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Diritto commerciale - La società per azioni - La costituzione



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Diritto commerciale

La società per azioni



La società in accomandita per azioni

Sezione prima Caratteri generali e costituzione

I caratteri generali della società per azioni. - 69. La costituzione. - 70. Vicende dell'atto costitutivo. L'iscrizione nel Registro delle Imprese. La nullità. -71. La S.p.A. unipersonale.

caratteri generali della società per azioni

Mentre la s.r.l. è la forma generalmente usata per l'esercizio collettivo di imprese medio-piccole, la società per azioni (S.p.A.) è la forma gene­ralmente usata per le imprese medio-grandi.

Essa può essere considerata, sotto alcuni profili, l'evoluzione delle seicentesche comnie delle Indie.

E come le comnie furono un formidabile strumento per attrarre risparmio verso una determinata iniziativa, così la S.p.A. è strutturalmente volta a consentire l'afflusso del risparmio privato verso le attività di im­presa. Si parla, in questo caso, di «capitale di rischio», poiché il rispar­mio investito è direttamente sottoposto al rischio di impresa. Il mercato del capitale di rischio è, difatti, costituito dall'insieme del risparmio di­sponibile per investimenti diretti nelle imprese.

Nell'ambito della S.p.A. è normale, allora, che si determini la presenza di soci con attitudini ed interessi diversi: da un lato, i soci - imprendi­tori, che hanno una diretta propensione a gestire l'impresa sociale, dal­l'altro, i soci risparmiatori, per i quali l'impresa sociale è solo una occa­sione di investimento dei propri risparmi.

A ben vedere, larga parte della disciplina della S.p.A. è volta proprio a trovare un punto di equilibrio tra queste due diverse categorie di soci.

Il legislatore, peraltro, ha registrato che anche rispetto alla S.p.A. possono verificarsi situazioni di diversa intensità nel rapporto con il mer­cato del capitale di rischio: conseguentemente, ha previsto un diverso grado di rigidità delle regole in relazione al diverso rapporto con tale mercato: quanto più è stretto quel rapporto, tanto maggiore sono i vin­coli inderogabili, cui occorre attenersi nella organizzazione della società. In particolare, proprio rispetto alla graduazione dei vincoli all'auto­nomia organizzativa dei soci appena richiamati, è possibile distinguere, nell'ambito della categoria «società per azioni», tre diversi modelli:

a) la società per azioni chiusa, che si caratterizza per uno scarso rap­porto con il mercato del capitale di rischio;

b) la società per azioni, che fa ricorso al mercato del capitale di ri­schio, con la conseguenza che la sue partecipazioni sono diffuse in modo rilevante tra il pubblico (art. 2325-bis c.c.);

c) la società per azioni il cui rapporto con il mercato del capitale di rischio è particolarmente stretto in quanto i suoi titoli sono negoziati in borsa e, quindi, sono idonei a costituire, per i risparmiatori, una occa­sione di investimento, cui è agevole accedere.

La disciplina della società per azioni, di conseguenza, pur essendo uni­taria per molti aspetti, per altri aspetti si articola in modo diverso in re­lazione ai tre modelli indicati. Di tali articolazioni si darà conto nel corso della esposizione della disciplina.

La costituzione

II procedimento di costituzione della società per azioni ha inizio con la stipula dell'atto costitutivo e si conclude con l'iscrizione della società nel Registro delle Imprese (art. 2330 c.c.). Con tale iscrizione la società acquista la personalità giuridica (art. 2331, comma 1, c.c.).

Vi sono due differenti modalità di stipula dell'atto costitutivo, la cosid­detta stipulazione simultanea e la cosiddetta stipulazione per pubblica sottoscrizione. Nel primo caso, i soci fondatori provvedono alla imme­diata stipula dell'atto costitutivo; nel secondo caso, viceversa, essa è pre­ceduta dalla raccolta fra il pubblico del capitale iniziale necessario per la costituzione della società. La raccolta avviene mediante la pubblicazione, a cura dei soci cosiddetti «promotori», di un programma che illustra, al pubblico degli investitori, gli elementi essenziali della costituenda società, quali, ad esempio, l'oggetto sociale, il capitale sociale e le principali di­sposizioni dell'atto costitutivo e dello statuto (art. 2333, comma 1, c.c.).

Nella pratica, la sottoscrizione per pubblica sottoscrizione ha un rilievo del tutto marginale.

La società per azioni può essere costituita per contratto o per atto unilaterale (art. 2328, comma 1, c.c.). E perciò da più soci (contratto) o da un solo socio (atto unilaterale). L'atto costitutivo, che deve essere re­datto per atto pubblico (art. 2328, comma 2, c.c.), deve indicare:

1) le generalità dei soci e degli eventuali promotori, nonché il numero delle azioni assegnate a ciascuno di essi;

2) la denominazione della società. La denominazione, pur potendo es­sere liberamente formata, deve contenere l'indicazione di società per azioni (art. 2326 c.c.); il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie;

3) l'attività che costituisce l'oggetto sociale;

4) l'ammontare del capitale sottoscritto e versato; la società per azioni deve costituirsi con un capitale minimo di centoventimila euro (art. 2327 e.e.), fatti salvi i casi in cui sia richiesto un capitale sociale maggiore (come accade, ad esempio, per le società bancarie e finanziane);

5) il numero e l'eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteri­stiche e le modalità di emissione e circolazione;

6) il valore attribuito agli eventuali crediti e/o beni conferiti in natura;

7) le modalità di ripartizione degli utili;

8) i benefici eventualmente riservati ai promotori o ai fondatori;

9) il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministra­tori ed i loro poteri, con l'indicazione degli amministratori cui è confe­rito il potere di rappresentanza della società;

10) il numero dei componenti il collegio sindacale;

11) la nomina dei primi amministratori e sindaci e, quando previsto, del soggetto cui è demandato il controllo contabile;

12) l'importo globale delle spese sostenute per la costituzione poste a carico della società;

13) la durata della società o, laddove essa sia a tempo indeterminato, il termine, comunque non superiore ad un anno, decorso il quale i soci possono recedere.

All'atto costitutivo, avente la precipua funzione di manifestare la vo­lontà dei soci di costituire la società, è assai spesso allegato lo statuto so­ciale, recante puntuali norme in merito agli aspetti più significativi della vita dell'ente, quali, ad esempio, il funzionamento ed i poteri degli or­gani sociali o le modalità di circolazione delle azioni. Lo statuto sociale, anche se forma oggetto di atto separato, costituisce parte integrante dell'atto costitutivo: ne deriva che anch'esso deve essere redatto per atto pubblico. In caso di contrasto tra i due atti, prevalgono le norme con­tenute nello statuto (art. 2328, ult. comma, c.c.).

È previsto, inoltre, che per la costituzione della società per azioni deb­bano verificarsi le seguenti condizioni (art. 2329 c.c.): a) il capitale so­ciale deve essere integralmente sottoscritto; b) devono essere rispettate le norme in materia di conferimenti (artt. 2342 e 2343 c.c.), le quali pre­scrivono di versare, presso una banca, prima della sottoscrizione dell'atto costitutivo, il 25% dei conferimenti da effettuarsi in danaro o, nell'ipo­tesi di S.p.A. unipersonale, il loro intero ammontare; e) devono sussi­stere le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione della società, in relazione all'oggetto sociale (si pensi, ad es., al caso della impresa bancaria).

I versamenti effettuati dai soci prima della stipula dell'atto costitutivo non vengono immediatamente consegnati agli amministratori, ma restano vincolati presso la banca fino al momento dell'iscrizione della società nel Registro delle Imprese. Qualora non si provveda all'iscrizione entro i no­vanta giorni successivi alla stipula dell'atto costitutivo, termine decorso il quale l'atto costitutivo perde efficacia, i soci hanno diritto alla restitu­zione delle somme versate.

Vicende dell'atto costitutivo. L'iscrizione nel Registro delle Imprese. La nullità

L'atto costitutivo, una volta stipulato per atto pubblico, deve essere depositato, a cura del notaio che lo ha ricevuto ed entro i venti giorni successivi alla stipula, presso l'ufficio del Registro delle Imprese nella cui circoscrizione ha sede la società, unitamente ai documenti comprovanti la sussistenza delle condizioni previste dall'art. 2329 c.c. (art. 2330, comma 1, c.c.). L'inerzia del notaio o degli amministratori legittima il socio a provvedervi direttamente a spese della società (art. 2330, comma 2, c.c.).

È il notaio a dover verificare la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per la costituzione della società, e cioè la legalità formale e sostanziale della costituenda società. Al Registro delle Imprese è deman­dato esclusivamente il controllo della regolarità formale della documen­tazione presentata in sede di deposito dell'atto costitutivo, all'esito del quale la società viene iscritta nel Registro delle Imprese (art. 2330, comma 3, c.c.).

Si è già detto che la società per azioni acquista la personalità giuri­dica solamente a seguito dell'iscrizione nel Registro delle Imprese. A par­tire da tale momento, l'ente diviene un soggetto giuridico autonomo ri­spetto alle persone dei soci, con la conseguenza, fra l'altro, che gli atti compiuti in nome e per conto della società sono ad essa direttamente imputati.

Ma cosa accade per gli atti compiuti in nome della costituenda so­cietà nelle more tra la stipula dell'atto costitutivo e l'iscrizione della so­cietà nel Registro delle Imprese? L'art. 2331, comma 2, c.c. prevede che, in tal caso, siano illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi non solo i soggetti che hanno agito in nome della società, ma anche il socio unico fondatore ed i soci che, nell'atto costitutivo o in un atto se­parato, hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento dell'ope­razione.

A seguito dell'iscrizione della società nel Registro delle Imprese, la società diviene direttamente responsabile per le operazioni compiute in suo nome prima dell'iscrizione e successivamente approvate (art. 2331, comma 3, c.c.). Si tratta, tuttavia, di una responsabilità che non sostitui­sce, ma si aggiunge a quella di coloro che hanno agito, i quali hanno di­ritto di essere manlevati dall'ente.

I controlli effettuati prima dell'iscrizione della società nel Registro delle Imprese non escludono la possibile sussistenza di vizi del procedi­mento di costituzione o dell'atto costitutivo.

Prima dell'iscrizione della società nel Registro delle Imprese, non aven­do ancora quest'ultima acquisito la personalità giuridica e non essendovi, perciò, sotto questo profilo, una esigenza di tutela dei terzi, ai fini della individuazione delle cause di invalidità del «contratto di società» , oltre che delle relative conseguenze, occorrerà fare riferimento alla disciplina generale in materia di contratti (artt. 1418 e ss. c.c.).

Iscritta la società nel Registro delle Imprese, il novero delle cause di invalidità dell'atto costitutivo è indicato dall'art. 2332 c.c. Esse sono molto limitate, onde garantire una maggiore certezza dei rapporti giuridici. In particolare, e l'elencazione deve ritenersi tassativa, la nullità della società può essere dichiarata esclusivamente allorquando: a) l'atto costitutivo non sia stato redatto per atto pubblico; b) l'oggetto sociale sia illecito; e) man­chi, nell'atto costitutivo, qualsiasi indicazione relativa alla denominane della società, ai conferimenti, all'ammontare del capitale sociale o all'og­getto sociale.

La sanzione della nullità opera, con riferimento all'atto costitutivo

della S.p.A., in maniera difforme rispetto a quanto avviene in ambito contrattuale. In quest'ultimo caso, difatti, la dichiarazione di nullità, avendo efficacia ex tunc, colpisce tutti gli atti precedentemente compiuti.

In materia di nullità della società, viceversa, l'accertamento della causa di invalidità non pregiudica l'efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l'iscrizione nel Registro delle Imprese (art. 2332, comma 2, c.c.). Naturale conseguenza di tale principio e che i soci non sono libe­rati dall'obbligo di conferimento fino a quando non siano soddisfatti i creditori sociali. La sentenza dichiarativa della nullità, nella quale, pe­raltro, sono nominati i liquidatori (art. 2332, comma 4, c.c.), ha, quindi, efficacia ex nane, operando solo come causa di scioglimento della società.

Similmente a quanto accade in materia di contratti, l'azione di nullità è imprescrittibile. La nullità, che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, è rilevabile d'ufficio dal giudice. Un elemento che, vice­versa, differenzia la disciplina della nullità della società da quella previ­sta in materia di contratti, è da rinvenire nella sanabilità della causa di invalidità: se, difatti, la nullità di un contratto è insanabile (cfr. art. 1423 c.c.), la nullità di una società non può più essere dichiarata allorquando la causa di invalidità sia stata eliminata, e di tale eliminazione sia data pubblicità mediante iscrizione nel Registro delle Imprese (art. 2332, comma 6, c.c.).

La S.p.A. unipersonale

Ai sensi dell'art. 2328, comma 1, c.c., la società per azioni può costi­tuirsi, oltre che per contratto, anche per atto unilaterale. Il socio unico fondatore è illimitatamente responsabile per le operazioni compiute in nome della costituenda società prima dell'iscrizione di quest'ultima nel Registro delle Imprese (art. 2331, comma 2, c.c.). In sede di costituzione, inoltre, dovrà essere versato l'intero ammontare dei conferimenti in de­naro, e non soltanto il venticinque per cento, come previsto per le S.p.A. con pluralità di azionisti (art. 2342, comma 2, c.c.). Laddove la società sia costituita per iniziativa di più persone, ma nel corso della vita del­l'ente venga meno la pluralità dei soci, gli eventuali versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro novanta giorni (art. 2342, comma 4, c.c.).

Onde consentire ai terzi di conoscere l'effettiva situazione, è prescritto agli amministratori di depositare, presso il Registro delle Imprese, una dichiarazione contenente i dati identificativi dell'unico azionista, e ciò sia nell'ipotesi di S.p.A. costituitasi per atto unilaterale, sia qualora venga meno la pluralità dei soci nel corso della vita dell'ente, ovvero cambi la persona dell'unico socio. Analoga dichiarazione deve essere depositata, sempre a cura degli amministratori, allorquando si costituisca o si rico­stituisca la pluralità dei soci (art. 2362 c.c.).

Al socio unico di S.p.A. è garantito il beneficio della responsabilità limitata, purché siano rispettate le previsioni di cui si è detto. Il socio, pertanto, risponde illimitatamente per le obbligazioni sociali solo in due casi:

- quando non sia stata eseguita la integrate liberazione dei conferi­menti;

- fino a quando non sia effettuata la pubblicità dettata per la S.p.A. unipersonale, di cui si è riferito in precedenza.

Sezione seconda Capitale di rischio e capitale di prestito

I conferimenti e le prestazioni accessorie. - 73. I patrimoni de­stinati. - 74. Azioni e capitale sociale. - 75. Le categorie speciali di azioni. - 76. Gli strumenti finanziari partecipativi. - 77. La circolazione delle azioni. I limiti alla loro circolazione. Usufrutto e pegno. - 78. Le operazioni sulle proprie azioni. - 79. Le obbligazioni. - 80. Le partecipazioni rilevanti. - 81. Le offerte pubbliche di acquisto e di scambio.

conferimenti e le prestazioni accessorie

II capitale occorrente per l'esercizio dell'impresa sociale è costituito, in primo luogo, dai conferimenti dei soci, che entrano a far parte del pa­trimonio della società e con i quali, quindi, la società affronta il rischio di impresa (cosiddetto capitale di rischio).

Se nell'atto costitutivo non è diversamente disposto, i conferimenti deb­bono farsi in danaro (art. 2342, comma 1, c.c.). In sede di stipulazione dell'atto costitutivo, i soci fondatori debbono versare, presso una banca, il venticinque per cento dei conferimenti in danaro, fatta salva l'ipotesi in cui vi sia un unico socio fondatore, nel qual caso deve essere versato l'in­tero ammontare (art. 2341, comma 2, c.c.). I versamenti residui devono essere effettuati non appena richiesti dall'organo amministrativo.

Qualora le azioni sottoscritte non siano interamente liberate, sul ti­tolo azionario devono essere indicati i versamenti ancora dovuti (art. 2354, comma 3, n. 4, c.c.). In caso di trasferimento di azioni non inte­ramente liberate, l'obbligo di effettuare i versamenti residui grava, in primo luogo, sull'acquirente; m via sussidiaria e per i tre anni successivi all'annotazione del trasferimento nel libro soci, anche sull'alienante.

II socio, nell'ipotesi in cui non adempia al versamento dei conferi­menti residui, non può esercitare il diritto di voto (art. 2344 c.c.). La so­cietà può, inoltre, procedere alla vendita coattiva delle azioni del socio moroso, previa offerta delle azioni non liberate agli altri soci m propor­zione delle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale e per un corrispettivo non inferiore all'ammontare dei conferimenti dovuti. Lad­dove la vendita coattiva, effettuata per mezzo di una banca o altro in­termediario autorizzato, non abbia esito positivo, la società può esclu­dere il socio moroso, trattenendo i versamenti effettuati e fatto salvo il risarcimento del danno. Le azioni del socio moroso possono essere ri­messe in circolazione entro l'esercizio; in difetto, la società deve annul­lare le azioni e procedere alla corrispondente riduzione del capitale sociale.

Lo statuto sociale può, come detto, prevedere la possibilità di effet­tuare conferimenti diversi dal danaro. Tale possibilità, tuttavia, soffre al­cune limitazioni. In primo luogo, non possono formare oggetto di con­ferimento le prestazioni di opera o di servizi (art. 2342, comma 5, c.c.), attesa la difficoltà di quantificarne l'effettivo valore economico. Esse pos­sono formare oggetto di prestazioni accessorie da parte dei soci, non im­putabili a capitale.

Stante il carattere personalistico che caratterizza le prestazioni acces­sorie, le relative azioni devono essere nominative e non possono essere trasferite senza il consenso degli amministratori.

Per quanto riguarda i conferimenti dei beni in natura e dei crediti, l'art. 2342, comma 3, c.c. dispone che le relative azioni devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione. In altre parole, il socio conferente deve garantire alla società, non appena essa sia costi­tuita, la contestuale e piena disponibilità del bene o del credito confe­rito. L'esigenza di assicurare alla società l'immediata disponibilità del bene conferito preclude la possibilità di conferire cose generiche non specifi­cate, cose future o cose altrui.

Fatte salve tali limitazioni, pare doversi ammettere il conferimento di qualsivoglia bene suscettibile di valutazione economica, ivi inclusi i beni immateriali.

I conferimenti diversi dal danaro sono soggetti ad uno specifico pro­cedimento di valutazione indicato dal legislatore e diretto ad individuare l'effettivo valore economico del bene o del credito conferito.

II socio che intenda conferire un bene o un credito deve presentare una relazione giurata di stima effettuata da un esperto nominato dal tri­bunale. Tale relazione deve indicare i beni o i crediti conferiti, l'attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della formazione del capitale sociale e dell'eventuale sovrapprezzo, non­ché i criteri di valutazione adottati. La relazione deve essere allegata al­l'atto costitutivo (art. 2343, comma 1, c.c.).

Entro i sei mesi successivi, gli amministratori e i sindaci devono con­trollare le valutazioni effettuate dal perito ed, eventualmente, procedere ad una rivalutazione della stima (art. 2343, comma 2. c.c.).

Laddove si accerti che il valore effettivo dei beni o dei crediti confe­riti è inferiore di oltre un quarto a quello attribuito in sede di costitu­zione o di aumento del capitale sociale, la società è tenuta a ridurre pro­porzionalmente il capitale sociale. II socio conferente può, in tal caso, decidere se versare la differenza in danaro ovvero recedere dalla società (art. 2343, comma 3, c.c.).

Alla relazione giurata di un esperto designato dal tribunale si ricorre anche per l'acquisto, da parte della società, di beni o crediti dai promo­tori, dai fondatori, dai soci attuali o dagli amministratori (art. 2343 -bis c.c.). Allorquando l'acquisto abbia un valore superiore al decimo del ca­pitale sociale ed avvenga nei due anni successivi all'iscrizione della so­cietà nel Registro delle Imprese, l'operazione deve essere autorizzata dal­l'assemblea dei soci. L'alienante deve, inoltre, presentare una relazione giurata di stima, contenente la descrizione del bene o del credito trasfe­rito, i criteri di valutazione adottati e l'attestazione che il valore effettivo dei beni o dei crediti non è inferiore al corrispettivo pattuito (art. 2343-bis, comma 2, c.c.).

II mancato rispetto di tale procedura, la quale non si applica agli acquisti effettuati a condizioni normali nell'ambito delle operazioni cor­renti della società, non inficia la validità o l'efficacia dell'atto, ma espone gli amministratori e l'alienante a responsabilità per i danni causati alla società, ai soci ed ai terzi (art. 2343-fe, comma 5, c.c.).

patrimoni destinati

La regola generale è che tutto il patrimonio della S.p.A. è destinato a far fronte alle obbligazioni sociali; tuttavia, la S.p.A. ha la possibilità di destinare parte del proprio patrimonio ad un singolo affare. In altre pa­role, ferma restando l'unicità del patrimonio sociale, l'ente può riservare alcuni beni o rapporti giuridici al compimento di una determinata ope­razione commerciale. In tal caso, la società risponderà delle relative obbligazioni esclusivamente con il patrimonio destinato.

Si tratta, come è evidente, di uno strumento che, consentendo di prede­terminare con certezza i possibili rischi connessi ad una specifica operazio­ne economica, ha la funzione di incentivare gli investimenti mediante la limitazione del rischio di impresa e senza dover affrontare i costi della costituzione di una nuova società.

Vi sono due differenti procedimenti mediante i quali la società può riservare parte del proprio patrimonio alla realizzazione di un determi­nato investimento: il patrimonio destinato ed il finanziamento destinato (art. 2447-bis c.c.).

Quanto al primo, l'ente ha facoltà di costituire uno o più patrimoni, ciascuno dei quali destinati in via esclusiva ad uno specifico affare, fatta eccezione per quelli inerenti ad attività riservate in base alle leggi spe­ciali. Tali patrimoni possono essere costituiti per un valore massimo non superiore al 10% del complessivo patrimonio netto della società (art. 2447-bis, comma 2, c.c.).

Ai fini della costituzione di un patrimonio destinato è necessaria la de­liberazione del consiglio di amministrazione, o del consiglio di gestione, adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Resta, in ogni caso, salva la possibilità di una differente previsione statutaria, con la conseguen­za che lo statuto potrà riservare all'assemblea dei soci la decisione relativa alla costituzione del patrimonio destinato (art. 2447-ter, comma 2, c.c.).

La deliberazione, verbalizzata da un notaio e soggetta ad iscrizione nel Registro delle imprese (art. 2447-qnater, comma 1, c.c.), deve indi­care (art. 2447-ter, comma 1, c.c.):

- l'affare al quale il patrimonio è destinato; i beni ed i rapporti giu­ridici compresi in tale patrimonio;

- il piano economico-finanziario da cui risulti la congruità del patri­monio rispetto alla realizzazione dell'affare, le modalità e le regole rela­tive al suo impiego, il risultato che si intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi;

- gli eventuali apporti dei terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell'affare;

- la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione al­l'affare, con la specifica indicazione dei diritti che attribuiscono;

- la nomina di una società di revisione per il controllo contabile del­l'andamento dell'affare;

- tale nomina è necessaria solamente qualora la società, oltre a non essere già soggetta a controllo contabile, emetta titoli sul patrimonio diffusi tra il pubblico in misura rilevante ed offerti ad investitori non pro­fessionali;

- le regole di rendicontazione dello specifico affare.

La delibera consiliare acquista efficacia decorsi due mesi dalla prescritta iscrizione nel Registro delle Imprese. Entro detto termine, i creditori so­ciali possono fare opposizione dinanzi all'autorità giudiziaria. Di regola, l'opposizione sospende l'efficacia della delibera, fatta salva la possibilità del tribunale di concederne la provvisoria esecuzione dietro prestazione di idonea garanzia da parte della società (art. 2447-quater, comma 2, c.c.).

Divenuta efficace la delibera consiliare, si realizza una, pressoché assolu­ta, separazione patrimoniale. I creditori della società non possono ag­gredire i beni facenti parte del patrimonio destinato, potendo rivalersi unicamente sui frutti o proventi da esso derivanti, per la sola parte spet­tante alla società (art. 2447-quinquies, comma 1, c.c.).

Analogamente, per le obbligazioni sociali connesse all'affare per il cui compimento è stato costituito il patrimonio destinato, la società risponde nei limiti di quest'ultimo, fatta salva la responsabilità illimitata dell'ente per le obbligazioni nascenti da fatto illecito (art. 2447-quinquies, comma 3, c.c.).

Laddove, nel patrimonio destinato, siano ricompresi beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, il regime di separazione patrimo­niale non opera fino a quando la deliberazione di costituzione del patri­monio separato non sia trascritta nei relativi registri (art. 2447-quinquies, comma 2, c.c.).

Quale ulteriore condizione affinchè operi la separazione dei patrimoni, è previsto che gli atti compiuti in relazione al singolo affare debbano re­care l'espressa menzione del vincolo di destinazione, in mancanza della quale, la società risponde anche con il patrimonio residuo (art. 2447-quinquies, comma 4, c.c.).

In presenza di un patrimonio destinato, gli amministratori (o il con­siglio di gestione) devono sia tenere libri e scritture contabili separati (art. 2447-sexies c.c.), sia evidenziare, in sede di relazione del bilancio, i beni ed i rapporti compresi nel patrimonio destinato, con separato rendiconto allegato al bilancio (art. 2447-septies, commi 1 e 2, c.c.).

Se è deliberata l'emissione di strumenti finanziari di partecipazione al­l'affare (art. 2447-ter, comma 1, lett. e, c.c.), è prevista la costituzione dell'assemblea speciale dei possessori di tali strumenti e la nomina di un loro rappresentante comune, a tutela dei comuni interessi (art. 2447-oc-ties, c.c.).

Realizzato l'affare per il cui compimento è costituito il patrimonio destinato, o divenuto impossibile il compimento dell'affare stesso, gli amministratori (o il consiglio di gestione) redigono un rendiconto finale che deve essere depositato presso il Registro delle Imprese (ait. 2447-no-vies, c.c.). Entro tre mesi dal deposito, coloro che ancora vantino, nei confronti dell'ente, un credito connesso allo specifico affare, possono chiedere la liquidazione del patrimonio destinato. In tal caso, si osser­vano le norme in materia di liquidazione della società (art. 2447-novies, comma 2, c.c.).

II secondo strumento mediante il quale la società può costituire un patrimonio separato è costituito dal cosiddetto «finanziamento destinato ad un singolo affare» (art. 2447-dedes, c.c.).

La società può stipulare con un finanziatore un contratto di finanzia­mento per il compimento di una specifica operazione, convenendo che, ai fini del rimborso totale o parziale del finanziamento, siano utilizzati, in via esclusiva, tutti o parte dei proventi dell'operazione medesima.

In tal caso, il contratto di finanziamento deve contenere le seguenti indicazioni (art. 2447-dedes, comma 2, c.c.):

- la descrizione dell'operazione, le modalità ed i tempi di realizza­zione, i costi previsti ed i ricavi attesi;

- il piano finanziario dell'operazione; i beni strumentali necessari al compimento dell'operazione;

- le specifiche garanzie che la società offre in ordine all'obbligo di esecuzione del contratto e di corretta e tempestiva realizzazione dell'o­perazione;

- i controlli che il finanziatore, anche per mezzo di un delegato, può compiere sulle modalità di realizzazione dell'operazione;

- la parte dei proventi destinati al rimborso del finanziamento e le modalità per determinarli;

- le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento;

- il tempo massimo di rimborso, decorso il quale nulla è più dovuto il finanziatore.

Ai fini della separazione del patrimonio, costituito dai proventi del­l'affare, è necessario, tuttavia, che ricorrano due ulteriori condizioni: da un lato, che il contratto di finanziamento sia depositato per l'iscrizione presso il Registro delle Imprese; dall'altro, che la società adotti sistemi di incasso e di contabilizzazione idonei a garantire ed evidenziare la se­parazione dei patrimoni (art. 2447-dedes, comma 3, c.c.).

Realizzatasi la separazione dei patrimoni, i creditori della società non

possono rivalersi sui proventi dell'affare e, fino al rimborso del finan­ziamento o alla scadenza del termine massimo di rimborso, possono uni­camente compiere azioni conservative dei propri diritti (art. 2447-decies, comma 5, c.c.). Nei confronti del finanziatore, la società risponderà delle proprie obbligazioni esclusivamente con il patrimonio separato costituito dai proventi dell'affare (art. 2447-decies, comma 4, c.c.), fatta salva l'ipo­tesi in cui si verifichi il fallimento della società, nel qual caso, il fi­nanziatore ha diritto di insinuazione nel passivo per le somme non ri­scosse (art. 2447-decies, comma 6, c.c.).

Azioni e capitale sociale

Nelle società per azioni, le quote di partecipazione dei soci al capi­tale sociale sono costituite da azioni. II capitale sociale, difatti, è suddi­viso in un numero predeterminato di parti aventi identico ammontare, ciascuna delle quali è rappresentata da un'azione ed attribuisce, di regola, identici diritti sociali ai soggetti titolari. La conseguenza è che le azioni sono indivisibili (art. 2347 c.c.) e i relativi diritti non possono essere at­tribuiti separatamente a soggetti diversi (inscindibilità).

Le azioni possono o non essere rappresentate da titoli, secondo quanto dispone la statuto (art. 2346, comma 1, c.c.), che può prevedere diverse tecniche di legittimazione e di circolazione.

Nel caso di emissione di titoli (certificati azionari), gli stessi sono vin­colati nel contenuto (art. 2354 c.c.). Il tema della loro circolazione sarà affrontato in seguito.

Nel caso in cui lo statuto preveda la non emissione dei titoli, la qua­lità di socio è attestata esclusivamente dall'iscrizione nel libro soci.

Le azioni devono avere uguale valore, ovvero devono rappresentare un'identica frazione del capitale sociale (art. 2348, comma 1, c.c.). Di re­gola, le azioni vengono emesse con uno specifico valore nominale, cor­rispondente alla quota di capitale sociale da ciascuna di esse rappresen­tata. Tale valore nominale, che deve essere indicato nello statuto così come l'ammontare complessivo del capitale sociale ed il numero delle azioni emesse, è invariabile nel tempo e può essere modificato solo a se­guito della modifica dello statuto. Poiché il valore nominale delle azioni è indicato nei certificati azionari, ne consegue che, a seguito di una sua modifica, devono essere sostituiti tutti i titoli in circolazione.

