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LETTERE CONTRO LA GUERRA di TIZIANO TERZANI

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LETTERE

CONTRO LA GUERRA


di TIZIANO

TERZANI



10 SETTEMBRE 2001: IL GIORNO MANCATO

Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza la­sciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pen­sarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il nu­mero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limi­tato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciar­ne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qual­cosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sa­rebbe averlo nel presente. Ma non c'è più.



Il 10 settembre 2001 per me, e son certo non solo per me, fa un giorno di questo tipo: un giorno di cui non ricordo assolutamente nulla. So che ero ad Orsigna, l'e­state era finita, la famiglia s'era di nuovo sbrancata in tutte le direzioni ed io probabilmente preparavo vestiti e sectiune per tornare in India a svernare.

Pensavo di partire dopo il mio compleanno, ma non contavo i giorni e quel 10 settembre 2001 passò senza che me ne accorgessi, come non fosse nemmeno stato nel calendario. Peccato. Perché per me, per tutti noi - an­che per quelli che ancora oggi si rifiutano di crederlo -, quel giorno fu particolarissimo, uno di cui avremmo do­vuto, coscientemente, gustare ogni momento. Fu l'ultimo giorno della nostra vita di prima: prima dell' 11 settembre, prima delle Torri Gemelle, della nuova barbarie, della li­mitazione delle nostre libertà, prima della grande intolle­ranza, della guerra tecnologica, dei massacri di prigionieri e di civili innocenti, prima della grande ipocrisia, del con­formismo, dell'indifferenza o, peggio ancora, della rabbia meschina e dell'orgoglio malriposto; l'ultimo giorno pri­ma che la nostra fantasia in volo verso più amore, più fra­tellanza, più spirito, più gioia venisse dirottata verso più odio, più discriminazione, più materia, più dolore.

Lo so: apparentemente poco o nulla è cambiato nella nostra vita. La sveglia suona alla stessa ora, si fa lo stes­so lavoro, nello stimento del treno squillano sempre i telefonini ed i giornali continuano ad uscire ogni giorno con la loro dose di mezze bugie e mezze ve­rità. Ma è un'illusione, l'illusione di quel momento di silenzio che c'è fra il vedere una grande esplosione in lontananza ed il sentirne poi il botto. L'esplosione c'è stata: enorme, spaventosa. Il botto ci raggiungerà, ci as­sorderà. Potrebbe anche spazzarci via. Meglio prepararsi in tempo, riflettere prima che si debba correre, anche so­lo urativamente, a cercare di salvare i bambini o a prendere qualche ultima cosa da mettere in borsa.

Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. In­nanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna.

Questa impressione che tutto era cambiato mi colpi immediatamente. Un amico mi aveva telefonato dicen­do semplicemente: «Accendi la televisione, subito». Quando in diretta vidi il secondo aereo esplodere, pen­sai: «Pearl Harbor. Questa è una nuova guerra». Restai incollato davanti un po' alla BBC, un po' alla CNN per delle ore, poi uscii a fare una passeggiata nel bosco. Mi ricordo con quanto stupore mi accorsi che la natura era indifferente a quel che succedeva: le castagne comin­ciavano a maturare, le prime nebbie a salire dalla valle. Nell'aria sentivo il solito, lontano frusciare del torrente e lo scampanellio delle capre della Brunalba. La natura era assolutamente disinteressata ai nostri drammi di uo­mini, come se davvero non contassimo nulla e potessi­mo anche sire senza lasciare un gran vuoto.

Forse perché ho passato tutta la mia vita adulta in Asia e davvero sono ora convinto che tutto è uno e che, come riassume così bene il simbolo taoista di Yin e Yang, la luce ha in sé il seme delle tenebre e che al centro delle tenebre c'è un punto di luce, mi venne da pensare che quell'orrore a cui avevo appena assistito era una buona occasione. Tutto il mondo aveva visto. Tutto il mondo avrebbe capito. L'uomo avrebbe preso coscienza, si sa­rebbe svegliato per ripensare tutto: i rapporti fra Stati, fra religioni, i rapporti con la natura, i rapporti stessi fra uomo e uomo. Era una buona occasione per fare un esame di coscienza, accettare le nostre responsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita.

Dinanzi a quel che avevo appena visto alla televisio­ne e quel che c'era ora da aspettarsi non si poteva con­tinuare a vivere normalmente, come tornando a casa vi­di fare alle capre che brucavano l'erba.

Credo che in tutta la vita non sono mai stato davanti alla televisione quanto nei giorni che seguirono. Dalla mattina alla sera. Quasi non dormivo, in testa avevo sempre quella frase: una buona occasione. Per mestiere, dinanzi ad una verità ufficiale ho sempre cercato di ve­dere se non ce n'era una alternativa, nei conflitti ho sempre cercato di capire non solo le ragioni di una par­te, ma anche quelle dell'altra. Nel 1973, assieme a Jean-Claude Pomonti di Le Monde ed al fotografo Abbas, fui uno dei primi a passare le linee del fronte nel Vietnam del Sud per andare a parlare col « nemico », i vietcong. Allo stesso modo, per cercare di capire i terroristi che avevano già provato a far saltare in aria una delle Torri Gemelle a New York, nel 1996 ero riuscito, due volte di seguito, ed entrare nella «università della jihad» per parlare con i seguaci di Osama bin Laden.

Pensai che sarebbe servito riraccontare brevemente quella storia e le impressioni di quelle visite per imma­ginarsi il mondo dal punto di vista dei terroristi. Ma scrivere mi pesava.

Il 14 settembre era il mio sessantatreesimo com­pleanno ed in quella data scadeva formalmente il mio bel rapporto di lavoro con Der Spiegel, iniziato esatta­mente trent'anni prima, ma già dal 1997 messo, su mia richiesta, in una forma concordata di letargo.

Con In Asia *  (* Longanesi, Milano, 1998.) il libro che raccoglieva tutte le grandi e piccole storie di cui ero stato testimone, avevo detto quel che avevo da dire sul giornalismo. Da allora mi sono pra­ticamente ritirato dal mondo. Passo gran parte del tempo nell'Himalaya e godo enormemente di non avere scaden­ze tranne quelle della natura: il buio è l'ora di andare a letto, la prima luce l'ora di alzarsi. Dove abito, in un po­sto isolato a due ore di macchina dal primo centro abita­to, più un'ora a piedi attraverso una foresta di rododendri giganti, non c'è né luce né telefono e così non ho distra­zioni tranne quelle piacevolissime degli animali, degli uccelli, del vento e delle montagne. Ho perso l'abitudine di leggere i giornali e, anche quando vengo in Europa, ne faccio volentieri a meno: le storie si ripetono e mi pare di averle già lette anni fa, quando erano scritte meglio.

L'inverno è per me la più bella stagione nell'Hima­laya. Il cielo è limpidissimo e le montagne appaiono vicinissime. Avevo assolutamente fatto piani per partire, ma come dicono gli indiani indicando il cielo: «Vuoi far ridere Baghawan (Dio)? Bene: digli i tuoi piani ».

Così passai il mio compleanno a scrivere, non un ar­ticolo con quel numero fisso di righe, con l'attacco at­traente per renderlo leggibile, ma una lettera come l'a­vrei scritta di getto a un amico.

