazione due o più periodi di imposta viene valutata diversamente. Ad esempio, un’impresa ha vinto l’appalto per costruire un ponte su un determinato fiume e ha stabilito un certo prezzo con l’ente che fornisce la concessione. L’esecuzione di quest’opera richiede 3 anni. I criteri di valorizzazione (LIFO, FIFO, . ) presuppongono un confronto tra rimanenze iniziali e rimanenze finali cioè tra quantità presenti nel magazzino all’inizio del periodo d’imposta e quantità presenti nel magazzino alla fine del periodo d’imposta. Deve avere un senso fare questo confronto. Però per questa impresa non c’è. Se, ad esempio, un’azienda produce delle macchine utensili speciali costruite sulla base delle esigenze proprie del committente, non è possibile confrontare le giacenze finali con le giacenze iniziali.


Questi criteri di valorizzazione presuppongono una produzione relativamente costante cosicché il confronto tra rimanenze finali e iniziali sia omogeneo. In questi casi, quando l’oggetto della produzione sono beni che rappresentano un unicum, il criterio di valorizzazione è un criterio sulla base dei costi specifici. L’imprenditore che produce questo bene particolare tiene una rilevazione contabile di tutti i costi che sostiene per produrlo (tiene cioè le schede di lavorazione riportanti le materie prime/le materie sussidiarie che sono state utilizzate e il personale che ha lavorato per produrre quel determinato bene). Tornando all’esempio del ponte si tratta di un bene unico che l’imprenditore produce, la valorizzazione deve avvenire a costi specifici. A fine del primo anno sono stati costruiti i pilastri. Il costo sostenuto fino a quel momento sulla base del cemento, del ferro, della manodopera impiegata, . è un determinato ammontare. Quindi il manufatto in corso di realizzazione alla fine del primo anno viene valorizzato sulla base dei costi sostenuti: 50. Il secondo anno la produzione di questo ponte continua. Nuovamente dalle schede di lavorazione si vede che il costo sostenuto fino a quel momento per la realizzazione del ponte è 85. Nel terzo anno il ponte viene ultimato; il costo dell’intera opera ammonta 120. Le valorizzazioni sono state: 50, 85 e 120 ma in ogni anno rispecchiano solo i costi sostenuti dall’operatore economico. Nel primo e nel secondo anno non avremmo nessun utile perché i costi sostenuti sono stati pari alla valorizzazione. Nel terzo anno il nostro operatore continua a sostenere costi però si ha ad utile il prezzo pattuito per l’esecuzione del ponte (supponiamo 150). Quindi avremo proventi perché l’opera è ultimata per 150 e perciò l’utile si realizzerà tutto nel terzo anno quando verrà consegnato il bene.


Questo però non va bene. Non va bene all’Erario perché se l’utile si realizza nel terzo anno vuol dire che nel primo e nel secondo non incassa neanche un centesimo di imposta. Non va bene al contribuente perché se è un imprenditore individuale soggetto all’imposta progressiva (l’IRPEF), l’addensarsi del reddito tutto nel terzo anno fa sì che l’aliquota di tassazione sia più alta.

È bene che il reddito sia ripartito per tutta la durata dell’esecuzione dell’opera. Questa coincidenza di interessi per il contribuente e per il fisco fa sì che venga introdotta una deroga ai criteri di valorizzazione quando la produzione è ultrannuale.

La valorizzazione invece di essere effettuata sulla base dei costi viene effettuata sulla base dei ricavi o, meglio, sulla base dell’avanzamento/della realizzazione dell’opera. Tornando all’esempio precedente, a fine del primo anno, quando sono stati sostenuti costi per 50, i tecnici diranno che l’opera ha raggiunto il 40% del suo percorso. Allora il valore da attribuire al ponte sarà pari al 40% del prezzo pattuito (150); non è 50 (i costi) ma di più. Nel secondo periodo d’imposta i tecnici dovranno fare un’ulteriore valutazione: è stato realizzato un altro 40% dell’opera. Il valore da attribuire all’opera è l’80% e quindi a questo punto si verifica un differenziale positivo. Nel terzo anno si verificherà un altro differenziale positivo per il 20% restante.


Quando c’è un opera ad esecuzione pluriennale si adotta un criterio diverso: bisogna valorizzare sulla base della quota di ricavi maturati in funzione dello stato di avanzamento dei lavori. In questo modo l’utile sarà suddiviso nei tre anni sia per il fisco che per il contribuente.


Gli Ammortamenti

Gli ammortamenti sono componenti negativi di reddito che si possono vedere in due prospettive:

  prospettiva finanziaria l’ammortamento viene considerato nella sua natura di autofinanziamento in quanto consente al produttore di ricostituire quelle risorse finanziarie che gli permettono di sostituire il bene strumentale quando non è più in grado di funzionare (prospettiva che non interessa in sede tributaria).

  prospettiva economica l’ammortamento di un bene strumentale è deducibile perché rappresenta una perdita di valore che viene rilevata attraverso gli accantonamenti a fondo ammortamento.


Il bene strumentale viene utilizzato per lo svolgimento dell’attività di impresa. La perdita di valore si concretizza nel trasferimento di valore dai beni strumentali ai beni realizzati.

Nel conto economico bisogna tener conto anche di questa perdita di valore. L’ammortamento deve essere necessariamente rilevato.

Questo discorso dell’ammortamento deve essere riferito solo ai beni strumentali, beni utilizzati nello svolgimento dell’attività produttiva. I beni non utilizzati in questo senso non sono suscettibili di ammortamento.

Si pensi all’operatore economico che nella propria impresa abbia necessità di una fresa. Dato che di queste frese se ne ha bisogno e c’è la possibilità che si rompano, anziché comprarne una ne compra 2, una la mette in produzione e una la mette da parte. La fresa utilizzata è un bene strumentale ed è soggetta ad ammortamento. L’altra fresa non è stata utilizzata e quindi non è suscettibile di ammortamento.


La condizione essenziale è che si tratti di un bene strumentale che viene utilizzato per lo svolgimento dell’attività di impresa e che per effetto di questo utilizzo perde valore. Però questa perdita di valore dell’ammortamento non si verifica sempre. Ad esempio, un operatore economico produce automobili. Ha il problema dello stoccaggio quindi occorrono piazzali dove mettere le automobili in attesa di essere consegnate. A un certo punto ha la necessità di avere un piazzale ulteriore e compra un terreno che viene adibito a deposito automobili. L’utilizzazione di quel terreno non comporta perdita di valore. Il terreno può essere un bene strumentale ma comunque non suscettibile di ammortamento. La strumentalità è una condizione necessaria ma non sufficiente, deve anche esserci la perdita di valore.


Come si determina la perdita di valore? Il problema è regolamentato da parte dell’amministrazione civilistica. Innanzi tutto è stato fatto un elenco molto completo di attività, per ognuna delle quali sono state individuate delle categorie generiche di beni strumentali. Ad esempio, per la produzione di sectiunelle sono state previste delle categorie omogenee. La prima sarà rappresentata da immobili destinati all’industria, la seconda da impianti generali, la terza da impianti specifici e macchine operatrici, . . Per ogni categoria generica l’amministrazione finanziaria ha espresso una percentuale di ammortamento.

Ma come ha fatto l’amministratore finanziario a stabilire questa percentuale? Ha stimato quella che è la durata fisica del bene (la macchina operatrice speciale nel settore di produzione delle sectiunelle secondo l’amministrazione finanziaria dura 5 anni, quindi ogni anno bisogna ammortizzarla per il 20%). Le percentuali di ammortamento sono il risultato di una stima della vita fisica del bene strumentale.


Qual è però l’atteggiamento del fisco? La percentuale imposta è obbligatoria? No, è una percentuale massima facoltativa. Si può ammortizzare anche solo del 15%, tanto per il fisco sarebbe un cambiamento in bene un minore ammortamento comporta una minore deduzione e di conseguenza un reddito più alto. Non si può invece andare oltre la percentuale massima che non è superabile.

Il fisco dice che si possono adottare percentuali più basse però non si può scendere al di sotto della metà perché se così fosse l’ammortamento fino al completamento della metà dell’aliquota stabilita sarebbe perso.

Quando un imprenditore, che potrebbe ammortizzare un determinato bene strumentale con l’aliquota del 20%, applica un’aliquota del 15%, quel 5% che in un determinato anno non usa per sua scelta non è un ammortamento perso ma va in coda, cioè al sesto anno quando in teoria non avrebbe più dovuto fare ammortamenti. Quindi gli ammortamenti non effettuati in un esercizio non sono persi ma vanno in coda.

Supponiamo che un imprenditore in un determinato esercizio debba ammortizzare un certo bene per il 20% ma invece usa solo un’aliquota dell’8%. I 2 punti percentuali di completamento alla metà vanno persi; i punti dai 10 ai 20 seguono la regola: non sono sprecati ma vanno in coda.

Perché il legislatore tributario ha introdotto questa distinzione? Il fisco quando il contribuente fa minore ammortamento dovrebbe essere più contento dato che incassa prima delle imposte che diversamente avrebbe ottenuto in seguito. Però per il legislatore civile l’ammortamento è visto in un’ottica diversa: non è visto come una facoltà ma è un obbligo. Il fisco ha per così dire dato una mano al legislatore civile introducendo una sanzione di carattere tributario per obbligare il contribuente ad effettuare gli ammortamenti almeno in una misura limitata. Questa è la regola tributaria con la quale bisogna fare i conti.


L’ammortamento che riflette solo l’invecchiamento fisico viene definito ammortamento ordinario ed è a fronte della vita fisica del cespite. Un altro tipo di ammortamento è l’ammortamento anticipato e riflette il superamento tecnologico che parte dal presupposto che non sempre per l’operatore economico è conveniente dismettere un bene strumentale SOLO quando non è più in grado di funzionare.

Ci sono quote aggiuntive di ammortamento rispetto al 20% di cui prima. Le percentuali aggiuntive sono tali per cui nei primi 3 anni di vita del cespite le aliquote possono essere raddoppiate.


La percentuale di ammortamento indicata nel Decreto Ministeriale è annua. Quando nel corso dell’esercizio viene acquistato un cespite, a fine anno bisogna calcolare l’ammortamento non annuo ma in base al tempo di introduzione del bene nel processo produttivo. Il legislatore tributario ha introdotto una semplificazione: a tutti i beni acquistati nel corso dell’esercizio la percentuale da adottare è la metà dell’ammortamento ordinario.

Nel caso dell’ammortamento anticipato, nel quale nei primi 3 anni l’aliquota raddoppia si ha che il primo anno la percentuale dimezzata viene raddoppiata (ottenendo quindi l’aliquota ordinaria). Se nel primo anno l’ammortamento ordinario è dimezzato al 10% e viene raddoppiato per via dell’ammortamento anticipato, è pari al 20%; nel secondo e nel terzo anno l’ammortamento ordinario del 20% è in raddoppio al 40%. Così facendo si arriva al 100% e non si può andare oltre il nostro processo di ammortamento a questo punto è terminato.