E consentita, tuttavia, l'emissione di azioni prive di valore nominale

(art. 2348, comma 3, c.c): in tal caso, occorre indicare, nello statuto, l'ammontare complessivo del capitale sociale ed il numero delle azioni emesse, di talché ciascuna azione corrisponderà ad una frazione del ca­pitale sociale. A differenza di quanto accade in presenza di azioni con valore nominale, nel qual caso i soci sono titolari di una quota di par­tecipazione al capitale sociale espressa in danaro, in presenza di azioni prive di valore nominale la partecipazione dei soci è espressa in una per­centuale del numero complessivo di azioni emesse. Nelle azioni prive di valore nominale, le norme, che a quest'ultimo si riferiscono, si applicano con riguardo al loro numero in rapporto al totale delle azioni emesse (art. 2346, comma 3, c.c.).

Sia nel caso in cui le azioni vengano emesse con un proprio valore nominale, sia nel caso in cui tale valore non venga indicato, il valore dei conferimenti non può essere complessivamente inferiore all'ammontare globale del capitale sociale (art. 2346, comma 5, c.c.). In tal modo, il le­gislatore ha inteso evitare che i conferimenti dei soci siano inferiori al capitale sociale nominale della società.

È possibile, viceversa, emettere azioni per un valore complessivo su­periore al capitale sociale. Si parla, in tal caso, di azioni con sovrapprezzo. L'emissione di azioni con sovrapprezzo diviene obbligatoria laddove, nel caso di aumento di capitale, sia escluso o limitato il diritto di opzione sulle azioni di nuova emissione (art. 2441, comma 6, c.c.) ed il valore nominale delle azioni sia inferiore a quello reale.

Va, in proposito, sottolineata la differenza intercorrente tra il valore nominale delle azioni, ossia quello per il quale le azioni sono emesse, ed il valore di bilancio, corrispondente al rapporto tra il patrimonio netto della società, come risultante dal bilancio di esercizio, ed il numero delle azioni emesse. Diverso, poi, è il valore di mercato delle azioni, ovvero il prezzo al quale le azioni delle società quotate in mercati regolamen­tati sono scambiate. Tale valore può non coincidere con il valore di bi­lancio, atteso che, in sede di quotazione, si tiene conto di fattori ulte­riori rispetto alla consistenza patrimoniale della società, quali le sue pro­spettive di sviluppo, il momento di congiuntura del mercato o dello spe­cifico settore in cui la società opera, ecc.

In alcuni casi, inoltre, le azioni possono avere un valore affatto di­verso da quello nominale, così come da quello di mercato o di scambio.

Si tratta dei casi in cui un determinato pacchetto azionario consente di detenere il controllo di una società. In tali ipotesi, il valore effettivo delle azioni può essere ben maggiore del loro valore nominale o di bilancio, poiché alla mera titolarità delle azioni si accomna, appunto, la possibilità di esercitare il controllo, o comunque un'influenza assai rile­vante, sulla strategia imprenditoriale della società e, quindi, su tutta l'at­tività dell'ente.

Svolte le necessarie considerazioni in merito al valore delle azioni, oc­corre soffermarsi sui diritti che esse attribuiscono ai titolari.

Nell'ambito di tali diritti, è possibile distinguere quelli aventi natura amministrativa e quelli aventi natura patrimoniale.

Appartengono al primo tipo il diritto di intervento e di voto nelle as­semblee, il diritto di impugnare le deliberazioni assembleari invalide, il diritto di accesso ai libri sociali; nell'ambito della seconda categoria, va ricordato, tra tutti, il diritto agli utili. ½ è, infine, una terza categoria di diritti a contenuto complesso, amministrativo e patrimoniale insieme: è il caso, ad esempio, del diritto di opzione sulle azioni di nuova emis­sione, del diritto di prelazione sulle azioni trasferende dagli altri soci, del diritto di recesso.

È importante evidenziare, in questa sede, che le azioni, di regola, attribuiscono uguali diritti agli azionisti (art. 2348, comma 1, c.c.). Tale circostanza costituisce attuazione del principio di uguaglianza oggettiva degli azionisti.

Ciò non esclude, tuttavia, che possano crearsi categorie di azioni for­nite di diritti diversi (art. 2348, comma 2, c.c.), come avviene nel caso di emissione di azioni privilegiate o di azioni di risparmio.

Naturalmente, il principio dell'uguaglianza oggettiva dei diritti non si­gnifica che i soci siano, in assoluto, titolari di uguali diritti, dovendosi al riguardo tenere conto anche del numero delle azioni detenute da ciascun socio: se è vero, difatti, che vi sono diritti, soprattutto di natura ammi­nistrativa, rispetto ai quali è totalmente indifferente la quota di capitale detenuta dal socio (si pensi al diritto di intervento in assemblea), ve ne sono altri, viceversa, la cui ampiezza è individuata con riferimento al nu­mero delle azioni possedute (il diritto di voto, il diritto agli utili). Si è soliti parlare, a tal proposito, di disuguaglianza soggettiva degli azionisti.

Le categorie speciali di azioni

Le azioni speciali sono quelle che attribuiscono al titolare diritti diversi da quelli propri delle azioni ordinarie. La creazione di categorie speciali di azioni deve essere specificamente autorizzata dallo statuto, con la conse­guenza che, in difetto, è necessario procedere alla modifica dello stesso.

Una delle caratteristiche peculiari delle azioni speciali è da rinvenire nella presenza, tra gli organi sociali, di un'assemblea speciale per ogni categoria di azioni speciali, il cui funzionamento è disciplinato dalle norme dettate per le assemblee straordinarie. Le assemblee speciali, come è in­tuitivo, hanno la funzione di tutelare gli interessi dei soci appartenenti alla relativa categoria. A tal fine, è previsto che le deliberazioni dell'as­semblea generale, che pregiudichino i diritti dei soci titolari di azioni spe­ciali, devono essere approvate anche dall'assemblea speciale dei soci della categoria interessata (art. 2376, comma 1, c.c.).

Sebbene il legislatore indichi espressamente alcune categorie speciali di azioni, l'autonomia della società è, in tale ambito, assai ampia, potendo essa determinare liberamente il contenuto dei diritti delle azioni delle va­rie categorie, fatti salvi i limiti imposti dalla legge (art. 2348, comma 2, e.e.), tra i quali va ricordato il divieto di emettere azioni a voto plurimo (art. 2351, comma 4, c.c.).

Con particolare riguardo al diritto di voto, non solo è estesa a tutte le S.p.A. la possibilità di emettere azioni prive del diritto di voto, ma è anche riconosciuta (art. 2351, comma 1, c.c.) la possibilità di emettere: a) azioni con diritto di voto limitato a particolari argomenti (si pensi alle delibere di approvazione del bilancio o di nomina dell'organo ammini­strativo); b) azioni con diritto di voto subordinato al verificarsi di par­ticolari condizioni (ad esempio, al mutamento della comine sociale o al mancato conseguimento di utili per un determinato numero di eser­cizi). L'ammontare di tali categorie di azioni non può superare la metà del capitale sociale.

Alle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in aggiunta è riconosciuta (art. 2351, comma 3, c.c.) la possibilità: a) di emettere azioni con diritto di voto limitato ad una misura massima (si pensi allo statuto che prevede che il diritto di voto sia esercitato solo fino ad una certa percentuale del capitale sociale, ad esempio non oltre il venti per cento); b) di introdurre il cosiddetto voto scalare (ad esempio, fino ad una certa percentuale del capitale sociale spetterà un voto per ogni azione, superata tale percentuale spetterà un voto ogni due azioni).

Fuori dai casi in cui sia stato costituito un patrimonio destinato, le società possono emettere azioni, i cui diritti patrimoniali siano correlati ai risultati dell'attività sociale in un determinato settore (cosiddette azioni correlate). In tal caso, tuttavia, è necessario che lo statuto indichi, tra gli altri, i criteri di individuazione dei costi e dei ricavi imputabili al settore interessato ed i diritti attribuiti a tali azioni (art. 2350, comma 2, c.c.).

Tra le categorie speciali di azioni espressamente previste dal legislatore, vi sono le azioni privilegiate e le azioni di risparmio. Le azioni privile­giate attribuiscono ai titolari il diritto di preferenza nella distribuzione de­gli utili e/o nel rimborso del capitale in sede di scioglimento della società.

Le azioni di risparmio (artt. 145-l47 d.lg. n.58 del 1998) possono es­sere emesse unicamente dalle società quotate in mercati regolamentati ita­liani o europei. Esse sono prive del diritto di voto nelle assemblee ordi­nane e straordinarie, ma sono assistite da privilegi patrimoniali, la cui misura è liberamente determinabile dalla società. Un elemento che ca­ratterizza le azioni di risparmio rispetto alle altre categorie speciali di azioni è costituito dalla possibilità che le stesse siano non solo nomina­tive, ma anche al portatore: la sottoscrizione delle azioni di risparmio viene, quindi, incentivata mediante la garanzia dell' anonimato.

Quanto ai diritti amministrativi, si è già detto che le azioni di ri­sparmio sono prive del diritto di voto. Esse, inoltre, non attribuiscono né il diritto di intervento in assemblea, né quello di impugnare le delibere assembleari. Sono fatti salvi tutti gli altri diritti amministrativi non direttamente connessi all'esercizio del diritto di voto, come ad esempio il diritto di esaminare taluni libri sociali. Per quanto attiene ai diritti pa­trimoniali, a seguito della riforma del 1998, la società può liberamente determinare il contenuto, le condizioni, i limiti e le modalità dei privi­legi di natura patrimoniale che assistono tale categoria di azioni, fatto salvo il divieto del cosiddetto patto leonino, con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite.

Conformemente a quanto previsto, in via generale, per le categorie speciali di azioni, anche per le azioni di risparmio è conurabile una organizzazione comune dei soggetti possessori, concretantesi nella as­semblea speciale e nel rappresentante comune. La prima, conformemente a quanto previsto dall'art. 2376, comma 1, c.c., si pronuncia in ordine alle deliberazioni dell'assemblea generale che pregiudichino i diritti degli azionisti appartenenti alla categoria. Il secondo, che può essere anche una persona giuridica, è nominato dall'assemblea degli azionisti di risparmio e provvede sia all'esecuzione delle deliberazioni assembleari, sia alla tu­tela degli interessi degli azionisti nei confronti della società.

Le azioni di godimento (art. 2353 c.c.) sono attribuite ai possessori delle azioni rimborsate e concorrono nella ripartizione degli utili, che re­siduano dopo il amento alle azioni non rimborsate di un dividendo pari all'interesse legale, e, nel caso di liquidazione, nella ripartizione del patrimonio sociale residuo, dopo il rimborso delle altre azioni al loro va­lore nominale. Salvo diversa disposizione dello statuto, non danno di­ritto di voto nella assemblea.

Un breve cenno merita di essere svolto anche relativamente alle azioni a favore dei prestatori di lavoro. L'art. 2349, comma 1, c.c. riconosce alla società la possibilità di assegnare gratuitamente, con delibera dell'assem­blea straordinaria e sempre che lo statuto lo consenta, azioni speciali da assegnare individualmente ai prestatori di lavoro.

L'art. 2441, comma 8, c.c., in ultimo, riconosce alla società la possi­bilità di escludere o limitare il diritto di opzione degli azionisti sulle azioni di nuova emissione, allorquando le stesse siano offerte in sotto­scrizione ai dipendenti della società o delle società da questa controllate.

Gli strumenti finanziari parteciparvi

Dopo aver brevemente delineato le caratteristiche principali delle cate­gorie speciali di azioni, occorre soffermarsi sugli strumenti finanziari partecipativi diretti a consentire l'acquisizione, da parte delle S.p.A., di quegli apporti dei soci o dei soggetti terzi che, pur incrementando il pa­trimonio sociale, non possono formare oggetto di conferimento e, conseguentemente, non possono essere imputati al capitale sociale (si pensi alle prestazioni di opera e di servizi).

Quanto alla disciplina degli strumenti finanziari parteciparvi, il legisla­tore del 2003 ha statuito che la società può emettere strumenti finanziari torniti di diritti patrimoniali o di diritti amministrativi.

Per il resto, la disciplina codicistica riconosce ampio spazio all'auto­nomia statutaria delle S.p.A. per quanto attiene alla determinazione sia delle modalità e delle condizioni di emissione, sia dei diritti con essi at­tribuiti, sia delle sanzioni, in caso di inadempimento delle prestazioni (art. 2346, comma 6, c.c.).

Con precipuo riferimento ai rapporti tra la società ed i propn dipenden­ti, è poi previsto che l'ente possa assegnare a questi ultimi, con delibera nell'assemblea straordinaria, strumenti finanziari diversi dalle azioni ed attributivi di diritti amministrativi e patrimoniali. L'ente, inoltre, può pre­vedere norme particolari per l'esercizio dei diritti attribuiti, nonché per quanto riguarda la possibilità di trasferimento e le eventuali cause di de­cadenza e di riscatto (art. 2349, comma 2, c.c.).

Sia l'art. 2346, comma 6, c.c., sia l'art. 2349, comma 2, c.c. escludono, espressamente, la possibilità di attribuire ai titolari degli strumenti finanzia­ri il diritto di voto nell'assemblea generale degli azionisti. Il successivo art. 2351, comma 3, c.c. dispone, tuttavia, che tali strumenti possono essere do­tati del diritto di voto su argomenti specificamente indicati, potendo in par­ticolare essere riservata la nomina di un componente indipendente del con­siglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco.

La circolazione delle azioni. I limiti alla loro circolazione. Usufrutto e pegno

Nelle società non quotate, le azioni sono incorporate, di regola, in un documento, cosiddetto titolo azionario o certificato azionario. In tal caso, il regime di circolazione delle azioni è disciplinato dalle norme dettate in materia di titoli di credito. Lo statuto, tuttavia, può prevedere che non si dia luogo alla emissione dei titoli azionari (art. 2346, comma 1, c.c.): il trasferimento delle azioni avverrà, in tal caso, secondo le norme det­tate in materia di cessione dei contratti, restando lo status di socio inde­fettibilmente connesso all'iscrizione nel libro dei soci.

A far data dalla riforma del 1998, nelle società quotate, le azioni non possono più essere incorporate in titoli. In luogo del documento carta­ceo rappresentato dal certificato azionario, oramai soppresso, è utilizzato un sistema di circolazione delle azioni basato su registrazioni contabili.

Alla stregua delle norme codicistiche, se l'atto costitutivo non dispone diversamente, le azioni, oltre che nominative, possono anche essere al portatore, a scelta dell'azionista (art. 2355, comma 1, c.c.). Queste ultime si trasferiscono mediante la consegna del titolo (art. 2355, comma 2, c.c.).

Le azioni nominative, invece, si trasferiscono:

- mediante girata autenticata da un notaio o da altro soggetto, se­condo quanto previsto dalle leggi speciali. In tal caso, il giratario, che si dimostra possessore in virtù di una serie continua di girate, ha diritto ad ottenere l'annotazione del trasferimento nel libro dei soci, ed è, comun­que, legittimato ad esercitare i diritti sociali, fermo restando l'obbligo della società di aggiornare il libro dei soci, secondo quanto previsto nelle leggi speciali (art. 2355, comma 3, c.c.);

- mediante doppia annotazione del nome dell'acquirente sul titolo e nel registro della società emittente, secondo quanto previsto dall'art. 2022 c.c. (art. 2355, comma 4, c.c.).

Occorre sottolineare che, in realtà, per esigenze di carattere fiscale, al di là delle astratte previsioni del codice civile, vige il principio della nominatività obbligatoria dei titoli azionari, introdotto con il r.d.l. 25 otto­bre 1941, n. 1148, con la conseguenza che tutte le azioni devono essere nominative, ad eccezione delle azioni di risparmio (cfr. art. 145 TUF) e di quelle emesse dalle SICAV (cfr. gli artt. 145, comma 3, e 45, comma 4, del d.lg. 58/1998).

Al di là delle specifiche modalità di trasferimento delle azioni, va evidenziato che le azioni sono, di regola, liberamente trasferibili, fatti salvi i limiti derivanti dalla legge o dagli accordi intercorsi tra i soci. Tra i li­miti legali al principio di libera circolazione delle azioni, va ricordato quello previsto in materia di conferimenti di beni diversi dal danaro, di­sponendosi che, fino a quando gli amministratori o i sindaci non abbiano controllato le valutazioni effettuate in sede di relazione giurata dall'e­sperto nominato dal tribunale, le azioni corrispondenti sono inalienabili ,art. 2343, comma 3, c.c.).

I soci possono, tuttavia, introdurre ulteriori vincoli al trasferimento delle azioni, sia mediante specifica clausola statutaria, sia mediante ap­positi accordi non inseriti in statuto, i cosiddetti patti parasociali.

I patti parasociali con cui i soci pongono dei limiti alla libera circo­lazione delle azioni prendono il nome di «sindacati di blocco».

Sebbene le questioni connesse ai patti parasociali troveranno più dif­fusa trattazione nel prosieguo, va, in questa sede, evidenziato che i sin­dacati di blocco sono normalmente utilizzati per tutelare l'interesse dei soci a mantenere una determinata comine sociale, ovvero ad impedire l'ingresso nella società di soggetti terzi non graditi. I patti parasociali non hanno efficacia reale, poiché non spiegano alcuna efficacia nei confronti della società e/o dei terzi, essendo vincolanti unicamente per le parti con­traenti. Ne consegue che i negozi di trasferimento delle azioni, posti in essere in violazione di un patto parasociale, sono pienamente validi ed efficaci, pur esponendo l'autore all'obbligo di risarcimento dei danni nei confronti degli altri soci contraenti.

Nel caso di limiti statutari al trasferimento delle azioni, le relative clausole hanno, viceversa, efficacia reale. Ne consegue, da un lato, che tali limiti vincolano tutti i soci, ivi inclusi i soci futuri; dall'altro, che la società può opporre detti vincoli anche ai terzi acquirenti delle azioni.

Sia nell'ipotesi in cui vengano emesse azioni nominative, sia in quella di mancata emissione dei titoli azionari, la società può limitare, con ap­posita previsione statutaria, il trasferimento delle azioni, o addirittura escluderlo per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto (art. 2355 bis, comma 1, c.c.). La delibera assembleare con cui, nel corso della vita dell'ente, vengono introdotte o soppresse le clausole limitative della cir­colazione delle azioni, deve essere approvata dall'assemblea straordinaria. In tal caso, tuttavia, se lo statuto non dispone diversamente, il socio che non ha concorso all'approvazione della delibera ha diritto di recedere dalla società (art. 2437, comma 2, lett. b, c.c.).

Tra le clausole limitative della libera circolazione, particolare rilevanza assumono le clausole di prelazione, le clausole di gradimento e le clau­sole di riscatto.

Si parla di clausole di prelazione allorquando lo statuto impone al so­cio che intende alienare a terzi, in tutto o in parte, la propria partecipa­zione azionaria, di offrirla preventivamente agli altri soci e di preferire questi ultimi ai terzi, a parità di condizioni. La violazione della clausola di prelazione determina l'inefficacia del trasferimento sia nei confronti della società, che può rifiutare l'iscrizione nel libro dei soci del terzo ac­quirente, sia nei confronti degli altri soci che hanno visto violato il pro­prio diritto di prelazione.

Nell'ambito delle clausole di gradimento, occorre distinguere le clau­sole che; richiedono, ai fini dell'efficacia del trasferimento, il possesso di determinati requisiti oggettivamente accettabili in capo all'acquirente (ad es., le clausole che richiedono la cittadinanza italiana o che conurano situazioni di incompatibilità con lo status di socio), dalle clausole che in­vece subordinano l'efficacia del trasferimento al gradimento degli organi sociali (cosiddette clausole di gradimento in senso stretto).

Per quelle del secondo tipo, essendo emersa l'esigenza di scongiurare il pericolo di abusi e di condotte arbitrarie da parte degli organi sociali, è necessario che sia previsto, nell'ipotesi in cui il gradimento non sia pre­stato, l'obbligo di acquisto delle azioni a carico della società o degli al­tri soci, oppure il diritto di recesso del socio alienante (art. 2355-bis, comma 2, c.c.).

Lo statuto della S.p.A. può riconoscere alla società o ai soci la facoltà di riscattare le azioni ricorrendo determinate condizioni (art. 2437-sexies, c.c.). In tali circostanze, il quantum del rimborso è calcolato secondo le disposizioni dettate in materia di diritto di recesso del socio.

Un ultimo cenno deve essere svolto in merito alla disciplina dettata con riferimento ai casi in cui le azioni siano costituite in usufrutto o in pegno, ovvero formino oggetto di misure cautelari ed esecutive (ad es, pignoramento, sequestro giudiziario o conservativo).

Per ciò che attiene al diritto di voto, è previsto che esso sia eserci­tato, rispettivamente, dall'usufruttuario e dal creditore pignoratizio (ma è fatta salva l'eventuale convenzione contraria); nel caso di sequestro, il diritto di voto è esercitato dal custode (art. 2352, comma 1, c.c.).

Se le azioni attribuiscono un diritto di opzione, questo è esercitato dal socio, al quale sono assegnate le relative azioni di nuova emissione (art. 2352, comma 2, c.c.). In caso di aumento gratuito del capitale so­ciale, l'usufrutto, il pegno ed il sequestro si estendono alle azioni di nuova emissione (art. 2352, comma 3, c.c.).

Qualora vengano richiesti versamenti sulle azioni, questi sono a ca­rico del socio nel caso di pegno, mentre, nel caso di usufrutto, è l'usu­fruttuario a dover provvedere al relativo versamento, salvo il suo diritto alla restituzione al termine dell'usufrutto (art. 2352, comma 4, c.c.).

Le operazioni sulle proprie azioni

II codice civile disciplina tre differenti tipologie di operazioni della S.p.A. sulle proprie azioni: la sottoscrizione, l'acquisto e «le altre opera­zioni».

La prudenza con cui il legislatore affronta il tema si spiega agevol­mente ove si consideri che le operazioni sulle proprie azioni possono avere l'effetto di annacquare il capitale sociale.

L'acquisto, ad esempio, delle azioni proprie può essere una forma per dare corso ad una restituzione dei conferimenti, lasciando il capitale formalmente invariato.

Per quanto attiene alla prima ipotesi, va rilevato che è vietato, alle S.p.A., sottoscrivere azioni proprie (art. 2357-quater, comma 1, c.c.). Il divieto è pressoché assoluto, essendo prevista una sola eccezione in ma­teria di esercizio del diritto di opzione per le azioni proprie già di pro­prietà della società (art. 2357-ter, comma 2, c.c.).

Le azioni sottoscritte in violazione del divieto si intendono sottoscritte dai promotori, dai fondatori o, nel caso di aumento del capitale sociale, dagli amministratori che versino in colpa: su tali soggetti, conseguentemente, grava l'obbligo di provvedere alla liberazione (e cioè alla effet­tuazione del conferimento) delle azioni (art. 2357-quater, comma 2, c.c.).

Laddove la società si sia avvalsa di un prestanome, la sottoscrizione si intenderà effettuata da quest'ultimo per conto proprio.

Anche in tal caso, l'obbligo di liberazione grava sui promotori, sui fondatori o, nel caso di aumento del capitale sociale, sugli amministra­tori che versino in colpa (art. 2357-quater, comma 3, c.c.).

Certamente più permissiva è la disciplina dell'acquisto delle proprie azioni, potendo la società compiere tale operazione a seguito di apposita deliberazione dell'assemblea dei soci che indichi, oltre alle modalità dell'ac­quisto, anche il numero massimo di azioni da acquistare, la durata (non superiore ai diciotto mesi) per la quale è rilasciata l'autorizzazione, il corrispettivo minimo di acquisto nonché quello massimo (art. 2357, comma 2, c.c.). L'ente non può acquistare azioni proprie per un importo supe­riore agli utili distribuibili ed alle riserve disponibili, risultanti dall'ultimo bilancio approvato (art. 2357, comma 1, c.c.), ed, in ogni caso, per un valore nominale non superiore alla decima parte del capitale sociale, te­nendo conto anche delle azioni di proprietà delle società controllate (art. 2357, comma 3, c.c.). Le azioni devono essere interamente liberate, altri­menti la società diverrebbe creditrice di se stessa.

Le operazioni compiute in violazione della disciplina su esposta non sono invalide, ma comportano, oltre una responsabilità penale degli amministratori (art. 2628 c.c.), l'obbligo, in capo alla società, di alienare le azioni secondo le modalità fissate dall'assemblea, e, comunque, non oltre un anno dall'acquisto. In difetto, le azioni proprie devono essere annullate, con corrispondente riduzione del capitale sociale. L'inerzia del­l'assemblea obbliga gli amministratori e i sindaci a chiedere che la ri­duzione sia disposta con provvedimento del tribunale (art. 2357, comma 4, c.c.).

Sono previsti, tuttavia, dei «casi speciali» di acquisto delle proprie azio­ni, ricorrendo i quali, i limiti sopra riportati sono inapplicabili (art. 2357-bis c.c.). La società, più precisamente, può liberamente compiere tali ope­razioni laddove esse avvengano:

- in esecuzione di una deliberazione assembleare di riduzione del ca­pitale, da attuarsi mediante riscatto e annullamento di azioni (in tal caso, l'acquisto di azioni proprie è strumentale ad una diminuzione reale del capitale sociale);

- a titolo gratuito, sempre che si tratti di azioni interamente liberate;

- per effetto di successione universale o di fusione o scissione;

- in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un cre­dito della società, sempre che si tratti di azioni interamente liberate.

Per poter disporre delle azioni proprie, di cui la società abbia fatto acquisto, gli amministratori devono ottenere l'autorizzazione dell'assem­blea, la quale indica anche le relative modalità di disposizione (art. 2357-ter, comma 1, c.c.). Per l'esercizio dei diritti sociali è dettata una disci­plina apposita: il diritto agli utili ed il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni (ma è previsto che sia l'assemblea ad autorizzare l'esercizio del diritto di opzione), mentre il diritto di voto è sospeso, sebbene debba tenersi conto delle azioni proprie ai fini del com­puto dei quorum costitutivi e deliberativi dell'assemblea (art. 2357-ter, comma 2, c.c.).

Per quanto attiene alle «altre operazioni sulle proprie azioni» (art. 2358 c.c.), la relativa disciplina è così riassumibile:

- la società non può concedere prestiti o fornire garanzie di qualsi-voglia tipo in favore di soci o di terzi per la sottoscrizione o l'acquisto di azioni proprie;

- la società non può accettare azioni proprie in garanzia, tanto meno mediante interposta persona o società fiduciaria.

I contratti stipulati in violazione dei divieti posti dal legislatore sono affetti da nullità.

Limiti analoghi a quelli sin qui esaminati sono, poi, previsti, sempre a tutela della integrità del capitale sociale, con riguardo alle operazioni reciproche su azioni, specie se intervengono tra società controllante e controllata.

Le obbligazioni

Le obbligazioni sono titoli di credito utilizzati, nelle S.p.A., per la rac­colta di capitale di prestito tra il pubblico. Esse possono essere nominative o al portatore e rappresentano frazioni, di uguale valore nominale e con uguali diritti, di un'unitaria operazione di finanziamento a titolo di mutuo.

Le principali differenze tra le azioni e le obbligazioni possono così riassumersi:

- le azioni attribuiscono lo status di socio, con conseguente parteci­pazione ai risultati, sia positivi sia negativi, dell'attività d'impresa; le ob­bligazioni attribuiscono lo status di creditore della società, e danno di­ritto alla corresponsione di una remunerazione (id est, gli interessi) che non è, di regola, connessa ai risultati della società;

- l'azionista ha diritto alla restituzione dei conferimenti effettuati solo in sede di liquidazione della società, e sempre che residui un attivo pa­trimoniale a seguito del soddisfacimento dei creditori sociali; l'obbliga­zionista ha sempre diritto alla restituzione del valore nominale della somma prestata alla scadenza pattuita.

Il legislatore ha previsto la possibilità di emettere categorie speciali di obbligazioni, tra le quali è opportuno ricordare:

- le obbligazioni partecipanti, in cui gli interessi sono, in tutto o in parte, commisurati agli utili di bilancio della società;

- le obbligazioni indicizzate, il cui rendimento è ancorato ad indici di varia natura, tra i quali il rendimento economico della società;

- le obbligazioni convertibili in azioni, in cui all'obbligazionista è rico­nosciuta la facoltà di trasformare il titolo obbligazionario in una partecipa­zione azionaria della società emittente o delle altre società del gruppo;

- le obbligazioni con warrant, che si distinguono dalle precedenti per il fatto che l'obbligazionista non trasforma i propri titoli obbligazionari in azioni ma, fermi restando i primi, può acquistare o sottoscrivere le azioni della società emittente o di altre società del gruppo;

- le obbligazioni subordinate, in cui il diritto dell'obbligazionista alla restituzione del capitale prestato ed alla corresponsione degli interessi è subordinato al soddisfacimento degli altri creditori sociali.

Alla stregua dell'attuale formulazione dell'alt. 2412, comma 1, c.c., le S.p.A. possono emettere obbligazioni per un ammontare complessivo non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili, risultanti dall'ultimo bilancio approvato. Sono, tuttavia, pre­viste delle deroghe sia nel corpo codicistico (art. 2412, commi 2, 3, 4 e 5, c.c.), sia nella legislazione speciale.

La società emittente obbligazioni non può ridurre volontariamente il capitale sociale o distribuire riserve se, con tali operazioni, il limite pre­visto dall'alt. 2412, comma 1, c.c. diviene inferiore alle obbligazioni emesse (art. 2413, comma 1, c.c.). Se la riduzione è obbligatoria o le riserve di­minuiscono in conseguenza di perdite, si prevede, al fine di mantenere inalterato il rapporto tra capitale sociale e riserve, da un lato, ed obbli­gazioni emesse, dall'altro, che non si dia luogo alla distribuzione degli utili, fino a quando l'ammontare dei primi non eguagli la metà dell'am­montare delle obbligazioni in circolazione (art. 2413, comma 2, c.c.).

La competenza ad emettere obbligazioni è, salva diversa previsione le­gislativa o statutaria, degli amministratori, la cui decisione è adottata con deliberazione risultante da verbale redatto da un notaio ed iscritta nel Registro delle Imprese (art. 2410 c.c.).