Mi piace scrivere lettere. Ho sempre pensato che se fossi nato ricco e trecento anni fa, là dove comunque son nato, povero, a Firenze, avrei solo voluto viaggiare il mondo per scrivere delle lettere. Il giornalismo in qualche modo mi ha permesso di fare una cosa simile, ma con la limitazione dello spazio, la fretta delle sca­denze, gli obblighi del linguaggio. Ora finalmente pos­so scrivere semplicemente delle lettere.

Quella da Orsigna la mandai per e-mail a Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, con un messag­gio che più o meno diceva: « Vedi tu. Secondo gli accordi ».

Per anni avevo avuto col Corriere un contratto di col­laborazione; ma quando era venuto il momento di rinno­varlo avevo scelto di non farne niente, per la stessa ra­gione per cui non ho mai voluto anticipi sui libri non an­cora scritti. Non voglio sentirmi obbligato a nulla, non voglio avere complessi di colpa, sensi del dovere. Così con de Bortoli ripiegammo su un personalissimo gentlemen agreement: io mi sarei sentito libero di scrivere quando, quanto e come volevo, lui libero di pubblicare o meno, cambiando al massimo le virgole. Così è stato.

La lettera uscì il 16 settembre. Il titolo non era quello che avevo suggerito, «Una buona occasione», ma non potevo, come non ho mai dovuto fare poi, lamentarmi. Cominciava in prima ina ed il seguito ne occupava un'altra intera. Il nocciolo di tutto quel che volevo dire era lì: le ragioni dei terroristi, il dramma del mondo mu­sulmano nel suo confronto con la modernità, il ruolo dell'Islam come ideologia anti-globalizzazione, la ne­cessità da parte dell'Occidente di evitare una guerra di religione, una possibile via d'uscita: la non-violenza.

Il sasso era tirato. Finii di preparare vestiti e sectiune ed andai a Firenze, pronto a partire. Non ero sicuro di an­dare nell'Himalaya. Tornare al mio splendido ritiro mi pareva un lusso che non potevo permettermi. Bush ave­va giusto detto: «We shall smoke Osama bin Laden out of his cave». Io dovevo accettare che Osama aveva sta­nato me dalla mia tana.

La tentazione di tornare nel mondo, di «scendere in pianura», come dicono nell'Himalaya quando vanno a fare la spesa, mi era già venuta. A luglio era uscita l'e­dizione americana di Un indovino mi disse * (* Longanesi, Milano, 1995.) e l'editore mi aveva invitato a fare quella orribile cosa che gli americani chiamano flogging, frustare il libro, spinger­lo, il che tradotto in parole povere significa diventare un pacco postale in mano a degli abilissimi, efficientissimi giovani PR che ti prendono in consegna e ti portano a giro dalla mattina alla sera in macchina, in aereo, in eli­cottero, da costa a costa, da una città ad un'altra - a vol­te due in un giorno -, mettendoti ora davanti all'intervi­statore di un quotidiano che del libro ha solo letto la co­pertina, ora davanti ai microfoni di una stazione radio per taxisti o di un'altra per insonni, ora davanti alle te­lecamere di un grande TV-show o a quelle di un più modesto programma di prima mattina per massaie dove si parla di destino fra una ricetta di insalata di pollo e un nuovo tipo di sci acquatico. L'ho fatto per due settimane. E Dio mio se valeva la pena! Tornai da quel viaggio scioccato, con un'impressione spaventosa. Avevo visto un'America arrogante, ottusa, tutta concentrata su sé stessa, tronfia del suo potere, della sua ricchezza, senza alcuna comprensione o curiosità per il resto del mondo. Ero stato colpito dal diffuso senso di superiorità, dalla convinzione di essere unici e forti, di credersi la civiltà definitiva. Il tutto senza alcuna autoironia.

Una notte, dopo un incontro sul libro allo Smithsonian Institute, un vecchio giornalista che conosco da an­ni mi portò a fare una passeggiata tra vari monumenti nel cuore di Washington, quello particolarmente com­movente ai caduti in Vietnam, quello teatrale e sugge­stivo ai morti in Corea e, nel posto dove sorgerà, quello ai caduti della seconda guerra mondiale.

La prima riflessione che feci era che mi pareva strano che un paese giovane, fondato sull'aspirazione alla feli­cità, avesse scelto di mettere al centro della sua capitale tutti quei monumenti alla morte. L'amico disse che non ci aveva mai pensato. Quando fummo davanti al masto­dontico, bianchissimo Lincoln, seduto su una gran pol­trona bianca in una gigantesca copia tutta bianca d'un tempio greco, mi venne da dire, sapendo che anche lui era stato a Pyongyang: «Mi ricorda Kim II Sung».

Si offese come gli avessi toccato la madonna. «Noi amiamo quest'uomo», disse. Mi trattenni dal fargli no­tare che un nordcoreano avrebbe detto esattamente la stessa cosa, ma questa era l'impressione che l'America mi aveva messo addosso. Il paragone non era soltanto nella mastodonticità dei monumenti; era nel fatto che gli americani mi parevano loro stessi vittime di un qualche lavaggio del cervello: tutti dicono le stesse cose, tutti pensano allo stesso modo. La differenza è che, al contra­rio dei nordcoreani, essi credono di farlo liberamente e non si rendono conto che quel loro conformismo è frutto di tutto quel che vedono, bevono, sentono e mangiano.

L'America mi aveva fatto paura e avevo pensato di tornarci, magari a fare un viaggio di qualche mese attra­verso l'intero paese, un viaggio come quello che feci con mia moglie Angela quando ero studente alla Columbia University, un viaggio che un tempo facevano i giornalisti europei, ora invece incollati a New York davanti ai loro computer, dove vedono e leggono quello che l'America vuole che vedano e che leggano perché ce lo possano riraccontare.

Avevo già in tasca il biglietto per Delhi quando il so­lito amico mi chiamò: «L'hai letta?» «Chi?» «La Fal­laci. T'ha risposto, nel Corriere di stamani.» Erano le tre del pomeriggio del 29 settembre e dovetti fare il giro di mezza Firenze per procurarmene una copia. Il gior­nale era davvero andato a ruba.

Lessi i quattro inoni e mi prese una gran tristezza. Ancora una volta m'ero sbagliato. Altro che buona occa­sione! L'11 settembre era stata l'occasione di svegliare ed aizzare il cane che è in ognuno di noi. Il punto cen­trale della risposta della Oriana era non solo di negare le ragioni del «nemico», ma di negargli la sua umanità, il che è il segreto della disumanità di tutte le guerre.

Mi colpì. Poi mi fece una gran pena. Ognuno ha di­ritto ad un suo modo di affrontare la vecchiaia e la mor­te; mi dispiaceva vedere che lei aveva scelto la via del rancore, dell'astio, del risentimento: la via delle passio­ni meno nobili e della loro violenza. Sinceramente mi dispiaceva per lei perché la violenza - ne sono sempre più convinto - brutalizza non solo le sue vittime, ma an­che chi la compie.

Mi misi a scrivere. La lettera questa volta era diretta a lei. Uscì sul Corriere 1'8 di ottobre, il giorno in cui i giornali erano dominati dalle foto di Bush e di Osama bin Laden. L'America aveva cominciato a bombardare l'Afghanistan. Riuscii a trovare una copia del giornale all'aeroporto di Firenze. Era l'alba, partivo per Parigi, da lì sarei volato a Delhi e poi in Pakistan.

Avevo deciso di «scendere in pianura». Pagavo di tasca mia, così da essere libero, eventualmente, di non scrivere. Mi sentivo leggero a non «rappresentare» che me stesso e a rispondere «pensionato» alla domanda sulla professione nelle schede dell'immigrazione.