Per poter usufruire dell’ammortamento anticipato, l’imprenditore non deve dimostrare all’amministrazione finanziaria l’obsolescenza del bene. Visto che fare gli ammortamenti significa ridurre reddito imponibile, conviene utilizzare gli ammortamenti anticipati, dato che il legislatore lo permette.




Sorge un problema di raccordo tra legislazione tributaria e legislazione civile dove gli ammortamenti vengono rilevati nel conto economico civilistico in cui vanno messe le poste vere/reali. Però come bisogna considerare questi ammortamenti anticipati rilevati dall’imprenditore per non perdere un vantaggio che il fisco ammette? Se li collocassimo nel bilancio civilistico in una posta indifferenziata, insieme agli ammortamenti ordinari, si avrebbe un fondo di ammortamento che non sarebbe vero perché dovrebbe raccogliere solo le perdite di valore reali. Allora si dà la possibilità al contribuente di utilizzare l’ammortamento anticipato secondo modalità contabili particolari: cioè mentre l’ammortamento ordinario è una posta negativa di conto economico, l’ammortamento anticipato può non esserlo, il conto economico non vincola tali ammortamenti.

In sede di destinazione dell’utile d’esercizio, una quota pari agli ammortamenti anticipati deve essere destinata a riserva. Nella dichiarazione dei redditi può essere introdotta una variazione in riduzione per gli ammortamenti anticipati non imputati a conto economico. Quindi dato che gli ammortamenti anticipati a volte non riflettono delle vere perdite di valore ma sono delle poste che consentono nel territorio economico di avvalersi di un vantaggio tributario, il fisco dice che si possono imputare gli ammortamenti anticipati a conto economico però quando si avrà un determinato utile d’esercizio, una quota di quest’ultimo dovrà essere destinata a riserva (chiamata riserva per ammortamenti anticipati).

In questo modo si è introdotta una deroga al principio formalistico della formazione del bilancio gli ammortamenti anticipati, posta riduttiva del reddito imponibile, possono essere riconosciuti a conto economico anche se non vi sono stati imputati, a condizione che una quota d’utile sia messa a riserva.


C’è un terzo tipo di ammortamento, di cui ne parla il Testo Unico ma che è applicato raramente l’ammortamento accelerato, consentito in una particolare situazione: quando l’usura del bene strumentale è particolarmente forte.

L’ammortamento ordinario è indicato per categorie generiche di beni strumentali e per settori di attività. Queste attività vengono considerate nel loro svolgimento medio normale. Se per l’attività di produzione di sectiunelle è solito che le imprese svolgano ritmi di lavoro di 10 ore su 24, la durata della vita fisica dei beni strumentali tiene conto di questo particolare ritmo. Ci possono essere altri settori in cui si lavora 16 ore su 24 (ad esempio, gli alti forni) e le cui percentuali di ammortamento tengono già conto di ciò che è normale. Ma ci può essere anche il caso in cui una certa impresa segua dei ritmi di produzione particolarmente intensi e più intensi di ciò che è la normalità del settore di attività. Se nell’attività della produzione di sectiunelle non mi basta produrre 10 ore su 24, ma voglio lavorare 16 ore su 24 con i ritmi di produzione diversi e più intensi del normale, la durata dei beni strumentali che uso è minore rispetto agli altri concorrenti.

Innanzitutto bisogna dimostrare questa situazione al fisco con il quale si concorderà una maggiorazione delle percentuali di ammortamento ordinario.

Nella pratica delle imprese è un tipo di ammortamento poco utilizzato soprattutto perché ammortamento ordinario e ammortamento anticipato sono già abbastanza rapidi, non c’è bisogno di accelerare ulteriormente il processo.


Anche per i beni strumentali immateriali è necessario l’ammortamento. I beni immateriali di cui si occupa il diritto tributario sono i brevetti, le formule, i processi industriali in ogni esercizio il costo di questi beni immateriali è deducibile in misura non superiore ad un terzo del costo.

Il legislatore non si preoccupa del minimo, si preoccupa solo del massimo

Mentre per quanto riguarda il marchio, l’ammortamento imputabile a ciascun esercizio non può essere superiore ad un decimo del costo.

L’avviamento, altro bene immateriale molto importante, è suscettibile di ammortamento che non può essere superiore a un decimo del costo sostenuto.


Si ha in sostanza da una parte gli ammortamenti dei beni materiali, che si distinguono in ordinari, anticipati e accelerati, e dall’altra l’ammortamento dei beni immateriali dove il legislatore si limita ad imporre una quota massima.


Gli Accantonamenti

Gli accantonamenti per oneri futuri sono a fronte di un costo che ancora non si è realizzato ma di cui si ha la certezza sul suo verificarsi è incerto il momento ma non la sua necessità di accadimento (ad esempio, l’accantonamento che ogni anno il datore di lavoro fa per il TFR).

Questi accantonamenti sono deducibili per loro natura dal reddito d’impresa in quanto sono a fronte di oneri che sicuramente si realizzeranno.


Gli accantonamenti a fondo rischi sono a fronte di previsioni di componenti negativi di reddito di cui non si sa se ci sarà accadimento o no (ad esempio, il fondo rischi su crediti).

In sede fiscale dato che non si sa se effettivamente l’accantonamento servirà e quindi si ha indeducibilità gli accantonamenti dei rischi dell’impresa sono indeducibili perché sono componenti negativi di reddito che mancano del requisito della certezza.

Questa è una regola che come tutte ha delle eccezioni ci sono alcuni fondi rischi per i quali gli accantonamenti sono deducibili. Uno di questi è l’accantonamento a fondo rischi su crediti. Dal punto di vista civilistico viene stanziato un accantonamento che va a carico del conto economico a fronte del quale si istituisce il fondo rischi su crediti. In che misura è consentito all’operatore economico di rilevare un accantonamento a fondo rischi che sia deducibile fiscalmente? Il legislatore fiscale lo consente solo nei limiti dello 0,50% dei crediti esistenti nello Stato Patrimoniale a fine del periodo d’imposta.

L’operatore economico redige lo stato patrimoniale alla fine dell’esercizio ed evidenzia che i crediti sono pari a 100.000 €. Allora applica la percentuale dello 0,50% ed ottiene 500 € di accantonamento al fondo rischi su crediti che è fiscalmente deducibile. Però può darsi che in realtà l’operatore economico su 100.000 €, ne abbia 95.000 € che derivano dallo svolgimento dell’attività commerciale lo 0,50% non deve riguardare i crediti che non derivano in modo diretto dallo svolgimento dell’attività d’impresa.

Se si sostiene una perdita su crediti, che in linea di principio è un componente negativo di reddito, ed esiste un fondo, questa perdita va imputata ad esso che quindi si riduce. L’utilizzo del fondo avviene in base all’esistenza reale delle perdite.


È ancora da considerare il fatto che c’è un limite massimo previsto per il fondo: quando il fondo raggiunge la percentuale del 5% dei crediti esistenti in S.P. a fine del periodo di imposta, gli accantonamenti non possono essere più effettuati.


Il principio generale dell’accantonamento ai fondi rischi è l’indeducibilità poi ci sono delle eccezioni. Ad esempio, un altro accantonamento che fa eccezione è l’accantonamento a fronte di oneri derivanti da operazioni a premio.


Esistono altri accantonamenti ma non andiamo nel dettaglio.


Per quanto riguarda il REDDITO D’IMPRESA può bastare.



I Redditi Diversi

Non c’è una nozione generale onnicomprensiva di REDDITI DIVERSI ma solo un’elencazione.

Nell’ambito di questi redditi c’è la tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni. Sono REDDITI DIVERSI quando un soggetto che cede la partecipazione sia persona fisica che realizza questa operazione non nell’ambito dell’esercizio dell’impresa.

Questo problema è già stato visto quando si sono trattati i dividendi. La plusvalenza è un REDDITO DIVERSO e si può distinguere a seconda che sia qualificata o meno.


Ci sono altri REDDITI DIVERSI. Ad esempio, i redditi derivanti da lottizzazione di terreni (ho un terreno, lo divido in lotti e vendo i lotti il reddito che deriva da quest’operazione è un REDDITO DIVERSO).


Un altro esempio è la cessione di terreni edificabili oppure anche la cessione di una casa di abitazione però la plusvalenza di quest’ultima non è tassabile solo se il tempo intercorrente tra l’acquisto e la vendita è superiore a 5 anni.


Anche qui sorgono due problemi:

Problema del quando la tassazione si può verificare quando il reddito è effettivamente realizzato. Non vale la competenza ma vale la cassa, il momento del percepimento.


Per quanto riguarda il problema del quanto la scelta è per la deducibilità dei costi di produzione quando ipotizzo il caso del soggetto che compra un terreno e lo rivende a lotti al prezzo di realizzo devo togliere il costo d’acquisto più tutti gli altri costi sostenuti per la lottizzazione.









19 novembre 2004


IMPOSTA SUL REDDITO DELLE SOCIETÀ

L’IRES è un’imposta personale in quanto colpisce il reddito complessivo ed ha un’aliquota proporzionale del .

I soggetti passivi sono classificati dalla legge in 4 categorie alle lettere a), b), c) e d) dell’art. 73 del nuovo Testo Unico. Ad ogni lettera corrisponde un diverso criterio di determinazione del reddito. Sono soggetti passivi dell’IRES:

  1. Le Società per Azioni, le Società in Accomandita per Azioni, le Società a Responsabilità Limitata, le Società Cooperative e le Società di Mutua Assicurazione queste società hanno in comune il fatto che possiedono personalità giuridica.

Sono assoggettate ad IRES purché siano residenti nel territorio dello Stato. Una società di questo tipo si può considerare residente quando, per la maggior parte del periodo d’imposta, ha nel territorio dello Stato la sede legale con ad oggetto principale lo svolgimento dell’attività della società oppure la sede dell’amministrazione dove per amministrazione si intende il luogo in cui vengono prese le decisioni. La terza condizione è che l’oggetto principale sia nel territorio dello Stato.

Non devono ricorrere tutte e tre ma è sufficiente che si presenti uno di questi parametri.

  1. Gli Enti Pubblici e Privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale. Ad esempio, un soggetto diverso da una società può essere una fondazione costituita e residente in Italia che ha ad oggetto un’attività commerciale, per ipotesi commercializza libri inerenti ad un determinato argomento. Può essere che la fondazione non svolga solo attività commerciale ma anche attività di carattere culturale. Se questa attività commerciale è prevalente la fondazione è sempre collocata nella lettera b).
  2. Gli Enti Pubblici e Privati diversi dalle società, residenti nel territorio dello Stato che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale. Tornando all’esempio della fondazione, è collocata alla lettera c) se svolge sia un’attività commerciale che un’attività culturale ma quest’ultima è prevalente.
  3. Le Società e gli Enti di OGNI TIPO, con o senza personalità giuridica, NON residenti nel territorio dello Stato, siano società di capitali, siano società di persone, siano enti diversi dalle società. Importa che non sia residente, la forma giuridica è irrilevante.