Una speciale disciplina è dettata per le obbligazioni convertibili in azioni, prevedendosi che:

- la decisione circa la loro emissione è di competenza dell'assemblea straordinaria, la quale deve sia indicare il rapporto di cambio, il periodo e le modalità di conversione, sia disporre contestualmente l'aumento del capitale sociale per un ammontare corrispondente al valore nominale delle azioni da attribuire in conversione (art. 2420-te, commi 1, 2, c.c.);

- lo statuto (o una sua successiva modifica) può tuttavia attribuire agli amministratori la competenza a deliberare l'emissione di obbligazioni convertibili, fino ad un ammontare predeterminato e per il periodo mas­simo di cinque anni (in tal caso, la delega comprende anche il corri­spondente aumento di capitale, art. 2420-ter c.c.);

- possono essere emesse solo se il capitale sociale sia stato intera­mente versato;

- devono essere offerte in opzione agli azionisti ed ai possessori di obbligazioni convertibili precedentemente emesse;

- non possono essere emesse per un ammontare inferiore al loro va­lore nominale.

Esaminati i punti salienti della disciplina codicistica in materia di obbli­gazioni, è necessario svolgere alcuni brevi cenni in mento alla articola­zione organizzativa degli obbligazionisti.

Similmente a quanto accade per i titolari di categorie speciali di azioni, anche per gli obbligazionisti è prevista la costituzione di un'assemblea di categoria, le cui principali attribuzioni riguardano la nomina e la re­voca del rappresentante comune, le modificazioni delle condizioni del prestito, la proposta di amministrazione controllata e di concordato e, in generale, gli altri oggetti d'interesse comune degli obbligazionisti (art. 2415 c.c.).

L'assemblea degli obbligazionisti è convocata dagli amministratori o dal rappresentante comune quando lo ritengano necessario, ovvero qua­lora ne facciano richiesta tanti obbligazionisti che rappresentino il ven-tesimo dei titoli emessi e non estinti (art. 2415, comma 2, c.c.). Le re­gole di funzionamento sono quelle dell'assemblea straordinaria, fatta salva, per le deliberazioni in materia di modifica delle condizioni del prestito, la necessaria approvazione, anche in seconda convocazione, di tanti ob­bligazionisti che rappresentino la metà delle obbligazioni emesse e non estinte (art. 2415, comma 3, c.c.).

All'assemblea degli obbligazionisti possono assistere anche gli amministratori ed i sindaci della società (art. 2415, comma 5, c.c.).

Per quanto attiene alla invalidità delle deliberazioni dell'assemblea de­gli obbligazionisti, valgono le regole generali in tema di invalidità delle deliberazioni assembleari, con l'avvertenza che le quote richieste ai fini dell'impugnazione vanno riferite all'ammontare del prestito obbligazionario ed alla circostanza che le obbligazioni siano quotate m mercati re­golamentati (art. 2416, comma 1, c.c.).

Il rappresentante comune è scelto, anche tra i non obbligazionisti (e, a determinate condizioni, anche tra le persone giuridiche), tra i soggetti in possesso dei requisiti di eleggibilità prescritti dalla legge. Egli è no­minato dall'assemblea degli obbligazionisti e, in mancanza, dal tribunale; la sua nomina è soggetta ad iscrizione nel Registro delle Imprese; dura in carica per un periodo non superiore ad un triennio, salvo rielezione (art. 2417 c.c.).

Le principali funzioni di tale organo consistono nella esecuzione delle deliberazioni dell'assemblea degli obbligazionisti e nella tutela dei loro interessi nei rapporti con la società. Ha diritto di assistere all'assemblea dei soci (art. 2418, comma 1, c.c.). Gli è attribuita la rappresentanza pro­cessuale degli obbligazionisti nelle procedure concorsuali (art. 2418, comma 2, c.c.).

Le partecipazioni rilevanti

L'esigenza di garantire la trasparenza dell'informazione societaria è alla base della normativa in materia di partecipazioni rilevanti. Assume impor­tanza, invero, l'interesse a conoscere l'effettiva composizione della compa­gine sociale, unitamente alla ripartizione del capitale sociale tra i soci. Tale interesse è avvertito in misura maggiore per le società quotate in borsa, poiché l'acquisto dei titoli azionari è, indubbiamente, condizionato dalle informazioni relative ai soggetti che detengono il controllo della società.

Per le società quotate, l'interesse ad una informazione societaria tra­sparente viene perseguito mediante l'imposizione dell'obbligo di comu­nicare alla Consob ed alla società partecipata l'eventuale acquisizione di una partecipazione rilevante in una società quotata. Gli obblighi di comunicazione gravano:

- su tutti coloro che detengono, direttamente o indirettamente, una quota azionaria superiore al due per cento del capitale sociale di una so­cietà quotata;

- sulle società quotate che detengono, direttamente o indirettamente, una quota superiore al dieci per cento del capitale sociale di una S.p.A. o S.r.l. non quotate.

La violazione degli obblighi di comunicazione comporta l'applica­zione di una sanzione pecuniaria, che si accomna, per le sole parte­cipazioni in società quotate, alla sospensione del diritto di voto per le azioni per le quali è stata omessa la comunicazione. Le delibere, adot­tate col voto determinante del socio che ha violato l'obbligo di comu­nicazione, sono annullabili. L'impugnazione può essere proposta anche dalla Consob.

Per quanto attiene alle società non quotate, analoghi obblighi di co­municazione sono previsti a carico dei soggetti che acquisiscano una par­tecipazione ritenuta rilevante alla stregua della normativa speciale. Gli ob­blighi di comunicazione, tuttavia, non riguardano tutte le società, ma uni­camente quelle operanti in settori di particolare importanza (ad es., so­cietà bancarie, di intermediazione mobiliare, di assicurazione).

Le offerte pubbliche di acquisto e di scambio

II legislatore, oltre che per regolamentare gli obblighi di comunica­zione, è intervenuto anche per disciplinare il procedimento di acquisto di una partecipazione rilevante in una società quotata, con l'obiettivo, sotto un primo profilo, di reprimere il fenomeno delle scalate ostili oc­culte, e, sotto un diverso profilo, di assicurare il corretto svolgimento della procedura di offerta pubblica di acquisto (OPA) delle azioni di una società quotata.

Il tema delle offerte pubbliche di acquisto tocca due interessi fonda­mentali: quello ad una maggiore redditività delle imprese e quello alla tutela dei soci di minoranza.

Con riguardo al primo aspetto, è evidente che tanto maggiore è la redditività della società, tanto maggiore è il valore delle azioni.

La conseguenza è che il valore delle azioni delle società con un ma­nagement inefficiente è destinato a scendere, rendendo più facile l'ac­quisto del pacchetto di maggioranza da parte di nuovi soci, in condi­zione di introdurre sistemi di amministrazione più efficienti. Ecco, quindi, che il legislatore si è preoccupato di impedire che gli amministratori della società bersaglio possano porre in essere atti che ostacolino il suc­cesso dell'OPA, in modo che la maggiore contendibilità delle società possa portare ad una complessiva maggiore efficienza del sistema pro­duttivo.

Con riguardo al secondo aspetto, è evidente che i soci di minoranza sarebbero, di regola, penalizzati ove operasse, senza correttivi, il princi­pio della domanda e della offerta. Olfatti, i nuovi acquirenti sarebbero interessati a are un sovrapprezzo al pacchetto di azioni che consente il controllo della società, escludendo i soci di minoranza da tale beneficio.

In questa prospettiva, si è previsto, innanzi tutto, che il lancio di un'OPA, rivolta a tutto il mercato, costituisce passaggio obbligato per l'acquisizione del pacchetto di controllo di una società quotata e che l'OPA, sia essa volontaria o obbligatoria, deve svolgersi secondo deter­minate regole di comportamento, dirette a tutelare i destinatari dell'of­ferta ed il regolare funzionamento del mercato.

Vi sono due differenti ipotesi di OPA obbligatoria: a) l'OPA succes­siva totalitaria; b) l'OPA residuale.

Si parla di OPA successiva totalitaria nei casi in cui un soggetto, che venga a detenere a seguito di acquisto a titolo oneroso una partecipa­zione superiore al trenta per cento delle azioni ordinarie di una società quotata, è tenuto a lanciare un'offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni ordinarie ancora in circolazione.

L'OPA residuale è uno strumento predisposto a tutela dei soci di minoranza di una società quotata, i quali possono avere interesse a libe­rarsi delle azioni allorquando la quasi totalità del capitale sia detenuto da un gruppo di comando. Difatti, qualora un soggetto detenga più del no­vanta per cento delle azioni ordinarie di una società, questi è obbligato a lanciare un'OPA per le azioni ordinarie residue rimaste in circolazione, al prezzo di acquisto fissato dalla Consob, se non ripristina, entro quat­tro mesi, un flottante (inteso quale insieme delle azioni diffuse tra il pub­blico) sufficiente a garantire un regolare svolgimento delle negoziazioni. Nei casi in cui la percentuale detenuta sia superiore al novantotto per cento, l'azionista di maggioranza ha diritto ad acquistare coattivamente le azioni rimaste in circolazione, al prezzo di acquisto fissato da un esperto nominato dal tribunale.

La violazione dell'obbligo di lanciare un'OPA comporta, oltre che la comminatoria di sanzioni pecuniarie, anche la sospensione del diritto di voto per l'intera partecipazione e l'obbligo di alienare, entro dodici mesi, le azioni eccedenti, a seconda del tipo di OPA, le percentuali del trenta e del novanta per cento.

Individuati i casi in cui l'OPA è obbligatoria, è necessario soffermarsi

sulla disciplina predisposta dal legislatore (artt. 102-l04 TUF) per ga­rantire il regolare svolgimento dell'offerta pubblica, sia essa di acquisto, in cui il corrispettivo per le azioni è costituito dal denaro, sia essa di scambio (OPS), in cui il corrispettivo è costituito da altri strumenti fi­nanziari.

Nell'ambito di tale disciplina, la Consob ricopre un ruolo di fondamen­tale importanza, essendole non solo demandato il controllo delle operazio­ni, ma anche attribuito il potere di sospendere o dichiarare decaduta l'offerta in presenza di violazioni della disciplina legislativa o regola­mentare.

Il procedimento si apre con la predisposizione del documento di of­ferta da parte dei soggetti che decidono di lanciare un'offerta pubblica (obbligatoria o volontaria). Tale documento, che deve contenere tutte le informazioni ed i dati necessari ai destinatari per valutare la congruità dell'offerta, è destinato alla pubblicazione previa trasmissione alla Con­sob. Esso è trasmesso anche alla società bersaglio, la quale deve predi­sporre un comunicato nel quale esporre la propria posizione in merito all'offerta lanciata. Solo a seguito di tali adempimenti, ha inizio la fase delle adesioni all'offerta.

Per quanto riguarda gli strumenti a disposizione della società bersa­glio per contrastare un'offerta pubblica ostile, è previsto che gli ammi­nistratori di quest'ultima devono astenersi dal compiere atti o operazioni che possano contrastare con gli obiettivi dell'offerta. Il divieto non è, tut­tavia, assoluto, potendo essere rimosso con apposita delibera assembleare, per la quale sono previste maggioranze particolarmente elevate (il trenta per cento del capitale sociale anche in seconda ed in terza convocazione).

Scaduto il termine dell'offerta, se è stato raggiunto il quantitativo mini­mo di titoli indicato nel documento di offerta, quest'ultima diviene irrevo­cabile; se, viceversa, le adesioni superano il quantitativo richiesto, occor­rerà tenere conto di quanto previsto nel documento di offerta, il quale deve precisare se, in tale ipotesi, si procederà ad una riduzione propor­zionale o se l'offerente si riserva il diritto di acquistare tutti i titoli.

Sezione terza L'assemblea

. L'assemblea. Competenze. Costituzione. Funzionamento. - 83. Il diritto di intervento ed il diritto di voto nelle assemblee. - 84. I patti parasociali. I sindacati di voto. - 85. L'invalidità delle deliberazioni assembleari.

L'assemblea. Competenze. Costituzione. Funzionamento

L'assemblea è un organo collegiale composto dalle persone dei soci. Essa delibera sulle materie di maggior rilievo della vita dell'ente, senza intervenire, di regola, nella ordinaria gestione della società. In via gene­rale, può dirsi che l'assemblea forma la volontà dell'ente nelle materie ad essa riservate dalla legge o dallo statuto.

In base all'oggetto delle deliberazioni, l'assemblea si distingue in ordina­ria e straordinaria. Tale distinzione assume rilevanza sia con riguardo alle formalità da rispettare per il corretto svolgimento dei lavori assembleari (ad es., nell'assemblea straordinaria il verbale deve essere redatto da un notaio), sia per ciò che attiene all'individuazione delle regole che presie­dono alla formazione della volontà assembleare (ad es., i quorum costi­tutivi e deliberativi).

Le materie di competenza dell'assemblea ordinaria variano in relazione al sistema di amministrazione e controllo adottato dall'ente.

Nelle società prive di consiglio di sorveglianza (id est, qualora sia adot­tato il sistema tradizionale o il sistema monistico), l'assemblea ordinaria (art. 2364, comma 1, c.c.):

- approva il bilancio;

- nomina e revoca gli amministratori; nomina i sindaci e il presidente del collegio sindacale e, quando è previsto, il soggetto cui è demandato il controllo contabile;

- determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è già indicato nello statuto;

- delibera sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci;

- delibera sulle altre materie riservate alla sua competenza dalla legge, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento degli atti degli amministratori;

- approva l'eventuale regolamento dei lavori assembleari. Nelle società in cui sia nominato un consiglio di sorveglianza, l'assem­blea ordinaria (art. 2364-te, comma 1, c.c.):

- nomina e revoca i consiglieri di sorveglianza e determina il loro compenso;

- delibera sulla responsabilità dei consiglieri di sorveglianza;

- delibera sulla distribuzione degli utili;

- nomina il revisore.

Più ristrette sono le competenze dell'assemblea straordinaria, la quale delibera (art. 2365, comma 1, c.c.): a) sulle modificazioni dello statuto; b] sulla nomina, la sostituzione ed i poteri dei liquidatori; e) sulle altre materie riservate dalla legge alla sua competenza.

L'assemblea può essere, oltre che generale, anche speciale. Qualora la società abbia emesso unicamente azioni ordinarie, si avrà solamente l'as­semblea generale; laddove siano state emesse anche speciali categorie di azioni o altri strumenti finanziari attributivi di diritti amministrativi, è co­stituita un'assemblea speciale di categoria, la quale nomina un rappresen­tante comune. L'assemblea speciale, il cui funzionamento, in mancanza di disciplina specifica, segue le regole dettate per l'assemblea straordinaria, si pronuncia sulle deliberazioni dell'assemblea generale che pregiudicano i diritti dei soggetti appartenenti alla categoria interessata (art. 2376 c.c.).

L'assemblea è convocata nel comune ove la società ha la propria sede sociale, se lo statuto non dispone diversamente (art. 2363, comma 1, c.c.).

La convocazione è disposta dagli amministratori o dal consiglio di gestione. ½ sono dei casi in cui la convocazione è obbligatoria.

In primo luogo, l'assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l'anno, entro il termine fissato dallo statuto e comunque non oltre i centoventi giorni successivi alla chiusura dell'esercizio sociale. Tale termine può essere differito fino a centottanta giorni per le società te­nute a redigere il bilancio consolidato, ovvero quando vi siano particolari esigenze connesse alla struttura o all'oggetto della società, le quali devono essere indicate dagli amministratori nella relazione sulla gestione allegata al bilancio (art. 2364, comma 2, c.c.).

La convocazione dell'assemblea è obbligatoria anche qualora ne faccia­no richiesta tanti soci che rappresentino un decimo del capitale sociale, o la percentuale più bassa indicata in statuto, e siano indicate anche le materie da trattare (cosiddetta convocazione su richiesta della minoranza). Nel caso di inerzia degli amministratori (o del consiglio di gestione) o, in loro vece, dei sindaci (o del consiglio di sorveglianza), la convocazione è disposta con provvedimento del tribunale (art. 2367 c.c.).

L'obbligo di convocare l'assemblea grava anche sui sindaci, e ciò non solo laddove sia necessario rimediare all'inerzia degli amministratori, ma anche nei casi in cui i sindaci, nell'espletamento del proprio incarico, rav­visino fatti censurabili di rilevante gravita e vi sia urgente necessità di provvedere (art. 2406 c.c.).

Sia nei casi in cui è obbligatoria, sia in quelli in cui avviene per ini­ziativa degli amministratori (o del consiglio di gestione), la convocazione è effettuata mediante avviso contenente l'indicazione non solo del luogo, del giorno e dell'ora della convocazione, ma anche delle materie da trat­tare (cosiddetto ordine del giorno). Tale avviso deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, o su un quotidiano indicato in statuto, almeno quindici giorni prima della data fissata per l'assemblea (trenta giorni se si tratta di società quotate). Per le società che non fanno ricorso al mer­cato del capitale di rischio, è possibile effettuare la convocazione dei soci mediante altri strumenti che garantiscano la prova dell'avvenuto ricevi­mento almeno otto giorni prima di quello fissato per l'assemblea (ad es., raccomandata a/r, fax, e-mail).

L'osservanza di tali formalità non è però necessaria allorquando siano presenti tutti i soci, nonché la maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo (cosiddetta assemblea totalitaria). In tale ipo­tesi, l'assemblea si considera regolarmente costituita, anche se ciascuno dei partecipanti può opporsi alla discussione degli argomenti sui quali si dichiari non sufficientemente informato (art. 2366, comma 2, c.c.).

Costituitasi regolarmente l'assemblea, essa è presieduta dalla persona indicata nello statuto o, in mancanza, da quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti. Il presidente dell'assemblea ha il compito di accertare la regolarità della costituzione, l'identità e la legittimazione dei presenti, regolare lo svolgimento dell'assemblea ed accertare i risultati delle votazioni (art. 2371 c.c.).

Espletati dal presidente i suddetti controlli preliminari, si passa alla fase della discussione ed alla successiva deliberazione, fatta salva l'ipotesi in cui i soci intervenuti, che rappresentino un terzo del capitale, non chiedano un rinvio dell'assemblea di non oltre cinque giorni, dichiarando di non essere sufficientemente informati sui punti posti all'ordine del giorno (art. 2374 c.c.).

Le deliberazioni dell'assemblea devono risultare da un verbale, sotto­scritto dal presidente e dal segretario o dal notaio. Nel caso di assem­blea straordinaria, il verbale deve essere redatto da un notaio. Il verbale deve indicare, oltre che la data dell'assemblea, l'identità dei partecipanti ed il capitale da ciascuno di essi rappresentato, anche le modalità ed il risultato delle votazioni, e deve consentire l'identificazione dei soci fa­vorevoli, astenuti o dissenzienti (art. 2375, comma 1, c.c.). I verbali de­vono essere trascritti nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del­l'assemblea.

Ai fini della regolare costituzione dell'assemblea, nonché ai fini della validità delle relative deliberazioni, è necessaria, rispettivamente, la pre­senza ed il voto favorevole di un numero di soci rappresentativi di una determinata quota di capitale sociale (cosiddetto quorum). Nel primo caso, si parla di quorum costitutivo; nel secondo di quorum deliberativo.

Se, alla data prevista, non è presente la parte di capitale richiesta ai fini della regolare costituzione dell'adunanza, può disporsi una seconda convocazione dell'assemblea (art. 2369, comma 1, c.c.). La data fissata per la seconda adunanza, che, comunque, non può tenersi nello stesso giorno fissato per la prima convocazione, può essere indicata nell'avviso relativo a quest'ultima (art. 2369, comma 2, c.c.).

L'art. 2368 c.c. prevede, quale quorum costitutivo dell'assemblea or­dinaria in prima convocazione, la presenza di tanti soci che rappresen­tino almeno la metà del capitale sociale, escluse le azioni prive del di­ritto di voto (ad es., azioni di risparmio). Lo statuto può, tuttavia, ri­chiedere una maggioranza più elevata. Il quorum deliberativo dell'as­semblea ordinaria in prima convocazione coincide con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei votanti (ovvero la metà più uno).

Più rigida si presenta la disciplina dettata con riferimento all'assem­blea straordinaria. In prima convocazione, difatti, pur non essendo espressa­mente richiesto un particolare quorum costitutivo, si prevede che la de­libera debba essere approvata con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più della metà del capitale sociale, fatta salva un'eventuale maggioranza più elevata richiesta dallo statuto (art. 2368, comma 2, c.c.).

Sia in sede di assemblea ordinaria, sia in sede di assemblea straordinaria, si tiene conto, quanto meno ai fini del computo del quorum co­stitutivo, delle azioni per le quali il diritto di voto non può essere eser­citato (ad es., le azioni del socio in conflitto di interessi), fatta salva una diversa previsione di legge. Ai fini del quorum deliberativo, viceversa, tali azioni non sono calcolate, così come non sono calcolate quelle per le quali il diritto di voto non sia stato in concreto esercitato a seguito della dichiarazione di astensione del socio per conflitto di interessi (art. 2368. comma 3, c.c.).

Passando ad esaminare i quorum richiesti in seconda convocazione, va rilevato che l'assemblea ordinaria è regolarmente costituita e delibera qualunque sia la parte di capitale rappresentata. Per l'assemblea straordi­naria, invece, è espressamente introdotto un quorum costitutivo rappre­sentato dalla partecipazione di oltre un terzo del capitale sociale. La de­libera si considera approvata quando ottiene il voto favorevole di tanti soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale presente in as­semblea (art. 2369, comma 3, c.c.).

In ogni caso, è fatta salva la possibilità di richiedere con lo statuto maggioranze più elevate, tranne che per l'approvazione del bilancio e per la nomina e la revoca delle cariche sociali (art. 2369, comma 4, c.c.).

Lo statuto può, inoltre, prevedere ulteriori convocazioni dell'assem­blea, sia ordinaria sia straordinaria, alle quali si applica la disciplina pre­vista per la seconda convocazione (art. 2369, comma 6, c.c.).

Parzialmente diversa è la disciplina dettata per le società che fanno ri­corso al mercato del capitale di rischio.

In tal caso, ai fini della regolare costituzione dell'assemblea straordi­naria di prima convocazione è necessaria la presenza di almeno la metà del capitale sociale (sempre fatta salva un'eventuale maggioranza più ele­vata prevista dallo statuto); il quorum deliberativo coincide con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea (art. 2368, comma 2, c.c.).

In seconda convocazione, per alcune deliberazioni di particolare impor­tanza (cambiamento dell'oggetto sociale, trasformazione della società, scioglimento anticipato o proroga, revoca dello stato di liquidazione, trasferimento della sede sociale all'estero, emissione di azioni privile­giate), non si applicano i normali quorum (ovvero partecipazione di al­meno un terzo del capitale sociale e voto favorevole dei due terzi del capitale rappresentato in assemblea), ma è richiesto il voto favorevole di tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale (art. 2369, comma 5, c.c.

diritto di intervento ed il diritto di voto nelle assemblee

All'assemblea possono intervenire solo gli azionisti che siano titolari del diritto di voto (art. 2370, comma 1, c.c.). Ad essi vanno aggiunti i soggetti che, pur non essendo azionisti, sono titolari del diritto di voto in virtù di particolari vincoli gravanti sulle azioni (ad es., l'usufruttuario o il creditore pignoratizio). Non possono, invece, intervenire i soggetti che detengono azioni che non attribuiscono il diritto di voto (ad es., azioni di risparmio).

Salvo una specifica previsione statutaria, il previo deposito presso la sede sociale delle azioni non è obbligatorio (art. 2370, comma 2, c.c.).

E possibile consentire l'intervento m assemblea «a distanza», ovvero mediante l'utilizzo di adeguati mezzi di telecomunicazione (ad es., in vi­deoconferenza) o l'espressione del voto per corrispondenza (art. 2370, comma 4, c.c.). ½ è, nel primo caso, la necessità di utilizzare dei sistemi di telecomunicazione che consentano sia la verifica della identità e della legittimazione dei presenti da parte del presidente, sia il contestuale dibat­tito fra i soci, sia la possibilità per tutti i soci di votare simultaneamente.

Salvo disposizione contraria dello statuto, i soci non sono obbligati a partecipare personalmente all'assemblea, potendo farsi rappresentare da soggetti terzi (art. 2372, comma 1, c.c.). Il fenomeno della rappresentan­za in assemblea è diversamente disciplinato a seconda che la società per azioni sia o meno quotata in borsa.

In via generale, la rappresentanza deve essere conferita per iscritto, ed i relativi documenti devono essere conservati dalla società (art. 2372, comma 1, c.c.).

Per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, la delega può essere rilasciata solo per singole assemblee, con validità an­che per le eventuali successive convocazioni, a meno che non si tratti di procura generale o di procura conferita da una società (o altro ente col­lettivo, associazione, fondazione o istituzione) ad un proprio dipendente art. 2372, comma 2, c.c.).

In ogni caso, è esclusa la validità della delega cosiddetta in bianco, nella quale, cioè, non è indicato il nome del rappresentante. La delega, inoltre, è sempre revocabile, nonostante ogni patto contrario (art. 2372, comma 3, c.c.).

Sono, altresì, prescritti limiti, sia soggettivi che quantitativi, al confe­rimento della rappresentanza. Sotto il primo profilo, si prevede che se la rappresentanza è conferita ad una società (o altro ente collettivo, asso-ciazione, fondazione o istituzione), questa può rilasciare delega unica­mente ad un proprio dipendente o collaboratore (art. 2372, comma 4, c.c.). È fatto divieto, inoltre, di conferire la rappresentanza ai membri de­gli organi amministrativi o di controllo della società, così come ai di­pendenti della stessa, alle società controllate o ai membri degli organi amministrativi o di controllo o ai dipendenti delle stesse (art. 2372, comma 5, c.c.).

Per quanto riguarda i limiti quantitativi, l'art. 2372, comma 6, c.c. di­spone che una stessa persona non può rappresentare in assemblea più di venti soci. Tale limite è elevato fino a cinquanta soci per le società quo­tate aventi un capitale sociale da cinque a venticinque milioni di euro, e fino a duecento soci per le società quotate aventi un capitale sociale su­periore a venticinque milioni di euro.

Con precipuo riferimento alle società quotate, vanno segnalati gli isti­tuti della sollecitazione e della raccolta di deleghe (artt. 136-l44 TUF). Si parla di sollecitazione allorquando vi sia una richiesta di attribuzione della rappresentanza rivolta a tutti gli azionisti da parte di uno o più soggetti, i committenti, i quali indicano ai soci le specifiche proposte di voto sulla base delle quali richiedono l'adesione. A differenza di quanto accade normalmente in materia di rappresentanza, il committente non può essere un soggetto esterno alla società, essendo richiesta la titolarità, da un minimo di sei mesi, di almeno l'uno per cento delle azioni con diritto di voto. Sebbene l'iniziativa parta dal committente, la sollecita­zione è materialmente effettuata da un intermediario professionale, il quale è tenuto a trasmettere a tutti gli azionisti un prospetto ed un modulo di delega, il cui contenuto è fissato dalla Consob.

La raccolta delle deleghe, viceversa, presuppone la previa costituzione di un'associazione degli azionisti a tutela dei propri interessi. Più preci­samente, l'associazione richiede l'attribuzione della rappresentanza (uni­camente) ai propri associati, i quali possono, da un lato, decidere di non aderire alla richiesta e, dall'altro, indicare nel modulo di conferimento della rappresentanza le proprie determinazioni di voto, che divengono vincolanti per l'associazione.

Esaminate le questioni connesse all'intervento dei soci all'assemblea, è opportuno svolgere alcune considerazioni in merito all'esercizio del di­ritto di voto da parte dell'azionista.

Se è vero che l'azionista deve perseguire, mediante l'esercizio del di­ritto di voto, il proprio interesse, è altrettanto vero che egli non deve ar­recare danno alla società. Tale esigenza trova riscontro nella disciplina dettata in materia di conflitto di interessi del socio nelle deliberazioni dell'assemblea (art. 2373 c.c.).

Può accadere, difatti, che, in una determinata deliberazione, il socio abbia, per conto proprio o di terzi, un interesse personale confliggente con quello della società. È quanto accade, per esempio, allorquando la società deve deliberare in merito all'acquisto di un immobile di proprietà del socio. In tali casi, è avvertita l'esigenza di tutelare la posizione del­l'ente, rispetto alle determinazioni di voto adottate dal socio portatore di un interesse contrastante con quello sociale.

Qualora la deliberazione assembleare sia adottata con il voto determinan­te del socio in conflitto d'interessi, la deliberazione medesima può essere impugnata ai sensi dell'alt. 2377 c.c., nell'ipotesi in cui possa recare danno alla società.

Pur intendendo il legislatore disciplinare tutte le ipotesi in cui vi sia un interesse personale del socio in conflitto con quello della società, sono stati espressamente indicati due casi tipici di conflitto di interessi, ovvero quello del socio amministratore, nelle deliberazioni riguardanti la propria responsabilità, e quello dei soci componenti del consiglio di gestione, nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza (art. 2373, comma 2, c.c.).

I patti parasociali. I sindacati di voto

I sindacati di voto sono patti parasociali mediante i quali i soci par­tecipanti (soci sindacati) si obbligano a concordare, prima ed al di fuori dell'assemblea, il voto che verrà da essi successivamente esercitato.

Rispetto ai sindacati di blocco, aventi la funzione di stabilizzare la comine sociale ponendo dei vincoli al trasferimento delle azioni, i sindacati di voto sono utilizzati, di regola, al fine di dare un indirizzo unitario alla strategia d'impresa della società. Nella maggior parte dei casi, difatti, tali patti parasociali vengono stipulati dal gruppo di co­mando dell'ente, con l'obiettivo di esprimere un voto unitario in as­semblea e, conseguentemente, di imporre costantemente la condotta della società.

Anche i soci di minoranza possono decidere di ricorrere ai sindacati di voto, nella misura in cui tali strumenti sono idonei a garantire una più adeguata tutela dei comuni interessi in seno all'assemblea.

Non si deve, tuttavia, ritenere che il ricorso ai sindacati di voto non

presenti delle controindicazioni. È evidente, difatti, che nel momento in cui tutte le determinazioni relative all'esercizio del diritto di voto ven­gono adottate al di fuori dell'assemblea, questa viene sostanzialmente svuotata della propria funzione di centro decisionale dei soci.

La disciplina codicistica dei patti parasociali è contenuta negli artt. 2341 -bis e 2341-ter c.c. Tali norme non riguardano i soli sindacati di voto, ma in generale tutti quei patti parasociali che, diretti a stabilizzare gli as­setti societari o il governo della società:

a) abbiano per oggetto l'esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano;

b) pongano limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipa­zioni in società che le controllano;

e) abbiano per oggetto o per effetto l'esercizio, anche congiunto, di un'influenza dominante su tali società.