Le lettere sono quelle scritte nel corso di questo lun­go viaggio. Le date indicano quando e dove sono state scritte. Solo metà di quel che segue è uscìto sul Corrie­re, ma mi sta a cuore precisare che ogni singola parola di ogni lettera che ho mandato a de Bortoli lui l'ha con grande correttezza pubblicata. Gliene sono grato, e sono certo che lo sono anche molti lettori. Anche se a volte, specie dopo che un missile americano aveva colpito a Kabul la sede della televisione indipendente Al Jazeera, ho temuto che uno, con simili intenzioni, potesse esser già caduto anche su via Solferino a Milano.

Ovviamente de Bortoli ed io non abbiamo affatto le stesse idee. Lui, ad esempio, concluse l'editoriale del 12 settembre con una frase famosa, che poi molti gli han tolto di bocca: «Siamo tutti americani». Bene, io no. Di fondo mi sento fiorentino, un po' italiano e sem­pre di più europeo. Ma americano proprio no, anche se all'America debbo molto, compresa la vita di mio fi­glio, quella di mio nipote - tutti e due nati là - ed in parte anche la mia. Ma questa è un'altra storia.

In fondo trovo difficile questo definirmi. Sono arri­vato alla mia età senza mai aver voluto appartenere a nulla, non a una chiesa, non a una religione: non ho avuto la tessera di nessun partito, non mi sono mai iscritto a nessuna associazione, né a quella dei cacciato­ri né a quella per la protezione degli animali. Non per­ché non stia naturalmente dalla parte degli uccellini e contro quegli omacci col fucile che sparano nascosti in un capanno, ma perché qualunque organizzazione mi sta stretta. Ho bisogno di sentirmi libero. E questa libertà è faticosa perché ogni volta, davanti ad una si­tuazione, quando bisogna decidere cosa pensare, cosa fare, si può solo ricorrere alla propria testa, al proprio cuore e non alla facile linea, pronta all'uso, di un partito o alle parole di un testo sacro.

Per istinto sono sempre stato lontano dal potere e non ho mai corteggiato chi lo aveva. I potenti mi han sem­pre lasciato freddo. Se mai sono entrato in qualche stanza dei bottoni, era con un taccuino per prendere appunti e sempre pronto a scoprire qualche magagna. Non dico questo per vantarmi, ma per rassicurare chi, leggendo le ine che seguono, può pensare che io sono parte di un qualche giro, di un qualche complotto, che ho un mio progetto o che porto avanti il piano di Tizio e di Caio.

Con queste lettere non cerco di convincere nessuno. Voglio solo far sentire una voce, dire un'altra parte di verità, aprire un dibattito perché tutti prendiamo co­scienza, perché non si continui a pretendere che non è successo niente, a far finta di non sapere che ora, in questo momento, in Afghanistan migliaia di persone vi­vono nel terrore di essere bombardate dai B-52, che in questo momento un qualche prigioniero, portato incap­pucciato e incatenato a venti ore di volo dalla sua terra, viene ora «interrogato» su un ultimo lembo di terra co­loniale degli Stati Uniti a Guantanamo, nell'isola di Cu­ba, mentre gli strateghi della nostra coalizione contro il terrorismo stanno preparando altri attacchi in chi sa quali altri paesi del mondo.

Allora io dico: fermiamoci, riflettiamo, prendiamo coscienza. Facciamo ognuno qualcosa e, come dice Jovanotti nella sua poetica canzone contro la violenza, ar­rivata fin quassù nelle montagne: «Salviamoci».

Nessun altro può farlo per noi.



LETTERA DA ORSIGNA

Una buona occasione



Orsigna, 14 settembre 2001

il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l'oc­casione per pensare diversamente da come abbiamo fat­to finora, l'occasione per reinventarci il futuro e non ri­fare il cammino che ci ha portato all'oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravviven­za dell'umanità è stata in gioco.

Non c'è niente di più pericoloso in una guerra - e noi ci stiamo entrando - che sottovalutare il proprio avver­sario, ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni possibile ragione, definirlo un «pazzo». Ebbene, la jihad islamica, quella rete clandestina ed internazionale che fa ora capo allo sceicco Osama bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell'allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, è tutt'altro che un fenome­no di «pazzia» e, se vogliamo trovare una via d'uscìta dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo gettati, dob­biamo capire con chi abbiamo a che fare e perché.

Nessun giornalista occidentale è riuscìto a passare molto tempo con Bin Laden e ad osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la sua gente. A me capitò nel 1995 di passare due mezze gior­nate in uno dei campi di addestramento che lui finanzia­va al confine fra il Pakistan e l'Afghanistan. Ne uscii sgomento ed impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e a tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il por­tatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sen­tito affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplice­mente il mio essere occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell'Islam.

Avevo provato sulla pelle la conferma che, con la ca­duta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la so­la ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine che, con l'America in testa, prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato era quella versione fondamentalista e militante dell'Islam. L'avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle repubbliche musul­mane dell'Asia centrale ex sovietica;*  (* Ho scritto di questo in Buona notte, signor Lenin, Longanesi, Milano, 1992. (N.d.A.)) l'avevo sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri anti-indiani nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano - la mia prima - perché ci «imparassi qual­cosa».

Vedendo e rivedendo, allibito come tutti, le immagini degli aerei che si schiantavano facendo una carnefi­cina nel centro di New York, così come, nei giorni pri­ma, leggendo le notizie degli uomini-bomba palestinesi che si facevano saltare in aria mietendo vittime per le strade di Israele, mi tornavano in mente quei giovani di varie nazionalità, ma di una unica, ferma fede, che avevo visto in quel campo di addestramento: era gente di un altro pianeta, di un altro tempo, gente che « cre­de» come noi stessi abbiamo saputo fare in passato, ma non sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria vita per una causa «0giusta» come una co­sa «santa». Quei giovani erano d'una pasta che noi ab­biamo difficoltà ad immaginare: indottrinati, abituati a una vita spartanissima, ritmata da una stretta routine di esercizi, studio e preghiere, una vita tutta disciplina, senza donne prima del matrimonio, senza alcol, senza droghe.

Per Bin Laden e la sua gente quello delle armi non è un mestiere, è una missione che ha radici nella fede ac­quisita nell'ottusità delle scuole coraniche, ma soprat­tutto nel profondo senso di scacco e di impotenza, nel­l'umiliazione di una civiltà - quella musulmana - un tempo grande e temuta, che si vede ora sempre più marginalizzata e offesa dallo strapotere e dall'arroganza dell'Occidente.

È un problema che varie altre civiltà hanno dovuto affrontare nel corso dei due secoli passati. Quell'umilia­zione la provarono i cinesi davanti «alle barbe rosse» degli inglesi che imposero loro il commercio dell'oppio, la provarono i giapponesi davanti alle «navi nere» dell'ammiraglio americano Perry che voleva aprire il Giappone al commercio. La prima reazione fu di smar­rimento. Come poteva la loro civiltà, di gran lunga su­periore a quella degli stranieri-invasori, essere messa al muro e resa così impotente? I cinesi cercarono una so­luzione innanzitutto con un ritorno alla tradizione (la ri­volta dei Boxer); fallita quella, imboccando la via della modemizzazione prima di stile sovietico ed ora di stile occidentale. I giapponesi, già alla fine dell'Ottocento, fecero questo salto tutto in una volta, mettendosi a imi­tare ossessivamente tutto ciò che era occidentale, co­piando le uniformi degli eserciti europei, l'architettura delle nostre stazioni e imparando a ballare il valzer.