Questa classificazione è per stabilire qual è il reddito imponibile che si determina in modi diversi a seconda che i soggetti siano collocati in una categoria o in un’altra.


Lo Stato e gli Enti Territoriali sono soggetti passivi di questa imposta? No, non ano le imposte.


L’IRES è un’imposta proporzionale che colpisce il reddito complessivo il cui periodo d’imposta può non coincidere con l’anno solare mentre per l’IRPEF si ha coincidenza.


I Soggetti Passivi Dell’IRES: le lettere a) e b)

Ma come si determina il reddito complessivo? Per l’IRPEF abbiamo visto come i redditi debbano essere classificati in sei categorie, ciascuna delle quali ha i propri criteri. Questo non è più vero per l’IRES perché i redditi conseguiti da questi tipi di soggetti si suppongono per presunzione assoluta appartenenti alla categoria dei REDDITI D’IMPRESA. Tutti i principi relativi ai redditi d’impresa dell’IRPEF si estendono ai soggetti della lettera a) e b) dell’IRES.


C’è la possibilità di compensazione delle perdite. Quando uno di questi soggetti subisce una perdita quest’ultima fa si che in quell’esercizio non si hi l’IRES dato che non c’è reddito. La perdita consente di effettuare una compensazione con gli utili che il soggetto potrà conseguire negli esercizi seguenti ma con un limite temporale di 5 esercizi successivi (è una facoltà che riguarda la singola società).

La compensazione è permessa per ragioni d’entità dato che la suddivisione della vita di un impresa in periodi d’imposta è scomoda e in sostanza, se non fosse per il fisco, non ce ne sarebbe ragione.


Può succedere che ci siano società formalmente autonome ma che di fatto appartengono ad un gruppo. Se c’è una società che guadagna e l’altra che perde, una a le imposte ma l’altra non lo fa. Prima non era possibile fare la somma algebrica dei risultati. Il gruppo in realtà è però una sola entità quindi è possibile una gestione economica unitaria delle società appartenenti. Perciò dallo 01/01/2004 nel nostro ordinamento è presente un nuovo istituto ed è quello del consolidato fiscale il reddito imponibile di società appartenenti ad un gruppo non è determinato singolarmente in capo a ciascuna società ma è determinato con riferimento al gruppo e quindi in sostanza è la somma algebrica dei risultati delle società appartenenti al gruppo.

Questa possibilità di fare il consolidato ha una duplice conurazione cosicché si parla di consolidato nazionale e di consolidato internazionale.


Il consolidato nazionale significa che la capo gruppo è il soggetto con riferimento al quale viene determinato il reddito tassabile del gruppo; cioè i risultati delle singole società vengono imputati alla capo gruppo che procede al calcolo della sommatoria. Quindi le società controllate non devono più badare alle imposte sul reddito.

Il consolidato fiscale, che da’ rilevanza al gruppo societario, non arriva però fino al punto di attribuire la passività tributaria al gruppo che non è un’entità giuridica a sé stante. In realtà l’obbligazione tributaria sorge in capo ad una società controllante che risponde per le imposte attinenti al consolidato.

Il consolidato fiscale non è un obbligo ma è una facoltà. Se un gruppo ritiene di non aderire a questa opportunità è liberissimo di farlo.

Il gruppo può decidere di avvalersi del consolidato senza che tutte le società controllate ve ne partecipino vi sono anche delle soluzioni intermedie, cioè aderire al bilancio consolidato coinvolgendo non tutte le società del gruppo, ma lasciandone alcune al di fuori.


È possibile che un gruppo sia costituito da società residenti e non residenti nel territorio dello Stato; allora accanto al consolidato nazionale dove tutte le società appartenenti al gruppo sono residenti nel territorio dello Stato, la legge prevede il consolidato mondiale caratterizzato dal fatto che alcune delle società sono residenti al di fuori del territorio dello Stato.

Vi è però una differenza rispetto al perimetro di consolidamento perché mentre nel consolidato nazionale le società controllate possono decidere se aderire o meno al consolidamento, nel consolidato mondiale è richiesto il requisito della completezza, è cioè consentito solo se tutte le società appartenenti al gruppo accettano di partecipare al consolidato (o tutte o nessuna).


La scelta della tassazione comporta un vincolo temporale chi aderisce al consolidamento nazionale deve farlo per un periodo minimo di 3 anni. Per il consolidato mondiale il vincolo temporale è più lungo: 5 anni.

La condizione per cui una società è ammessa al consolidato è il controllo di diritto
(art. 2399 Codice Civile) che si ha quando una società possiede la maggioranza dei diritti di voto di un’altra società. Occorre, per avere il controllo rilevante ai fini del consolidamento, avere il 50% + 1 dei voti. Il Codice Civile accanto al controllo di diritto pone anche il controllo di fatto che non è invece rilevante ai fini del consolidamento (per cui vale esclusivamente il controllo di diritto).

Il controllo può essere un controllo diretto quando una società α possiede il 50% + 1 dei diritti di voto della società β. Ma ci potrebbe anche essere un controllo indiretto quando la società α controlla la società β e la società β controlla la società γ, per cui la società α controlla la società γ per il tramite della società β. Occorre però considerare che in questa situazione il legislatore tributario ha adottato un criterio di demoltiplicazione nel senso che se la società α possiede nella società β il 70% e la società β possiede nella società γ il 70% dei diritti di voto allora la società α possiede il 70% del 70% cioè il 49% che è inferiore al 50% + 1. Quindi in questo esempio la società α non controlla la società γ. Per avere il controllo occorrerebbe ad esempio che la società α possedesse nella società β l’80% e che la società β possedesse il 70% della società γ la società α possiederebbe così il 56% e quindi c’è la possibilità del consolidamento per la società γ.


Il legislatore tributario italiano che ha ammesso al consolidato questa condizione è stato di larghe vedute. Ha assunto cioè un atteggiamento molto più liberale rispetto a quello assunto da altri ordinamenti tributari in cui le percentuali di possesso richieste in genere sono più alte (in Danimarca e Olanda è richiesto il 100%, nel Lussemburgo il 99%, in Francia il 95%, in Norvegia e Portogallo il 90%, nel Regno Unito il 75%, in Germania il 50% + 1).


Il consolidamento fiscale fa si che l’imponibile sia determinato facendo la somma algebrica degli imponibili di ciascuna società che partecipa al consolidato. Il consolidamento non è un vero e proprio consolidato. Il reddito imponibile di ogni società viene determinato autonomamente, la capo gruppo prende questo risultato e procede alla formazione del reddito complessivo. È chiaro che il fisco però vuole tutelarsi e lo fa considerando le società responsabili solidalmente se la capogruppo non a, il fisco potrà rivolgersi alle singole società del gruppo per ottenere il amento delle imposte.


Si pone però un problema della tutela delle minoranze. Si pensi, ad esempio, ad una società controllata di cui la controllante possieda il 70%. Questa società controllata aderisce al consolidato non per il 70% del suo risultato economico (ipotizziamo una perdita di 100 €) ma per l’intero ammontare. Quindi consentirà alla società controllante che ha utile di risparmiare 100.

Però pensando alla società controllata dell’esempio se vi è una minoranza che possiede il 30% del capitale sociale. Se questa società non avesse aderito al consolidato la perdita avrebbe consentito alla controllata di risparmiare imposte per il quinquennio successivo. Però in questo modo è la società controllante che risparmia. La società controllante deve are alla società controllata il vantaggio che perde e il vantaggio che perde sono 33 € (il 33% di 100). Quindi la società controllante dovrà corrispondere 33 € alla società controllata che non avrà più la possibilità di compensazione della perdita ma che però ha ricevuto una somma corrispondente alla somma che avrebbe potuto risparmiare.

La legge finanziaria prende le distanze di fronte a questi aggiustamenti: il problema è delle società e le somme che la società controllante verserà alla società controllata sono fiscalmente neutre. Quindi non si tratta di un costo deducibile per la società controllante che la versa e né di reddito tassato per la società controllata che la percepisce.


Quando delle società appartenenti ad uno stesso gruppo decidono di aderire al consolidato fiscale i redditi delle singole società vengono determinati autonomamente secondo le regole generali dalla società controllante.

C’è una prima eccezione a questa regola generale. Quando delle società appartenenti ad un gruppo aderiscono al consolidato nasce la possibilità che avvenga un trasferimento dei beni nell’ambito del gruppo che dal punto di vista fiscale si considera avvenuto ai valori di libro anche se le parti hanno pattuito dei prezzi diversi. Supponiamo che una società controllata abbia nella propria officina un bene strumentale che ad un certo punto non è più necessario alla società controllata ma invece è utile per la società controllante. Qui c’è un trasferimento da una società controllata ad una società controllante che viene effettuato sulla base del prezzo corrente sul mercato, cioè si fa riferimento al prezzo che si potrebbe ottenere se quel bene fosse venduto a un terzo. Supponiamo che questo prezzo di mercato, sulla base del quale viene effettuata la vendita, sia più elevato del costo che la società controllata abbia sostenuto per l’acquisizione del bene. E quindi la cessione di questo bene da’ luogo al realizzo di una plusvalenza perché il prezzo di cessione è più alto del costo di acquisizione. Ai fini fiscali il trasferimento di beni strumentali nell’ambito del gruppo si considera avvenuto sulla base del valore di libro, quindi non sulla base del prezzo effettivo di cessione. Perciò la plusvalenza è civilistica ma non tassabile. Questa è una facoltà che viene riservata ai trasferimenti di beni strumentali nell’ambito dei gruppi.


Una seconda particolarità. Quando delle società appartenenti al gruppo aderiscono al consolidato si produce un ulteriore effetto: il conseguimento di dividendi all’interno del gruppo che darebbero luogo ad un imponibile nella misura del 5% invece no, anche questo 5% è esente.

L’adesione al consolidamento non comporta quindi sotto il profilo tributario la necessità di effettuare tutti quegli aggiustamenti che si fanno in sede civilistica (trasferimento di beni strumentali e dividendi).


Tornando al consolidamento mondiale, la società controllante deve essere una società residente. Il gruppo è costituito da società residenti e società non residenti. Le prime possono aderire facoltativamente, le seconde invece devono aderire tutte.

Il reddito tassabile nel consolidato mondiale si determina sommando algebricamente i risultati ottenuti dalle singole società residenti e non residenti. Per le società non residenti occorre però determinare l’imponibile applicando le regole italiane. Se una società non residente che partecipa al consolidato è una società residente in Uganda, le regole fiscali che ha adottato saranno sicuramente diverse da quelle italiane. Occorre che il reddito imponibile di quella società venga rideterminato applicando le regole fiscali previgenti in Italia. Quindi il consolidato mondiale non è di semplice e immediata determinazione per via della rideterminazione del reddito.

Un ulteriore condizione è l’obbligo di certificazione del bilancio da parte dello Stato in cui è domiciliata la società non residente.