Sono, viceversa, esclusi dall'ambito di operatività della norma i patti strumentali ad accordi di collaborazione nella produzione o nello scam­bio di beni o servizi, e relativi a società interamente posseduta dai par­tecipanti all'accordo (art. 2341-te, comma 3, c.c.).

L'art. 2341 -bis c.c. distingue i patti parasociali stipulati a tempo de­terminato, da quelli per i quali, viceversa, non è fissato alcun termine di durata. Per i primi è posto, quale limite temporale massimo, il termine di cinque anni (tre anni per le società quotate, art. 123 TUF), ferma re­stando la possibilità per le parti di concordarne la rinnovazione alla scadenza (art. 2341-te, comma 1, c.c.). Con riferimento ai patti paraso­ciali stipulati a tempo indeterminato, per non rendere eccessivamente gra­vosa la posizione dei soci vincolati, è riconosciuto a ciascuno di essi il diritto di recedere dal patto parasociale con un preavviso di sei mesi (art. 2341-te, comma 2, c.c.).

Alcuni rilievi meritano di essere svolti con riguardo al regime di pub­blicità cui sono soggetti i patti parasociali. Occorre distinguere tre diffe­renti situazioni: a) quella delle società non quotate, che non fanno ri­corso al mercato del capitale di rischio; b) quella delle società che, pur non essendo quotate, fanno ricorso al mercato del capitale di rischio; e) quella delle società quotate.

Nel primo caso, non è dettata alcuna forma di pubblicità dei patti parasociali, i quali, pertanto, possono anche non essere portati a cono­scenza degli altri soci e dei terzi.

Nel secondo caso, i patti parasociali devono essere comunicati alla so­cietà e dichiarati all'inizio di ogni assemblea. La dichiarazione deve essere trascritta nel verbale, il quale deve successivamente essere depositato presso il Registro delle Imprese (art. 2341-ìer, comma 1, c.c.).

Il mancato rispetto dell'obbligo comporta, da un lato, la sospensione del diritto di voto per le azioni sindacate e, dall'altro, l'impugnabilità delle deliberazioni assembleari, a norma dell'art. 2377 c.c., qualora siano adottate con il loro voto determinante (art. 2341 -ter, comma 2, c.c.).

Diverso è il regime di pubblicità dei patti parasociali nelle società quo­tate. In tale ultimo caso, essi devono essere comunicati alla Consob, pub­blicati per estratto sulla stampa quotidiana e depositati presso il Registro delle Imprese del luogo in cui la società ha la propria sede sociale (art. 122 TUF). Il mancato rispetto di tali formalità comporta la nullità dei patti e la sospensione del diritto di voto per le azioni sindacate.

Analogamente a quanto statuito per le società non quotate che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, è prevista l'impugnabilità delle deliberazioni assembleari a norma dell'art. 2377 c.c., qualora, in assenza della pubblicità prevista, siano adottate con il voto determinante delle azioni sindacate.

Per quanto attiene alla efficacia dei patti parasociali, occorre evidenziare che essi sono efficaci unicamente tra le parti contraenti, ovvero tra i soci sindacati. Nessuna efficacia può essere riconosciuta a tali accordi nei con­fronti della società. Ne consegue che l'eventuale violazione del patto (ad esempio, perché i soci sindacati hanno votato in maniera difforme da quan­to convenuto in sede di sindacato) non inficia la validità o l'efficacia della delibera, esponendo unicamente l'azionista inadempiente all'obbligo di ri­sarcire i danni arrecati agli altri soci sindacati (il cui ammontare è spesso predeterminato nel patto parasociale mediante apposita clausola penale).

L'invalidità delle deliberazioni assembleari

Le deliberazioni assembleari possono presentare vizi riguardanti sia il procedimento di formazione, sia il contenuto della deliberazione. La re­lativa disciplina manifesta l'intenzione del legislatore di ricondurre tutti i possibili vizi della deliberazione assembleare nell'alveo delle categorie della nullità e dell'annullabilità, senza lasciare spazio alla categoria, di ela­borazione giurisprudenziale, della inesistenza.

Per quanto riguarda i casi di annullabilità della delibera, è ribadito il principio secondo cui possono essere impugnate tutte le deliberazioni che <<non sono prese in conformità della legge o dello statuto» (art. 2377, comma 1, c.c.). In altre parole, al di fuori dei casi tassativi di nullità in­dicati nel successivo art. 2379 c.c., la sanzione prevista per tutti gli even­tuali vizi della deliberazione è l'annullabilità. Inoltre, anche al fine di fu­gare qualsiasi dubbio circa il tipo di sanzione da comminare, si precisa (art. 2377, comma 4, c.c.) che sono soggette ad annullabilità le delibera­zioni in cui si riscontri:

- la partecipazione all'assemblea di soggetti non legittimati, qualora tale partecipazione sia stata determinante ai fini del raggiungimento del quorum costitutivo previsto per legge o per statuto; laddove manchi la cosiddetta prova di resistenza, la deliberazione non è, quindi, soggetta ad alcuna impugnazione;

- l'invalidità o l'errato conteggio di singoli voti, ma, anche in questo caso, solo laddove i voti invalidi o erroneamente conteggiati siano stati determinanti ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo; in caso contrario, analogamente a quanto previsto nell'ipotesi precedente, la deliberazione non è soggetta ad alcuna impugnazione;

- l'incompletezza o l'inesattezza del verbale tali da impedire l'accerta­mento del contenuto, degli effetti e della validità della deliberazione.

L'impugnazione può essere proposta dai soci assenti, dissenzienti o astenuti, nonché dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale. Legittimati all'impugnazione sono altresì il rappresen­tante comune degli azionisti di risparmio e, in alcuni casi tassativamente previsti, la Consob, la Banca d'Italia e Plsvap.

Sono previste delle soglie di partecipazione azionaria, al di sotto delle quali non è riconosciuto il diritto di impugnazione, ma unicamente il di­ritto al risarcimento dei danni subiti a causa della non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto. Tali soglie coincidono:

- nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, con la titolarità di tante azioni con diritto di voto nell'ambito della de­liberazione, che rappresentino l'uno per mille del capitale sociale;

- nelle altre società, con la titolarità di tante azioni con diritto di voto nell'ambito della deliberazione, che rappresentino il cinque per cento del capitale sociale.

E fatta salva, tuttavia, la possibilità per lo statuto di ridurre o esclu­dere tale requisito (art. 2377, comma 2, c.c.).

Il termine per proporre impugnazione (o per chiedere il risarcimento dei danni) è di novanta giorni dalla data della deliberazione, ovvero, se essa è soggetta ad iscrizione o a deposito nel Registro delle Imprese, di novanta giorni dalla iscrizione o dal deposito (art. 2377, comma 5, c.c.).

L'impugnazione si propone dinanzi al tribunale del luogo dove ha sede la società (art. 2378, comma 1, c.c.). Il socio impugnante deve dimostrare il possesso del numero delle azioni richieste al momento del­l'impugnazione. Se il numero delle azioni viene meno nel corso del pro­cesso, il giudice non può più pronunciare l'annullamento della delibera ma provvede, ove richiesto, sul risarcimento del danno (art. 2378, comma 2, c.c.). Laddove, con la proposizione dell'impugnazione, sia richiesta la sospensione dell'efficacia della delibera, il giudice deve pronunciarsi solo dopo avere valutato ativamente i pregiudizi che le parti (ovvero la società ed il socio che ha proposto impugnazione) subirebbero, ri­spettivamente, dalla sospensione e dalla esecuzione della deliberazione. In ogni caso, può disporre che i soci opponenti prestino idonea garanzia (art. 2378, comma 4, c.c.).

L'annullamento della deliberazione spiega la propria efficacia nei con­fronti di tutti i soci, ed obbliga gli amministratori, i componenti del consi­glio di sorveglianza e del consiglio di gestione ad adottare tutti i conseguen­ti provvedimenti sotto la propria responsabilità. Sono fatti, comunque, salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in esecuzione della deli­berazione successivamente annullata (art. 2377, comma 6, c.c.).

In ultimo, occorre evidenziare che l'assemblea ha facoltà di sanare i vizi della deliberazione impugnata adottandone altra in conformità alla legge o allo statuto. Si parla, in tal caso, di sostituzione della delibera (art. 2377, comma 7, c.c.).

Esaminate le questioni connesse alla annullabilità, occorre analizzare le ipotesi di nullità della deliberazione assembleare.

L'art. 2379 c.c. commina la sanzione della nullità, e l'elencazione è da ritenersi tassativa, per le sole deliberazioni in cui si riscontri:

- la mancata convocazione dell'assemblea; la convocazione, tuttavia, non si considera mancante qualora provenga da un membro dell'organo amministrativo o di controllo della società e sia idonea a consentire a colo­ro che hanno diritto di intervenire, di essere tempestivamente avvertiti della convocazione e della data dell'assemblea (art. 2379, comma 3, c.c.);

- la mancanza del verbale; il verbale, tuttavia, non si considera mancan­te, qualora contenga la data della deliberazione ed il suo oggetto, e sia sottoscritto dal presidente dell'assemblea (o dal presidente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza) e dal segretario o dal notaio (art. 2379, comma 3, c.c.);

- l'impossibilità o l'illiceità dell'oggetto della deliberazione per essere contrario a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume.

Analogamente a quanto previsto in materia di nullità negoziale, l'impu­gnazione può essere proposta non soltanto dai soci assenti, dissenzienti ed astenuti e/o dai membri degli organi amministrativi e di controllo, ma anche da chiunque vi abbia interesse (art. 2379, comma 1, c.c.).

La normativa dettata in materia societaria diverge, viceversa, da quella generale per ciò che attiene al termine per far valere la nullità: si pre­vede, difatti, che l'impugnazione debba essere proposta entro tre anni (la regola generale vuole che la nullità non sia soggetta a termini di pre­scrizione o decadenza), decorrenti dalla iscrizione o dal deposito della deliberazione nel Registro delle Imprese, ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell'assemblea, laddove non soggetta né ad iscri­zione, né a deposito (art. 2379, comma 1, c.c.). Nessun limite temporale, tuttavia, è dettato con riguardo alla impugnazione delle deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili.

Per quanto riguarda gli effetti verso i terzi in buona fede della sen­tenza dichiarativa della nullità, è richiamata la disciplina dettata per l'annullabilità. Anche in materia di nullità, è possibile sostituire la deli­berazione impugnata con altra presa in conformità alla legge o allo sta­tuto (art. 2379, comma 3, c.c. che richiama l'art. 2377, commi 6 e 7, c.c.).

Sono previste, inoltre, due ulteriori ipotesi di sanatoria della nullità (art. 2379-fe c.c.).

Si prevede, difatti, che l'impugnazione per mancata convocazione non possa essere esercitata dal soggetto che, anche successivamente, abbia pre­stato il suo consenso allo svolgimento dell'assemblea.

L'impugnazione per mancanza del verbale, a sua volta, può essere sa­nata mediante successiva verbalizzazione, purché eseguita prima dell'as­semblea successiva. In tal caso, la deliberazione ha efficacia dalla data in cui è stata adottata, fatti salvi i diritti dei terzi che, in buona fede, igno­ravano la deliberazione.

Una disciplina specifica è dettata con riferimento alla nullità di partico­lari tipi di deliberazioni.

Per le deliberazioni di aumento o di riduzione del capitale sociale e di emissione delle obbligazioni, i termini per impugnare sono di centot-tanta giorni dall'iscrizione della delibera nel Registro delle Imprese (o, nel caso di mancata convocazione, di novanta giorni dall'approvazione del bilancio nel corso del quale la delibera è stata anche parzialmente eseguita; art. 2379-ter, comma 1, c.c.).

Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, la nullità della deliberazione di aumento del capitale sociale non può più essere pronunciata dopo che, a norma dell'alt. 2444 c.c., sia stata iscritta, nel Registro delle Imprese, l'attestazione che l'aumento è stato anche par­zialmente eseguito. Le deliberazioni di riduzione del capitale sociale e di emissione delle obbligazioni non possono essere dichiarate mille qualora siano state, anche parzialmente, eseguite (art. 2379-ter, comma 2, c.c.).

In entrambi i casi, tuttavia, è fatto salvo il risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci ed ai terzi (art. 2379-ter, comma 3, c.c.).

Le ultime notazioni vanno svolte con riferimento alla invalidità delle deliberazioni di approvazione del bilancio e di trasformazione, prevedendo­si al riguardo che:

- nel primo caso, le azioni di nullità ed annullamento non possono essere proposte, laddove sia già avvenuta l'approvazione relativa all'eser­cizio successivo;

- nel secondo caso, l'invalidità dell'atto di trasformazione non può più essere pronunciata dopo che siano state eseguite le formalità pre­scritte per tale tipo di operazione. È fatto salvo, tuttavia, il risarcimento del danno eventualmente spettante ai partecipanti all'ente trasformato ed ai terzi danneggiati dalla trasformazione (art. 2500-tó c.c.).

È evidente che la disciplina richiamata è volta ad assicurare stabilità alla vita della società.

Sezione quarta L'amministrazione e il controllo

Il sistema tradizionale di amministrazione e controllo. L'organo amministrativo. - 87. L'amministratore unico. Il consiglio di amministrazione. - 88. Amministratori delegati e comitato esecutivo. Direttore generale. - 89. La responsabilità degli amministratori. - 90. Il collegio sindacale. - 91. Le funzioni del collegio sindacale. La responsabilità dei sindaci. - 92. Il con­trollo contabile. - 93. I sistemi alternativi di amministrazione e di controllo. Il sistema dualistico. - 94. Il sistema monistico. - 95. I controlli esterni.

II sistema tradizionale di amministrazione e controllo. L'organo am­ministrativo

La vigente disciplina riconosce alla S.p.A. la possibilità di optare tra tre sistemi differenti di amministrazione e di controllo:

- il sistema cosiddetto tradizionale;

- il sistema cosiddetto dualistico, che prevede la presenza di un con­siglio di sorveglianza, di nomina assembleare, e di un consiglio di ge­stione, nominato dal primo;

- il sistema cosiddetto monistico, che prevede la presenza di un con­siglio di amministrazione, di nomina assembleare, e di un comitato per il controllo sulla gestione, organo costituito all'interno del primo e com­posto da alcuni suoi membri dotati di particolari competenze professio­nali.

In mancanza di diversa previsione statutaria, trova applicazione il siste­ma tradizionale (art. 2380, comma 1, c.c.). L'adozione del sistema duali­stico e di quello monistico, laddove non effettuata in sede di costituzione della società, necessita di specifica modifica statutaria.

A prescindere dal sistema concretamente adottato, tuttavia, il controllo contabile non è di spettanza dell'organo interno di controllo, ma deve essere affidato ad un soggetto esterno alla società, e cioè ad un revisore contabile o ad una società di revisione.

Nel sistema tradizionale, l'organo amministrativo può avere natura collegiate o unipersonale: nel primo caso, si ha il consiglio di ammini­strazione; nel secondo, l'amministratore unico.

Indipendentemente dalla natura collegiale o unipersonale dell'organo amministrativo, ad esso è affidata, in via esclusiva, la gestione dell'im­presa, con facoltà di compiere tutte le operazioni necessarie per il rag­giungimento dell'oggetto sociale (art. 2380-te, comma 1, c.c.).

L'organo amministrativo può, perciò, deliberare su tutte le materie attinenti alla gestione della società, che non siano riservate per legge al­l'assemblea.

All'organo amministrativo, o ad alcuni suoi componenti, spetta anche il potere generale di rappresentanza della società (art. 2384, comma 1, c.c.), in virtù del quale è riconosciuto il potere-dovere di manifestare ai soggetti terzi (ad es., altre imprese, pubbliche amministrazioni, ecc.) la volontà sociale creatasi all'interno dell'ente. In sede di costituzione della S.p.A., l'atto costitutivo deve indicare a quali amministratori è attribuita la rappresentanza dell'ente. Successivamente, essa è attribuita agli ammi­nistratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina (art. 2384, comma 1, c.c.).

Ai sensi dell'art. 2383, comma 4, c.c., se la rappresentanza è conferita a più amministratori, occorre specificare se essi agiscono con firma di­sgiunta (nel qual caso, ciascuno di essi potrà autonomamente impegnare la società nei confronti di soggetti terzi) o con firma congiunta (nel qual caso, è necessaria la firma di tutti i soggetti dotati del potere di rappre­sentanza).

Il potere di rappresentanza della società è generale, ed è comprensivo della rappresentanza sostanziale e di quella processuale, attiva e passiva, dell'ente.

In materia di rappresentanza sociale, assume rilevanza l'esigenza di tutelare l'affidamento dei terzi.

Adempiute, difatti, le formalità prescritte in materia di pubblicità del­l'atto di attribuzione della rappresentanza, l'eventuale invalidità dell'atto di nomina non può essere opposto ai terzi in buona fede, a meno che non si provi che essi ne erano a conoscenza (art. 2383, comma 5, c.c.). In altre parole, la società resta vincolata, nei confronti dei terzi in buona fede, dagli atti compiuti dagli amministratori invalidamente nominati.

Nell'ipotesi in cui, pur essendo l'atto di nomina valido, gli ammini­stratori abbiano violato i limiti alla rappresentanza fissati dallo statuto ; da una decisione degli organi competenti (ad es., nel caso in cui la rap­presentanza sia attribuita con esclusivo riferimento al compimento di atti non eccedenti un determinato valore), la società non può opporre ai terzi i limiti posti ai poteri di rappresentanza, anche se pubblicati, ma rimane vincolata dagli atti posti in essere dai propri amministratori.

In questo caso, peraltro, la società non può liberarsi neanche dimostran­do che i terzi erano a conoscenza dei limiti posti alla rappresentanza de­gli amministratori, potendo legittimamente contestare le pretese dei terzi solo fornendo la prova che questi ultimi hanno intenzionalmente agire in danno della società (art. 2384, comma 2, c.c.).

Il potere gestorio ed il potere di rappresentanza della società costituisco­no, indubbiamente, gli elementi che caratterizzano con maggiore evidenza il ruolo svolto dall'organo amministrativo. Non vanno trascurate, tutta­via, le altre funzioni di cui esso è titolare per legge, tra le quali vanno richiamate:

- la funzione di impulso dell'attività dell'assemblea (convocazione e fissazione dell'ordine del giorno) e quella di attuazione delle sue delibe­razioni;

- il potere-dovere di impugnare le deliberazioni assembleari invalide;

- la tenuta dei libri contabili e la predisposizione del progetto di bi­lancio sottoposto all'approvazione dell'organo assembleare;

- l'obbligo di impedire il compimento di atti pregiudizievoli per la società, o comunque di eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.

Il mancato adempimento di tali doveri espone l'organo amministra­tivo a conseguenze di natura sia civilistica, sia penalistica.

Richiamate brevemente le principali funzioni dell'organo amministra­tivo, occorre esaminare le questioni relative alla nomina, alla revoca ed al compenso spettante a tale organo.

Gli amministratori sono nominati dall'assemblea, ad eccezione dei primi amministratori che sono nominati nell'atto costitutivo. Lo sta­tuto può, tuttavia, riservare allo Stato o ad enti pubblici il potere di nominare uno o più amministratori, anche in mancanza di partecipa­zione azionaria (art. 2383, comma 1, c.c.). Gli amministratori devono, entro trenta giorni dalla loro nomina, chiederne l'iscrizione nel Regi­stro delle Imprese, indicando, oltre ai propri dati anagrafici, anche a quali, tra di essi, è affidata la rappresentanza della società (art. 2383, comma 4, c.c.).

L'amministrazione può essere affidata anche a non soci (art. 2380-fe, comma 2, c.c.), ma non tutti i soggetti possono ricoprire tale incarico.

Sono previste, difatti, alcune cause di ineleggibilità e di incompatibi­lità alla carica di amministratore. Nel primo caso (ad es., persona inter­detta o inabilitata o fallita), la delibera di nomina è invalida.

Nel secondo caso, la delibera è valida, ma è necessario optare tra l'uno e l'altro degli incarichi ricoperti.

Il numero dei componenti dell'organo amministrativo è fissato dallo statuto. Ben può accadere, tuttavia, che questo si limiti ad indicare il numero minimo ed il numero massimo dei membri: in tal caso, la determinazione ultima spetta all'assemblea dei soci (art. 2380-&«, comma 4, c.c.).

Nelle S.p.A., la durata dell'incarico dell'organo amministrativo non può essere a tempo indeterminato, potendo gli amministratori rimanere in carica per un periodo non superiore a tre esercizi, salvo rielezione. Essi scadono alla data dell'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo all'ultimo esercizio della loro carica (art. 2383, comma 2, c.c.).^

Al fine di scongiurare il pericolo di paralisi dell'organo amministra­tivo, si prevede che la cessazione dalla carica per scadenza del termine abbia efficacia solamente a far data dalla acccttazione della nomina da parte dei nuovi amministratori, o del nuovo amministratore unico (prorogatio).

Può accadere, tuttavia, che gli amministratori cessino dalla carica prima della scadenza del termine. Ciò può avvenire per revoca da parte del­l'assemblea, decadenza dall'ufficio per sopravvenuta ineleggibilità, dimis­sioni, morte.

Quanto alla revoca, gli amministratori sono revocabili in qualsiasi tem­po e per qualsiasi motivo (anche ad nuturrì) da parte dell'assemblea, fermo restando il loro diritto al risarcimento dei danni, qualora la revoca av­venga senza giusta causa (art. 2383, comma 3, c.c.).

Una specifica disciplina è prevista con riferimento all'ipotesi in cui, nel corso dell'incarico, vengano a mancare uno o più amministratori (art. 2386 c.c.).

Se viene meno la minoranza degli amministratori, quelli rimasti in carica provvedono a sostituirli (cooptazione) con delibera approvata dal collegio sindacale. I componenti così nominati rimangono in carica fino alla successiva assemblea, allorquando possono essere confermati o sostituiti.

Se, viceversa, viene meno la maggioranza degli amministratori, non si

da luogo alla cooptazione da parte dei componenti rimasti in carica, doven­do questi ultimi convocare l'assemblea affinchè provveda alla sostituzione.

Gli amministratori così nominati dall'assemblea scadono contestual­mente a quelli in carica al momento della loro nomina.

Laddove si verifichi la cessazione dalla carica dell'amministratore unico o di tutti i membri del consiglio di amministrazione, la convocazione dell'assemblea è effettuata dal collegio sindacale, il quale, nel frattempo, può compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione.

È riconosciuta la validità delle clausole statutarie che prevedono la cessazione dell'intero consiglio di amministrazione in presenza della ces­sazione dalla carica di uno o più amministratori (cosiddetta clausola simul stahunt simul cadent). In tal caso gli amministratori rimasti in ca­rica provvedono alla convocazione d'urgenza dell'assemblea.

Analogamente a quanto avviene per la nomina, anche la cessazione dell'incarico deve essere iscritta nel Registro delle Imprese.

Un'ultima considerazione deve essere svolta con riguardo al compenso a cui hanno diritto gli amministratori per la loro attività (art. 2389 c.c.) ed al divieto di concorrenza su di essi gravante.

Sotto il primo profilo, va detto che il compenso, se non determinato nell'atto costitutivo, va fissato dall'assemblea. Tuttavia il compenso di co­loro che rivestono particolari cariche (presidente e amministratore dele­gato) può essere fissato dallo stesso consiglio, sentito il Collegio sinda­cale. Nelle imprese di media e grande dimensione, si è affermata la prassi di corrispondere all'organo amministrativo un «compenso» che si so­stanzia, in tutto o in parte, nella partecipazione agli utili della società e/o nel diritto di sottoscrivere, ad un prezzo predeterminato, le azioni so­ciali di futura emissione (cosiddette stock options).

Sotto il secondo profilo, va rilevato che, stante l'esigenza di evitare un potenziale conflitto tra gli interessi personali dell'amministratore e gli interessi della società, a carico di quest'ultimo è prevista una serie di di­vieti, alla stregua dei quali egli non può:

- assumere la qualità di socio a responsabilità illimitata di società con­correnti;

- esercitare un'attività concorrente per conto proprio o altrui;

- essere amministratore o direttore generate in società concorrenti.

Tali vincoli possono essere rimossi solo mediante apposita delibera autorizzativa dell'assemblea. La violazione del divieto di concorrenza espone l'amministratore alla revoca dall'ufficio ed al risarcimento dei danni (art. 2390 c.c.).

L'amministratore unico. Il consiglio di amministrazione

Si è già detto che l'organo amministrativo delle S.p.A. può avere na­tura unipersonale (amministratore unico) o collegiale (consiglio di am­ministrazione).

Laddove sia nominato un amministratore unico, su di esso saranno convogliati tutti i poteri e tutte le funzioni spettanti all'organo ammini­strativo e già in precedenza esaminate.

Più articolata si presenta la disciplina dettata con riferimento al con­siglio di amministrazione.

Innanzitutto, è necessario sottolineare che tale organo ha natura col­legiale: i poteri gestori non spettano singolarmente a ciascun membro (fatta salva l'ipotesi dell'amministratore delegato), ma al consiglio di amministrazione nella sua collegialità. Questo è il motivo per cui le de­cisioni in materia gestoria non vengono adottate autonomamente dai sin­goli consiglieri, ma in occasione di apposite riunioni consiliari, alle quali, peraltro, partecipa anche il collegio sindacale.

Il consiglio di amministrazione sceglie, tra i suoi membri, il presidente, se questi non è nominato dall'assemblea (art. 2380-£>zs, comma 5, c.c.).

Tra le funzioni del presidente rientrano quelle di convocare il consi­glio, fissarne l'ordine del giorno, coordinarne i lavori e provvedere af­finchè vengano fornite ai consiglieri le necessarie notizie in merito agli argomenti da trattare (art. 2381, comma 1, c.c.).

Come per l'assemblea dei soci, il legislatore ha dettato una specifica disciplina sia in materia di funzionamento del consiglio di amministra­zione, sia in materia di invalidità delle delibere consiliari.

Sotto il primo profilo, anche per le adunanze del consiglio di ammi­nistrazione sono previsti quorum costitutivi e deliberativi. Più precisamen­te, il consiglio può ritenersi validamente costituito solo ove sia presente la maggioranza degli amministratori in carica. Lo statuto, oltre che ri­chiedere un maggior numero di presenti, può consentire la partecipazione alle riunioni anche mediante mezzi di telecomunicazione (art. 2388, comma 1, c.c.).

Ai fini della validità delle deliberazioni, è richiesto il voto favorevole della maggioranza assoluta dei presenti, fatta salva diversa previsione dello statuto (art. 2388, comma 2, c.c.). Non è ammesso il voto per rappre­sentanza (art. 2388, comma 3, c.c.). Le deliberazioni adottate devono es­sere iscritte in un apposito libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione.

Per quanto attiene alla invalidità delle deliberazioni consiliari, è possibi­le l'impugnazione (art. 2388, comma 3, c.c.):

1) in tutti i casi in cui la delibera non sia adottata in conformità alla legge o allo statuto;

2) qualora la delibera risulti lesiva di un diritto soggettivo dei soci. Si tratta, in entrambi i casi, di deliberazioni annullabili.

Nel primo caso, legittimati all'impugnazione sono sia i consiglieri assenti o dissenzienti, sia i componenti del collegio sindacale. Il termine per impugnare è di novanta giorni dalla data della deliberazione. Si ap­plica, in quanto compatibile, la normativa relativa al procedimento di impugnazione previsto per le deliberazioni assembleari.

Nel secondo caso, legittimati all'impugnazione sono esclusivamente i soci che vedano menomato o violato un proprio diritto soggettivo. Si applica, in quanto compatibile, l'intera normativa dettata in materia di annullabilità delle deliberazioni assembleari (artt. 2377 e 2378 c.c., ri­chiamati dall'ari. 2388, comma 4, c.c.).

Sono fatti, comunque, salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione delle deliberazioni (art. 2388, comma 5, c.c.).

Una ulteriore ipotesi di impugnabilità delle deliberazioni consiliari è pre­vista in materia di conflitto di interessi dell'amministratore (art. 2391 c.c.).

Si dispone, difatti, che l'amministratore deve dare notizia sia agli al­tri componenti dell'organo amministrativo, sia ai membri del collegio sindacale, di ogni interesse (non necessariamente in conflitto con quello dell'ente) che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata ope­razione della società, precisandone anche la natura, i termini, l'origine e la portata.

Se si tratta di amministratore delegato, questi deve anche astenersi dal compiere l'operazione, rimettendo qualsiasi decisione all'organo colle­giate.

In entrambi i casi, è fatto obbligo al consiglio di amministrazione di motivare adeguatamente le ragioni e la convenienza dell'operazione.

In tale contesto, le deliberazioni consiliari possono essere impugnate sia nell'ipotesi in cui non venga rispettata la disciplina sopra richiamata, sia qualora esse siano state adottate con il voto determinante dell'amministra­tore interessato. Occorre, in ogni caso, che le deliberazioni siano idonee a recare danno alla società.

Legittimati all'impugnazione sono gli amministratori ed i membri del collegio sindacale. Il termine per impugnare è di novanta giorni dalla data delle deliberazioni. L'impugnazione non può essere proposta da coloro che abbiano consentito, con il proprio voto, alla deliberazione, qualora siano stati adempiuti gli obblighi di informazione prescritti.

Anche in tale circostanza, sono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione. L'amministratore, dal canto suo, risponde dei danni derivanti alla società dalla sua azione o omissione.

Amministratori delegati e comitato esecutivo. Direttore generale

II consiglio di amministrazione può delegare le sue funzioni a favore di uno o più dei suoi componenti. Se la delega è a favore di singoli amministratori, si ha la ura dell'amministratore delegato. Se è a favore congiuntamente di più amministratori, si ha il comitato esecutivo.

Quest'ultimo, dunque, è un organo collegiale, le cui modalità di fun­zionamento, in materia di adunanze, collegialità delle deliberazioni ed ob­bligatoria presenza del collegio sindacale, sono analoghe a quelle dettate per il consiglio di amministrazione.

Gli amministratori delegati, viceversa, sono organi unipersonali e ri­mangono tali anche qualora le deleghe siano conferite a più soggetti.

La costituzione di organi delegati è possibile solo laddove l'assemblea o lo statuto lo consentano. In tal caso, la determinazione relativa al con­ferimento delle deleghe rientra nella esclusiva competenza del consiglio di amministrazione (art. 2381, comma 2, c.c.). Ne consegue che l'assem­blea dei soci può pronunciarsi esclusivamente sull'in della delega, essen­dole preclusa la possibilità sia di nominare direttamente gli organi dele­gati, sia di determinare l'ambito della delega.