Questo problema del come sopravvivere al confronto con l'Occidente, mantenendo una propria identità, si è posto ovviamente nel corso del secolo scorso anche per i musulmani, e anche per loro le risposte hanno oscillato fra il rifugio nel tradizionale, come nel caso dello Yemen o dei Wahabi, e varie forme di occidenta­lizzazione: la più ardita e radicale è stata quella attuata in Turchia da Kemal Atatürk, il quale negli anni '20, ri­scrivendo la costituzione, togliendo il velo alle donne, sostituendo la legge islamica con una copia del codice civile svizzero e una di quello penale italiano, mise il suo paese sulla strada che oggi sta portando Istanbul, pur con qualche sussulto, a diventare parte della Comu­nità Europea.

Per i fondamentalisti questa occidentalizzazione del mondo islamico è un anatema e, mai come ora, questo processo minaccia la sua identità. Secondo loro, con la fine della Guerra Fredda l'Occidente ha scoperto le sue sectiune e sempre più chiaro appare il progetto - per loro «diabolico» - di incorporare l'intera umanità in un uni­co sistema globale che, grazie alla tecnologia, dà al­l'Occidente l'accesso e il controllo di tutte le risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore - non a ca­so, secondo i fondamentalisti - ha messo nelle terre do­ve è nato e si è esteso l'Islam: dal petrolio del Medio Oriente al legname delle foreste indonesiane.

È solo negli ultimi dieci anni che questo fenomeno della globalizzazione, o meglio della americanizzazione, si è rivelato nella sua ampiezza. Ed è esattamente nel 1991 che Bin Laden, fino allora un protégé degli americani (il suo primo lavoro in Afghanistan fu quello di costruire per la CIA i grandi bunker sotterranei per lo stoccaggio delle armi destinate ai mujaheddin) si rivolta contro Washington. Lo stazionamento di truppe ameri­cane nel suo paese, l'Arabia Saudita, durante e dopo la guerra del Golfo, gli parve un insopportabile affronto e una violazione della santità dei luoghi sacri dell'Islam. La posizione di Osama bin Laden divenne chiara nel 1996 quando lanciò la sua prima dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti: «Le pareti di oppressione e umi­liazione non possono essere abbattute che con una gran­dine di pallottole». Nessuno lo prese molto sul serio. Ancora più esplicito fu il manifesto della sua organizza­zione, Al Qaeda, reso noto nel 1998 dopo una riunione dei vari gruppi associati a Bin Laden. «Da sette anni gli Stati Uniti occupano le terre dell'Islam nella penisola araba, saccheggiando le nostre ricchezze, imponendo la loro volontà ai nostri governanti, terrorizzando i no­stri vicini e usando le loro basi militari nella penisola per combattere i popoli musulmani.» L'appello rivolto a tutti i musulmani fu quello di «confrontare, combat­tere ed uccidere» gli americani. L'obiettivo dichiarato di Bin Laden è la liberazione del Medio Oriente. Quello sognato in nome dell'eroico passato è forse molto più vasto.

I primi attacchi della jihad sono sferrati contro le am­basciate americane in Africa e provocano decine e de­cine di morti. Washington risponde bombardando le ba­si di Bin Laden in Afghanistan ed una fabbrica di me­dicinali in Sudan provocando centinaia, altri dicono mi­gliaia, di vittime civili (il numero esatto non fu mai ac­certato perché gli Stati Uniti bloccarono una inchiesta dell'ONU sull'incidente).

La controrisposta di Bin Laden è venuta ora a New York e Washington. Non potendo colpire i piloti dei B-52 che sganciano le loro bombe da altezze irraggiun­gibili, né arrivare ai marinai che lanciano i loro missili dalle navi al largo, la soluzione è quella terroristica di attaccare masse di civili indifesi. Le azioni di questi uo­mini sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca, una guerra in cui il bombardamento di popola­zioni inermi è già stato un fenomeno comune a tutti i belligeranti dell'ultimo conflitto mondiale, da quello delle V2 tedesche su Londra al bombardamento atomi­co di Hiroshima e Nagasaki col suo bilancio di oltre 200.000 morti: tutti civili.

Da tempo ormai si combattono con nuovi mezzi e nuovi metodi guerre non dichiarate, lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto so­lo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle.

Dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato nel Medio Oriente paesi come il Libano, la Libia, l'Iran e l'Iraq. Dal 1991 l'embargo imposto dagli Stati Uniti all'Iraq di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini, a causa della malnutrizione. Cinquantamila morti all'anno sono uno stillicidio che certo genera in Iraq e in chi si identifica con l'Iraq una rabbia simile a quella che l'ecatombe di New York ha generato nell'America e di conseguenza anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame. Ciò non significa confondere le vitti­me coi boia, significa solo rendersi conto che, se voglia­mo capire il mondo in cui siamo, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto di vista.

Non si può capire quel che ci sta succedendo solo a sentire le dichiarazioni dei politici, costretti come sono a ripetere formule retoriche, condizionati a reagire alla vecchia maniera a una situazione completamente nuova e incapaci di ricorrere alla fantasia per suggerire ad esempio che, invece di fare la guerra, questo è il momento di fare finalmente la pace, a cominciare da quella fra israeliani e palestinesi. Invece guerra sarà.

In queste ore una strana coalizione si sta mettendo in moto attraverso gli automatismi di trattati, come il Patto Atlantico, nati per un fine e ora usati per un altro, e at­traverso l'adesione di paesi come la Cina, la Russia e forse anche l'India, ognuno spinto dai propri interessi strettamente nazionalistici. Per la Cina la guerra mon­diale contro il terrorismo è una buona occasione per cercare di risolvere i suoi vecchi problemi con le popo­lazione islamiche nei suoi territori di confine. Per la Russia di Putin è una occasione per risolvere innanzitut­to il problema della Cecenia e mettere a tacere tutte le accuse per le spaventose violazioni dei diritti umani da parte delle truppe di Mosca laggiù. Lo stesso è vero per l'India e il suo annoso conflitto per il controllo del Kashmir.

Il problema è che sarà estremamente difficile fare ap­parire questa guerra solo come una camna contro il terrorismo e non come una guerra contro l'Islam. Stra­namente la coalizione che oggi si sta formando assomi­glia molto a quella che già secoli fa l'Islam si trovò a combattere su due fronti: a occidente i crociati, a orien­te le tribù nomadi dell'Asia centrale e i mongoli. In quella occasione i musulmani resistettero e finirono per convertire all'Islam gran parte dei loro avversari.

Questa è una scommessa che Bin Laden e i suoi pos­sono aver fatto ora. Forse contano proprio su una rap­presaglia del mondo occidentale per coagulare una mas­siccia resistenza islamica e fare di quella che oggi è una minoranza, pur determinata, un fenomeno più esteso. L'Islam si presta bene, per la sua semplicità e il suo in­nato carattere di militanza, ad essere l'ideologia dei dannati della terra, di quelle masse di poveri che oggi affollano, disperate e discriminate, il Terzo Mondo oc­cidentalizzato.