Nel consolidato nazionale l’intero reddito della società controllata partecipa alla formazione del reddito consolidato, a prescindere dalla partecipazione. Per cui, se la società α possiede nella società β il 70% del capitale sociale e quest’ultima ha una perdita di 100, nel bilancio consolidato concorre alla formazione del reddito l’intero risultato fiscale quindi 100.

Nel consolidato mondiale non è così. Non partecipa alla formazione del reddito consolidato l’intero risultato fiscale della società non residente ma solo in funzione alla percentuale di capitale sociale posseduto. Quindi se la società italiana possiede il 70% della società ugandese e l’Erario ugandese ha fatto certificare il bilancio ecco che alla formazione del reddito consolidato partecipa solo il 70% del risultato fiscale di quella società. Quindi non tutto ma solo in rapporto alla percentuale di capitale sociale posseduta.


Tornando all’esempio della società ugandese Le imposte sul reddito che questa società produce saranno ate in Uganda. Poi avendo aderito al consolidamento mondiale in Italia, saranno ate delle altre imposte in Italia. Ecco che allora si ha doppia tassazione economica: ma come si fa ad evitarla? Si riconosce in Italia un credito d’imposta. Cioè se in Uganda sono state ate imposte, ad esempio, nella misura del 70%: il 70% delle imposte ate è un credito d’imposta di cui si potrà avvalere la controllante che fa consolidato mondiale nei confronti della controllata.


Si prenda ad esempio una società di cui siano soci due persone, Tizio e Caio. Questa società ad un certo punto ha necessità di disporre di capitale poiché deve fare un investimento e allora i soci potrebbero fare un versamento di 100.000 € a fronte di un aumento del capitale sociale della società stessa. Questa variazione è ininfluente sotto il profilo economico. Però i soci potrebbero decidere di fare finanziamenti ottenendo il amento di un tasso di interesse e non con un aumento di capitale sociale. Così facendo la società a interessi che sono deducibili ai fini della formazione del reddito imponibile in quanto interessi passivi. La società riceve il denaro di cui ha bisogno però lo riceve a titolo di finanziamento. Se l’avesse ricevuto con l’aumento del capitale questo versamento non avrebbe avuto nessun risvolto in conto economico. Proprio per questa vantaggiosità di ricorrere al finanziamento piuttosto che all’aumento del capitale sociale, si è verificata una situazione per cui le società italiane, soprattutto di medie/piccole dimensioni, sono sottocapitalizzate. Questa situazione di sottocapitalizzazione non piace al legislatore che vorrebbe che le nostre imprese fossero capitalizzate in modo adeguato. Quindi visto che la sottocapitalizzazione è stato il risultato di alcune situazioni di convenienza fiscale, il legislatore si è posto un obiettivo nuovo.


Prima della riforma tributaria entrata in vigore lo 01/01/2004, lo strumento usato per incentivare la capitalizzazione delle società era quello della DUAL INCOME TAX che prevedeva in sostanza la ripartizione del reddito imponibile delle società in due parti, una soggetta all’aliquota ordinaria che allora era del 35% e l’altra soggetta a un’aliquota ridotta del 19%. La parte dell’imponibile da assoggettare all’aliquota agevolata si otteneva determinando il capitale proprio che si ritiene produttivo di un reddito di una certa percentuale che ruotava normalmente attorno al 7%. Applicando questa percentuale si otteneva una quota di reddito da assoggettare al 19%. La restante parte del reddito della società era da assoggettare al 35%. In questo modo il contribuente veniva incentivato ad aumentare il patrimonio. Quindi vi era un meccanismo che dava vantaggi fiscali, controbilanciando fino ad annullare l’opposta ipotesi di finanziamento attraverso un mutuo oneroso.


Dallo 01/01/2004 la DUAL INCOME TAX non c’è più ed è stato introdotto al suo posto un meccanismo tale per cui gli interessi passivi che la società a sul finanziamento dei soci non sono più totalmente deducibili, per una parte diventano indeducibili ai fini fiscali. Questo meccanismo diverso non da’ un vantaggio in termini di aliquota ma si introduce una penalizzazione. Considerando il rapporto del singolo socio nei confronti della società, fino a quando egli effettua finanziamenti onerosi, finanziamenti inferiori a 4 volte la propria quota del patrimonio netto della società, gli interessi passivi non hanno bisogno di subire alcuna decurtazione. La restrizione invece si verifica quando i finanziamenti concessi dal singolo socio sono superiori a questo rapporto di 4 volte la quota del patrimonio di appartenenza del singolo socio. C’è una soglia al di sopra della quale sono indeducibili gli interessi passivi. Quando un socio fa un finanziamento alla società e l’ammontare di questo finanziamento è inferiore a 4 volte la quota del patrimonio netto che compete al socio, gli interessi passivi sono totalmente deducibili.

Supponiamo che un socio abbia fatto un finanziamento alla propria società per 50.000 €. Questo soggetto possiede il 10% del capitale sociale della società finanziata il cui patrimonio netto è 100.000 €. La quota di patrimonio netto di pertinenza del nostro socio è 10.000 € (10% di 100.000 €) 10.000 € per 4 è il coefficiente che mi da’ il legislatore. Il finanziamento fatto è di 50.000 € che è superiore a 40.000 €. Gli interessi passivi relativi al supero, cioè 10.000 €, sono indeducibili.

Se invece il finanziamento fosse stato di 30.000 €, tutti gli interessi passivi continuerebbero ad essere deducibili secondo le regole generali.


Il corrente discorso deve essere effettuato in rapporto ai finanziamenti onerosi che ciascun socio effettua a favore della società. Il socio deve però essere qualificato cioè deve possedere una quota di capitale pari o superiore al 10%. Se finanzia un socio non qualificato, questo conteggio non deve essere effettuato e tutti gli interessi passivi restano deducibili totalmente.

Questo meccanismo si chiama THIN CAPITALISATION (capitalizzazione sottile) ed è stato studiato per combattere la decapitalisation. Le società italiane sono poco capitalizzate, hanno poco capitale proprio.


È da tenere conto anche un’altra modalità di finanziamento, a volte i soci si rivolgevano alla banca, depositavano i capitali che avevano in possesso presso la banca, e quest’ultima concedeva i finanziamenti su garanzia dei soci.






























26 novembre 2004


[ . ] I Soggetti Passivi Dell’IRES: le lettere a) e b)

Un’altra novità entrata in vigore lo 01/01/2004 è la TASSAZIONE PER TRASPARENZA. È un concetto di cui abbiamo parlato a proposito delle società di persone (SNC, SAS, società di fatto) cioè di società commerciali che non hanno personalità giuridica e perciò non hanno la soggettività passiva ne per l’IRES ne per l’IRPEF. Questo non significa che il reddito conseguito da questa società non sia soggetto all’imposta personale ma cambia la metodologia nel senso che il reddito viene determinato con riferimento alla società e viene imputato ai soci anche se non distribuito quindi il reddito viene ripartito tra i soci con un meccanismo di valenza tributaria, non di valenza civilistica. Questo reddito viene imputato ai soci in rapporto alla rispettiva quota di diritto alla partecipazione alla distribuzione degli utili. Ciascuno dei soci riceve per imputazione una quota di reddito che entra a comporre il suo reddito complessivo. Il socio, che ha redditi di varia natura, a questi redditi somma l’ulteriore quota di reddito rappresentata dal REDDITO D’IMPRESA che gli viene imputato. Ecco allora che il reddito complessivo è comprensivo anche della quota del reddito della società imputato a ciascun socio.

Viene messa in evidenza l’irrilevanza tributaria della società.


Questo criterio è stato esteso dalla riforma del 2004 anche ad altre situazioni.

  una società di capitali ha dei soci, tutti questi soci sono a loro volta società di capitali. Se questa situazione si verifica e se tutte le società lo vogliono (perché è una facoltà e non un obbligo), la tassazione della società partecipata non avviene in capo alla società stessa ando il 33% dell’imposta sul reddito ma il suo reddito viene imputato a ciascuna società socia in rapporto alla percentuale di partecipazione al capitale sociale.

Quali sono i vantaggi per cui queste società potrebbero optare per la tassazione per trasparenza? Innanzitutto si evita la tassazione sul 5% dei dividendi percepiti. Se non si optasse per questa novità, la società partecipata sul suo utile herebbe il 33% e in più sull’utile distribuito ci sarebbe un’ulteriore tassazione del 5% (dato che il 95% esente e il 5% soggetto a tassazione). Quindi anche se la tassazione per trasparenza consente di non effettuare la tassazione in capo alla società partecipata, il 33% è dovuto comunque, cambiano i soggetti che lo versano.

L’altro vantaggio è che la tassazione per trasparenza non ha ad oggetto soltanto l’utile ma l’oggetto riguarda anche le perdite che possono essere assorbite dagli utili delle società socie.

Ci sono delle condizioni per cui la società partecipata e le società socie possano adottare la tassazione per trasparenza. Occorre che tutte le società siano società di capitali. La seconda condizione è che le società partecipanti debbano possedere diritti di voto in assemblea ordinaria non inferiori al 10% e non superiori al 50%. Quindi la partecipazione che le società socie devono avere deve essere una partecipazione significativa ma non troppo elevata.

Avendo optato per la tassazione per trasparenza le perdite della società partecipata vengono imputate alle società socie ma con un limite: questa imputazione deve avvenire nei limiti della quota del patrimonio netto di spettanza a ciascuna società partecipante. Se una società socia ha il 20% della società partecipante allora gli utili e le perdite della società partecipata sono imputate a ciascuna delle società partecipanti. La nostra società ha il 20% e quindi la perdita le viene imputata per il 20%. Supponiamo che la perdita della società partecipante sia di 200. Quindi la perdita imputabile, il 20% di 200, è 40 però qui subentra il limite della quota del patrimonio netto contabile di spettanza della società partecipata. Se, per ipotesi, la società partecipata avesse un patrimonio netto contabile di 100, allora la quota di patrimonio netto spettante alla nostra società è 20. Ecco quindi che non tutto il 40 può essere imputato alla nostra società perché c’è il vincolo rappresentato da quel 20. Inoltre l’opzione vincola per un certo periodo di tempo cioè vincola per un termine di tre anni.

Si può scegliere la tassazione per trasparenza, sempre su base facoltativa, se TUTTE le società partecipanti esprimono un giudizio in questo senso. Se anche una sola di queste non aderisce ecco che cade la possibilità di seguire questa opzione.


  Dallo 01/01/2004 la tassazione per trasparenza è prevista anche in capo alle Società a Responsabilità Limitata a ristretta base proprietaria. La società partecipata deve essere una società di capitali ma deve avere la particolare forma di SRL. Un’ulteriore condizione è che la comine sociale sia composta esclusivamente da persone fisiche. Se la società di capitali attraverso i suoi organi sociali (le singole persone che rivestono la posizione di socio) esprime una volontà concorde allora la tassazione della SRL può avvenire per trasparenza.

Il reddito della SRL non viene tassato in capo alla società ma viene imputato ai singoli soci in rapporto all’entità della partecipazione da ciascuno posseduta. Anche qui c’è la possibilità di evitare la tassazione sull’utile che non è più del 5% ma dipende dal fatto che la partecipazione sia qualificata (12,50%) o meno (il 40% del dividendo concorre a formazione del reddito complessivo).