Quanto all'ambito della delega, nell'atto di conferimento il consiglio di amministrazione deve indicare «il contenuto, i limiti e le eventuali mo­dalità di esercizio della delega». Sono delegabili tutte le competenze pro­prie del consiglio di amministrazione, ad eccezione di quelle espressa­mente escluse dal legislatore, ovvero:

- la redazione del bilancio di esercizio;

- la facoltà di aumentare il capitale sociale e di emettere obbligazioni convertibili;

- gli adempimenti posti a carico degli amministratori in caso di ri­duzione obbligatoria del capitale sociale per perdite;

- la redazione del progetto di fusione o di scissione.

II conferimento della delega non spoglia il consiglio di amministra­zione della relativa funzione: esso determina una competenza concorrente dell'organo collegiale e dell'organo delegato. Si prevede, infatti, che il consiglio di amministrazione non solo possa sempre impartire direttive agli organi delegati, ma possa anche avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Rientrano, inoltre, tra i compiti del consiglio di ammini­strazione (art. 2381, comma 3, c.c.):

- la valutazione, sulla base delle informazioni ricevute, dell'adegua­tezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell'ente;

- l'esame dei piani strategici, industriali e finanziari della società, laddo­ve elaborati;

- la valutazione del generale andamento della gestione, sulla base della relazione degli organi delegati.

II conferimento della delega non esime gli amministratori dall'obbligo di agire in modo informato richiedendo, se del caso, tutte le necessarie informazioni sull'andamento della gestione agli organi delegati (art. 2381, comma 6, c.c.).

Sono, viceversa, di spettanza degli organi delegati (art. 2381, comma 4, c.c.):

- il compito di garantire l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, ammi­nistrativo e contabile della società, rispetto alla natura ed alle dimensioni dell'impresa;

- il compito di riferire al consiglio di amministrazione ed al collegio sindacale, almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior ri­lievo effettuate dalla società o dalle controllate.

Alcuni brevi cenni vanno svolti in merito alla ura del direttore ge­nerale della società (art. 2396 c.c.), ovvero il dirigente che svolge attività di alta gestione.

Questi ricopre, spesso, un ruolo di estrema importanza nell'ambito della struttura organizzativa dell'ente: dovendo, difatti, dare attuazione alle direttive impartite dall'organo amministrativo, non di rado accade che al direttore generale siano riconosciuti ampi poteri decisionali nella gestione dell'impresa.

La sua posizione è equiparata a quella degli amministratori sia sotto il profilo delle responsabilità penali, sia sotto quello della responsabilità civile (laddove nominato dall'assemblea o per disposizione dello statuto ed in relazione ai compiti affidati).

La responsabilità degli amministratori

La responsabilità degli amministratori per le attività svolte nell'ambito del proprio incarico può essere di natura sia civilistica, sia penalistica.

In questa sede, verranno esaminate esclusivamente le questioni con­nesse alla responsabilità di natura civilistica.

Gli amministratori possono essere responsabili: a) verso la società; b) verso i creditori sociali; e) verso i singoli soci o i terzi.

Per quanto attiene alla responsabilità degli amministratori verso la so­cietà, è fatto obbligo a questi ultimi di adempiere ai propri doveri «con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche com­petenze». In difetto, essi rispondono solidalmente dei danni arrecati alla società, a meno che non si tratti di attribuzioni proprie del comitato ese­cutivo o affidate, in concreto, ad un amministratore delegato (art. 2392, comma 1, c.c.).

Gli amministratori, tuttavia, non sono completamente esonerati da re­sponsabilità per il solo fatto che le funzioni siano state oggetto di delega in seno al consiglio di amministrazione. Il conferimento della delega, di­fatti, non esime gli amministratori dal vigilare sul generate andamento della gestione (art. 2381, comma 3, c.c.), così come non fa venir meno l'obbligo di adoperarsi per impedire il compimento di atti pregiudizie­voli per la società di cui siano venuti a conoscenza, o per eliminarne o attenuarne le conseguenze (art. 2392, comma 2, c.c.). Conseguentemente, laddove il pregiudizio per la società derivi dall'esercizio di una funzione non direttamente spettante agli amministratori, in quanto delegata, ciascun amministratore sarà solidalmente responsabile con il soggetto dele­gato se, pur avendo contezza del fatto pregiudizievole, non si sia pron­tamente attivato per prevenire o impedire l'attività dannosa.

La responsabilità dell'amministratore non è di tipo oggettivo, bensì di natura colposa. Non è ritenuto responsabile, difatti, l'amministratore che dimostri di essere esente da colpa, purché (art. 2392, comma 3, c.c.):

- abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio;

- abbia informato, immediatamente e per iscritto, il presidente del collegio sindacale.

Quanto all'azione sociale di responsabilità, essa deve essere deliberata dall'assemblea, anche se la società è in liquidazione (art. 2393, comma 1, c.c.). La deliberazione relativa all'azione di responsabilità può essere, inol­tre, adottata in occasione della discussione del bilancio, anche se non è indicata tra le materie da trattare all'ordine del giorno, purché si tratti di fatti di competenza dell'esercizio cui si riferisce il bilancio (art. 2393, comma 2, c.c.).

II termine per esercitare l'azione è di cinque anni dalla cessazione del­l'amministratore dalla carica (art. 2393, comma 3, c.c.).

Qualora la deliberazione sia adottata con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale, l'amministratore è revocato d'ufficio dalla carica e sostituito dalla assemblea (art. 2393, comma 4, c.c.). Non rag­giungendosi tale percentuale, ai fini della revoca dell'amministratore, sarà necessaria una ulteriore e separata deliberazione dell'assemblea.

La società ha la possibilità sia di rinunziare all'azione di responsabi­lità, sia di giungere ad una transazione con l'amministratore (art. 2393, comma 5, c.c.). In tal caso, tuttavia, è necessario, da un lato, che la ri-nunzia e/o la transazione siano approvate dall'assemblea; dall'altro, che la deliberazione non riporti il voto contrario di tanti soci che rappre­sentino un quinto del capitale sociale, ridotto ad un ventesimo nelle so­cietà che fanno ricorso al capitale di rischio, o la diversa e minore per­centuale prevista in statuto per l'esercizio dell'azione sociale di respon­sabilità da parte degli azionisti di minoranza.

Sotto quest'ultimo profilo, assume rilevanza la disciplina contenuta nell'alt. 2393-^zs c.c., che riconosce il diritto di promuovere l'azione di responsabilità ai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale so­ciale (o la diversa percentuale prevista in statuto e comunque non supe­riore ad un terzo). Nelle società che fanno ricorso al capitale di rischio, tale percentuale è ridotta ad un ventesimo.

Gli amministratori sono responsabili anche nei confronti dei creditori sociali, verso i quali rispondono per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale (art. 2394, comma 1, c.c.).

La responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori so­ciali ha natura sussidiaria rispetto a quella della società. Si prevede, di­fatti, che i creditori sociali non possano rivalersi immediatamente sugli amministratori, ma devono preliminarmente aggredire il patrimonio so­ciale. Solo ove quest'ultimo si riveli insufficiente a soddisfare il loro cre­dito, essi potranno agire nei confronti degli amministratori (art. 2394, comma 2, c.c.).

In ultimo, occorre accennare ai profili relativi alla responsabilità de­gli amministratori nei confronti dei singoli soci e dei terzi.

L'art. 2395 c.c. dispone che, indipendentemente dall'esercizio dell'a­zione di responsabilità da parte delta società e/o dei creditori sociali, gli amministratori sono responsabili dei danni cagionati ai singoli soci e/o ai terzi, che siano stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori.

I presupposti di tale tipo di responsabilità sono, quindi, due: da un lato, il compimento, da parte degli amministratori, di un atto doloso o colposo; dall'altro, la produzione di un danno diretto al singolo socio o al terzo, ossia di un danno che non costituisca unicamente la conseguenza del danno arrecato al patrimonio sociale (è il caso degli amministratori che, redigendo un bilancio falso, inducono i terzi a sottoscrivere le azioni di nuova emissione).

II termine per esercitare l'azione è di cinque anni dal compimento del­l'atto che ha cagionato il danno.

Il collegio sindacale

II collegio sindacale è l'organo al quale, nel sistema tradizionale, è demandato il controllo interno della società per azioni.

Il collegio sindacale può essere composto da tre o cinque membri ef­fettivi, anche non soci, oltre che da due membri supplenti (art. 2397, comma 1, c.c.). Il limite massimo dei cinque membri effettivi non è pre­visto per le società quotate (art. 148 TUF).

Per quanto attiene ai requisiti soggettivi, è prescritto che almeno un membro effettivo ed uno supplente debbano essere scelti fra gli iscritti nel registro dei revisori contabili. I restanti membri, ove non iscritti in tale registro, devono essere scelti tra gli iscritti agli albi professionali in­dividuati dal Ministero della Giustizia, o fra professori universitari di ruolo in materie economiche o giuridiche (art. 2397, comma 2, c.c.). Per le società quotate, i requisiti di professionalità ed onorabilità sono fissati dal Ministero della Giustizia (art. 148 TUF).

A tutela della indipendenza e della autonomia dei sindaci, sono ine­leggibili a tale ufficio, e, se eletti, decadono dall'ufficio:

- coloro che risultano ineleggibili alla carica di amministratore (art. 2382 c.c., richiamato dall'art. 2399, comma 1, lett. a, c.c.);

- il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministra­tori della società, nonché gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli af­fini entro il quarto grado degli amministratori delle società controllate, delle controllanti, e di quelle sottoposte al comune controllo;

- coloro che sono legati alla società (o alle società controllate, alle

controllanti, o a quelle sottoposte al comune controllo) da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d'opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza.

Sono fatte salve le ulteriori cause di ineleggibilità o di incompatibilità, nonché i limiti ed i criteri per il cumulo di incarichi, previsti nello statuto.

I sindaci sono nominati, per la prima volta, nell'atto costitutivo; successivamente, dall'assemblea. Analogamente a quanto previsto per l'or­gano amministrativo, è fatta salva la possibilità di riservare allo Stato o ad enti pubblici la nomina di uno o più membri del collegio sindacale, indipendentemente dalla titolarità di una partecipazione azionaria nella società (art. 2400, comma 1, c.c.). Nelle società quotate, deve essere ri­servata alla minoranza la nomina di un sindaco (o di almeno due se il collegio sindacale è composto da più di tre membri).

I sindaci restano in carica per tre esercizi e scadono alla data dell'as­semblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo al terzo eser­cizio. La cessazione dall'ufficio ha efficacia solamente dal momento in cui il collegio è stato ricostituito (art. 2400, comma 1, c.c.).

A differenza degli amministratori, i sindaci possono essere revocati solo per giusta causa, la cui effettiva sussistenza è verificata dal tribunale, il quale deve approvare, con proprio decreto, la deliberazione assembleare di revoca, sentito l'interessato (art. 2400, comma 2, c.c.).

Come per gli amministratori, la nomina e la cessazione dall'ufficio sono soggette ad iscrizione nel Registro delle Imprese (art. 2400, comma 3, c.c.). il legislatore ha disciplinato espressamente le conseguenze della cessazione anticipata dall'ufficio, che può avvenire: a) per morte; b) per dimissioni; e) per decadenza dall'incarico, ossia per sopravvenuta ineleg­gibilità, per cancellazione dagli albi o per mancata partecipazione, senza giustificato motivo, alle adunanze assembleari o consiliari.

In tali circostanze, i sindaci supplenti sostituiscono quelli cessati fino alla successiva assemblea, in occasione della quale è necessario integrare il collegio mediante la nomina di nuovi membri effettivi e supplenti. I sindaci cosi nominati scadono con quelli in carica (art. 2401, comma 1, c.c.). Se viene a cessare il presidente del collegio sindacale, questi è so­stituito dal sindaco più anziano fino alla assemblea successiva (art. 2401, comma 2, c.c.).

Qualora il numero dei membri supplenti non sia sufficiente ad inte­grare il collegio, occorre convocare l'assemblea dei soci per provvedere alla necessaria integrazione (art. 2401, comma 3, c.c.).

Sempre a tutela dell'indipendenza e dell'autonomia dei sindaci è ri­volta la disciplina del compenso: si prevede, difatti, che questo sia pre­determinato dall'assemblea e rimanga invariabile per tutta la durata del­l'incarico (art. 2402 c.c.)

Il collegio sindacale è presieduto da un presidente nominato dall'as­semblea (nelle società quotate, le modalità della nomina sono indicate dall'atto costitutivo) e deve riunirsi almeno ogni novanta giorni (art. 2404, comma 1, c.c.). Delle riunioni si redige processo verbale, che deve essere trascritto nel libro delle riunioni del collegio sindacale e sottoscritto da­gli intervenuti (art. 2404, comma 3, c.c.).

Il collegio sindacale si considera validamente costituito con la pre­senza della maggioranza dei sindaci in carica. Esso delibera a maggio­ranza assoluta dei presenti. Il sindaco dissenziente ha diritto di far iscri­vere a verbale i motivi del proprio dissenso (art. 2404, comma 4, c.c.).

Le funzioni del collegio sindacale. La responsabilità dei sindaci

II collegio sindacale, come detto, è l'organo di controllo interno delle S.p.A.

Tra i compiti del collegio sindacale rientra quello di vigilare «sull'os­servanza della legge e detto statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, ed in particolare sull'adeguatezza dell'assetto organiz­zativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo con­creto funzionamento» (art. 2403 c.c.).

Come in precedenza rilevato, al collegio sindacale non spetta il con­trollo contabile sulla società, che è svolto da un revisore o da una so­cietà di revisione. Tuttavia, nelle società che non fanno ricorso al mer­cato del capitale di rischio e che non siano tenute alla redazione del bi­lancio consolidato, lo statuto può attribuire al collegio sindacale il com­pito di svolgere il controllo contabile sulla società. In tal caso, tuttavia, è necessario che tutti i membri del collegio siano iscritti nel registro dei revisori contabili, istituito presso il Ministero della Giustizia (art. 2409-bis, comma 3, c.c.).

La funzione di controllo attribuita al collegio sindacale ha una por­tata assai ampia, interessando non solo l'attività di gestione svolta dagli amministratori, ma m generale la complessiva struttura organizzativa del­l'ente, ivi inclusa l'attività dell'assemblea.

Tale conclusione trova riscontro nella previsione della necessaria

partecipazione del collegio sindacale alle adunanze dei soci, degli ammi­nistratori e del comitato esecutivo, ove presente (art. 2405, comma 1, c.c.), nonché nel riconoscimento del diritto di impugnare le rispettive de­libere, ma anche nella possibilità, per i membri del collegio, di proce­dere, in qualsiasi momento ed anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo (art. 2403-tò, comma 1, c.c.). Nello svolgimento dei loro compiti i sindaci possono avvalersi di propri dipendenti e ausiliari.

In questo contesto, assumono rilevanza anche gli obblighi di infor­mazione nei confronti del collegio gravanti sugli amministratori, nonché la previsione di costanti flussi informativi tra il collegio ed altri organi. Sotto tale ultimo profilo, difatti, si riconosce al collegio la possibilità di (art. 2403-tó, comma 2, c.c.):

- chiedere agli amministratori notizie ed informazioni, anche con rife­rimento a società controllate, sull'andamento delle operazioni sociali o sul compimento di singoli affari, ferma restando la possibilità, per gli am­ministratori, di rifiutare ai dipendenti ed ausiliari dei sindaci l'accesso ad informazioni riservate (art. 2403 -bis, comma 5, c.c.);

- scambiare informazioni sia con i corrispondenti organi delle società controllate in merito ai sistemi di amministrazione e di controllo, al fine di verificare il generale andamento dell'attività sociale, sia con i soggetti cui è attribuito il controllo contabile esterno (art. 24Q9-septies c.c.).

Risponde all'esigenza di assicurare una efficace attività di vigilanza an­che la normativa dettata con riguardo ai poteri spettanti al collegio ed ai doveri su di esso gravanti nell'espletamento del proprio ufficio.

Quanto ai primi, si è già detto del potere (rectius, potere-dovere) del collegio di compiere atti di ispezione e di controllo. Tale organo, inol­tre, può, previa comunicazione al presidente del consiglio di ammini­strazione, convocare l'assemblea, qualora nell'espletamento del proprio incarico ravvisi fatti di rilevante gravita in ordine ai quali vi sia urgente necessità di provvedere (art. 2406, comma 2, c.c.).

Al collegio sindacale è, poi, riconosciuta la possibilità di promuovere il controllo giudiziario sulla gestione sociale, laddove vi sia il fondato sospetto che gli amministratori abbiano commesso delle irregolarità nell'espletamento del proprio incarico (art. 2409, comma 7, c.c.).

Per quanto concerne i principali doveri gravanti sul collegio, occorre evidenziare che:

- in caso di omissione o di ingiustificato ritardo degli amministratori, il collegio sindacale deve convocare l'assemblea ed eseguire le pubblica­zioni previste dalla legge (art. 2406, comma 1, c.c.);

- in caso di denunzia da parte di tanti soci che rappresentino almeno il cinque per cento del capitale sociale (o il due per cento nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio), il collegio deve in­dagare senza ritardo sui fatti denunziati e presentare le proprie conclu­sioni all'assemblea; laddove non si raggiungano le percentuali su richia­mate (o le minori percentuali previste dallo statuto), il collegio deve co­munque tenere conto delle segnalazioni ricevute nella propria relazione all'assemblea (art. 2408, comma 2, c.c.);

- nelle società quotate, il collegio ha l'obbligo di segnalare tempestiva­mente alla Consob le irregolarità riscontrate nel corso dell'attività di vigi­lanza (art. 150 TUF).

La violazione dei doveri su di essi gravanti comporta, per i membri del collegio sindacale, una responsabilità che, per molti versi, è assai si­mile a quella degli amministratori.

Tralasciando i profili penalistici di un'eventuale responsabilità dei mem­bri del collegio, occorre evidenziare che, in ambito civilistico, i sindaci devono, al pari degli amministratori, espletare il proprio ufficio con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell'incarico. In parti­colare, essi sono responsabili per la verità delle proprie attestazioni, e de­vono conservare il segreto sui fatti e documenti di cui siano a conoscenza per ragione del loro ufficio (art. 2407, comma 1, c.c.).

I sindaci sono, inoltre, solidalmente responsabili con gli amministra­tori per i fatti e le omissioni di questi, qualora il danno non si sarebbe prodotto laddove avessero vigilato in conformità agli obblighi su di essi gravanti (art. 2407, comma 2, c.c.). Alla luce di tale previsione, deve ri­tenersi che i membri del collegio sono, viceversa, responsabili in via esclu­siva, seppure con vincolo di solidarietà tra loro, per tutti i danni che non siano ricollegabili ad un fatto illecito degli amministratori, bensì unica­mente ad un mancato o negligente adempimento dei loro doveri.

Quanto all'azione di responsabilità nei confronti dei sindaci, sono ri­chiamate, in quanto compatibili, le norme dettate in materia di responsabi­lità degli amministratori (art. 2407, comma 3, c.c.).

// controllo contabile

II controllo contabile sulle S.p.A. non è di spettanza del collegio sin­dacale, ma di un soggetto esterno all'ente. Tale innovazione si muove nel solco di un indirizzo legislativo iniziato negli anni '70 per le sole società quotate, ed avente l'obiettivo di sottrarre il controllo contabile agli or­gani interni, per affidarlo a soggetti terzi. La situazione attuale può così riassumersi:

- nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di ri­schio, il controllo contabile è esercitato da un revisore contabile o da una società di revisione iscritti in un apposito registro istituito presso il Mi­nistero della Giustizia. Come rilevato, tuttavia, le società che non sono tenute alla redazione del consolidato possono continuare ad attribuire tale funzione al collegio sindacale (art. 2409-bis, comma 3, c.c.);

- nelle società che, pur facendo ricorso al mercato del capitale di ri­schio, non sono quotate, il controllo contabile deve essere esercitato da una società di revisione iscritta nel registro dei revisori contabili (artt. 2409-bis, comma 2, c.c. e Ili-te disp. att. c.c.)

- nelle società quotate, il controllo contabile è esercitato da una so­cietà di revisione iscritta in un albo speciale tenuto a cura della Consob (art. 161 TUF), ed avente quale esclusivo oggetto sociale l'organizzazione e la revisione contabile delle aziende.

Analogamente a quanto previsto per gli organi interni alla S.p.A., an­che per i soggetti che svolgono il controllo contabile sono individuate, oltre ai suindicati requisiti di professionalità, alcune cause di ineleggibi­lità e decadenza dall'incarico. Si prevede, difatti, che non può conferirsi tale incarico, e, se incaricati, decadono dall'ufficio, ai sindaci della so­cietà, delle società controllate o della società controllante, nonché a co­loro che siano ineleggibili alla carica di sindaco (art. 24Q9-quinquies, comma 1, c.c.). Lo statuto, inoltre, può prevedere ulteriori cause di ine­leggibilità e decadenza, o cause di incompatibilità (art. 24Q9-qumquies, comma 2, c.c.).

II soggetto cui è demandato il controllo contabile è nominato, per la prima volta, nell'atto costitutivo, e successivamente dall'assemblea (sen­tito il collegio sindacale; art. 24Q9-quater, comma 1, c.c.). Nelle società quotate, l'incarico è conferito dall'assemblea, previo parere del collegio sindacale, in occasione dell'approvazione del bilancio. In mancanza, prov­vede la Consob (art. 159 TUF).

L'incarico è conferito per tre esercizi, rinnovabili per non più di due volte nelle società quotate, e può essere revocato solo per giusta causa, sempre dopo aver sentito il collegio sindacale. La deliberazione assem­bleare di revoca deve, inoltre, essere approvata con decreto del tribunale, sentito l'interessato (art. 24Q9-quater, commi 2 e 3, c.c.).

Nelle società quotate, non è richiesta l'approvazione del tribunale,

ma la società deve contestualmente provvedere ad incaricare altra società di revisione (art. 159 TUF).

Le deliberazioni di conferimento e di revoca dell'incarico devono es­
sere iscritte nel Registro delle Imprese e, per le società quotate, vanno trasmesse alla Consob.

Alla stregua della normativa codicistica, le funzioni svolte dal soggetto incaricato del controllo contabile sono le seguenti (art. 2409-ter c.c.):

- verifica, nel corso dell'esercizio e con periodicità almeno trimestrale, della regolare tenuta delle scritture contabili e della corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione;

- verifica della rispondenza del bilancio di esercizio (e del consoli­dato, ove redatto) alle risultanze delle scritture contabili e degli accerta­menti eseguiti, nonché della conformità del bilancio stesso alle norme che lo disciplinano;

- predisposizione di una relazione sul bilancio di esercizio (e del consolidato, ove redatto), da depositare presso la sede sociale.

Per consentire al soggetto deputato al controllo contabile di adem­piere ai propri compiti, è riconosciuta a quest'ultimo non solo la pos­sibilità di richiedere documenti e notizie agli amministratori, ma anche quella di disporre ispezioni. L'attività svolta è documentata in un ap­posito libro tenuto presso la sede sociale (art. 2409-ier, comma 3, c.c.). E altresì prescritto un costante flusso informativo tra l'organo di con­trollo esterno ed il collegio sindacale, prevedendosi il reciproco scam­bio dei dati e delle notizie rilevanti ai fini dell'espletamento dei rispet­tivi compiti.

Per quanto attiene alle responsabilità di chi esercita il controllo esterno, trovano applicazione le norme dettate in materia di responsabilità del collegio sindacale, prevedendosi che tale soggetto è responsabile nei con­fronti della società, dei soci e dei terzi per i danni derivanti dall'inadempi­mento dei propri doveri.

Se il controllo contabile è affidato ad una società di revisione, le per­sone che hanno materialmente effettuato il controllo contabile sono solidalmente responsabili con la società medesima.

Il termine per esercitare l'azione di responsabilità è di cinque anni dalla cessazione dell'incarico.

I sistemi alternativi di amministrazione e di controllo. Il sistema dua­listico

La S.p.A. può adottare, in luogo del sistema tradizionale, uno dei due sistemi alternativi di amministrazione e di controllo previsti dal legisla­tore, il sistema cosiddetto «dualistico» e quello cosiddetto «monastico>>. In entrambi i casi, come in precedenza evidenziato, è, tuttavia, necessa­ria un'apposita clausola statutaria.

Nel sistema dualistico, è prevista la presenza di due organi deputati all'amministrazione ed al controllo dell'ente, il consiglio di gestione ed il consiglio di sorveglianza, mentre il controllo contabile è affidato ad un revisore contabile o ad una società di revisione.

Il consiglio di gestione svolge le funzioni amministrative (rectius, di natura gestoria) che, nel sistema tradizionale, sono di spettanza del con­siglio di amministrazione. Poiché è sancita l'applicabilità al consiglio di gestione della maggior parte delle norme dettate con riferimento al consi­glio di amministrazione (art. 2409-undecies c.c.), è opportuno, in questa sede, richiamare brevemente quelli che sono gli elementi che differen­ziano il primo dal secondo.

Il consiglio di gestione è costituito di un numero di componenti, an­che non soci, non inferiore a due. Essi sono nominati per la prima volta nell'atto costitutivo e, in seguito, dal consiglio di sorveglianza, che ne de­termina anche il numero nei limiti fissati dallo statuto (art. 2409-novies. commi 2 e 3, c.c.).

I membri del consiglio di gestione non possono essere nominati consi­glieri di sorveglianza. L'incarico può avere una durata non superiore a tre esercizi, ma è rinnovabile, salvo diversa previsione statutaria. I com­ponenti possono essere revocati in qualunque momento dal consiglio di sorveglianza anche senza giusta causa, fatto salvo, m tal caso, il diritto al risarcimento dei danni. Se, nel corso dell'incarico, vengono a mancare uno o più componenti del consiglio di gestione, non si da luogo a coop­tazione, dovendo essi essere sostituiti senza indugio dal consiglio di sor­veglianza.

Come rilevato, al consiglio di gestione spetta, in via esclusiva, la fun­zione di compiere le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale. Esso può delegare le proprie attribuzioni ad uno o più dei suoi componenti, secondo quanto previsto per il consiglio di amministrazione (art. 2409-^0^^5 c.c.).

I consiglieri di gestione sono responsabili per il diligente adempimento

dei loro doveri sia nei confronti della società, sia nei confronti dei sin­goli soci. La disciplina applicabile al riguardo è quella dettata per l'azione di responsabilità nei confronti dei membri del consiglio di amministra­zione (artt. 2393 e 2393-te c.c., richiamati dall'alt. 2409-deàes, comma 1, c.c.).

Una significativa differenza rispetto al sistema tradizionale sta nel ri­conoscimento anche al consiglio di sorveglianza del potere di promuo­vere l'azione di responsabilità nei confronti dei consiglieri di gestione: la relativa deliberazione deve essere assunta dalla maggioranza dei suoi mem­bri e, se approvata con il voto favorevole di almeno i due terzi dei com­ponenti in carica, comporta la revoca d'ufficio del consigliere di gestione (art. 2409-decies, comma 2, c.c.). Il termine per esercitare l'azione è di cinque anni dalla cessazione del consigliere di gestione dall'incarico (art. 2409-decies, comma 3, c.c.).

Il consiglio di sorveglianza può, analogamente a quanto previsto per le S.p.A. nel sistema tradizionale, rinunziare all'azione di responsabilità o raggiungere una transazione con il consigliere di gestione (art. 2409-decies, comma 4, c.c.). La rinunzia all'azione (ma non la transazione) da parte del consiglio di sorveglianza (o della società) non preclude, tutta­via, la possibilità di esperire l'azione di responsabilità da parte dei soci di minoranza o dei creditori sociali (art. 2409-decies, comma 5, c.c.).

Si può, a questo punto, passare all'esame della disciplina relativa al consiglio di sorveglianza.

Tale organo è costituito da un numero di componenti, anche non soci, fissato nello statuto e comunque non inferiore a tre (art. 2409-duodedes, comma 1, c.c.). I consiglieri di sorveglianza sono nominati, per la prima volta, nell'atto costitutivo ed, in seguito, dall'assemblea dei soci, la quale ne determina anche il numero nei limiti previsti dallo statuto (art. 2409-duodecies, comma 2, c.c.). L'assemblea nomina anche il presidente del consiglio di sorveglianza, i cui poteri sono fissati dallo statuto (art. 2409-duodeties, commi 8 e 9, c.c.).

Quanto ai requisiti necessari per accedere alla carica, si prevede che almeno un componente debba essere scelto tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero della Giustizia (art. 2409-duodedes, comma 4, c.c.).

Sono ineleggibili alla carica di consiglieri di sorveglianza e, se eletti, decadono dall'ufficio (art. 24Q9-duodecies, comma 10, c.c.): a) coloro che si trovino nelle condizioni di ineleggibilità previste per i membri del con­siglio di amministrazione; b) i componenti del consiglio di gestione; e) coloro che sono legati alla società (o alle società controllate, alle control­lanti, o a quelle sottoposte al comune controllo) da un rapporto di la­voro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d'o­pera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l'indipendenza.

Lo statuto può prevedere ulteriori requisiti di professionalità, onorabili­tà ed indipendenza, così come ulteriori cause di decadenza o ineleggibi­lità, o cause di incompatibilità, limiti e criteri per il cumulo degli incari­chi (art. 24Q9-duodedes, commi 6 e 11, c.c.).

I consiglieri di sorveglianza restano in carica per tre esercizi e sono rieleggibili, salvo diversa previsione dello statuto. Essi sono revocabili, in qualunque tempo, con deliberazione assembleare, adottata con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale, ma hanno diritto al risarcimento dei danni qualora la revoca avvenga senza giusta causa (art. 2409-duodecies, comma 5, c.c.). Se, nel corso dell'incarico, vengono a mancare uno o più componenti del consiglio di sorveglianza, non si da luogo a cooptazione, dovendo essi essere sostituiti senza indugio dall'as­semblea (art. 24Q9-duoded.es, comma 7, c.c.).

Del tutto peculiari sono le funzioni svolte dal consiglio di sorveglianza.