Più che rimuovere i terroristi e chi li ha appoggiati (forse ci sorprenderà sapere quanti personaggi, alcuni anche insospettabili, sono coinvolti) sarebbe più saggio rimuovere le ragioni che spingono tanta gente, soprat­tutto fra i giovani, nelle file della jihad e fanno loro ap­parire come una missione il compito di uccidersi e di uccidere. Se noi davvero crediamo nella santità della vi­ta dobbiamo accettare la santità di tutte le vite. O siamo invece pronti ad accettare le centinaia, le migliaia di morti - anche quelli civili e disarmati - che saranno vit­time della nostra rappresaglia? Basterà alle nostre co­scienze che quei morti ci vengano presentati, nel gergo da pubbliche relazioni dei militari americani, come «danni collaterali»?

Dipende da quel che noi faremo, da come reagiremo a questa orribile provocazione, da come vedremo la no­stra storia di ora nella scala della storia dell'umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che fino a quando penseremo di avere il monopolio del «bene», fino a che parleremo della nostra come la civiltà, igno­rando le altre, non saremo sulla buona strada.

L'Islam è una grande e inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare che un qualsiasi cow-boy, pur armato di tutte le pistole del mondo, possa cancellare questa fede dalla faccia della terra. Meglio sarebbe aiutare i musulmani stessi a isolare, invece che renderle più virulente, le frange fondamentaliste e a riscoprire l'aspetto più spirituale della loro fede.

L'Islam è ormai ovunque. Nell'America stessa ci so­no ormai tanti musulmani quanti ebrei (sei milioni, la gran parte, non a caso, afroamericani, attirati dal fatto che l'Islam è stato fin dal suo inizio al di sopra del con­cetto di razza). Sul territorio americano ci sono già 1400 moschee, una persino nella base navale di Norfolk.

Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni parziali della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della reto­rica a cui oggi ricorre chi è a corto di idee per riempire il silenzio di sbigottimento. Il pericolo è che a causa di questi tragici, orribili dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani, per essere dirottati da quella che è la nostra missione sulla terra. Gli americani l'hanno de­scritta nella loro costituzione come «il perseguimento della felicità». Bene: perseguiamo tutti assieme questa felicità, dopo averla magari ridefinita in termini non so­lo materiali e dopo esserci convinti che noi occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità a scapito della felicità di altri e che, come la libertà, anche la fe­licità è indivisibile.

L'ecatombe di New York ci ha dato l'occasione di ripensare a tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata è di aggiungere o togliere al fon­damentalismo islamico le sue ragioni di essere, di tra­sformare i balli dei palestinesi non in esultazioni maca­bre di gioia per una tragedia altrui, ma di sollievo per una loro riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che cadrà sulle popolazioni del mondo non­ nostro finirà solo per seminare altri denti di drago e dar vita a nuovi giovani disposti ad urlare Allah Akbar, «Allah è grande», pilotando un altro aereo carico di in­nocenti contro un grattacielo o, domani, lasciando una bomba batteriologica o un'atomica tascabile in qualche nostro supermercato.

Solo se riuscìremo a vedere l'universo come un tutt'uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la gran­de bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capi­re chi siamo e dove stiamo. Altrimenti saremo solo co­me la rana del proverbio cinese che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo. Duemilacinquecento anni fa un indiano, chia­mato poi «illuminato», spiegava una cosa ovvia: che «l'odio genera solo odio» e che «l'odio si combatte so­lo con l'amore». Pochi l'hanno ascoltato. Forse è venu­to il momento.



LETTERA DA FIRENZE

II sultano e san Francesco

Firenze, 4 ottobre 2001

Oriana,

dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa, quando assie­me facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corri­spondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi per­metto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.

Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi co­me dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone, e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana, la ragione; il meglio del cuore, la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato del fatto che, dinanzi all'in­dicibile orrore della prima guerra mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confon­dente chiacchierio. Tacere per Kraus significava ripren­dere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanità, un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualità.

Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani, e questo mi inquieta.

Il nostro di ora è un momento di straordinaria impor­tanza. L'orrore indicibile è appena cominciato, ma è an­cora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento an­che di enorme responsabilità perché certe concitate pa­role, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a ri­svegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi e a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il sui­cidarsi e l'uccidere.

«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle ar­mi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. E ag­giungeva: «Finché l'uomo non si metterà di sua volontà all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza».

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa cro­ciata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella cal­colata camna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per scongere la violenza? Da che mondo è mondo non c'è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa.

Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiarne allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nul­la, tanto meno all'inevitabilità della guerra come stru­mento di giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rende sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a com­battere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposi­zione, compresa quella atomica, come propone il segre­tario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, quali che siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se al­la violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi ri­sponderemo con una ancor più terribile violenza - pri­ma in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un'altra nostra e così via.

Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile e interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usa­re una dose, magari «intelligente», di violenza per met­tere fine alla terribile violenza altrui. Cambiarne illusio­ne e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solenne­mente con tutta l'umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibili­tà. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro, uscìto due anni fa in Germania (peccato che non sia an­cora tradotto in italiano), di un vecchio amico. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L'arte di non essere gover­nati: l'etica politica da Socrate a Mozart). L'autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'università di Berlino. L'affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressio­ne più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in al­cuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, in­tesi da sempre a ricordare all'uomo la necessità di rom­pere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima città.* (* Secondo una leggenda afghana, quella città è Kabul. (N.d.A.)) La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.

Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella for­mazione dell'uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue pos­sibili scelte di azione, è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi oc­cidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato.

A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto, invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni gio­vani delle Tigri Tamil, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di Hamas che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati, e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'im­peratore.

I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell'innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i li - fortunatamente - sono nati, per cui non dobbiamo scrivere loro lettere postume, si preoccu­pano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'eca­tombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un epi­sodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana è semplice da spiegare e tra un fatto ed un altro c'è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assie­me a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l'atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una crociata alla ro­vescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed aldemocrazia - Le elezioni - I gruppi parlamentari - Il governo - La Corte Costituzionale" class="text">la democrazia occidentale», co­me vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai po­litici.

Un vecchio accademico della Berkeley University, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse, dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell' 11 settembre non hanno attaccato l'America: han­no attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation uscito in otto­bre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback (Contraccolpo), uscito l'anno scorso, ha del profeti­co -, si tratterebbe appunto di un ennesimo «contrac­colpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.

Con un'analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del KGB, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, com­plotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clande­stinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della seconda guer­ra mondiale a oggi.

Il «contraccolpo» dell'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla CIA contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a con­vincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti e i loro alleati.

Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'è, a parte la que­stione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», quali che siano, le riserve petrolifere della regione. Que­sta è una trappola. L'occasione per uscirne è ora.

Perché non rivediamo la nostra dipendenza economi­ca dal petrolio? Perché non studiarne davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?

Ci eviteremmo così d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi e odiosi dei talebani; ci evi­teremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e po­tremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petro­lieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che an­che tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scri­vendo e dicendo sull'Afghanistan in questi giorni, po­chissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura voglia portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex sovietiche ora tutte, improvvisa­mente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'In­dia e da lì nei paesi del Sud-Est asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ri­cordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a co­struire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan. È dun­que possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l'imminente attac­co contro l'Afghanistan nasconda anche altre conside­razioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.

È per questo che nell'America stessa alcuni intellet­tuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera e quelli dell'in­dustria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella comine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare al­l'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l'America così particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per esser­si chiesto se l'aggettivo «codardi», usato da Bush, fos­se appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali di collaboratori giudicati non ortodossi, ha ov­viamente aumentato queste preoccupazioni.