Le persone fisiche che formano la comine sociale non possono essere più di 10. La legge stranamente non entra nella ripartizione perché è possibile che su 10 soci uno possieda l’80% del capitale e gli altri 9 possiedano delle parti infinitesime.

Questa tassazione per trasparenza, in capo alla SRL, la legge l’ha pensata soprattutto come criterio agevolativo messo a disposizione ad attività imprenditoriali di dimensioni limitate: quindi non ha voluto che questo tipo di tassazione per trasparenza fosse riferito ad imprese con centinaia di milioni di euro di volume d’affari. Infatti quest’ultimo non può essere superiore ai vecchi 10 miliardi di £ (5.164.569 €).

Gli effetti per la SRL che aderisce alla tassazione per trasparenza sono che il reddito viene ripartito in tante quote in funzione dell’entità della partecipazione e questo reddito va a far parte del reddito complessivo di ciascun socio. Ecco quindi che la tassazione avviene con l’IRPEF che ciascuna persona a sul suo reddito complessivo. Inoltre se non avesse aderito alla tassazione per trasparenza, nel momento in cui il proprio reddito sarebbe stato distribuito ci sarebbe stata un’ulteriore tassazione in capo ai soci.

Un’ultima condizione necessaria per la quale si possa aderire alla tassazione per trasparenza e che i soci siano persone fisiche residenti nel territorio dello Stato.


I Soggetti Passivi Dell’IRES: la lettera c)

Nella lettera c) ci sono gli enti non commerciali, soggetti diversi dalle società commerciali, residenti nel territorio dello Stato che o non svolgono affatto attività commerciale oppure se la svolgono lo fanno in modo marginale rispetto all’attività complessiva esercitata. Questi enti sono soggetti all’IRES con l’aliquota del 33%.

Il problema da affrontare è quello relativo alle modalità di determinazione del reddito complessivo che sono del tutto analoghe a quelle viste a proposito delle persone fisiche, in relazione alle 6 categorie reddituali. La modalità di determinazione del reddito complessivo in rapporto agli enti non commerciali è la stessa; cioè occorre determinare il reddito netto di ciascuna categoria, dopodiché è necessario procedere alla sommatoria per determinare il reddito complessivo sul quale bisogna calcolare il 33%. Un ente non commerciale, diverso dalle persone fisiche, per sua natura non conseguirà redditi di lavoro dipendente o redditi di lavoro autonomo. Relativamente al reddito d’impresa si può dire che l’ente non commerciale, ad esempio la fondazione, ha una sua contabilità complessiva che riguarda la gestione della fondazione che non ha scopo di lucro. Questo soggetto può anche svolgere un’attività commerciale (ad esempio, ha una libreria) che deve essere gestita con contabilità autonoma e separata. Si parla quindi di una contabilità speciale riferita specificatamente all’attività commerciale; deve essere una contabilità che si inserisce nella contabilità generale dell’ente con la propria autonomia e la propria evidenza.


I Soggetti Passivi Dell’IRES: la lettera d)

Si parla ora degli enti non residenti per i quali la legge non ci obbliga all’individuazione della loro natura esatta ma ci impegna solo a verificare se si tratta di una persona fisica o meno perché se si tratta di una persona fisica non residente quest’ultima sarà soggetta ad IRPEF, se invece si tratta di un ente diverso da persona fisica qualunque sia la sua natura giuridica si ricade nell’IRES.

Gli enti non residenti sono soggetti ad IRES esclusivamente con riferimento ai redditi prodotti nel territorio dello Stato.

Bisogna fare una distinzione a seconda che l’ente non residente sia o meno una società perché se l’ente non residente è una società bisogna verificare se i redditi prodotti nel territorio dello Stato comprendono o meno il reddito d’impresa. Un soggetto non residente si considera come titolare di un reddito d’impresa in Italia se svolge un’attività nel territorio dello Stato attraverso una stabile organizzazione.

Supponendo che non ci sia reddito d’impresa, il reddito complessivo si forma determinando i redditi netti di ciascuna categoria e facendone la sommatoria.

Se al contrario tra i redditi prodotti nel territorio dello Stato vi è anche reddito d’impresa assistiamo alla dilatazione di quest’ultimo nel senso che si allarga fino a comprendere in sé anche le altre categorie di reddito, per cui questa società darebbe luogo solo a reddito d’impresa. Ad esempio, una società di diritto congolese possiede in Italia degli appartamenti che producono redditi di fabbricati e possiede anche dei redditi di capitale che fanno si che ci siano interessi che defluiscono dall’Italia verso il Congo. Bisogna applicare le regole proprie dei redditi di fabbricati e dei redditi di capitale per determinare i redditi netti conseguiti per ogni categoria, dopodiché si fa la somma e si ottiene il reddito complessivo.

Se questa società congolese oltre a possedere appartamenti e oltre a possedere dei redditi di capitale, ha anche una stabile organizzazione perché a Torino ha una direzione generale con i propri uffici e i propri dipendenti attraverso la quale produce un determinato ammontare di reddito d’impresa, quest’ultimo si dilata fino a comprendere nel reddito d’impresa anche il reddito di fabbricati e il reddito di capitale facendo sì che questi ultimi perdano la loro autonomia e diventino componenti del reddito d’impresa.

Supponiamo ora che il soggetto non residente sia un ente non commerciale, sia cioè una fondazione che possiede nel territorio dello Stato italiano degli immobili con un canone di affitto, che percepisce degli interessi e che gestisce una libreria a Torino (attività di carattere imprenditoriale). In questo caso poiché il soggetto di riferimento non è un ente commerciale, non si verifica dilatazione del reddito d’impresa che resta circoscritto nel proprio ambito. Quindi per determinare il reddito complessivo bisogna determinare singolarmente i redditi d’impresa, singolarmente i redditi di fabbricati e singolarmente i redditi di capitali. Una volta determinati i redditi netti di ciascuna delle tre categorie si fa la somma per ottenere il reddito complessivo.

La differenza fra le due situazioni sta nel fatto che laddove vi sia lo svolgimento di un’attività d’impresa attraverso una stabile organizzazione vi è dilatazione del reddito d’impresa se il soggetto non residente è una società commerciale, non vi è dilatazione del reddito d’impresa se il soggetto non residente non è una società commerciale.


OPERAZIONI DI CARATTERE STRAORDINARIO

Sono essenzialmente le trasformazione di società e le fusioni di società ma ci sono anche, ad esempio, le cessioni di società, i conferimenti di azienda, . .

Il modulo dedicato alle operazioni straordinarie è il Capo III del Testo Unico che inizia con l’art. 170 dedicato alle trasformazioni.


Le Trasformazioni Di Società

La trasformazione è un’operazione attraverso la quale una società cambia la propria veste giuridica nel senso che una società di capitali diventa una società di persone oppure al contrario una società di persone si trasforma in una società di capitali oppure ancora la trasformazione può avvenire restando nell’ambito delle società di capitali o restando nell’ambito delle società di persone. Ad esempio, una SRL si trasforma in SPA (entrambe società di capitali) o una SNC si trasforma in SAS (entrambe società di persone). Esistono quindi trasformazioni di tipo diverso e con conseguenze diverse. Tutte hanno in comune il fatto che l’elemento di sostanza, il conto economico, non cambia, quello che cambia è la veste giuridica.

Sotto il profilo civilistico la trasformazione è una mutazione che ha conseguenze importanti per cui sono richieste particolari condizioni e particolari cautele.


Ci occupiamo principalmente degli effetti tributari e partiamo dalla constatazione che non tutte le trasformazioni in campo tributario hanno lo stesso peso. Se una SPA si trasforma in SRL questa è una trasformazione ma dal punto di vista tributario ha una valenza poco rilevante in quanto i tipi di società sono soggetti agli stessi criteri di tassazione, cioè entrambe sono società con personalità giuridica soggette ad IRES. Allo stesso modo non fa molta differenza se si decide di passare da una SNC ad una SAS perché la trasformazione non produce effetti fiscalmente significativi.

Il discorso è molto diverso quando da una SNC (società di persone) si passa ad una SRL (società di capitali) o viceversa dato che cambia completamente il criterio di tassazione. La SNC è tassata per trasparenza e la SRL invece ha un propria soggettività passiva ai fini della IRES.

Perciò bisogna distinguere tra trasformazione che comporta il mutamento di veste giuridica pure restando nello stesso tipo di tassazione e trasformazione che comporta il mutamento di veste giuridica con cambiamento del tipo di tassazione.


Trasformazione da società di persone a società di capitali, ad esempio trasformazione da SNC a SRL. La trasformazione non comporta il realizzo delle plusvalenze insite nel patrimonio che restano allo stato latente. Vale a dire che se la SNC aveva un capannone industriale iscritto in contabilità per 100 ma con valore effettivo di 150, possedeva una plusvalenza latente per 50. La SNC si trasforma in SRL. Questo passaggio non comporta tassazione delle plusvalenze latenti che restano non tassate. Saranno tassate quando la SRL venderà il capannone stesso. La trasformazione non è una circostanza che rende tassabile le plusvalenze latenti. Sotto il profilo tributario la trasformazione è neutra.

Questo non significa che sia irrilevante cioè che non comporti assolutamente conseguenze di carattere tributario perché al contrario la trasformazione fa sì che prima vi sia un determinato criterio di tassazione, dopo ve ne sia un altro. Per cui il periodo d’imposta durante il quale viene realizzata la trasformazione viene diviso in due parti: dall’inizio fino al momento della trasformazione e dalla trasformazione alla fine dell’esercizio. Occorrerà determinare separatamente il reddito conseguito nel primo periodo (che, tornando all’esempio precedente, sarà assoggettato alla tassazione per trasparenza) e il reddito conseguito nel secondo periodo (tassato invece in base all’IRES). Lo stesso discorso vale nell’ipotesi opposta. Il criterio di tassazione muta e quindi c’è la necessità di interrompere il periodo d’imposta dividendolo in 2 parti.

Se vi fosse una trasformazione omogenea questo effetto di frazionamento non significherebbe nulla perché non vi sarebbe il passaggio da un sistema all’altro.


Il passare da un criterio all’altro produce effetti di cui occorre tenere conto:

  La trasformazione da società di persone (SNC) a società di capitali (SRL) occorre dividere il periodo d’imposta in due parti e occorre individuare la situazione patrimoniale della società al momento della trasformazione (la situazione patrimoniale di chiusura per la SNC è la stessa situazione patrimoniale di apertura per la SRL appena nata). Supponiamo che in questa situazione patrimoniale si sia verificata l’esistenza di riserve costituite con utili non distribuiti (ad esempio 100 di utili non distribuiti). Bisogna porsi il problema di cosa succederà quando queste 100 saranno distribuite. La SRL potrebbe decidere di farlo alla fine dell’esercizio. Quelle 100 sono già state tassate in capo ai soci perché nelle società di persone la tassazione dell’utile prescindeva dalla distribuzione, per effetto del criterio dell’imputazione. Se gli utili sono già stati tassati in capo ai soci quando la SRL deciderà di distribuirle non ci potrà essere alcuna tassazione perché c’è già stata.