Da un lato, al consiglio di sorveglianza (ed ai suoi membri) si applica la maggior parte delle norme dettate per il collegio sindacale (art. 2409-quaterdecies, comma 1, c.c.). Il parallelismo tra i due organi emerge dal­l'esame di alcune funzioni spettanti al consiglio di sorveglianza:

- l'obbligo di vigilare sull'osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, ed, in particolare, sul­l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adot­tato dalla società e sul suo concreto funzionamento (art. 2403, comma 1, c.c., richiamato dall'ari. 24Q9-terdecies, comma 1, lett. B, c.c.);

- la possibilità di presentare la denunzia al tribunale, ai sensi dell'art. 2409 c.c. (art. 2409-terdedes, comma 1, lett. E, c.c.);

- l'obbligo di riferire, per iscritto e almeno una volta l'anno, all'assem­blea sull'attività di vigilanza svolta, sulle omissioni e sui fatti censurabili rilevati (art. 24Q9-terdedes, comma 1, lett. F, c.c.);

- l'obbligo di partecipare alle assemblee e la facoltà di presenziare alle adunanze del consiglio di gestione (art. 24Q9-terdedes, comma 4, c.c.).

Dall'altro lato, il consiglio di sorveglianza svolge alcune funzioni nor­malmente spettanti all'assemblea dei soci, quali la nomina e la revoca dei consiglieri di gestione (art. 2409-£erafedes, comma 1, lett. A, c.c.) o la approvazione del bilancio di esercizio e del consolidato, ove redatto (art.

24Q9-terdecies, comma 1, lett. B, c.c.). Lo statuto può, tuttavia, prevedere che la competenza relativa all'approvazione del bilancio sia attribuita al­l'assemblea in caso di mancata approvazione del bilancio, ovvero laddove ne faccia richiesta almeno un terzo dei consiglieri di gestione o dei con­siglieri di sorveglianza (art. 24Q9-terdeàes, comma 2, c.c.).

La deliberazione del consiglio di sorveglianza di approvazione del bi­lancio può essere impugnata dai soci, a norma dell'art. 2377 c.c.

Alle altre deliberazioni si applica la normativa dettata in materia di validità delle delibere del consiglio di amministrazione (art. 2388 c.c., ri­chiamato dall'alt. 24Q9-terdecies c.c.).

I consiglieri di sorveglianza devono adempiere ai loro doveri con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico. I componenti del consiglio di sorveglianza sono solidalmente responsabili con i membri del consiglio di gestione per i fatti o le omissioni di questi ultimi, in tutti i casi in cui il danno non si sarebbe prodotto laddove essi avessero vigilato in confor­mità agli obblighi della loro carica (art. 24Q9-terdecies, comma 3, c.c.).

I membri del consiglio di sorveglianza sono responsabili in via esclu­siva, seppure con vincolo di solidarietà tra loro, per tutti i danni che non siano ricollegabili ad un fatto illecito dei consiglieri di gestione, bensì unicamente ad un mancato o negligente adempimento dei loro doveri. L'azione di responsabilità è deliberata dall'assemblea.

// sistema monistico

Nel sistema monistico, le funzioni di amministrazione e di controllo sono attribuite a due organi, il consiglio di amministrazione ed il comi­tato per il controllo della gestione, costituito all'interno del primo (da qui l'appellativo di sistema «monistico»), e titolare di compiti spettanti, nel sistema tradizionale, al collegio sindacale. Il controllo contabile è af­fidato, anche in questo caso, ad un soggetto esterno, revisore contabile o società di revisione.

L'elemento, quindi, che caratterizza il sistema monistico è la presenza, salvo diversa disposizione dello statuto, di un organo di controllo com­posto da alcuni dei membri dell'organo di gestione, e, da quest'ultimo, nominato: in altre parole, si riconosce ai controllati la possibilità di no­minare i propri controllori (rectius, di essere al tempo stesso controllori).

II consiglio di amministrazione è l'organo deputato, in via esclusiva, alla gestione dell'ente. Ad esso si applica la normativa dettata per il corrispondente organo del sistema tradizionale (art. 24Q9-noviesdedes c.c.).

Va segnalato, tuttavia, che per almeno un terzo dei suoi componenti devono ricorrere le condizioni previste dall'art. 2399, comma 1, c.c., per l'eleggibilità dei sindaci, fatti salvi eventuali ulteriori requisiti previsti dallo statuto e mutuati dai codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati (art. 2409-sep-tiesdecies c.c.).

Tale previsione si spiega ricordando che il comitato per il controllo della gestione è costituito all'interno del consiglio di amministrazione, organo al quale spetta, fatta salva una diversa previsione statutaria, an­che la determinazione del numero e la nomina dei componenti del co­mitato (art. 24Q9-octiesdeties, comma 1, c.c.).

Questi ultimi, peraltro, devono essere scelti tra i consiglieri in pos­sesso dei predetti requisiti di indipendenza, oltre che dei requisiti di ono­rabilità e professionalità eventualmente richiesti dallo statuto. Non pos­sono, viceversa, essere nominati nel comitato per il controllo della ge­stione i consiglieri che facciano già parte del comitato esecutivo ed ai quali siano state attribuite deleghe o particolari cariche, ovvero svolgano, anche di mero fatto, funzioni attinenti alla gestione della società, o di so­cietà controllate o controllanti (art. 24Q9-octiesdedes, comma 2, c.c.).

Almeno uno dei componenti del comitato deve essere scelto tra gli iscritti al registro dei revisori contabili (art. 24Q9-octiesdecies, comma 3, c-c.).

Nel caso in cui un componente del comitato venga a cessare, il con­siglio di amministrazione provvede alla sua sostituzione con un altro consigliere di amministrazione in possesso dei requisiti fissati dalla legge; qualora ciò non sia possibile, procede alla cooptazione di un esterno a norma dell'ari. 2386 c.c., ferma restando l'esigenza di scegliere una per­sona in possesso dei requisiti medesimi (art. 24Q9-octiesded.es, comma 4, c.c.).

Il comitato per il controllo sulla gestione elegge, a maggioranza asso­luta e tra i propri membri, il presidente.

Le attribuzioni proprie del comitato sono assai simili, come detto, a quelle del collegio sindacale, dovendo tale organo vigilare sull'adegua­tezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua ido­neità a rappresentare correttamente i fatti di gestione. Deve, inoltre, svol­gere gli ulteriori compiti affidati dal Consiglio di amministrazione, con particolare riguardo ai rapporti con l'organo deputato al controllo con­tabile (art. 24Q9-octiesdeties, comma 5, c.c.).

II bilancio

Il bilancio di esercizio. - 97. La struttura del bilancio. - 98. Utili. Riserve.

// bilancio di esercizio

II bilancio di esercizio è il documento contabile che illustra la situa­zione patrimoniale e finanziaria della S.p.A. alla fine di ciascun esercizio, nonché il risultato economico dell'esercizio stesso, ovvero l'indicazione degli utili conseguiti e delle perdite subite. Deve essere redatto annual­mente.

La principale funzione del bilancio di esercizio è, pertanto, quella di fotografare l'effettiva consistenza del patrimonio sociale, anche per quanto attiene alle prospettive di sviluppo dell'attività di impresa.

Di non minore importanza è la funzione informativa cui assolve il bilancio di esercizio: ove si tenga conto del fatto che la gestione della società è attribuita all'organo amministrativo e che i soci si pronunciano solo in ordine alle decisioni di maggior rilievo della vita dell'ente, è age­vole comprendere che il bilancio di esercizio è lo strumento diretto a ga­rantire la corretta e periodica informazione dell'intera comine sulla situazione patrimoniale della società.

II bilancio esplica la propria funzione informativa anche all'esterno della società. Si pensi, ad esempio, ai terzi che intendano acquisire una partecipazione azionaria: essi valuteranno il tasso di rischio del proprio investimento anche alla luce della situazione patrimoniale della società ri­sultante dal bilancio. Il bilancio di esercizio assume rilevanza anche in ambito tributario, atteso che l'individuazione del reddito imponibile sul quale applicare l'aliquota fiscale avviene alla stregua degli elementi red­dituali indicati in bilancio.

In considerazione delle molteplici funzioni cui assolve il bilancio di esercizio, è necessario che esso delinei la situazione patrimoniale della so­cietà in maniera quanto più possibile chiara, veritiera e corretta. Tale esi­genza è espressamente riconosciuta dal legislatore, il quale ha previsto che il bilancio «deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società ed il risultato economico dell'esercizio» (art. 2423, comma 2, c.c.).

I principi cardine che presiedono alla redazione del bilancio sono, quindi, quelli della chiarezza, della verità e della correttezza: se la rile­vanza del primo trova riscontro nella disciplina riguardante la struttura ed il contenuto del bilancio, gli altri due emergono con evidenza dall'e­same della normativa in materia di valutazione dei cespiti patrimoniali. In particolare, il principio di chiarezza richiede che il bilancio abbia la composizione e le voci previste dalla legge. Il principio di verità, colle­gato a quello di correttezza, sta ad indicare che le valutazioni devono es­sere conformi ai criteri previsti dalla legge.

L'importanza, riconosciuta dal legislatore, ai principi di verità e cor­rettezza del bilancio, si evince anche dalla previsione secondo la quale, laddove le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge non siano sufficienti a garantire una rappresentazione veritiera e corretta, si devono fornire le informazioni complementari necessarie a tale scopo (art. 2423, comma 3, c.c.).

I principi su esposti non esauriscono, tuttavia, il novero di quelli pre­scritti in materia di redazione del bilancio di esercizio.

Onde evitare l'indicazione in bilancio di utili non effettivamente conse­guiti, si dispone che la valutazione delle voci di bilancio debba essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell'attività.

La predetta valutazione deve tenere conto anche della funzione economi­ca dell'elemento dell'attivo o del passivo considerato: in altre parole, lad­dove la considerazione di tale aspetto (la concreta funzione economica dell'elemento patrimoniale) suggerisca una valutazione difforme rispetto a quella che deriverebbe dall'applicazione dei criteri formali di iscrizione in bilancio, la valutazione «sostanziale» dovrà prevalere rispetto a quella «formale» (art. 2423-bis, comma 1, n. 1, c.c.).

II bilancio di esercizio, inoltre, è un bilancio di competenza, e non un bilancio di cassa. Si prevede, difatti, che in sede di redazione occorre tener conto delle entrate e delle uscite di competenza dell'esercizio, indipendentemente dalla rispettiva data di incasso o di amento (art. 2423-bis, comma 1, n. 3, c.c.). Analoga previsione è dettata con riferi­mento ai rischi ed alle perdite, i quali vanno indicati solo se di compe­tenza dell'esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura di questo (art. 2423-bis, comma 1, n. 4, c.c.).

I criteri di valutazione non possono essere modificati da un esercizio all'altro (art. 2423-bis, comma 1, n. 5, c.c.), se non in casi eccezionali ed a condizione che, nella nota integrativa, siano indicate sia le ragioni della deroga, sia la misura in cui quest'ultima ha influito sulla situazione pa­trimoniale e finanziaria, nonché sul conto economico.

La materia è, peraltro, oggetto di continua evoluzione anche per ef­fetto delle indicazioni del legislatore comunitario.

Accanto al bilancio di esercizio, la disciplina prevede che siano redatti altri bilanci, in particolari circostanze: ad es. bilancio di fusione, bilancio di liquidazione, ecc.

La struttura del bilancio

II bilancio di esercizio consta di tre documenti: lo stato patrimoniale, il conto economico e la nota integrativa. Ad esso sono allegate la rela­zione sulla gestione, redatta dagli amministratori, e le relazioni del col­legio sindacale e del revisore contabile.

Per quanto attiene allo stato patrimoniale ed al conto economico, il legislatore ha puntualmente indicato le diverse voci che li compongono, pre­cisando che, accanto a ciascuna di esse, deve essere indicato l'importo della corrispondente voce dell'anno precedente (art. 2423-ter, comma 5, c.c.).

La funzione dello stato patrimoniale è quella di rappresentare la situa­zione economica e finanziaria della società al termine dell'esercizio. Le voci dello stato patrimoniale (art. 2424 c.c.) sono distinte in «Attivo» e «Passivo». I punti salienti della disciplina sono i seguenti:

- con riguardo all'attivo, gli elementi destinati ad essere utilizzati dure­volmente devono essere iscritti tra le immobilizzazioni;

- qualora vi siano elementi dell'attivo destinati ad essere alienati, essi devono essere inseriti nella voce «Attivo circolante», che comprende, ol­tre alle rimanenze, anche i lavori in corso su ordinazione, i crediti a breve distinti secondo il soggetto debitore, le attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni e le disponibilità liquide;

- nell'attivo, devono essere iscritti i ratei attivi e passivi,consistenti

in proventi e costi di competenza dell'esercizio ma a realizzazione dif­ferita, nonché i risconti attivi e passivi, consistenti in proventi e costi anticipatamente realizzati ma di competenza di esercizi successivi;

- il passivo si compone del patrimonio netto (capitale più riserve più/meno utili/perdite), del fondo rischi, del fondo trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato, dei debiti indicati secondo la diversa na­tura ed il soggetto creditore;

- in calce allo stato patrimoniale, devono risultare le garanzie prestate direttamente o indirettamente, distinguendosi tra fideiussioni, avalli, altre garanzie personali e garanzie reali, ed indicando separatamente, per cia-scun tipo, le garanzie prestate in favore delle altre società del gruppo.

Trovano, poi, puntuale disciplina anche i criteri che devono essere se­guiti nella valutazione dei differenti elementi che compongono il patrimo­nio sociale (art. 2426 c.c.).

La funzione del conto economico, viceversa, è quella di evidenziare il risultato economico dell'esercizio, ovvero le variazioni intervenute nel periodo ricompreso tra la chiusura dell'esercizio precedente e la chiusura dell'esercizio successivo. In tale ambito, diviene necessaria la valorizza­zione sia dei costi e degli oneri sostenuti, sia dei ricavi e degli altri pro­venti conseguiti nell'esercizio.

Il terzo documento di cui si compone il bilancio di esercizio è la nota integrativa, che viene redatta al fine di illustrare ed integrare i dati con­tenuti nello stato patrimoniale e nel conto economico, mediante l'allega­zione delle informazioni specificamente richieste dal legislatore nell'art. 2427 c.c.

Non fanno parte del bilancio, ma sono ad esso allegate, la relazione sulla gestione, redatta dagli amministratori, e le relazioni del collegio sin­dacale e del revisore contabile.

La relazione sulla gestione ha ad oggetto la situazione della società e l'andamento della gestione, nel suo complesso e nei vari settori in cui essa ha operato, anche attraverso imprese controllate, con particolare ri­guardo ai costi, ai ricavi ed agli investimenti. Anche con riferimento a tale documento, sono puntualmente elencati i dati che devono essere obbligatoriamente indicati (art. 2428 c.c.).

Una specifica disciplina è, poi, prevista per le società quotate. Da un lato, difatti, si prescrive agli amministratori di redigere una ulteriore re­lazione redatta sulla base dei criteri stabiliti dalla Consob, la quale deve essere trasmessa al collegio sindacale, entro tre mesi dalla fine del primo semestre dell'esercizio, e successivamente pubblicata nei termini e con le modalità previste dalla Consob. Dall'altro, gli amministratori devono tra­smettere al collegio sindacale, con cadenza almeno trimestrale, una rela­zione sull'attività svolta e sulle operazioni di maggior rilievo effettuate sia dalla società, sia dalle controllate, con particolare riguardo alle ope­razioni in potenziale conflitto di interessi (art. 150 TUF).

II progetto di bilancio, redatto dagli amministratori (o dal consiglio di gestione), deve essere comunicato al collegio sindacale (o comunque all'organo di vigilanza) almeno trenta giorni prima della data fissata per l'assemblea (art. 2429, comma 1, c.c.). Il collegio sindacale, a sua volta, deve redigere una relazione sui risultati dell'esercizio sociale e sull'atti­vità svolta nell'adempimento dei propri doveri, illustrando le proprie os­servazioni e proposte in ordine al bilancio ed alla sua approvazione. Ana­loga relazione deve essere predisposta dal soggetto incaricato del con­trollo contabile (art. 2429, comma 2, c.c.).

Tutti i predetti documenti (progetto di bilancio, relazioni degli ammini­stratori, del collegio sindacale e del soggetto incaricato del controllo contabile), unitamente alle copie integrali dell'ultimo bilancio delle so­cietà controllate ed al prospetto riepilogativo dell'ultimo bilancio delle società collegate, devono rimanere depositati presso la sede della società nei quindici giorni che precedono l'assemblea e finché il bilancio non sia approvato, con facoltà dei soci di prenderne visione (art. 2429, comma 3, c.c.).

Per l'approvazione del progetto di bilancio redatto dagli ammini­stratori, è necessaria la deliberazione dell'assemblea ordinaria.

Nelle S.p.A. che adottano il sistema di amministrazione e controllo dualistico, il bilancio è approvato dal consiglio di sorveglianza (art. 24^-ter de de s, comma 1, lett. B, c.c.), fatti salvi i casi in cui lo statuto preveda l'approvazione da parte dell'assemblea nell'ipotesi di mancata approvazione da parte del consiglio di sorveglianza, ovvero laddove ne facciano richiesta almeno un terzo dei componenti del consiglio di gestione o del consiglio di sorveglianza (art. 2409-terdecies, comma

2, c.c.).

È prevista una specifica disciplina in materia di invalidità della deli­berazione di approvazione del bilancio (art. 2434-^zs c.c.).

In primo luogo, è esclusa l'impugnabilità della deliberazione qualora sia approvato il bilancio relativo all'esercizio successivo. Inoltre, laddove il soggetto incaricato del controllo contabile non abbia formulato rilievi in merito al progetto di bilancio redatto dagli amministratori, la legit­timazione all'impugnazione spetta a tanti soci che rappresentino almeno il cinque per cento del capitale sociale (nonché alla Consob per le sole società quotate, art. 157 TUF): si tratta, evidentemente, di un limite in­trodotto al fine di evitare l'impugnazione del bilancio da parte del sin­golo azionista, a scopi meramente ostnizionistici.

II bilancio dell'esercizio nel corso del quale è stata dichiarata l'invali­dità tiene conto anche delle ragioni di questa (art. 2434-bis, comma 3, c.c.).

Nei trenta giorni successivi all'approvazione, devono essere depositati presso il Registro delle Imprese (o spediti a mezzo di raccomandata), a cura degli amministratori, i seguenti documenti (art. 2435, comma 1, c.c.):

- copia del bilancio approvato;

- le relazioni degli amministratori, del collegio sindacale e del sog­getto incaricato del controllo contabile;

- copia del verbale di approvazione dell'assemblea o del consiglio di sorveglianza.

Occorre sottolineare, in proposito, che l'approvazione del bilancio non implica la liberazione degli amministratori, dei direttori generali e dei sindaci, per le responsabilità incorse nella gestione sociale (art. 2434 c.c.).

Esaminate le principali questioni in materia di bilancio di esercizio, è opportuno soffermarsi brevemente sul bilancio in forma abbreviata.

Le prescrizioni su esposte in materia di struttura del bilancio di eser­cizio non trovano applicazione in presenza di alcuni presupposti speci­ficamente indicati dal legislatore, ricorrendo i quali le modalità di reda­zione del bilancio sono semplificate.

In particolare, alle società di minori dimensioni, i cui titoli non siano negoziati sui mercati regolamentati, si consente la redazione del bilancio in forma abbreviata. In tale ipotesi, i tre documenti di cui si compone il bilancio (stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa) hanno un contenuto semplificato rispetto a quello di regola prescritto. La reda­zione della relazione sulla gestione non è, inoltre, obbligatoria, qualora la nota integrativa contenga le informazioni richieste dai nn. 3 e 4 del-l'art 2428 c.c. (art. 2435-tò c.c.).

Utili. Riserve

Nel caso in cui l'esercizio sociale si sia chiuso con degli utili per la società, l'assemblea, che approva il bilancio, delibera anche sulla distri­buzione degli utili. Laddove sia adottato il sistema di amministrazione e controllo dualistico, tale decisione spetta all'assemblea convocata dal con­siglio di sorveglianza (art. 2433, comma 1, c.c.).

Diversamente da quanto accade nelle società di persone, nelle S.p.A. il diritto dei soci all'assegnazione degli utili non nasce in seguito alla approvazione del bilancio, essendo necessaria una ulteriore e specifica de­liberazione assembleare di distribuzione degli utili, che così divengono dividendi.

Tuttavia, l'autonomia dell'assemblea non è, sul punto, assoluta.

Vi sono alcuni casi in cui gli utili conseguiti non possono essere di­stribuiti ai soci, in considerazione dei vincoli di destinazione fissati dalla legge o dall'atto costitutivo.

Si consideri, ad esempio, il caso in cui l'esercizio sociale precedente si sia chiuso con delle perdite che abbiano intaccato il capitale sociale: in tal caso, non può darsi luogo alla distribuzione degli utili finché il capi­tale sociale non sia stato reintegrato.

Tra gli ulteriori vincoli posti dalla legge, vi sono quelli in materia di riserva legale: si prevede, difatti, che dagli utili netti annuali debba essere detratta una somma pari ad almeno il cinque per cento degli stessi, fino a quando le somme accantonate, costituenti la riserva legale, non rag­giungano un importo pari al venti per cento del capitale sociale (art. 2430, comma 1, c.c.). Laddove la riserva legale diminuisca per qualsiasi ragione, essa deve essere reintegrata fino al raggiungimento del predetto ammon­tare del quinto del capitale sociale (art. 2430, comma 2, c.c.).

Lo statuto può, inoltre, prevedere che, oltre alla riserva legale, siano accantonate ulteriori somme a titolo di riserva statutaria. In tal caso, la percentuale degli utili annuali da accantonare è fissata direttamente dallo statuto.

Anche le somme accantonate a titolo di riserva statutaria non pos­sono essere distribuite ai soci, se non previa deliberazione dell'assemblea straordinaria modificativa dello statuto.

L'assemblea, in sede di approvazione del bilancio, può discrezional­mente disporre la costituzione di riserve facoltative, le quali, laddove non intaccate, possono essere utilizzate per distribuire utili ai soci negli eser­cizi successivi.

Un breve cenno deve essere svolto con riferimento alle conseguenze derivanti dalla distribuzione di utili fittizi, ovvero non realmente conse­guiti. In tal caso, la deliberazione assembleare di distribuzione è nulla per illiceità dell'oggetto, mentre gli amministratori ed i sindaci sono re­sponsabili anche penalmente (art. 2627 c.c.). Si prevede, tuttavia, che i soci non debbano restituire i dividendi riscossi per utili non realmente conseguiti allorquando:

- erano in buona fede al momento della riscossione;

- i dividendi sono stati distribuiti in base ad un bilancio regolarmente approvato;

- dal bilancio risultavano utili netti corrispondenti.

Sezione sesta Le modifiche dello statuto

Le modifiche dello statuto. Il recesso del socio. - 100. Le mo­dificazioni del capitale sociale. L'aumento del capitale. - 101. La riduzione del capitale sociale.

Le modifiche dello statuto. Il recesso del sodo

II contratto sociale, intendendosi con tale locuzione fare riferimento sia all'atto costitutivo, sia allo statuto, può essere modificato nel corso della vita dell'ente. Le modifiche possono essere originate, ad esempio, dalla necessità di adeguamento alle mutate esigenze imprenditoriali (mu­tamento dell'oggetto sociale), alla situazione economico-finanziaria del­l'ente (variazioni del capitale sociale) o ad altri avvenimenti che riguar­dano la vita sociale (il recesso di un socio).

Come in precedenza precisato, le modifiche dello statuto sono, di regola, adottate con deliberazione dell'assemblea straordinaria. Avendo già esaminato le regole da seguire nell'ambito di tale categoria di deli­bere, in questa sede è opportuno sottolineare che, dopo ogni modifica dello statuto, occorre depositarne, presso il Registro delle Imprese, il te­sto integrale nella sua redazione aggiornata (art. 2436, comma 6, c.c.).

In taluni casi, la modifica dello statuto legittima i soci a recedere dalla società. In particolare, l'art. 2437 c.c. prevede una distinzione tra le cause di recesso non eliminabili dallo statuto e quelle la cui applicabilità è su­bordinata alla mancanza di una diversa previsione statutaria. Ad esse, si aggiungono le cause di recesso previste per le società che fanno parte di un gruppo (art. 2497-quater c.c.).

Con riferimento alle cause di recesso inderogabili, è previsto (art. 2437,

comma 1, c.c.) che il diritto di recesso, per tutte o parte delle azioni, spetti ai soci che non hanno concorso alla approvazione delle delibera­zioni riguardanti:

- la modifica della clausola statutaria relativa all'oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell'attività della società;

- la trasformazione della società;

- il trasferimento della sede sociale all'estero;

- la revoca dello stato di liquidazione;

- l'eliminazione di una o più cause di recesso statutariamente previste;

- la modifica dei criteri di determinazione del valore dell'azione in caso di recesso;

- le modifiche dello statuto in materia di diritto di voto o di parte­cipazione.

Il patto volto ad escludere o rendere più gravoso l'esercizio del di­ritto di recesso nelle ipotesi su indicate è nullo (art. 2437, comma 6, c.c.).

È riconosciuto, inoltre, il diritto di recesso anche ai soci delle società quotate che non abbiano concorso all'approvazione della deliberazione che comporta l'esclusione della società dalla quotazione (artt. 2M>l-quin-quies c.c. e 131 TUF).

Fatta salva una diversa previsione statutaria, hanno, poi, diritto di re­cesso, ma solo per la totalità delle azioni possedute, i soci che non hanno concorso all'approvazione delle deliberazioni riguardanti (art. 2437, comma 2, c.c.):

- la proroga del termine;

- l'introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli.

Nelle società costituite a tempo indeterminato, le cui azioni non sono quotate in un mercato regolamentato, il socio può recedere con un preavvi­so di centottanta giorni, prolungabile dallo statuto sino ad un anno (art. 2437, comma 3, c.c.).

Al di là delle indicazioni che possono essere rinvenute nel corpo della normativa codicistica, il legislatore ha riconosciuto un notevole spazio al­l'autonomia privata, potendo lo statuto delle società, che non fanno ri­corso al mercato del capitale di rischio, prevedere ulteriori cause di re­cesso (art. 2437, comma 4, c.c.).

Ai fini dell'esercizio del diritto di recesso, il socio deve rispettare i termini e le formalità prescritte dal legislatore. Il recesso, difatti, va co­municato a mezzo di raccomandata, contenente i dati relativi al socio ed alle azioni da questi possedute. La comunicazione di recesso deve essere spedita entro quindici giorni dalla adozione della deliberazione che lo legittima, ovvero entro trenta giorni dalla conoscenza, da parte del socio, del fatto, diverso da una deliberazione, che legittima il recesso (art. 2437-bis, comma 1, c.c.). Il socio non può alienare le azioni per le quali il re­cesso è stato esercitato, che devono rimanere depositate presso la sede sociale (art. 2437-bis, comma 2, c.c.).

Laddove la società provveda alla revoca della deliberazione legitti­mante il recesso o sia deliberato lo scioglimento della società, il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia (art. 2437-te, comma 3, c.c.).

A seguito della comunicazione di recesso, occorre stabilire il valore della partecipazione azionaria di proprietà del socio recedente, avendo, quest'ultimo, diritto alla liquidazione delle azioni per le quali esercita il recesso.

Nelle società non quotate, la determinazione del valore delle azioni è effettuata dagli amministratori, sentito il collegio sindacale ed il soggetto che svolge il controllo contabile, avendo come riferimento tre indici: la consistenza patrimoniale della società, le sue prospettive reddituali e l'e­ventuale valore di mercato delle azioni (art. 2437-ter, comma 2, c.c.).

Nelle società con azioni quotate, viceversa, il valore di liquidazione va calcolato avendo quale esclusivo parametro il valore medio che le azioni hanno avuto sul mercato nei sei mesi precedenti la pubblicazione ovvero la ricezione dell'avviso di convocazione dell'assemblea, le cui de­liberazioni legittimano il recesso (art. 2437-ter, comma 3, c.c.). Lo sta­tuto può, tuttavia, prevedere differenti modalità di liquidazione.

I soci hanno diritto di conoscere il valore della propria quota azio­naria nei quindici giorni precedenti alla data dell'assemblea. In caso di contestazione, da proporre con la dichiarazione di recesso, il valore è de­terminato da un esperto del tribunale, mediante relazione giurata (art. 2437-ter, comma 6, c.c.).

Le azioni del socio recedente devono essere offerte in opzione agli altri soci, in proporzione delle rispettive quote, ed agli eventuali posses­sori di obbligazioni convertibili. Solo nell'ipotesi in cui tali soggetti non acquistino le azioni offerte, queste potranno essere collocate sul mercato. Laddove non si trovino acquirenti, le azioni dovranno essere rimborsate mediante acquisto da parte della società, nel limite degli utili distribuibili e delle riserve disponibili.

Se non vi siano utili distribuibili o riserve disponibili, la società, con deliberazione dell'assemblea straordinaria, deve proporzionalmente ridurre il capitale sociale o disporre lo scioglimento della società. La delibera di riduzione del capitale può essere impugnata dai creditori sociali; in tal caso, se l'impugnazione è accolta, la società si scioglie.

Le modificazioni del capitale sociale. L'aumento del capitale

Tra le modifiche del contratto sociale più ricorrenti, vi sono quelle che interessano il capitale sociale, che può essere variato sia in aumento sia in diminuzione.

L'aumento del capitale sociale può essere sia reale (o a amento), con conseguente aumento corrispondente del patrimonio della società, sia nominale (o gratuito), ed in tal caso il patrimonio sociale rimane in­variato.

Si ha aumento reale del capitale sociale allorquando la società, al fine di reperire nuove risorse finanziarie, emette nuove azioni a amento, le quali possono essere sottoscritte sia dai soci, sia da soggetti esterni alla società. Non può, tuttavia, darsi luogo alla emissione di nuove azioni fino a quando le azioni già emesse non siano state interamente liberate (art. 2438 c.c.).

Si ha aumento nominale, viceversa, quando il capitale è aumentato uti­lizzando le riserve e gli altri fondi disponibili.

Analogamente a tutte le altre modifiche dello statuto, anche l'aumento di capitale deve essere deliberato dall'assemblea straordinaria, secondo il procedimento in precedenza esaminato.

Lo statuto, tuttavia, può attribuire agli amministratori la facoltà di au­mentare una o più volte il capitale sociale, anche con contestuale esclusio­ne o limitazione del diritto di opzione spettante ai soci, con delibera­zione consiliare, purché ricorrano le seguenti condizioni (art. 2443 c.c.): a) deve essere predeterminato l'ammontare massimo entro cui gli ammi­nistratori possono aumentare il capitale sociale; b) la delega sia conferita per un periodo non superiore a cinque anni.