L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha già sofferto negli anni '50 col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato e accademici, ingiustamente accu­sati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati sen­za lavoro.

Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo -, alle «cicale» e agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere to­gliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.

Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «uffi­ciale» della politica e dell'establishment mediatico, c'è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l'America ci mettesse già paura. Capita così di sentir di­re in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?

Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l'angoscia di qualcuno come il nostro presidente del Consiglio che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni, si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da deci­dere e, non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, ab­biamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabi­lità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di compren­sione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intel­lettuali uscìto proprio una settimana prima degli atten­tati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiez­za e del terrorismo e indicando le comunità di immigra­ti musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole con­tro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intol­lerante, saranno migliori?

Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezio­ne di religione, anche che cosa è l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprez­zato Omar Khayyam? Non sarebbe meglio che ci fosse­ro quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che già stu­diano l'inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide, in Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di sol­dati, di statisti e mercanti. I poeti e i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme».

Dove sono oggi i santi e i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un san Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combatteva­no i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci pro­vò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufra­gò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda vol­ta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Fi­nalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'as­sedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comporta­mento dei crociati («vide il male ed il peccato»), scon­volto dalla vista dei morti sul campo di battaglia, san Francesco attraversò le linee del fronte. Venne cattura­to, incatenato e portato al cospetto del sultano. Peccato che non ci fosse ancora la CNN - era il 1219 -, perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il sultano lasciò che san Francesco tor­nasse, incolume, all'accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ra­gioni, che san Francesco parlò di Cristo, che il sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'ac­cordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi di­verte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ri­dere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riferendosi all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere hanno fatto diventare l'uomo più umano?» A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «no». Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

«Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?» chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l'evoluzione psichi­ca dell'uomo in modo che egli diventi più capace di re­sistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?»

Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua con­clusione fu che c'era da sperare: due fattori - un atteg­giamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbero influito a mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.

La morte risparmiò a Freud giusto in tempo gli orrori della seconda guerra mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di mori­re, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomi­ni e dimenticatevi tutto il resto».

Per difendersi, Oriana, non c'è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi e ai tuoi calci). Per proteggersi non c'è bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M'è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non-violenza, in una in­carnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assie­me ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un bri­gante, sta per ammazzare tutti e derubarli, e lui lo pre­viene buttandolo nell'acqua. Il brigante affoga e gli altri sono salvi.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere e in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il ri­spetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al tribuna­le di Norimberga; quelli giapponesi, responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al tri­bunale di Tokyo prima di essere, gli uni e gli altri, dovu­tamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama bin Laden?

«Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice di Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata e odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi a un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide, responsabile dell'esplosione che nel 1984, nella fabbrica chimica di Bhopal, in India, fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì.

Il terrorista che ora ci viene additato come il «nemi­co» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; è l'ingegnere-pilota, islamico fanatico, che in nome di Allah uccide sé stesso e migliaia di inno­centi; è il ragazzo palestinese che con una borsetta im­bottita di dinamite si fa esplodere in mezzo a una folla.

Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese po­vero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bom­ba ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione e inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Pri­mo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la co­struzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fi­no al giorno in cui è più conveniente portare quelle la­vorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai re­stano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso la gente muore di fame?

Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il ter­rorismo, come modo di usare la violenza, può esprimer­si in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare a una definizione comune del nemico da debellare.

I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esatta­mente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti sembrano invece i cittadini dei va­ri paesi. Per il momento non ci sono state in Europa di­mostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disa­gio è diffuso, così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qual­cosa di più carino del capitalismo», diceva il sectiunello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c'era scritto sullo striscione di alcuni gio­vani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mon­do «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tan­to si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità e ispirato ad un po' più di moralità.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l'en­nesimo esempio di quel cinismo politico che oggi ali­menta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.

Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura pos­sibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un cri­sma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Na­zioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a are le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giusti­zia né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo, e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.

L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington ri­scopre l'utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la CIA sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la CIA stessa metterà sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: miglio­re in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, co­me ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell'Islam o degli immigrati che vi si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città botte­gaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Fi­renze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attenda­no in piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s'è «globalizzata», perché non ha resistito al­l'assalto di quella forza che, fino a ieri, pareva irresisti­bile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro, via Tornabuoni, in cui fin da ragazzo mi piaceva andare a spasso, sono ssi una libreria storica, un vec­chio bar, una tradizionalissima farmacia e un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo più.

Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto nell'universo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tor­narci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente insca­tolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tut­to molto, molto più grande di tutte le torri che hai da­vanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.

Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.


LETTERA DA PESHAWAR

Al bazar dei racconta-storie

Peshawar, 27 ottobre 2001


Sono venuto in questa città di frontiera per essere più vicino alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di farmene una ragione; ma, come fossi saltato nella mi­nestra per sapere se è salata o meno, ora ho l'impressio­ne di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di follia umana che, con questa guerra, sembra non ave­re più limiti. Passano i giorni, ma non mi scrollo di dos­so l'angoscia: l'angoscia di prevedere quel che succede­rà e di non poterlo evitare, l'angoscia di essere un rap­presentante della più moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del mondo ora impegnata a bombardare il paese più primitivo e più povero della terra; l'angoscia di ap­partenere alla razza più grassa e più sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già stracarico fardello di disperazione della gente più magra e più af­famata del pianeta. C'è qualcosa di immorale, di sacri­lego, ma anche di stupido - mi pare - in tutto questo.

A tre settimane dall'inizio dei bombardamenti an­gloamericani dell'Afghanistan la situazione mondiale è molto più tesa ed esplosiva di quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani e palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan ed India sono sul punto di rottura; l'intero mondo islamico è in agitazione ed ogni regime modera­to di quel mondo, dall'Egitto all'Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante pressione dei gruppi fonda­mentalisti. Nonostante tutti i missili, le bombe e le ope­razioni segretissime dei commando, mostrateci in picco­li spezzoni del Pentagono, come per farci credere che la guerra è solo un video game, i talebani sono ancora sal­damente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all'interno dell'Afghanistan, mentre diminuisce in ogni angolo del mondo il senso della nostra sicurezza.

«Sei musulmano?» mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare una focaccia di pane azzimo.

«No.»

«Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tut­ti.»

Attorno tutti ridono. Sorrido anch'io.

Lo chiamano Kissa Qani, il bazar dei racconta-storie. Ancora una ventina d'anni fa era uno degli ultimi, ro­mantici crocevia dell'Asia, pieno delle più varie mer­canzie e varie genti. Ora è una sorta di camera a gas con l'aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre più mal in arnese a causa dei tantissimi rifugiati e men­dicanti. Fra le vecchie storie che ci si raccontavano c'era quella di Avitabile, un napoletano soldato di ventura ar­rivato qui a metà dell'Ottocento con un amico di Modena e diventato governatore di questa città. Per tenerla in pugno, ogni mattina, all'ora di colazione, faceva impic­care un paio di ladri dal minareto più alto della moschea e da allora ai bambini di Peshawar è stato detto: «Se non sei buono, ti do ad Avitabile». Oggi le storie che si rac­contano al bazar sono tutte sulla guerra americana.