  La trasformazione da società di capitali (SRL) a società di persone (SNC) si verifica un cambiamento dei criteri di tassazione. Supponiamo che la SRL nel momento della trasformazione abbia nel proprio patrimonio utili non distribuiti per 50. Questa riserva la ritroviamo nel patrimonio di partenza della SNC che per ipotesi decide di distribuirla a fine esercizio. Quando una SNC distribuisce utili, questi utili non sono tassati in capo ai soci perché la tassazione in capo ai soci avviene per effetto dell’imputazione. In questo caso però la SNC distribuisce utili formati in precedenza, quando la società era una SRL. Questi utili conservano l’impronta della loro origine e quindi vengono trattati come sarebbero trattati gli utili distribuiti da società di capitali: sono tassati per il 5% se il socio è una società di capitali, sono tassati per il 12,50% se il socio è una persona fisica la cui partecipazione sia non rilevante, concorrono per il 40% del reddito complessivo se il socio è una persona fisica la cui partecipazione sia rilevante. Quindi in sostanza, nonostante la distribuzione di questi utili avvenga da parte di una società di persone, la distribuzione è influenzata dalla genesi del momento in cui sono stati costituiti.


Le Fusioni

La fusione è un’operazione giuridica che fa sì che 2 o più società si uniscano dando luogo ad un solo soggetto e per cui i patrimoni delle società confluiscono in un patrimonio unitario che è quello della società emergente dalla fusione.

Vi sono due diversi tipi di fusioni:

  La fusione perfetta quando alcune società si estinguono dando luogo ad una nuova società;

  La fusione per incorporazione dove una delle società assume i patrimoni delle altre e mentre le altre società si estinguono la società che assume i patrimoni persiste.


Quindi c’è questo fenomeno di confluenza di patrimoni da società ad altre società.


Sotto il profilo civilistico: la situazione è simile alla successione universale, cioè la società di nuova costituzione nella fusione perfetta oppure la società incorporante subentra in tutte le posizioni giuridiche che in precedenza facevano capo alle altre società partecipanti alla fusione. Le situazioni giuridiche si trasferiscono senza assoluzione di continuità, non c’è un’interruzione. La fusione è un’operazione complessa e articolata; sono tanti gli interessi che vanno tutelati.

Dal punto di vista tributario, la fusione non rappresenta un’ipotesi di realizzo delle plusvalenze, cioè le plusvalenze latenti restano allo stato latente. Non c’è un cambiamento di valori. Anche l’operazione di fusione è neutra sotto il profilo fiscale, neutra nel senso che non è un’ipotesi in cui le plusvalenze latenti si rendono tassabili.


Anche qui non significa che la fusione non possa avere conseguenze di carattere tributario. La fusione è ipotizzabile tra società dello stesso tipo quindi SRL che si fondono con altre SRL. La fusione eterogenea presuppone una trasformazione. Cosicché se vogliamo fondere una SNC e una SRL, prima bisogna trasformare la SNC in SRL rendendo in questo modo le due società omogenee e poi si può procedere alla fusione perfetta o per incorporazione. Supponiamo che la SRL α incorpori la SRL β. La società α incorporata dal momento in cui la fusione ha efficacia cessa di esistere. Quindi dall’inizio del periodo di imposta fino al momento in cui la fusione ha efficacia avremo un periodo imposta relativamente al quale bisogna determinare il reddito conseguito dalla società α incorporata. La società β è incorporante, destinata ad essere accresciuta dal patrimonio della società α, durante l’esercizio il suo patrimonio si incrementa ma il suo periodo d’imposta non si interrompe, va avanti e avrà la sua normale scadenza che è la fine dell’anno.


Ci sono due problemi da affrontare. Il primo è quello della valenza tributaria degli avanzi o disavanzi di fusione; il secondo è il trattamento delle perdite, o meglio l’utilizzo delle perdite subite dalla società incorporata da parte della società incorporante. Le perdite delle società possono essere portate in diminuzione degli utili degli esercizi successivi. La società incorporante subentra in tutte le posizioni giuridiche che in precedenza facevano capo alla società incorporata. Ma subentra anche questo diritto alla compensazione delle perdite? La risposta che veniva data in passato ha generato operazioni di “commercio delle bare”, cioè il commercio di società che hanno avuto un passivo disastroso con la possibilità di portare le perdite in riduzione degli utili per le società incorporanti.

L’altro problema è il trattamento delle differenze che si verificano nelle fusioni per incorporazioni quando la società incorporante possiede tutto o parte della società incorporata. Una società α può avere delle azioni o quote della società β e può poi procedere all’incorporazione della seconda se è d’accordo. Questo fenomeno di incorporazione può portare alla realizzazione di una particolare differenza che si chiama avanzo o disavanzo di fusione.




















03 dicembre 2004


Il doppio binario. Il reddito civilistico e il reddito tributario vengono calcolati in modo separato e autonomo ognuno secondo i propri principi. Quindi si prendono i singoli componenti positivi e negativi di reddito e si procede per determinare l’IRES. Sono due determinazioni che procedono in parallelo, senza interferire l’una con l’altra. Questo principio di doppio binario non è stato adottato nella riforma perché è stato stabilito che il reddito tributario assume come punto di partenza il reddito civilistico. Dopodiché occorre tenere conto delle regole fiscali per apportare le variazioni al risultato del conto economico.



[ . ] Le Fusioni

Tornando al discorso delle fusioni. La natura dell’operazione ha come conseguenza la neutralità sotto il profilo fiscale, nel senso che non comporta la tassazione delle plusvalenze latenti insite nel patrimonio.

Si attua una sorta di successione universale. La società che emerge dalla fusione subentra in tutte le posizioni giuridiche esistenti nelle altre società.

Relativamente alla fusione bisogna affrontare due problemi rilevanti.


Gli Avanzi E I Disavanzi Di Fusione

È un concetto che deriva dal Codice Civile e dalla ragioneria. Il diritto tributario si limita a prenderli in considerazione affermandone il trattamento fiscale. Sono numerose le circostanze nelle quali si possono determinare gli avanzi e i disavanzi, quella forse più ricorrente si ha nelle fusione per incorporazione, quando la società incorporante detiene tutto o parte della società incorporata.

Quindi abbiamo una società α che, per esempio, possiede l’intero capitale sociale della società β. Le due società decidono di effettuare una fusione e di conseguenza α che detiene il controllo incorpora β. Quest’ultima cessa di esistere e invece α continua a sussistere con un patrimonio arricchito del patrimonio della società β. Ipotizziamo questo:


100%

Società α Società β

Part. in β = 100     PN = 120


La società α ha una partecipazione in β per 100 che è l’esborso che la prima ha voluto sostenere per acquistare l’intero capitale della seconda società.

Contabilmente si assume la situazione patrimoniale della società β e la si porta a sovrapposizione della situazione patrimoniale della società α.

Questa assunzione di attività e passività avviene con il principio della continuità dei valori. Quindi, per effetto della fusione, le plusvalenze latenti non vengono in evidenza.

Applicando la ragioneria, quando si verifica questa sovrapposizione nella società α, la scrittura contabile è la seguente:




diversi

a

diversi





Attività di β


Passività di β



































Partecipazioni







Avanzo




Gli elementi al netto che sono nello stato patrimoniale della società β si estinguono.

Questa scrittura che la società α fa’, deve comportare anche la cancellazione di una voce del suo attivo che è la partecipazione nella società β. Se si ipotizza che la differenza tra le attività e le passività della società β sia 120 e questo valore della partecipazione è stato solo scritto in contabilità per 100, la scrittura non quadra. La posta contabile necessaria per chiudere questa operazione da’ un AVANZO o un DISAVANZO (posta di bilanciamento contabile).


Cambiando i numeri è facile vedere che si può ottenere un disavanzo anziché un avanzo.

Se ad esempio la partecipazione fosse stata acquistata per un importo maggiore del patrimonio della società β, ci sarebbe stato un disavanzo di fusione.

La società α incorpora la società β. Tutto il patrimonio di quest’ultima si trasferisce in capo alla prima. La situazione è la seguente:


Società α Società β

Attivo  200

P.N.  100


Passivo    100

Totale  200

Totale  200

Partecipazione in β = 150




La scrittura contabile risultante è quella proposta:




diversi

a

diversi







Attività di β


Passività di β








































Disavanzo


Partecipazioni












Gli avanzi e i disavanzi di fusione sono neutri sotto il profilo tributario perché non rappresentano perdite ma sono pure poste di carattere contabile che servono per bilanciare la scrittura.


Il Trattamento Delle Perdite

La natura giuridica della fusione è tale per cui le situazioni giuridiche in capo alla società incorporata sorgono di conseguenza anche in capo alla società incorporante.

Se una società subisce delle perdite c’è il diritto alla compensazione che se sorto in capo alla società incorporata si trasferisce in capo alla società incorporante. Questa possibilità di utilizzare le perdite subite da un’altra società ha aperto la strada ad un’operazione elusiva, molto interessante e molto praticata per un certo periodo di tempo: il cosiddetto “commercio delle bare” dove le bare sono società che hanno perso qualsiasi contenuto produttivo e patrimoniale. Per una società che invece produce utili acquisire una società che ha perdite può essere interessante perché facendo la fusione per incorporazione riesce ad utilizzare perdite che diversamente la società incorporata non riuscirebbe ad adoperare. Le bare, società che non hanno più nulla e che ormai hanno subito perdite, non avrebbero più valore se non fosse per il diritto alla compensazione.

Le operazioni elusive sono quindi fatte esclusivamente per finalità fiscali, cioè per are meno imposte, non c’è una ragione di carattere economico o commerciale.


Il legislatore ha però introdotto un primo ostacolo per impedire queste operazioni dicendo che, sì, le perdite possono trasformarsi in diritto alla compensazione però c’è un limite le perdite che la società incorporante può utilizzare non possono superare l’ammontare del patrimonio netto della società incorporata.

È possibile però che prima di fare la fusione venga fatto un aumento del capitale sociale della società incorporata. C’è stato un aumento del patrimonio della società da incorporare fatto perché tanto sono soldi che tornano alla società incorporante. Il fisco allora ha introdotto una nuova legge che ammette gli aumenti di capitale sociale però questi incrementi patrimoniali devono essere stati effettuati prima di 24 mesi dal momento in cui si effettua la fusione, perché se no sono irrilevanti. Il diritto alla compensazione è soggetto al limite dei 5 anni, quindi introdurre un vincolo di 24 mesi significa che per buona parte delle perdite il diritto alla compensazione andava perso.