Il verbale della deliberazione consiliare deve essere redatto da un no­taio ed iscritto nel Registro delle Imprese.

La deliberazione di aumento del capitale, sia assembleare sia consi­liare, deve fissare un termine, non superiore a trenta giorni dalla pub­blicazione dell'offerta, per la raccolta delle sottoscrizioni delle azioni di nuova emissione. I sottoscrittori devono, all'atto della sottoscrizione, ver­sare alla società almeno il venticinque per cento del valore nominale delle azioni sottoscritte. Se vengono conferiti beni in natura o crediti, si applicano le norme, già esaminate, di cui agli artt. 2342, commi 3 e 5, e' 2343 c.c. Nei trenta giorni successivi alla sottoscrizione, gli amministra­tori devono depositare, per l'iscrizione nel Registro delle Imprese, l'atte­stazione che l'aumento di capitale è stato sottoscritto.

Qualora le azioni di nuova emissione siano state sottoscritte solo in parte, la società può procedere all'aumento del capitale nei limiti delle azioni effettivamente sottoscritte, solamente ove tale possibilità sia pre­vista nella deliberazione di aumento (cosiddetto aumento scindibile).

In caso contrario, la sottoscrizione parziale non è vincolante né per la società né per i sottoscrittori, i quali sono liberati dall'obbligo di con­ferimento ed hanno diritto alla restituzione dei decimi precedentemente versati (art. 2439, comma 2, c.c.).

In sede di aumento di capitale, è riconosciuto ai soci il diritto di op­zione, ovvero il diritto di essere preferiti ai terzi nella sottoscrizione delle azioni di nuova emissione. Tale diritto spetta ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute (art. 2441, comma 1, c.c.).

Gli amministratori devono provvedere ad iscrivere nel Registro delle Imprese l'offerta di opzione, nella quale è indicato, in particolare, il ter­mine, non inferiore a trenta giorni dalla pubblicazione dell'offerta, entro cui i soci possono esercitare il diritto di opzione sulle azioni di nuova emissione (art. 2441, comma 2, c.c.).

Ai soci che si avvalgono del diritto di opzione, è riconosciuto il di­ritto di prelazione in ordine alla sottoscrizione delle azioni (e delle obbligazioni convertibili in azioni) rimaste inoptate, purché ne facciano con­testuale richiesta all'atto dell'esercizio dell'opzione. Nelle società quotate, i diritti di opzione non esercitati devono essere offerti in borsa dagli am­ministratori, per conto della società, per almeno cinque riunioni (art. 2441, comma 3, c.c.). Se i diritti offerti rimangono invenduti, le azioni di nuova emissione possono essere liberamente collocate sul mercato.

Ricorrendo alcune condizioni, il diritto di opzione spettante ai soci titolari di azioni può essere escluso o limitato.

In primo luogo, è escluso per legge allorquando le azioni debbano essere liberate mediante conferimenti in natura. Nelle società quotate, lo statuto può escludere il diritto di opzione nei limiti del dieci per cento del capitale sociale preesistente, a condizione che il prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato delle azioni, e ciò trovi conferma nella apposita relazione redatta dalla società incaricata della revisione contabile (art. 2441, comma 4, c.c.).

In secondo luogo, il diritto di opzione può essere escluso o limitato

«quando l'interesse della società lo esige», ma la relativa delibera deve essere approvata da tanti soci che rappresentino la maggioranza assoluta del capitale sociale (art. 2441, comma 5, c.c.).

In ultimo, esso può essere escluso o limitato, mediante delibera dell'as­semblea straordinaria, allorquando le azioni di nuova emissione debbano essere offerte in sottoscrizione ai dipendenti della società.

Qualora il diritto di opzione sia escluso per più di un quarto delle azioni di nuova emissione, la delibera deve essere approvata da tanti soci che rappresentino la maggioranza assoluta del capitale sociale.

Per quanto attiene all'aumento nominale del capitale sociale, va eviden­ziato che ad esso non corrisponde un aumento del patrimonio sociale.

In tal caso, difatti, non si da luogo a nuovi conferimenti, bensì alla uti­lizzazione delle riserve e degli altri fondi indicati a bilancio come disponi­bili (art. 2442, comma 1, c.c.), con esclusione, quindi, della riserva legale.

Vi sono due differenti modalità con le quali può essere realizzato l'au­mento nominale del capitale sociale: mediante l'aumento del valore nomi­nale delle azioni già in circolazione, ovvero mediante l'emissione di nuove azioni, assegnate gratuitamente ai soci in proporzione del numero delle azioni possedute.

La riduzione del capitale sociale

Analogamente a quanto riscontrato in materia di aumento di capitale, anche la contraria operazione di riduzione può essere nominale o reale, a seconda che vi sia (o no) una diminuzione effettiva del patrimonio so­ciale.

La riduzione reale del capitale sociale può essere disposta anche per cause diverse dall'esuberanza dello stesso rispetto al conseguimento dell'oggetto sociale. L'operazione può avvenire o mediante liberazione dei soci dall'obbligo di effettuare i conferimenti residui, o mediante rimborso ai soci del capitale. In ogni caso, il capitale non può essere ridotto al di sotto del limite minimo previsto per le S.p.A. dal codice civile (centoventimila euro) o da leggi speciali. Qualora siano state emesse obbligazioni, la riduzione reale del capitale sociale è subordinata al rispetto del limite legale all'emissione di queste ultime (art. 2413 c.c.).

La riduzione deve essere deliberata dall'assemblea straordinaria, con le maggioranze prescritte per le modificazioni dell'atto costitutivo.

L'avviso di convocazione dell'assemblea deve indicare le ragioni e le

modalità della riduzione. La deliberazione può essere eseguita solo dopo che siano decorsi tre mesi dalla data della sua iscrizione nel Registro delle Imprese. Entro tale termine, i creditori sociali possono proporre opposizione alla riduzione (art. 2445 c.c.).

Si da luogo alla riduzione nominale del capitale sociale, allorquando il patrimonio netto sia divenuto, per effetto di perdite già verificatesi, inferiore al capitale sociale nominale della società. In tali circostanze, si manifesta la necessità di adeguare il capitale nominale al valore del pa­trimonio netto, ovvero del capitale reale della società.

Si possono distinguere, al riguardo, i casi in cui la riduzione nomi­nale è facoltativa, da quelli, invece, m cui essa è obbligatoria.

La riduzione è facoltativa allorquando le perdite non determinino una diminuzione del capitale di oltre un terzo, tenuto conto ovviamente an­che delle eventuali riserve accantonate dalla società.

La riduzione è, viceversa, obbligatoria, allorquando il patrimonio netto della società sia inferiore di oltre un terzo al capitale sociale nominale.

Vi è una differente disciplina a seconda che il capitale sociale sia di­minuito o meno al di sotto del limite legale.

Laddove le perdite, pur riducendo il capitale sociale di oltre un terzo, non abbiano determinato una diminuzione dello stesso al di sotto del limi­te legale, gli amministratori (o il consiglio di gestione) o, nel caso di loro inerzia, i sindaci (o il consiglio di sorveglianza), devono senza indugio con­vocare l'assemblea affinchè essa adotti gli opportuni provvedimenti, sotto­ponendo a quest'ultima una relazione sulla situazione patrimoniale della so­cietà, corredata dal parere del collegio sindacale (art. 2446, comma 1, c.c.).

Se le perdite non si riducono a meno di un terzo entro l'esercizio successivo, l'assemblea (o il consiglio di sorveglianza) deve, in occasione dell'approvazione del bilancio, deliberare la riduzione del capitale sociale in proporzione alle perdite accertate. In mancanza, gli amministratori e i sindaci (o il consiglio di sorveglianza) devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale sociale, in ragione delle perdite risultanti dall'ultimo bilancio. Il tribunale, dopo aver sentito il pubblico ministero, provvede con decreto (soggetto a reclamo) che deve essere iscritto nel Registro delle Imprese (art. 2446, comma 2, c.c.).

Qualora la società abbia emesso azioni prive di valore nominale, lo statuto o una deliberazione dell'assemblea straordinaria possono preve­dere che la riduzione del capitale sia deliberata dal consiglio di ammini­strazione (art. 2446, comma 3, c.c.).

Laddove, viceversa, il capitale sociale sia sceso al di sotto del limite

legale, la disciplina è più rigorosa. In tal caso, difatti, gli amministratori (o il consiglio di gestione) devono convocare senza indugio l'assemblea, affinchè essa deliberi immediatamente la riduzione del capitale ed il con­testuale aumento dello stesso fino al limite legale, o, in alternativa, la tra­sformazione della società (art. 2447 c.c.). In caso contrario, la società si scioglie.

Le disposizioni comuni



in tema di società di capitali

La disciplina comunitaria in tema di società e la società europea

La esposizione della disciplina delle società di capitali non è completa se non si da conto di alcuni profili di regolamentazione comune.

In primo luogo, occorre rammentare il massiccio intervento, nella ma­teria, del legislatore comunitario.

Il motivo è da rinvenire nella circostanza che le imprese di medie e grandi dimensioni fanno di regola capo, in tutti i paesi dell'Unione Eu­ropea, a società di capitali. La omogeneità della relativa disciplina è, dun­que, una condizione indispensabile per un efficiente funzionamento del mercato comune. Basti pensare a temi come quelli dei poteri di rappre­sentanza o dei criteri di redazione del bilancio, per comprendere quale rilevanza abbia tale omogeneità.

Si spiega così l'emanazione, già a partire dagli anni '60, di numerosi atti comunitari, sia direttive e sia regolamenti, volti a determinare la ar­monizzazione della regolamentazione delle società di capitali nei vari Paesi.

Alla soddisfazione della medesima esigenza è rivolta la previsione di una apposita società, destinata a favorire la operatività delle imprese, che agiscono contemporaneamente in più Stati dell'Unione: la società europea.

Questa è stata prevista dal regolamento comunitario 2157/2001. Si tratta di una società destinata ad operare ed ad avere sedi nello spazio comunitario, con eguale assetto e con notevoli semplificazioni sotto il profilo burocratico.

Essa, peraltro, non è integralmente disciplinata dal regolamento, atteso che il medesimo è volutamente incompleto e rinvia, per la parte di disciplina mancante, a quella prevista, dallo Stato dove ha la sede prin­cipale la società, per il tipo di società di capitali equivalente alla italiana società per azioni.

Le caratteristiche fissate dal regolamento possono essere cosi sintetiz­zate: la società ha personalità giuridica e deve essere costituita con un ca­pitale minimo di euro 120.000 suddiviso in azioni; la personalità giuridica si acquista con l'iscrizione nel registro delle società esistente nel luogo ove la società ha la sede principale; l'amministrazione può essere articolata se­condo il sistema monistico oppure secondo quello dualistico; deve essere previsto il coinvolgimento dei lavoratori nel governo dell'impresa.

Il regolamento prevede tassativamente che la costituzione della società europea possa avvenire: a) per effetto di fusione tra S.p.a. con sedi in Stati membri diversi; b] per effetto della creazione di una holding cui vengano conferite partecipazioni in società aventi sede in Stati membri diversi; c) per effetto della creazione di una società partecipata da società con sede in Stati membri diversi; d) per effetto della trasformazione di una S.p.a. avente, da almeno due anni, una affiliata con sede in un altro Stato membro.

I gruppi di società

Si ha un gruppo di società allorquando vi siano più imprese che, sep-pur distinte sotto il profilo giuridico, siccome facenti capo a società di­verse, costituiscono un unico centro di interessi sotto il profilo econo­mico, in quanto assoggettate alla dirczione unitaria di un'unica società (società capogruppo), che detta le strategie imprenditoriali da seguire per il conseguimento di un interesse comune a tutte le società del gruppo. Solitamente le società costituenti il gruppo sono società di capitali. L'ef­fetto è che ciascuna società sopporta il rischio di impresa limitatamente al segmento che è riferibile alla medesima.

II fenomeno del gruppo di società trova amplissimo riscontro nella moderna realtà imprenditoriale, atteso che le imprese di grandi dimen­sioni prediligono un'articolazione organizzativa in cui, pur in presenza di una dirczione unitaria sotto il profilo imprenditoriale, trovano spazio più società, ciascuna delle quali operante in un determinato settore.

È innegabile, tuttavia, l'interesse a regolamentare tale fenomeno, an­che in considerazione dell'esigenza di garantire sia una adeguata infor­mazione circa la consistenza patrimoniale del gruppo complessivamente considerato e delle singole società, sia la trasparenza dei rapporti intragruppo, in modo da assicurare l'integrità patrimoniale delle società coin­volte. In questa prospettiva, il legislatore ha disciplinato sia i rapporti tra società controllante e società controllata, sia le responsabilità connesse all'esercizio dell'attività di dirczione e di coordinamento di società.

Ai sensi dell'art. 2359, comma 1, c.c., una società può dirsi control­lante di un'altra allorquando ricorra una delle seguenti condizioni:

- quando la prima dispone della maggioranza dei voti esercitabili nel­l'assemblea ordinaria della seconda;

- quando la prima dispone di voti sufficienti per esercitare un'in­fluenza dominante nell'assemblea ordinaria della seconda;

- quando la prima esercita un'influenza dominante sulla seconda in virtù di particolari vincoli contrattuali.

Nei primi due casi, occorre considerare anche i voti spettanti ad al­tre società controllate, o esercitati per mezzo di società fiduciaria o per interposta persona (art. 2359, comma 2, c.c.).

Per quanto attiene al terzo caso, assumono rilevanza tutte quelle ipo­tesi in cui una società si trova in una situazione di sostanziale dipen­denza economica rispetto ad un'altra impresa con la quale ha stipulato particolari rapporti contrattuali.

Per completezza, va richiamata la nozione di «società collegata». Con essa, si intende fare riferimento alle società tra le quali, pur non inter­correndo alcun rapporto di controllo, vi sia uno stretto legame societa­rio. In particolare, si definiscono collegate quelle società sulle quali un'al­tra società esercita un'influenza che, seppur non dominante, come av­viene per le controllate, è, comunque, notevole. L'influenza notevole si presume allorquando nell'assemblea ordinaria sia possibile esercitare un quinto dei voti, ovvero un decimo se si tratta di società quotata (art. 2359, comma 3, c.c.).

In presenza di un rapporto di controllo, si presume che la società controllante eserciti l'attività di direzione e di coordinamento che carat­terizza, quanto meno sotto il profilo dell'indirizzo economico, il gruppo di società (art. 2497-sexies c.c.), con conseguente applicabilità della rela­tiva disciplina, i cui punti salienti possono così riassumersi:

- responsabilità della controllante, nel caso di violazione dei principi di una corretta gestione societaria e imprenditoriale, nei confronti dei soci per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale delle controllate (art. 2497, comma 1, c.c.) e nei confronti dei cre­ditori per la lesione cagionata al patrimonio della società;

responsabilità solidale dei soggetti che abbiano preso parte al fatto lesivo (ad es., gli amministratori della controllante), nonché, nei limiti del vantaggio conseguito, di chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio (ad es., altre società del gruppo);

- necessità di rispettare gli obblighi di pubblicità previsti per consenti­re ai terzi di venire a conoscenza del rapporto di controllo (art. 2497-bis c.c.);

- obbligo di motivare analiticamente le decisioni assunte nell'ambito della società controllata, qualora esse siano state influenzate dalla attività di dirczione e coordinamento svolta dalla società controllante (art. 2497-ter c.c.);

- esclusione di responsabilità quando il danno è compensato dai be­nefici della appartenenza al gruppo (vantaggi compensativi);

- riconoscimento, in presenza di particolari eventi riguardanti la so­cietà controllante, del diritto di recesso al socio della società controllata (art. 2497-quater c.c.);

- equiparazione dei finanziamenti infragruppo a quelli effettuati dai soci di S.r.l., con conseguente postergazione degli stessi rispetto al sod­disfacimento degli altri creditori sociali (art. 2497-quinquies c.c.);

- introduzione del bilancio consolidato di gruppo, volto a delineare la situazione economico-finanziaria complessiva del gruppo di società.

Il bilancio consolidato di gruppo, la cui redazione è divenuta obbli­gatoria a seguito del d.lg. 9 aprile 1991, n. 127, attuativo della settima Direttiva CEE di armonizzazione societaria, è redatto dalla società ca­pogruppo, in aggiunta al proprio bilancio di esercizio.

La funzione del bilancio consolidato di gruppo è quella di illustrare la situazione finanziaria e patrimoniale delle società del gruppo unitaria­mente considerate. Ai fini del consolidato, fanno parte del gruppo uni­camente le società controllate mediante una partecipazione societaria, con esclusione, pertanto, di quelle controllate in virtù di particolari rapporti contrattuali (art. 2359, comma 1, n. 3, c.c.). Non sono, inoltre, contem­plate, ai fini del consolidato, le società che svolgono un'attività del tutto eterogenea rispetto a quella della maggior parte delle imprese controllate.

Non tutti i gruppi di società sono tenuti alla redazione del bilancio consolidato: sono esclusi, difatti, i gruppi di minore dimensione, purché non vi siano società quotate.

Il bilancio consolidato di gruppo è redatto dagli amministratori della capogruppo ed ha la medesima struttura del bilancio di esercizio (stato patrimoniale, conto economico, nota integrativa). È corredato dalla relazione degli amministratori sulla situazione complessiva delle imprese fa­centi parte del gruppo.

Anche per quanto attiene ai principi ed ai criteri di redazione, non­ché al procedimento di formazione ed al regime pubblicitario, valgono le regole dettate per il bilancio di esercizio, fatti salvi gli adattamenti ne­cessari onde consentire la corretta illustrazione della situazione patrimo­niale e finanziaria del gruppo unitariamente considerato. La disciplina del bilancio consolidato diverge da quella dettata per il bilancio di esercizio per il fatto che non è prevista l'approvazione assembleare: il consolidato costituisce, difatti, atto degli amministratori.

Le cause di scioglimento delle società di capitali. La liquidazione

Il legislatore ha dettato, per le società di capitali, una disciplina uni­taria in materia di scioglimento della società (art. 2484 e ss. c.c.).

La società di capitali si scioglie allorquando ricorra una delle seguenti cause:

- per il decorso del termine, sempre che la durata della società non sia a tempo indeterminato; il termine di durata previsto nello statuto può essere prorogato con deliberazione dell'assemblea straordinaria;

- per il conseguimento dell'oggetto sociale o per l'impossibilità di conseguirlo, salvo che l'assemblea, all'uopo convocata, non deliberi, senza indugio, le opportune modifiche statutarie;

- per l'impossibilità di funzionamento o per la continuata inattività dell'assemblea;

- per la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, qualora non si provveda a norma dell'art. 2447 c.c. e cioè alla trasfor­mazione della società o alla ricostituzione del capitale;

- per l'approvazione della deliberazione di scioglimento della società a seguito o del recesso di uno o più soci, o dell'impossibilità di rim­borsare le relative azioni senza ridurre il capitale sociale, o dell'opposi­zione dei creditori alla riduzione del capitale;

- qualora l'assemblea straordinaria deliberi lo scioglimento anticipato della società;

- per le altre cause previste dalla legge (ad es., dichiarazione di falli­mento), dall'atto costitutivo o dallo statuto.

Lo scioglimento ha efficacia dalla data di iscrizione nel Registro delle Imprese della dichiarazione degli amministratori, che accerti il verificarsi della causa di scioglimento. Nel caso di scioglimento anticipato, gli ef­fetti si producono dalla data di iscrizione della relativa deliberazione as­sembleare nel Registro delle Imprese (art. 2484, comma 2 c.c.).

In caso di inerzia degli amministratori, il verificarsi della causa di scio­glimento è accertato, su istanza dei singoli soci o del singolo ammini­stratore o dei sindaci, dal tribunale, con decreto che deve essere iscritto nel Registro delle Imprese. Gli amministratori sono, tuttavia, responsa­bili solidalmente per i danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori so­ciali o ai terzi (art. 2485 c.c.).

La società non si estingue contestualmente al verificarsi di una causa di scioglimento, essendo necessario provvedere al soddisfacimento dei creditori sociali ed alla ripartizione tra i soci dell'eventuale residuo at­tivo, attraverso il procedimento di liquidazione.

Gli amministratori restano in carica fino alla nomina dei liquidatori, di competenza dell'assemblea straordinaria (art. 2365 c.c.), e conservano il potere di gestire la società, seppure ai fini esclusivi della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale (art. 2486, comma 1, c.c.), dovendo osservare il divieto di compiere nuove operazioni.

Essi, inoltre, devono convocare l'assemblea affinchè deliberi, oltre che sulla nomina e sui poteri dei liquidatori, anche sui criteri della liquida­zione (art. 2487, comma 1, c.c.). In difetto, la convocazione dell'assem­blea è disposta dal tribunale su istanza dei singoli soci (o dei singoli am­ministratori o dei sindaci). Al tribunale è riconosciuto anche il potere di adottare, con decreto, le deliberazioni spettanti all'assemblea, qualora que­sta non si costituisca o non deliberi (art. 2487, comma 2, c.c.).

A differenza degli amministratori restano in carica i soggetti deputati al controllo della società: collegio sindacale e revisori.

Effettuata la nomina dei liquidatori ed iscritta la stessa nel Registro delle Imprese, occorre specificare, nella denominazione sociale, che la so­cietà si trova in stato di liquidazione. Contestualmente, gli amministra­tori cessano dalla carica e consegnano ai liquidatori i libri sociali, una si­tuazione dei conti alla data dello scioglimento, ed un rendiconto sulla loro gestione, relativo al periodo successivo all'ultimo bilancio approvato (art. 2487-£zs c.c.).

La revoca dello stato di liquidazione deve essere deliberata dall'as­semblea con le maggioranze previste per le modificazioni dello statuto, previa eliminazione della causa di scioglimento. I soci che non hanno concorso all'approvazione della deliberazione hanno diritto di recedere dalla società (art. 2437, comma 1, c.c.).

La revoca dello stato di liquidazione ha efficacia solo decorsi due mesi dall'iscrizione della relativa deliberazione assembleare presso il Registro delle Imprese. Entro tale termine, i creditori sociali anteriori all'iscrizione pos­sono fare opposizione, con conseguente applicazione della disciplina detta­ta in materia di riduzione facoltativa del capitale sociale (art. 2487-ter c.c.).



I liquidatori, salvo diversa previsione statutaria, hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione (art. 2489, comma 1, c.c.).

Le principali attribuzioni riconosciute loro sono:

- la possibilità di chiedere proporzionalmente ai soci il versamento dei decimi ancora dovuti, laddove riscontrino l'insufficienza del patri­monio sociale per soddisfare i creditori (art. 2491, comma 1, c.c.);

- la possibilità di distribuire ai soci, nel corso della liquidazione, ac­conti sul risultato della liquidazione (art. 2491, comma 2, c.c.);

- l'obbligo di redigere annualmente il bilancio, da sottoporre all'appro­vazione dell'assemblea (art. 2490 c.c.).

Essi devono adempiere i loro doveri con la diligenza e la professio­nalità richieste dalla natura dell'incarico. La loro responsabilità per i danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri è disciplinata secondo le norme in tema di responsabilità degli amministratori (art. 2489, comma 2, c.c.). Al termine della liquidazione del patrimonio sociale, consistente nella conversione in danaro del residuo patrimoniale attivo, i liquidatori de­vono redigere il bilancio finale di liquidazione, indicando la parte spet­tante a ciascun socio o azione nella divisione dell'attivo (cosiddetto piano di riparto). Il bilancio finale, sottoscritto dai liquidatori ed accomnato dalla relazione dei sindaci e del soggetto che svolge il controllo conta­bile, è depositato presso il Registro delle Imprese. Esso deve essere ap­provato non già dall'assemblea, ma dai singoli soci, anche tacitamente. Ciascun socio, difatti, può proporre reclamo innanzi al tribunale nei tre mesi successivi al deposito, decorsi i quali: a) in mancanza di reclami, il bilancio si intende approvato, e b) i liquidatori sono liberati di fronte ai soci (artt. 2492-2493 c.c.).

Approvato il bilancio finale di liquidazione, si procede, su istanza dei liquidatori, alla cancellazione della società (art. 2495, comma 1, c.c.). Gli eventuali creditori rimasti insoddisfatti possono rivalersi sui soci, ma solo nei limiti delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale, o sui liquidatori, laddove il mancato amento sia dipeso da loro colpa.

Ne consegue che, anche in presenza di creditori sociali ancora non soddisfatti, la cancellazione determina irrimediabilmente l'estinzione della società.

La trasformazione

La trasformazione si concreta nel cambiamento di forma giuridica del­l'ente.

Tale cambiamento trova, di regola, la propria ragione giustificatrice nelle mutate esigenze imprenditoriali della società (ad esempio, perché i nuovi scenari del mercato necessitano di una più articolata struttura or­ganizzativa interna), per far fronte alle quali sarebbe certamente più di­spendioso, sia sotto il profilo del tempo occorrente, sia sotto quello dei costi, procedere alla liquidazione della società ed alla successiva costitu­zione di un nuovo ente.

Nell'ambito del fenomeno della trasformazione, assume rilevanza la distinzione fra trasformazione cosiddetta omogenea, allorquando si passa da un tipo di società lucrativa ad un altro, e trasformazione cosiddetta eterogenea, che si verifica in tutti i casi in cui si passa da una società lu­crativa ad altri enti o viceversa. È opportuno, in questa sede, affrontare separatamente i due istituti.

Come sopra precisato, si parla di trasformazione omogenea allor­quando si passa da un tipo di società lucrativa ad un altro (ad esem­pio, da S.a.s. in S.p.a. o viceversa). Nell'ambito di tale fenomeno, è pos­sibile distinguere tre «sottotipi» di trasformazione, a seconda che essa riguardi:

- una società di persone che si trasforma in società di capitali;

- una società di capitali che si trasforma in società di persone;

- una società cooperativa, diversa da quelle a mutualità prevalente, che si trasforma m società di persone o m società di capitali.

Sebbene per ciascun sottotipo sia dettata una normativa peculiare, è possibile rinvenire i seguenti elementi comuni:

- la trasformazione, nonostante determini il mutamento dell'intero as­setto organizzativo dell'ente, non comporta l'estinzione della società, la quale, viceversa, continua ad operare senza soluzione di continuità sotto una diversa forma giuridica. Tale considerazione trova riscontro nel di­sposto dell'art. 2498, comma 1, c.c., alla stregua del quale la società «con­serva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche proces­suali dell'ente che ha effettuato la trasformazione»;

- l'atto di trasformazione è soggetto alla disciplina prevista per il tipo societario adottato ed alle forme di pubblicità relative, nonché alla pub­blicità richiesta per la cessazione dell'ente che effettua la trasformazione (art. 2500, comma 2, c.c.);

- la trasformazione ha effetto solo dopo che siano adempiute tutte le formalità pubblicitarie prescritte;

- concluso l'iter pubblicitario, l'invalidità della trasformazione non può più essere dichiarata, pur restando salvo il diritto al risarcimento del danno da parte dei soci o dei terzi danneggiati dalla trasformazione (art. 2500-tó c.c.).

E necessario, a questo punto, esaminare brevemente la disciplina det­tata in ordine ai tre differenti sottotipi di trasformazione omogenea.

Nel caso di trasformazione di società di persone in società di capitali, la trasformazione deve risultare da atto pubblico e deve contenere le in­dicazioni previste dalla legge per l'atto costitutivo del tipo societario pre­scelto (art. 2500, comma 1, c.c.).

La relativa decisione è di spettanza dei soci e necessita, fatta salva diversa previsione statutaria, del voto favorevole della maggioranza, de­terminata, tuttavia, non già in base alla quota di partecipazione al capi­tale sociale, bensì in relazione alla parte attribuita a ciascuno negli utili. Al socio che non ha concorso all'approvazione della decisione spetta il diritto di recedere dalla società (art. 25QQ-ter c.c.). Alla deliberazione di trasformazione deve essere allegata una relazione di stima del patrimo­nio sociale, con le forme previste per i conferimenti in natura nelle S.p.a. o nelle S.r.L, a seconda della società risultante dalla trasformazione. Il procedimento di trasformazione si conclude con l'iscrizione della deli­berazione nel Registro delle Imprese, in conseguenza della quale la so­cietà acquista la personalità giuridica.

Compiuta la trasformazione da società di persone in società di capi­tali, resta ferma la responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sorte anteriormente all'iscrizione della trasformazione nel Registro delle Imprese. Tuttavia, i soci possono essere liberati in presenza del consenso dei creditori sociali alla trasformazione. Tale consenso, che si presume al­lorquando i creditori siano stati informati della trasformazione e non ab­biano espressamente manifestato la loro opposizione entro sessanta giorni dalla comunicazione, vale come consenso alla liberazione di tutti i soci illimitatamente responsabili.

Nel caso di trasformazione di società di capitali in società di per­sone, viceversa, la deliberazione deve essere approvata con le maggio­ranze previste per le modifiche dello statuto. E, inoltre, necessario il consenso di quei soci che, con la trasformazione, assumono responsa­bilità illimitata per l'adempimento delle obbligazioni sociali (art. 2500-sexies, comma 1, c.c.). Anche in tal caso, è riconosciuto il diritto di recesso al socio che non ha concorso all'approvazione della deliberazione (art. 2437 c.c.).

La deliberazione assembleare di trasformazione deve essere preceduta dalla redazione, da parte degli amministratori, di una relazione da cui si evincano i motivi e gli effetti della trasformazione. Essa deve restare deposi­tata presso la sede sociale nei trenta giorni che precedono l'assemblea, onde consentire ai soci di prenderne visione ed, eventualmente, di estrarne copia (art. 2500-serzes, comma 2, c.c.). A seguito della trasformazione, i soci che assumono la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali rispondono con il proprio patrimonio anche delle obbligazioni sorte an­teriormente alla trasformazione (art. 25QQ-sexies, comma 4, c.c.).

Nel caso di trasformazione di società cooperative, diverse da quelle a mutualità prevalente, in società di capitali o di persone, è richiesto il voto favorevole di almeno la metà dei soci. Sono previsti (art. 2545-de-cies, c.c.) quorum differenti sia nell'ipotesi in cui i soci siano meno di cinquanta (nel qual caso, occorre il voto favorevole dei due terzi dei soci), sia nell'ipotesi in cui essi siano più di diecimila (ed in tal caso, se lo statuto lo consente, può richiedersi il voto favorevole dei due terzi dei votanti, purché all'assemblea sia presente almeno il venti per cento dei soci). È fatto obbligo di devolvere il patrimonio, dedotti il capitale versato e rivalutato ed i dividendi non ancora distribuiti, ai fondi mu-tualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (art. 2545-undecies, comma 1, c.c.).