Alcune, come quella secondo cui l'attacco a New York e Washington è stato opera dei servizi segreti di Tel Aviv - per questo nessun israeliano sarebbe andato a lavorare nelle Torri Gemelle l'11 settembre -, e quella secondo cui l'antrace per posta è una operazione della CIA per preparare psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein, sono già vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto ad essere credute. L'ultima è che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non riescono a piegare l'Afghanistan ed hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di dollari sulla gente. «Ogni missile costa due milioni di dollari. Ne hanno già tirati più di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti quei soldi, i talebani non sarebbero più al po­tere», dice un vecchio rifugiato afghano, ex comandan­te di un gruppo di mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me.

L'idea che gli americani son pieni di soldi e disposti ad essere generosi con chi sia disposto a schierarsi dalla loro parte è diffusissima. Giorni fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunità afghana in esilio si sono riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Pe­shawar per discutere del futuro dell'Afghanistan «dopo i talebani». Per ore e ore dei bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni occidentali - si sono avvicendati al microfono a parlare di «pace e unità», ma nei loro discorsi non c'era alcuna passione, non c'era alcuna convinzione. «Son qui solo per registrare il loro nome e cercare di raccogliere fondi americani», di­ceva un vecchio amico, un intellettuale pakistano, di origine pashtun come quella gente. «Ognuno guarda l'altro chiedendosi: 'E tu quanto hai già avuto?' Quel che gli americani dimenticano è un nostro vecchio pro­verbio: un afghano si affitta, ma non si compra.»

Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per quella che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione politica del problema afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un governo in cui tutti fossero rappresentati - magari anche alcuni capi talebani moderati - e mandare l'esercito del nuovo regime a caccia degli uomini di Al Qaeda, risparmiando così il lavoro e i rischi ai soldati della coalizione. Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie quando questo terreno è l'Afghanistan.

Già l'idea che il vecchio re, in esilio a Roma da trent'anni, possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è una illusione di chi crede di poter rifare il mondo a ta­volino, è una pretesa di quei diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana - gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto vedere, il suo non aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una indicazione di indifferenza per la sofferenza del suo popolo. «Ba­stava che al tempo dell'invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in mano e avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo rispetterebbero», dice l'amico, « e poi, non è mai andato in pellegrinaggio alla Mec­ca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po' di rilievo anche dal punto di vista religioso.»

A parte il re, l'altro uomo su cui gli americani conta­vano per il loro gioco era Abdul Haq, uno dei più pre­stigiosi comandanti della resistenza anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che seguì. «Non è qui. È andato in Afghanistan», si diceva durante la confe­renza di Peshawar, alludendo ad una «missione» che sarebbe stata decisiva per il futuro. L'idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo grande ascen­dente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe staccato dal regime del mullah Omar alcuni co­mandanti regionali e avrebbe potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la capitale fosse sta­ta presa dall'Alleanza del Nord, che i pashtun e i paki­stani non vogliono assolutamente vedere al potere.

La «missione» di Abdul Haq non è durata a lungo. I talebani lo hanno seguito appena quello è entrato in Af­ghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno catturato e nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un «tradi­tore» assieme a due suoi seguaci. Gli americani con tut­ta la loro attrezzatura elettronica e i loro super-elicotteri non sono riuscìti a salvarlo.

Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che sotto la pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si creasse un vuoto di potere. Ma tutto questo non è successo. Anzi. Ogni indicazione è che i talebani sono ancora in carica. Catturano giornalisti occidentali che si avventurano ol­tre la frontiera e fanno sapere, per scoraggiare altri ten­tativi, di non avere più spazio né cibo per detenerne al­tri. «Le varie inchieste sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo la sharya, la legge coranica», dicono come farebbe un qualsiasi Stato sovrano. I talebani pas­sano decreti, fanno comunicati per smentire notizie fal­se e continuano a sfidare la strapotenza americana non cedendo terreno e promettendo morte agli afghani che si schierano con il nemico.

Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri fa sì che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il loro regime ora si schiera dalla loro par­te. «Quando un melone vede un altro melone, ne pren­de il colore», dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo come invasori, gli afghani diventano sempre più dello stesso colore.

Per gli americani, già sotto enorme pressione internazionale per la stupidità delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su gente inerme e di nuovo sui ma­gazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s'è rivelata, nelle prime tre settimane, un completo fallimento, quel­la politica uno smacco.

Avevano cominciato la camna afghana dicendo di volere Osama bin Laden, «vivo o morto», ed hanno presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il mullah Omar, capo dei talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare il regime, ma finora quel che son riuscìti a fare, oltre a centinaia di vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città già ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75 per cento degli abi­tanti. Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza tetto, si aggirano nelle mon­tagne del paese e si aggiungono ai sei milioni che, sem­pre secondo le Nazioni Unite, erano già «a rischio» per mancanza di cibo e protezione prima dell'11 settembre.

«Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occupar­ci», dice un funzionario internazionale. «Quelli che non hanno nulla a che fare col terrorismo, quelli che non leggono i giornali, che non guardano la CNN. Molti di loro non sanno neppure che cosa è successo alle Torri Gemelle.»

Quel che tutti sanno invece è che le bombe, le bombe che giorno e notte distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un costante terremoto, le bombe sganciate dagli aerei d'argento che piroettano nel cielo di lapislazzulo dell'Afghanistan, sono bombe inglesi e ameri­cane, e questo coagula l'odio dei pashtun, degli afghani e più in generale dei musulmani contro gli stranieri. Ogni giorno di più l'ostilità è ovvia sulla faccia della gente.

Ero andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla manifestazione pro-talebani che si tiene di routine nella vecchia Peshawar dopo la preghiera di mezzogiorno, ma l'amico pashtun mi ave­va avvertito che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. «I duri non marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi», m'aveva detto.

L'ho fatto, e per un giorno e una notte, in comnia di due studenti universitari che in quella regione sem­bravano conoscere tutti e tutto, ho gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non è misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo ca­pire a fondo se vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti.

La regione in cui sono stato è a due ore di macchina da Peshawar, a mezza strada dalla frontiera afghano-pa­kistana. Per le popolazioni di qui la frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un fun­zionario inglese - non esiste. Dall'una e dall'altra parte di quella innaturale divisione politica fra identiche montagne vive una identica gente: i pashtun (detti an­che pathan) che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun ed il sogno di un Pashtunstan, uno Stato che aggreghi tutti i pashtun, non è mai completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri dell'Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscìrono mai a scongere. «Un pashtun ama il suo fucile più di suo lio», dicevano. I talebani sono pash­tun e quasi esclusivamente pashtun sono le zone in cui ora cadono le bombe americane. «Mio padre è sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i bombarda­menti anche lui parla come un talebano e sostiene che non c'è alternativa alla jihad», diceva uno dei miei stu­denti, mentre lasciavamo Peshawar.

La strada correva fra piantagioni di canna da zucche­ro. Sui muri bianchi che dividono i campi spiccavano grandi slogan dipinti di fresco: «La jihad è il dovere della nazione», «Un amico degli americani è un tradi­tore», «La jihad durerà fino al giorno del giudizio». Il più strano era: «Il Profeta ha ordinato la jihad contro l'India e l'America». Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, millequattrocento anni fa, l'India e l'Ame­rica esistessero già. Ma è appunto questa accecante mi­stura di ignoranza e di fede ad essere esplosiva e a crea­re, attraverso la più semplicistica e fondamentalista ver­sione dell'Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po' troppo av­ventatamente, di venirci a confrontare.