Per eliminare anche questa possibilità di compiere operazioni elusive si è introdotto un vincolo che non opera sul piano del patrimonio netto ma opera sull’esistenza vera di una società operativa. Cioè si dice che occorre che la società incorporata svolga un’effettiva attività produttiva e che questo deve essere dimostrato dal fatto che vi sono importati salari corrisposti e vi è un importante volume di vendite realizzato. Occorre che la società incorporata nell’anno precedente a quello della fusione abbia conseguito ricavi e sostenuto costi in un ammontare non inferiore al 40% della media di queste due entità del biennio precedente.

In sostanza quando le società non hanno più un attività produttiva, le perdite non vengono usate perché mancano i cosiddetti requisiti di vitalità.



IMPOSTA REGIONALE SULLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE

L’IRAP è un’imposta regionale in quanto la regione è la beneficiaria del gettito.

È un’imposta reale ed è l’unica imposta reale di cui si compone il nostro ordinamento tributario (le altre sono imposte personali che colpiscono il reddito complessivo, personali nel senso che il prelievo viene fatto presso il percettore). L’IRAP colpisce il reddito che deriva da determinate fonti quindi si può dire che il prelievo avviene presso la fonte.

L’imposta non è deducibile ai fini IRPEF.


Il presupposto dell’imposta è l’esercizio di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio di beni o alla prestazione di servizi, quindi lo svolgimento di un’attività produttiva. Si parla di presupposto dell’imposta a proposito di attività imprenditoriali, di produzione di beni o di prestazioni di servizi e di attività autonome.

Per gli enti non commerciali il presupposto dell’imposta è invece costituito dalla corresponsione delle retribuzioni.

La filosofia dell’imposta è quella di colpire i soggetti in funzione della quantità dei servizi pubblici che utilizzano (il criterio di ripartizione dei servizi pubblici indivisibili è chiarito nell’art. 53 che tratta della capacità contributiva, la potenzialità economica di ogni soggetto). Si è ipotizzato un rapporto diretto tra assorbimento/utilizzazione dei servizi pubblici indivisibili e l’entità della produzione di beni e servizi che ciascun soggetto realizza.


L’IRAP si presta a molte critiche perché facendo riferimento al volume della produzione e non al reddito, effettua una prelievo anche quando il guadagno non c’è (può essere che ci siano componenti negativi di reddito che assorbono tutti i ricavi).

Si fa riferimento all’attività autonomamente organizzata molti professionisti che svolgono un’attività a titolo personale, senza avvalersi di un’organizzazione significativa (ad esempio, il commercialista che come aiuto ha solo una collaboratrice, si dice che siccome questa attività di lavoro autonomo non è organizzata, non deve essere assoggettata ad IRAP).


I soggetti passivi dell’imposta (art. 3) sono i seguenti:

  tutte le società, sia le società di capitali che le società di persone che svolgono attività commerciale. Le società di persone anche se non hanno soggettività passiva ad IRPEF, l’hanno invece all’IRAP;

  le persone fisiche che svolgono l’attività d’impresa o che svolgono anche altre professioni

  i produttori agricoli anche se non si tratta di redditi d’impresa

  gli enti non commerciali la cui base imponibile è costituita dal monte delle retribuzioni.


Per gli altri soggetti che non siano enti non commerciali la base imponibile è costituita dal valore della produzione. Si fa riferimento all’art. 2425 del Codice Civile che disciplina il contenuto del conto economico nel cui ambito la legge sull’IRAP dice quali sono i componenti positivi che devo assumere e quali quelli negativi che posso detrarre. Allora la base imponibile assume il valore della produzione di cui alla lettera A) del Conto Economico. A questo importo occorre togliere i costi della produzione ma non tutti quelli elencati dall’art. 2425 del Codice Civile. Sono deducibili:

  i costi per le materie prime

  i costi per i servizi

  i costi per il godimento dei beni di terzi

  i costi per gli ammortamenti

  i costi per gli altri oneri diversi della gestione


Non sono invece comprese le spese per il personale che non sono quindi deducibili ai fini IRAP. Non sono inoltre deducibili gli interessi passivi; e sono poi indeducibili e non tassabili rispettivamente gli oneri e i proventi straordinari.


Una prima richiesta di riforma dell’IRAP è stata di ammettere gradualmente la deducibilità non tanto per gli interessi passivi ma quanto per le retribuzioni corrisposte. Qualcosa è già contenuto nella Finanziaria 2004 dove si ammette la deducibilità del costo del personale dedicato alla ricerca che se nulla si fosse detto sarebbe risultato indeducibile.


Il riferimento per determinare il valore della produzione è il Conto Economico civilistico però componenti positivi e negativi di questo Conto Economico vanno visti sulla base delle leggi fiscali quindi vanno presi nella misura in cui sia reso obbligatorio o consentito dalle regole tributarie.


L’IRAP è un’imposta reale che viene prelevata alla fonte la cui caratteristica è il fatto che sono redditi prodotti nel territorio dello Stato. Per cui quando un’impresa produce il proprio reddito in parte in Italia e in parte all’estero, se quest’attività produttiva svolta all’estero viene portata avanti attraverso una stabile organizzazione ecco che questo reddito prodotto all’estero non è soggetto ad IRAP però ci deve essere la condizione dello svolgimento dell’attività attraverso una stabile organizzazione. Diversamente se l’attività svolta dall’impresa all’estero è senza l’ausilio di una stabile organizzazione tutto il reddito è considerato prodotto nel territorio dello Stato e quindi è tutto assoggettato ad IRAP.


L’IRAP colpisce il volume della produzione con l’aliquota del 4,25%. È un’aliquota bassissima che però si avvale di una base imponibile molto elevata che non è composta solo dal reddito ma anche dal monte delle retribuzioni maggiorato del totale degli interessi passivi che sono spese deducibili ai fini della formazione del reddito civilistico ma che invece non sono deducibili ai fini IRAP.


Il gettito dell’imposta è gestito dalle regioni e viene utilizzato soprattutto per finanziare la sanità. La gestione dell’imposta invece spetta all’amministrazione finanziaria dello Stato. Vi è un obbligo di dichiarazione in capo al contribuente, poi vi può essere eventualmente un accertamento per vedere se si sono rispettati correttamente gli obblighi di legge.



IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO

L’IVA è un’imposta diretta che non colpisce il reddito ma i CONSUMI dei vari soggetti. È un’imposta che grava sul consumatore finale in quanto consuma beni e servizi però non viene versata all’Erario da quest’ultimo ma dagli operatori economici che partecipano al ciclo di produzione del bene consumato.

Ci sono soggetti che non sono incisi dal tributo pur effettuando il amento dell’imposta all’Erario perché godono del diritto di rivalsa, cioè godono del diritto di ribaltare sull’interlocutore economico successivo l’importo dell’imposta che hanno versato.

L’aliquota ordinaria è il 20%.


Esempio numerico:



Prezzo netto d’acquisto

Valore aggiunto ed IVA dovuta all’Erario

(10% per ipotesi)

Prezzo di vendita e imposta addebitata nelle fatture d’acquisto

P







IVA 150 =



P1





+



IVA 400 =



G








IVA 500 =



D








IVA 700 =




Nell’esempio si suppone che il primo produttore (P) non abbia acquisti anche se in realtà non è così. Il prezzo di 1.500 comprende le spese del personale, la remunerazione del capitale investito, . . P che vende a P1 emette fattura per 1.500 a cui va aggiunta l’IVA di 150.

P1 aggiunge il proprio lavoro e vende a G il proprio prodotto realizzando un valore aggiunto di 2.500 (la remunerazione della manodopera, del capitale investito, della stessa attività imprenditoriale). Quando questo operatore incassa dal proprio cliente l’IVA, lui la versa direttamente all’Erario. Fino a questo momento P1 ha ato al proprio interlocutore precedente per 150, ha ato all’Erario 250 ma G gli ha dato 400 quindi gli ha permesso di ottenere tutta l’imposta anticipata.

G compra per 4.400 somma il proprio valore aggiunto per 1.000. G ha ato 400 a P1, 100 va versata all’Erario ma vendendo al dettagliante quest’ultimo gli a 500 di IVA quindi G va a pareggio.

D vende il prodotto al consumatore finale per 7.000 e addebita l’imposta sul valore aggiunto al quest’ultimo che a per quel determinato bene 7.700.


L’IVA è stata versata dai vari operatori economici succeduti per arrivare al momento finale in cui il consumatore effettua l’acquisto.

Da questo esempio si nota che per i vari operatori economici l’IVA non rappresenta un costo, è cioè un’imposta che non va ad incidere sul conto economico.

Il prezzo ato dal consumatore finale è pari alla somma dei valori aggiunti dei vari operatori economici (tornando all’esempio: 7.700; in cui sono stati ipotizzati 4 passaggi, ma se fossero stati 40, la somma dei valori aggiunti avrebbe dato comunque 7.700). Se cambiasse tipo di organizzazione della produzione l’incidenza dell’IVA non cambierebbe l’IVA non costituisce incentivi né alla segmentazione né all’integrazione del processo produttivo.


Ad ogni passaggio l’imposta che grava su quel bene fino a qualsiasi livello del processo produttivo è sempre pari all’aliquota nominale. Questo è un vantaggio nel commercio internazionale perché c’è una regola applicata da tutti gli Stati economicamente avanzati ed è la regola della tassazione per destinazione. Ad esempio, quando un produttore italiano di sectiunelle le esporta negli USA, occorre fare in modo che queste sectiunelle giungano al confine completamente decurtate dell’IVA perché gli USA applicheranno sul valore della sectiunella la loro imposta sui consumi. Se vogliamo che i beni nazionali non siano gravati da imposta sui consumi italiani e da imposta sui consumi estera, il Paese di provenienza deve rinunciare alla tassazione dei beni destinati all’esportazione. Cosicché in definitiva subiscono soltanto la tassazione del Paese di destinazione per porre su un piano di parità le sectiunelle italiane rispetto a quelle prodotte negli USA. Per ottenere questa parità occorre che quando le sectiunelle sono esportate negli USA, l’operatore economico italiano che ha ato l’IVA, venga rimborsato di quest’IVA a monte ed è opportuno che la cessione della sectiunella al cliente statunitense non sia un’operazione assoggettata ad IVA.


Prima dell’IVA esisteva l’IGE. Nell’IGE non vi era certezza dell’incidenza dell’imposta e quindi si procedeva al rimborso attraverso aliquote stimate che costituivano veri e propri premi all’esportazione. Nell’IVA questo spazio non c’è: il rimborso è esattamente determinato.


L’IVA ha il connotato della semplicità della sua applicazione. In realtà richiederebbe calcoli difficili però si è pensato che determinare il valore aggiunto per un determinato prodotto deve avvalersi di criteri di semplificazione.

Anziché determinare il valore aggiunto per ogni unità di prodotto lo si può determinare per periodo temporale (ad esempio, per ogni singolo mese). Però problemi di imputazione resterebbero.

L’Erario è interessato che il valore aggiunto sia determinato correttamente in un arco di tempo sufficientemente lungo. Si è rinunciato ad una precisa determinazione del valore aggiunto nel mese perché nel lungo periodo le variazioni in più sono compensate esattamente da corrispondenti variazioni in meno.