Passando, a questo punto, alla disciplina dettata in materia di trasfor­mazione cosiddetta eterogenea, va sottolineato che il legislatore ha rego­lamentato espressamente solo l'ipotesi di trasformazione eterogenea di una società di capitali o che da vita ad una società di capitali, non es­sendo viceversa disciplinata l'ipotesi di trasformazione eterogenea di una società di persone o che da vita ad una società di persone.

Per quanto attiene alla trasformazione di una società di capitali, si pre­vede che quest'ultima possa trasformarsi in consorzio, società consortile, società cooperativa, comunione di azienda, associazione non riconosciuta e fondazione (non è contemplata espressamente la trasformazione in as­sociazione riconosciuta; art. 25QQ-septies c.c.).

Relativamente a tale ipotesi, si applica la disciplina dettata con riferi­mento alla trasformazione omogenea delle società di capitali, con le se­guenti differenze:

- la deliberazione deve essere assunta con il voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto;

- la deliberazione di trasformazione in fondazione produce gli effetti che il codice civile ricollega all'atto di fondazione o alla volontà del fon­datore.

La trasformazione in società di capitali, viceversa, può essere delibe­rata da un consorzio, società consortile, comunione di azienda, associa­zione non riconosciuta e fondazione (non sono contemplate espressa­mente né le società cooperative, né le associazioni riconosciute; art. 2500-octies c.c.). I punti essenziali della disciplina codicistica possono cosi rias­sumersi:

- sono espressamente previsti quorum deliberativi specifici per i con­sorzi (maggioranza assoluta dei consorziati) e per le comunioni di azienda (unanimità); per le società consortili e per le associazioni si rinvia alle maggioranze richieste dalla legge o dall'atto costitutivo per lo sciogli­mento anticipato;

- la trasformazione delle associazioni in società di capitali può essere esclusa dall'atto costitutivo e, per determinate associazioni, dalla legge; in ogni caso, non è ammessa per le associazioni che abbiano ricevuto con­tributi pubblici oppure liberalità ed oblazioni dal pubblico;

- la trasformazione delle fondazioni in società di capitali è disposta dall'autorità governativa, su proposta dell'organo competente;

- la trasformazione ha effetto solo dopo che siano decorsi sessanta giorni dalla conclusione dell'iter prescritto ai fini della pubblicità, a meno che non vi sia il consenso dei creditori o il amento dei creditori che non hanno prestato il consenso. Nel suddetto termine di sessanta giorni, i creditori possono fare opposizione: in tal caso, trova applicazione la di­sciplina dettata, con riferimento alla riduzione facoltativa del capitale, dal-l'art. 2445, comma 4, c.c.

La fusione

La fusione si sostanzia nella unione tra due o più società. Il ricorso a tale strumento trova la propria ragione giustificatrice, di regola, nell'e­sigenza di unificare due o più imprese, al fine di raggiungere una mag­giore competitivita sul mercato. Mediante la fusione, difatti, si verifica la concentrazione degli enti partecipanti alla fusione, con conseguente ne­cessaria reductio ad unum di tutta la loro struttura economico-organiz-zativa (patrimonio, organi sociali, ecc.).

La fusione tra due o più società può avere luogo secondo due modalità differenti (art, 2501, comma 1, c.c.): 1) può essere costituita una nuova società, nell'ambito della quale confluiscono gli enti partecipanti all'operazione (cosiddetta fusione in senso stretto); 2) può accadere che una delle società partecipanti inglobi le altre (cosiddetta fusione per in­corporazione). A differenza della trasformazione, la fusione comporta l'e­stinzione delle società partecipanti all'operazione (tranne nel caso di fu­sione per incorporazione per la sola società incorporante).

Una ulteriore distinzione degna di rilievo è quella tra la fusione co­siddetta omogenea, che ha luogo tra società dello stesso tipo (ad es., tra due S.p.a.), e fusione cosiddetta eterogenea, che avviene tra società di tipo diverso (ad es., tra una S.a.s. ed una S.r.l.). In quest'ultimo caso, si veri­fica la trasformazione di una o più delle società partecipanti alla fusione, con conseguente necessario rispetto della disciplina e dei limiti previsti m materia di trasformazione. È, altresì, consentita la fusione tra società ed enti di tipo diverso, nei limiti previsti dalla disciplina della trasfor­mazione eterogenea. Non possono partecipare alla fusione le società in liquidazione (art. 2501, comma 2, c.c.).

La fusione tra due o più società ha luogo a seguito di un procedi­mento articolato che consta di tre fasi: il progetto di fusione, la delibera di fusione e l'atto di fusione.

L'organo amministrativo delle società partecipanti alla fusione deve redigere un progetto di fusione, nel quale vanno indicati gli elementi ri­levanti ai fini della successiva deliberazione di fusione, espressamente elen­cati dal legislatore (art. 2501-ter c.c.). Il progetto di fusione deve essere iscritto nel Registro delle Imprese del luogo ove hanno sede le società partecipanti alla fusione.

Oltre a tale progetto, i componenti dell'organo amministrativo delle società partecipanti alla fusione devono redigere:

- la situazione patrimoniale delle società, redatta con l'osservanza delle norme sul bilancio di esercizio e riferita ad una data non anteriore di ol­tre centoventi giorni a quello in cui il progetto di fusione è depositato nella sede della società. La situazione patrimoniale può essere sostituita dall'ultimo bilancio di esercizio, laddove quest'ultimo sia stato chiuso non oltre sei mesi prima dal giorno in cui il progetto di fusione è stato depositato presso la sede della società (art. 25Ql~quater c.c.);



- una relazione illustrativa del progetto di fusione, che indichi il rap­porto di cambio delle azioni o delle quote (e, cioè, il rapporto tra nu­mero delle partecipazioni in una delle vecchie società e numero di par­tecipazioni nella nuova) ed i criteri di determinazione.


Si prevede, inoltre, che uno o più esperti per

ciascuna  società debbano predisporre una relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle quote o delle azioni (art. 25Q-sexies c.c.).

Tutti i predetti documenti (progetto di fusione, situazione patrimonia­le, relazione degli amministratori e relazione degli esperti) debbono rima­nere depositati presso la sede delle società partecipanti alla fusione nei trenta giorni precedenti la data fissata per l'adunanza assembleare, unita­mente ai bilanci degli ultimi tre esercizi ed alle relative relazioni predispo­ste dai soggetti cui compete l'amministrazione ed il controllo contabile (art. 25Ql-septies c.c.).

Prima di passare ad esaminare la fase deliberativa della fusione, va dato atto del fatto che il legislatore ha dettato una disciplina semplificata nei casi in cui: a) la società incorporante possieda tutte le azioni o quote della società incorporata (art. 2505 c.c.), o almeno il novanta per cento (art. 25Q5-bis c.c.); b) alla fusione non partecipino società con capitale rappresentato da azioni o società cooperative per azioni (art. 25Q5-qua-ter c.c.); e) la fusione avvenga a seguito di acquisizione con indebitamento (cosiddetto leveraged buyout, art. 25Q-bis c.c.), e cioè quando una so­cietà ne acquisti un'altra indebitandosi, per poi fondersi con la società indebitata e are i debiti con l'attivo patrimoniale di quest'ultima.

La fusione è deliberata, di regola, dai soci delle società partecipanti alla fusione, mediante approvazione del relativo progetto. Nelle società di persone, la deliberazione deve essere adottata con il voto favorevole della maggioranza dei soci, determinata secondo la parte attribuita a cia­scuno dei soci nella distribuzione degli utili (è fatta salva una diversa pre­visione dell'atto costitutivo o dello statuto). Nelle società di capitali, l'ap­provazione del progetto di fusione avviene con le modalità ed i quorum previsti per le modifiche dell'atto costitutivo o dello statuto (art. 2502 e.e.). Le deliberazioni devono essere iscritte nel Registro delle Imprese, previo controllo di legalità da parte del notaio verbalizzante, se la società risultante dalla fusione è una società di capitali (art. 2502-bis c.c.).

Ancorché sia intervenuta l'approvazione del relativo progetto, la fu­sione può essere attuata solo dopo che siano decorsi sessanta giorni dalla data di iscrizione nel Registro delle Imprese dell'ultima delibera delle so­cietà partecipanti alla fusione. Nel suddetto termine di sessanta giorni, i creditori delle società partecipanti alla fusione possono proporre oppo­sizione alla fusione, con conseguente applicabilità della disciplina dettata dall'art. 2445 c.c., in materia di riduzione del capitale sociale delle S.p.A. (art. 2503 c.c.).

La terza ed ultima fase del procedimento di fusione si sostanzia nella attuazione delle delibere di approvazione del progetto di fusione, me­diante la stipulazione dell'atto di fusione.

L'atto di fusione, stipulato dai legali rappresentanti delle società partecipanti alla fusione, deve essere redatto per atto pubblico e, entro i successivi trenta giorni, deve essere depositato per l'iscrizione nel Re­gistro delle Imprese del luogo (o dei luoghi) ove hanno sede le società partecipanti alla fusione e la società risultante dalla fusione (art. 2504 c.c.). La fusione ha effetto solo dopo che sia effettuata l'ultima iscri­zione nel Registro delle Imprese, sebbene nell'ipotesi di fusione per in­corporazione possa essere stabilita una data successiva (art. 25Q4-bis, comma 2, c.c.).

Per quanto attiene agli effetti della fusione, come in precedenza rile­vato, le società partecipanti all'operazione confluiscono nella società ri­sultante dalla fusione (o in quella incorporante), con conseguente unifi­cazione soggettiva e patrimoniale delle diverse società. Tale conclusione trova riscontro nel disposto dell'art. 2504-tó, comma 1, c.c., laddove si statuisce che la società risultante dalla fusione (ovvero quella incorpo­rante nell'ipotesi di fusione per incorporazione) assume i diritti e gli ob­blighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo tutti i loro rap­porti, anche processuali, anteriori alla fusione.

Laddove la fusione comporti la costituzione di una nuova società di capitali, ovvero l'incorporazione in una società di capitali, i soci in pre­cedenza illimitatamente responsabili continuano a rispondere anche con il proprio patrimonio per l'adempimento delle obbligazioni delle rispet­tive società contratte prima dell'ultima iscrizione dell'atto di fusione nel Registro delle Imprese, fatto salvo il caso m cui vi sia il consenso dei creditori alla liberazione (art. 2504-fe, comma 5, c.c.).

Una volta effettuate le prescritte iscrizioni nel Registro delle Imprese, l'invalidità dell'atto di fusione non può più essere dichiarata. I soci o i terzi danneggiati dall'operazione non potranno, in alcun modo, inficiarne la validità e/o l'efficacia, ma potranno unicamente agire per il risarci­mento dei danni subiti (art. 25Q4-quater c.c.).

La scissione

La scissione si sostanzia nella scomposizione del patrimonio di una società (cosiddetta società scissa) e nel suo parziale o totale trasferìmento in favore di altre società (società beneficiane), nonché nella con­seguente assegnazione, ai soci della prima, delle azioni o quote delle seconde.

Se la fusione risponde all'esigenza di unificare due o più imprese, nor­malmente al fine di raggiungere una maggiore competitivita sul mercato, lo strumento giuridico della scissione è utilizzato, di regola, nella pro­spettiva di una ristrutturazione dell'ente. Si pensi, ad esempio, alle so­cietà che diversificano la propria attività imprenditoriale in più settori: nel corso della vita dell'ente, può presentarsi la necessità, o anche solo l'opportunità, di suddividere il patrimonio sociale tra due o più società, onde attribuire a ciascuna di esse uno specifico settore.

Nell'ambito del più generale fenomeno della scissione, è possibile distinguere la scissione totale dalla scissione parziale. Nel primo caso, l'intero patrimonio della società scissa viene trasferito a più società. La società scissa si estingue ed i suoi diritti ed obblighi vengono intera­mente assunti dalle società beneficiane. Nel secondo caso, oggetto del trasferimento è solo una parte del patrimonio della società scissa, che viene assegnato a una o più società. In tal caso, la società scissa non si estingue, ma continua ad operare, seppure con un patrimonio ri­dotto.

Una ulteriore distinzione degna di rilievo è quella tra la scissione in senso stretto, che ha luogo allorquando le società beneficiane siano di nuova costituzione, e la scissione per incorporazione, che si ha nell'ipo­tesi in cui le società beneficiane siano preesistenti.

Il procedimento di scissione si presenta assai simile a quello previsto per la fusione.

L'organo amministrativo delle società partecipanti alla scissione, di­fatti, redige un progetto di scissione contenente:

- l'esatta descrizione degli elementi patrimoniali da assegnare alle socie­tà beneficiane e dell'eventuale conguaglio in danaro (art. 25Q6-bis, comma 1, c.c.). Laddove, dal progetto di fusione, non si evinca la destinazione di un elemento dell'attivo, questo è assegnato alla società scissa nell'ipo­tesi di scissione parziale; nell'ipotesi di scissione totale, esso è ripartito tra le società beneficiane in proporzione della quota di patrimonio netto a ciascuna di esse assegnata (art. 2506-te, comma 2, c.c.);

- i criteri di distribuzione delle azioni o delle quote delle società beneficiane. Qualora si adottino criteri di attribuzione diversi da quello proporzionale, i soci, che non approvano il progetto di scissione, hanno diritto di far acquistare le proprie partecipazioni dai soggetti indicati nel progetto, per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previ­sti per il recesso (art. 24Q6-bis, comma 4 c.c.).

Oltre che il progetto di scissione, devono essere redatti anche la si­tuazione patrimoniale delle società partecipanti alla scissione, la relazione degli amministratori e quella degli esperti. Gli amministratori possono, tuttavia, essere esonerati da tali incombenti con il consenso unanime dei soci e dei possessori degli strumenti finanziari con diritto di voto (art. 2506-ter c.c.).

Le fasi successive del progetto di scissione si sostanziano, analoga­mente a quanto avviene in materia di fusione, nella deliberazione di ap­provazione del predetto progetto e nella stipulazione dell'atto di scis­sione. Trova applicazione, a tal riguardo, la disciplina dettata per la fu­sione, anche per i profili attinenti alle iscrizioni dell'atto di scissione, al­l'opposizione dei creditori ed alla invalidità dell'atto di scissione.

Come per la fusione, la scissione ha effetto solo dopo che sia effet­tuata l'ultima iscrizione dell'atto di scissione nel Registro delle Imprese del luogo in cui hanno sede le società beneficiarie (art. 25Q6-quater c.c.).

In tale momento, si verifica la suddivisione del patrimonio della so­cietà scissa in favore delle società beneficiarie, le quali assumono i diritti e gli obblighi ad esse spettanti in base all'atto di scissione.

Un'ultima considerazione merita di essere svolta con riferimento alla disciplina della responsabilità delle società partecipanti alla scissione, per i debiti della società scissa.

Si è già detto che, a seguito della scissione, i debiti della società scissa sono ripartiti tra le società partecipanti all'operazione (id est, le società beneficiarie e, nell'ipotesi di scissione parziale, anche la società scissa).

Tuttavia, ciascuna società partecipante alla scissione è altresì solidal­mente responsabile, nei limiti del patrimonio netto ad essa trasferito (o del patrimonio rimasto in capo alla società scissa, nel caso di scissione parziale), dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico (art. 25QG-qnater c.c.).

In altre parole, dei debiti della società scissa risponde, in via princi­pale, la società cui il debito è stato assegnato in sede di scissione; in via sussidiaria, ne rispondono solidalmente le altre società partecipanti alla scissione, seppure nei limiti del patrimonio netto a ciascuna di esse tra­sferito.


Le società con scopo mutulistico

Lo scopo mutualistico

Dalle società lucrative si distinguono, come detto, le società mutualistiche. Come le prime, anche le seconde hanno natura di società. Società lucrative e società mutualistiche costituiscono, infatti, due specie del ge­nere società, in quanto mutualità e scopo di lucro rappresentano due di­versi modi di essere della causa del contratto sociale, consistente m un'ac­quisizione di benefici economici in senso lato.

Lo scopo mutualistico è espressamente previsto, oltre che nel codice civile, nella Costituzione. Dispone l'art. 45 Cost. che «la Repubblica ri­conosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata». «La legge»., continua il testo costitu­zionale, «ne assicura il carattere e le finalità».

Sono previsti due tipi di società mutualistiche: le società cooperative e le società di mutua assicurazione (dette anche mutue assicuratrici).

Le società con scopo mutualistico sono dirette a offrire ai soci beni e servizi od occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose rispetto al mercato.

Tali tipi di società, infatti, creano un rapporto diretto tra il produttore e il consumatore, oppure tra il committente e il lavoratore, che con­sente, eliminando il ricarico dell'intermediario (commerciale, assicurativo, ecc.) o il profitto del datore di lavoro, di garantire ai soci un prezzo in­feriore o una retribuzione maggiore rispetto a quelli del mercato.

Pertanto, lé società mutualistiche non hanno come fine quello di far conseguire ai soci un profitto, vale a dire un guadagno positivo, ma piut­tosto un risparmio di spesa o una maggiore remunerazione. Nelle società con scopo mutualistico, di conseguenza, i soci sono,generalmente. i destinatari dell'attività sociale.

È bene tenere presente che, per realizzare il vantaggio mutualistico, non è sufficiente la partecipazione del socio alla società. E necessario, in­fatti, che il socio concluda con la società una o più operazioni, aventi per oggetto la prestazione dei beni o dei servizi a cui è diretta l'attività della società. In altri termini, occorre che il socio acquisti dei prodotti, che stipuli un contratto di assicurazione sulla vita o contro i danni, che presti un'attività lavorativa, ecc.

Le cooperative e la mutualità prevalente

Al fine di porre un freno al diffuso abuso dello strumento coopera­tivo, al proliferare, cioè, di «false cooperative», indotto dal complesso de­gli incentivi e delle agevolazioni, la disciplina delle società cooperative di­stingue tra «società cooperative a mutualità prevalente» e altre società cooperative.

Solo le prime godono di tutte le agevolazioni, soprattutto di carattere tributario, previste per le società cooperative.

Le cooperative a mutualità prevalente sono quelle che presentano al­cuni elementi caratterizzanti, la cui ricorrenza deve essere accertata in concreto.

Questi elementi sono:



- la presenza, nello statuto, di clausole che, come si dirà in seguito, limitano la distribuzione di utili e riserve ai soci cooperatori;

- la circostanza che la loro attività deve essere svolta prevalentemente a favore dei soci (cooperative di consumo), ovvero deve utilizzare, pre­valentemente, prestazioni lavorative dei soci (cooperative di lavoro), o beni o servizi dagli stessi apportati (cooperative di produzione e lavoro).

Gli amministratori e i sindaci devono documentare, nella nota inte­grativa al bilancio, tali condizioni di prevalenza. In particolare, la mu­tualità prevalente ricorre quando i rapporti di scambio con i soci (o il costo del lavoro dei soci o il costo della produzione) superano il cin­quanta per cento del totale dei rapporti nell'anno della società.

Le società cooperative a mutualità prevalente, inoltre, devono iscri­versi in un apposito albo delle società cooperative, tenuto a cura del Mi­nistero delle attività produttive, presso il quale depositano annualmente il proprio bilancio.

In una distinta sezione dello stesso albo, si iscrivono le altre società cooperative.

In relazione all'attività svolta, le cooperative si distinguono in:

- cooperative di consumo, dirette ad acquistare all'ingrosso prodotti di largo consumo, per rivenderli al dettaglio ai soci;

- cooperative edilizie, aventi come fine la costruzione di alloggi e la loro assegnazione in proprietà o in locazione ai soci;

- cooperative di credito (banche popolari, casse artigiane, casse ru­rali), volte a concedere ai soci prestiti e altri servizi a tassi di interesse più favorevoli rispetto a quelli di mercato;

- cooperative assicuratrici, volte a fornire ai soci la copertura di determi­nati rischi a condizioni più favorevoli rispetto a quelle praticate dalle im­prese di assicurazione;

- cooperative di trasformazione e alienazione di prodotti agricoli (canti­ne, latterie sociali, ecc.), costituite da imprenditori agricoli allo scopo di ridurre i costi di gestione e trovare accessi diretti al mercato;

- cooperative di produzione e lavoro (di pulizia, di traslochi, di traspor­ti), formate da lavoratori, le quali garantiscono ai soci occasioni di la­voro e retribuzioni più elevate rispetto a quelle correnti, assumendo di­rettamente lo svolgimento di determinate attività.

I caratteri strutturali della società cooperativa

La disciplina delle società cooperative è modellata su quella della so­cietà per azioni. Nel contempo, però, il codice civile consente che i soci di piccole cooperative (quelle con un numero di soci cooperatori infe­riori a venti, ovvero con un attivo dello stato patrimoniale non superiore a un milione di euro), possano optare per la più snella disciplina della società a responsabilità limitata.

Per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il suo patrimo­nio (art. 2518 c.c.).

Anche la disciplina sui conferimenti è identica a quella dettata per le società per azioni, salvo che lo statuto non abbia optato per la disciplina della società a responsabilità limitata.

I carattere salienti della disciplina della società cooperativa sono:

- per procedere alla costituzione della società è necessario che il nu­mero dei soci sia almeno pari a nove. Sono, tuttavia, sufficienti tre soci persone fisiche, se la società adotta le norme della società a responsabilità limitata. È, inoltre, richiesto, per la partecipazione ad una società coo­perativa, che i soci posseggano determinati requisiti soggettivi, volti ad assicurare che gli stessi svolgano attività coerente e/o non incompatibile con quella che costituisce l'oggetto sociale della cooperativa. Tali requi­siti variano a seconda del settore di attività della cooperativa e numerose sono, poi, le leggi speciali che specificano ulteriormente i requisiti sog­gettivi dei soci, m relazione alla particolare finalità sociale della coopera­tiva. La legge fissa, come regola generale, che non possono, in ogni caso, essere soci quanti esercitano in proprio imprese identiche o affini con quella della cooperativa;

- sono fissati limiti massimi alla quota di partecipazione di ciascun socio ed alla percentuale di utili agli stessi distribuirli, sia pure con di­sposizioni diverse per le cooperative a mutualità prevalente e le altre coo­perative, volti a disincentivare la partecipazione alla società per fini esclu­sivamente lucrativi;

- le variazioni del numero e delle persone dei soci, e le conseguenti variazioni del capitale sociale, non comportano modificazione dell'atto costitutivo. In tal modo, si da, alla società, una struttura aperta, che fa­cilita l'ingresso di nuovi soci ed il recesso di quanti non sono più inte­ressati all'attività mutualistica;

- ogni socio cooperatore persona fisica ha, in assemblea, un solo voto, qualunque sia il valore della sua quota o il numero delle sue azioni. E, così, capovolta la regola di funzionamento propria delle società di capi­tali (numero di voti proporzionale al numero delle azioni) ed è intro­dotto il principio «una testa-un voto». Principio che sottolinea il rilievo della persona dei soci anche nel funzionamento della società e nell'indi­rizzo dell'attività comune;

- le società cooperative sono sottoposte a vigilanza dell'autorità go­vernativa, al fine di assicurare il regolare funzionamento amministrativo e contabile.

La previsione di limiti massimi alla partecipazione di ciascun socio e di limiti alla libera circolazione delle azioni, sommati ai limiti posti per la distribuzione degli utili, ha indotto il legislatore ad introdurre la fi­gura dei soci sovventori, volta a consentire la raccolta del capitale di ri­schio anche tra soggetti sprovvisti degli specifici requisiti soggettivi ri­chiesti per partecipare all'attività mutualistica.

I conferimenti dei soci sovventori devono rispettare i limiti massimi previsti per i soci cooperatori. A fronte di essi sono emesse azioni (o quote) nominative liberamente trasferibili, salvo che l'atto costitutivo non preveda limiti alla circolazione. L'atto costitutivo può prevedere particola­ri condizioni a favore dei soci sovventori per la ripartizione degli utili e la liquidazione delle quote o delle azioni, così superando i limiti posti per i soci cooperatori. Per evitare una partecipazione esclusivamente spe­culativa, è, però, stabilito che il tasso di remunerazione dei soci sovven­tori non può essere maggiorato in misura superiore al due per cento ri­spetto a quello previsto per gli altri soci.

L'atto costitutivo può prevedere che il socio sovventore abbia più voti anche in relazione all'ammontare del conferimento, ma non oltre cinque. I voti attribuiti ai soci sovventori non possono mai superare un terzo dei voti spettanti a tutti i soci. I soci sovventori possono essere nomi­nati amministratori, ma la maggioranza degli amministratori deve essere costituita da soci cooperatori.

Gli utili e i ristorni

Regole specifiche sono dettate per la destinazione degli utili.

Innanzitutto, per rafforzare la consistenza del patrimonio sociale, la percentuale degli utili netti da destinare a riserva legale è sei volte più elevata rispetto alla società per azioni: il trenta per cento anziché il cin­que per cento, indipendentemente dall'ammontare raggiunto dalla riserva legale. La 1. 31 gennaio 1992, n. 59 ha, poi, introdotto l'obbligo di de­stinare il tre per cento degli utili netti annuali ad appositi «fondi mutualistici per la produzione e lo sviluppo della cooperazione». Si tratta di forme di auto contribuzione obbligatoria, finalizzate alla promozione ed al finanziamento di nuove imprese e di iniziative di sviluppo del mo­vimento cooperativo.

Sono posti, inoltre, limiti alla distribuzione tra i soci degli utili resi­dui, così comprimendosi il profilo lucrativo della partecipazione sociale. Al riguardo, come detto, la disciplina introduce una netta distinzione tra società cooperative a mutualità prevalente ed altre società cooperative. Per queste ultime è sufficiente che l'atto costitutivo fissi la percentuale massima dei dividendi, che possono essere ripartiti tra i soci sovventori.

Una disciplina più restrittiva è, invece, prevista per le società cooperati­ve a mutualità prevalente. Gli statuti delle società devono prevedere:

- il divieto di distribuire dividendi in misura superiore all'interesse massimo dei buoni fruttiferi postali aumentato di due punti e mezzo ri­spetto al capitale effettivo versato;

il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizio­ne ai soci cooperatori in misura superiore al due per cento rispetto a tale limite massimo;

- il divieto di distribuire le riserve tra i soci cooperatori;

- l'obbligo, infine, di devolvere, in caso di scioglimento della società, l'intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale sociale e i divi­dendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per lo sviluppo e la promozione della cooperazione.

Inoltre, in tutte le società cooperative, al fine di rafforzare la consi­stenza patrimoniale della società, possono essere distribuiti dividendi solo se il rapporto fra patrimonio netto e complessivo indebitamento della so­cietà è superiore ad un quarto.

La quota degli utili che residua dopo tali destinazioni (riserva legale, fondi mutualistici, utili ai soci nei limiti legali), se non assegnata ad al­tre riserve o fondi o ridistribuita ai soci, deve essere destinata a fini mu­tualistici.

Dagli utili (intesi come remunerazione del capitale) vanno tenuti di­stinti i ristorni. Questi consistono in un rimborso ai soci di parte del prezzo ato alla cooperativa per i beni o i servizi da questa forniti, tenuto conto del costo effettivo sostenuto dalla cooperativa (coopera­tive di consumo), ovvero in una integrazione della retribuzione corri­sposta dalla cooperativa per le prestazioni del socio (cooperative di pro­duzione e lavoro). Se una società cooperativa cede beni o presta ser­vizi allo stesso prezzo sia ai soci, sia ai terzi, deve provvedere, perio-dicamente, ad assegnare ai soci dei ristorni, che consistono nel rim­borso della differenza tra il prezzo praticato e il costo effettivo soste­nuto dalla cooperativa.

A differenza degli utili, i ristorni vengono attribuiti ai soci non m proporzione al valore dei conferimenti, ma al numero delle operazioni di cessione di beni o di servizi intercorse con la società. Ad esempio: in una cooperativa di consumo, un socio riceverà una somma più o meno elevata, a seconda della quantità di merci che ha acquistato; in una coo­perativa di lavoro, in base alle ore lavorative effettuate.

I ristorni costituiscono, quindi, uno degli strumenti tecnici per attri­buire ai soci cooperatori il vantaggio mutualistico (risparmio di spesa e maggiore remunerazione) derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa. Alle somme attribuite ai soci a titolo di ristorno non sono applicabili le limitazioni che la legge pone per la distribuzione de­gli utili.

Le mutue assicuratrici

L'altro tipo di società mutualistica è costituito dalla mutua assicuratrice o società di mutua assicurazione (art. 2546 c.c.).

Le mutue assicuratrici sono dirette a costituire un fondo comune tra coloro che sono esposti ad un medesimo rischio, per la reciproca assicurazio­ne contro i danni.

Nelle mutue assicuratrici vi è stretta interdipendenza tra la qualità di socio e la qualità di assicurato: non si può acquisire la qualità di socio se non assicurandosi presso la società e si perde la qualità di socio con l'estinguersi dell'assicurazione.

Viceversa, nelle comuni cooperative di assicurazione si può essere assicurati anche senza diventare soci.

I soci sono obbligati verso la società al amento dei contributi. Que­sti sono calcolati secondo i criteri tecnici propri dei premi di assicura­zione e devono essere versati periodicamente. Hanno, pertanto, la fun­zione sia di conferimenti in società, il cui capitale si forma in più solu­zioni successive, sia di premi di assicurazione.

Nelle mutue assicuratrici per le obbligazioni sociali, ed, in particolare, per il amento delle indennità assicurative, risponde solo la società con il proprio patrimonio.

Se il patrimonio sociale è insufficiente per l'esercizio dell'attività assi­curativa, l'atto costitutivo può prevedere la costituzione di fondi di ga­ranzia per il amento delle indennità, mediante speciali conferimenti di terzi, attribuendo anche a questi ultimi la qualità di socio.

Nelle mutue assicuratrici, possono, perciò, coesistere due categorie di soci: soci assicurati e soci sovventori. Soci, questi ultimi, che si limitano a conferire il capitale necessario per l'attività della società, senza essere assicurati.

In ogni caso, i voti dei soci sovventori, ciascuno dei quali può averne fino ad un massimo di cinque in relazione all'ammontare del conferi­mento, devono essere inferiori al numero dei voti spettanti ai soci assi­curati.








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