Le materie prime sono deducibili quando sono acquistate. I beni strumentali sono deducibili integralmente nel mese in cui vengono comperati.


Di fatto il valore aggiunto fiscale si determina in modo molto semplice: facendo 2 sommatorie: da una parte la sommatoria delle fatture di vendita, dall’altra parte la sommatoria delle fatture di acquisto. Il valore aggiunto fiscale è la differenza. L’IVA da versare all’Erario è questa differenza tutto sommato di semplice determinazione.









10 dicembre 2004


[ . ] IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO

L’IVA è un’imposta sui consumi, non su altre entità. I soggetti che devono versare l’imposta all’Erario sono tutti gli operatori economici che non sono incisi dall’imposta grazie al meccanismo delle rivalsa (hanno una funzione assimilabile a quella dell’esattore).

Si tassa il valore aggiunto prodotto in un certo periodo (3 mesi o 1 mese).

Non è necessario applicare gli ammortamenti di competenza o individuare il magazzino perché nel lungo periodo questi componenti positivi e negativi tendono a compensarsi.


Tutto andrebbe bene se nel nostro sistema ci fosse solo un’aliquota d’imposta. In realtà esistono una molteplicità di aliquote , e (aliquota ordinaria). ½ sono anche beni e servizi esenti.


Si prenda ad esempio la seguente situazione:


Vendite












Acquisti


IVA 10%





IVA 5%





IVA esente















Valore aggiunto






IVA dovuta all’Erario




L’incidenza dell’imposta non è più pari all’aliquota ordinaria (in questo caso 10%). Anziché determinare l’aliquota da versare all’Erario utilizzando il criterio base da base (che è il procedimento usato sopra) ma si usa il procedimento imposta da imposta:


Vendite


IVA 10%








Acquisti


IVA 10%




IVA 5%




IVA esente








Si fa riferimento all’imposta sul volume degli acquisti e all’imposta sul volume delle vendite



In questo procedimento si ottiene l’effetto di recupero l’aliquota ordinaria corrisponde esattamente all’incidenza dell’imposta.


La disciplina relativamente all’IVA è contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 72 del 26/10/ . .

Disposizioni generali. Un problema fondamentale consiste nel possedere i criteri in base ai quali si può stabilire se un’operazione economica è soggetta ad IVA o meno che è il problema del presupposto d’imposta (questo tema è affrontato dall’art. 1).

L’IVA si applica sulle cessioni di beni e sulle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio dell’impresa e nell’esercizio di altre professioni; si applica inoltre sulle importazioni da chiunque effettuate. Le importazioni sono assoggettate a tassazione perché il Paese che esporta ha fatto sì che quel bene sia completamente depurato dell’imposta sui consumi vigente in quella determinata Nazione. Nel commercio internazionale infatti vige il principio della tassazione nel Paese di destinazione.


Sono soggette a imposta le cessioni di beni e le prestazioni di servizi presupposto oggettivo di applicabilità dell’IVA. Questa cessione di beni e queste prestazioni di servizi devono essere compiuti nell’esercizio d’impresa o nell’esercizio di altre professioni presupposto soggettivo. Devono essere queste le connotazioni che permettono di identificare il soggetto attivo. Questi presupposti però non sono sufficienti: occorre aggiungere un altro presupposto la condizione di territorialità.

Per rendere una determinata operazione economica soggetta ad IVA devono esistere questi tre presupposti. È sufficiente che uno di questi manchi per far sì che l’operazione non sia assoggettata.


Art. 2 le cessioni di beni sono atti a titolo oneroso (gli atti a titolo gratuito non comportano l’assoggettamento ad IVA, occorre l’onerosità) che devono comportare il trasferimento della proprietà (ad esempio, la vendita, la permuta, il conferimento, . ) o la costituzione di diritti reali di godimento (come l’uso, l’usufrutto, l’abitazione, la servitù, . ). Ci sono delle operazioni che non presentano questi connotati e che tuttavia il legislatore ha considerato come rientranti nell’ambito delle cessioni rilevanti:

  vendite in riserva di proprietà la riserva di proprietà fa sì che la proprietà del bene si trasferisca alla fine, quando il compratore lo finisce di are. Però sotto il profilo tributario questa vendita viene considerata come se comportasse immediatamente il trasferimento della proprietà;

  contratto di locazione a titolo di proprietà rapporto di locazione che comporta che se il soggetto non a più, rimane proprietario dell’atto (dal punto di vista tributario la proprietà passa all’inizio del rapporto di locazione). Il proprietario si garantisce il amento integrale del prezzo;

  passaggi dal committente al commissionario o dal commissionario al committente di beni venduti o acquista in esecuzione del contratto di commissione (contratto di mandato senza rappresentanza). Sotto il profilo tributario occorre che il commissionario che ha acquistato per il committente debba assoggettare questo contratto all’imposta anche se sotto il profilo civile non è così;

  donazioni con ad oggetto beni che consistono in attività propria di impresa in via d’eccezione queste donazioni sono soggette ad imposta.


Poi ci sono cessioni di beni da considerare non soggette ad IVA:

  destinazione dei beni all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore sono operazioni che avrebbero tutte le caratteristiche per essere considerate come assoggettate ad IVA ma non lo sono;

  cessioni di terreni agricoli (non sono suscettibili di utilizzazioni a destinazione unificata);

  cessioni di aziende

  campioni gratuiti eccezione all’eccezione: per avere cessione occorre cha ci sia trasferimento della proprietà e che ci sia onerosità però se l’operatore economico dona dei campioni gratuiti che hanno modico valore in una confezione appositamente contrassegnata, pur trattandosi di donazioni di beni oggetti della propria attività non sono assoggettati ad IVA;

  passaggi di beni in caso di fusioni e scissioni


Art. 3 le prestazioni di servizi verso corrispettivo (anche qui l’onerosità è condizione) dipendenti da obbligazioni assunte contrattualmente di FARE (non dare) e di NON FARE (ad esempio, un professionista si impegna per un certo numero di anni a non fare concorrenza ad una certa impresa).

Il legislatore individua poi operazioni che non avrebbero i requisiti per essere considerate come servizi ma che sono soggette ad IVA:

  prestiti in denaro, esclusi i prestiti obbligazionari;

  cessioni di contratti di ogni tipo e oggetto


Poi ci sono prestazioni di servizi da considerare non soggette ad IVA:

  prestiti obbligazionari

  servizi con fattispecie molto particolari


La struttura utilizzata nell’articolo appena descritto è del tutto analoga alla struttura dell’art.2 prima c’è una nozione generale seguita da un elenco di operazioni assoggettate e da un elenco di operazioni non assoggettate ad IVA.


Art. 4 Per esercizio d’impresa si intende l’esercizio per professione abituale ancorché non esclusiva dell’attività commerciale e dell’attività d’impresa agricola anche se non organizzata in forma d’impresa (nelle imposte dirette dava luogo a redditi l’esercizio di impresa commerciale). Anche qui è irrilevante l’organizzazione.

Occorre precisare che si considerano per presunzione assoluta effettuate nell’esercizio dell’impresa le cessioni di beni o le prestazioni di servizi dalle società commerciali (sia di persone che di capitali). Per esercizio di altre professioni si intende l’esercizio per professione abituale ancorché non esclusiva (è richiesta la continuità) di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche.


Il presupposto della territorialità riguarda il rapporto che l’operazione economica ha con il territorio dello Stato. A seconda che il bene sia mobile o immobile, il bene oggetto di cessione si trova fisicamente sul territorio dello Stato. Per i servizi è irrilevante la ura del soggetto che fa il servizio.


Art. 7 elencazione di servizi per i quali vale un presupposto di territorialità diverso. Le prestazioni di servizi relativi a beni immobili si considerano effettuati nel territorio dello Stato quando l’immobile è collocato nello stesso.

È irrilevante il soggetto che compie il servizio, è importante il soggetto che lo riceve


Un problema importante è quello dell’individuazione del momento fiscalmente rilevante: quando si considerano avvenute le cessioni di beni e le prestazioni di servizi? L’IVA si applica attuando un certo procedimento che inizia la momento . Il primo atto del procedimento è la fatturazione a cui seguono la contabilizzazione e il versamento dell’imposta.

Per quanto riguarda le cessioni di beni se il bene è immobile o mobile registrato il momento fiscalmente rilevante è il momento di stipula dell’atto scritto.

Per la cessione di beni mobili il momento fiscalmente rilevante è la consegna.

Per i servizi il momento fiscalmente rilevante è il amento (nelle imposte dirette è l’utlimazione!).

Questi momenti normali possono essere anticipati quando si emette fattura prima della consegna del bene immobile, prima della stipula dell’atto scritto o prima del amento del servizio.

Altro fatto anticipatorio è il amento parziale (acconto), limitatamente all’importo dell’acconto che precede la consegna.


Esportazioni. Nel commercio internazionale c’è il principio della tassazione nel Paese di destinazione che consente ai prodotti italiani di pervenire sui mercati stranieri, di subire l’imposta sui consumi locale e quindi di trovarsi in posizione concorrenziale con i beni prodotti in quei Paesi.

La cessione del bene al cliente straniero non è soggetta a IVA. Occorre che l’IVA che l’esportatore ha ato per gli acquisti che ha fatto nello svolgimento dell’attività d’impresa gli sia rimborsata.

Si adotta la finzione per la quale i beni esportati si considerano non essere presenti nel territorio dello Stato.


Si prenda ad esempio, il produttore di sectiunelle che destina tutta la sua produzione all’esportazione (normalmente non è così) in USA. Queste cessioni non sono soggette a IVA per la finzione di cui sopra. Ma questo non è sufficiente perché il produttore per are le pelli, le parti metalliche, . , ha ato anche l’IVA. Bisogna che l’IVA ata venga rimborsata al nostro imprenditore.

L’Erario italiano procede al rimborso dell’IVA a monte.

Se c’è ripartizione delle vendite, il rimborso avviene mediante compensazione (cambia sì la modalità ma non la sostanza del problema) detraendo dall’IVA ricevuta sulle vendite TUTTA l’IVA ata sugli acquisti.


Supponiamo che in un certo mese (giugno 2004) il nostro operatore economico abbia esportato per 10.000.000 € ed abbia effettuato acquisti di vario tipo per 7.000.000 € su cui ha ato l’aliquota d’IVA ordinaria del 20% pari a 1.400.000 €. Occorre che i 10.000.000 € non siano assoggettati ad IVA italiana; e quindi è necessario anche che avvenga il rimborso dell’IVA ata a monte dall’esportatore (1.400.000 €).


Se, seguendo lo stesso esempio di cui sopra, si ammette che le vendite sono state fatte per 6.000.000 € negli USA e per 4.000.000 € sul mercato nazionale: 800.000 € è l’IVA che l’operatore economico deve versare allo Stato ma c’è ancora un credito d’imposta per 600.000 €. Le vendite pari a 6.000.000 € non sono assoggettate ad IVA ma quelle pari a 4.000.000 € sono soggette ad IVA con l’aliquota ordinaria 20%.






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