«Quando uno dei nostri salta su una mina o viene di­laniato da una bomba, prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto, li, nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli in­glesi? Sanno morire così?» Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi da dove, presentando­mi, ho detto di venire, apre un giornale in urdu e ad alta voce legge una breve notizia in cui si dice che anche l'I­talia si è offerta di mandare navi e soldati, e il mio in­terlocutore personalizza la sua sfida: « e voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché anche voi ve­nite qui ad uccidere la nostra gente, a distruggere le no­stre moschee? Che direste se noi venissimo a distrugge­re le vostre chiese, se venissimo a radere al suolo il vo­stro Vaticano?»

Siamo in una sorta di rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a una decina di chilometri dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle polvero­se medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un sole in cui è scritto «jihad». Attorno al «dot­tore» che mi parla si sono riuniti una decina di giovani: alcuni sono veterani della guerra, altri stanno per andar­ci. Uno è appena tornato dal fronte e racconta dei bom­bardamenti. Dice che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo, scappano e non osano combattere fac­cia a faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei bombar­damenti di Jalalabad, muoiono ora dall'altra parte del confine per mancanza delle più semplici cure.

L'atmosfera è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono assolutamente convinti che quella in corso è una grande congiura-crociata dell'Occidente per distruggere l'Islam, che l'Afghanistan è solo il primo obiettivo e che l'unico modo di resistere è per tutto il mondo isla­mico di rispondere all'appello per la guerra santa. «Vengano pure gli americani, così ci potremo procura­re delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri», dice uno dei giovani. «A voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non scongerete mai l'Islam.»

Cerco di spiegare che la guerra in corso è contro il terrorismo, non l'Islam, cerco di dire che l'obiettivo della coalizione internazionale guidata dagli americani non sono gli afghani, ma Osama bin Laden e i talebani che lo proteggono. Non convinco nessuno. «Io non so chi sia Osama», dice il «dottore». «Non l'ho mai in­contrato, ma se Osama è nato a causa delle ingiustizie commesse in Palestina e in Iraq, sappiate che le ingiu­stizie ora commesse in Afghanistan faranno nascere tanti, tanti altri Osama.»

Di questo sono convinto e la prova è dinanzi ai miei occhi: l'ambulatorio è un centro di reclutamento per la jihad, il «dottore» è il capo di un gruppo di venti gio­vani che domani partirà per l'Afghanistan. Ognuno por­terà con sé un'arma, del cibo e del danaro. In ogni vil­laggio ci sono gruppi così. Il «dottore» parla di alcune migliaia di mujaheddin che da questa regione, formalmente in Pakistan, stanno per andare a combattere a fianco dei talebani. L'addestramento? Tutti, dice il «dottore», han fatto due mesi per imparare l'uso delle armi e delle tecniche di guerriglia. Ma quel che conta è l'istruzione religiosa ricevuta nelle tante piccole scuole coraniche, le madrassa, sparse nella camna. Mi han portato a visitarne una. Disperante.

Seduti per terra, davanti a dei tavolinetti di legno, una cinquantina di bambini - c'erano anche alcune bambine - dai tre ai dieci anni, tutti pallidi, magri e consunti, cantilenavano senza interruzione i versetti del Corano. Nella loro lingua? No, in arabo, che nessuno sa. «Sanno però che chi riesce a imparare tutto il Corano a memoria, lui e tutta la sua famiglia andranno in paradiso per sette generazioni!» mi ha spiegato il giovane barbuto che faceva da istruttore. Trentacinque anni, sposato con cinque li, ammalato di cuore, fra­tello del capo della locale moschea, diceva che nono­stante le sue condizioni di salute anche lui sarebbe an­dato a combattere. Aspettava solo che gli americani scendessero dai loro aerei e si facessero vedere al suolo. «Se non smettono di bombardare costituiremo piccole squadre di uomini che andranno a mettere bombe e a piantare la bandiera dell'Islam in America. Se verranno presi dall'FBI si suicideranno», diceva con un sorriso invasato.

A parte la memorizzazione del Corano, le madrassa insegnano poco o nulla, ma per le famiglie povere della regione quella, pur miserissima, è l'unica educazione possibile. Il risultato sono i giovani che ora vanno alla jihad.

Dovunque ci siamo fermati in quelle ore non ho sen­tito che discorsi carichi di fanatismo, di superstizione, di certezze fondate sull'ignoranza. Eppure, sentendo parlare questa gente, mi chiedevo quanto anche noi, pur colti e rimpinzati di conoscenze, siamo pieni di pre­teso sapere, quanto anche noi finiamo per credere alle bugie che ci raccontiamo.

A sette settimane dagli attacchi in America le prove che ci erano state promesse sulla colpevolezza di Osama bin Laden, e di riflesso dei talebani, non ci sono sta­te ancora date, eppure quella colpevolezza è ormai data per scontata. Anche noi ci facciamo illudere dalle paro­le e abbiamo davvero creduto che la prima operazione delle forze speciali americane in Afghanistan era intesa a trovare il centro di comando dei talebani, senza pen­sare che, come dice il mio amico, «quel centro non esi­ste o è al massimo una capanna di fango con un tappeto da preghiera e qualche piccione viaggiatore, ora che i talebani non possono più usare le loro radioline, facil­mente intercettabili dagli americani».

E non è il fanatismo di questi fondamentalisti simile al nostro arrogante credere che abbiamo una soluzione per tutto? Non è la loro cieca fede in Allah pari alla no­stra fede nella scienza, nella tecnica, nell'abilità di met­tere la natura al nostro servizio?

È con queste certezze che andiamo oggi a combattere in Afghanistan con i mezzi più sofisticati, gli aerei più invisibili, i missili più lungimiranti e le bombe più ammazzauomo per rifarci di un atto di guerra commesso da qualcuno armato solo di tagliasectiune e di una ferma determinazione a morire.

Come non rendersi conto che per combattere il terro­rismo siamo venuti a uccidere degli innocenti e con ciò ad aizzare ancor più un cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella direzione sba­gliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che con ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre più dalla via di uscìta?

Dopo la conversazione con i fanatici della jihad quella fra me e me è continuata per il resto della notte, pas­sata insonne a tenermi lontano le zanzare. Certo che non è invidiabile una società come quella che produce dei ragazzi così ottusi e disposti a morire. Ma lo è forse la nostra? Lo è quella americana che accanto agli eroici pompieri di Manhattan produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che - il sospetto cre­sce - mettono l'antrace nelle buste spedite a mezzo mondo?

Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una società carica d'odio. Ma è da meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell'Asia centrale, bombarda un paese che vent'anni di guerra han già ridotto ad una im­mensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro modo di vivere si debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni che differen­za c'è fra l'innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le nostre bom­be a Kabul?

La verità è che quelli di New York sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri 100.000 bambini afghani che, secondo l'UNICEF, moriranno quest'inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini «loro». E quei bambini loro non ci in­teressano più. Non si può ogni sera, all'ora di cena, ve­dere alla televisione un piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una notta. Lo si è già visto tante vol­te; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci sia­mo già abituati. Non fa più notizia e i giornali richiama­no i loro corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui collegamenti via satellite dai tetti de­gli alberghi a cinque stelle di Islamabad. Il circo va al­trove, cerca altre storie, l'attenzione è già stata anche troppa.

Eppure l'Afghanistan ci perseguiterà perché è la car­tina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la forza delle armi può risolvere il proble­ma che ci sta dinanzi.

«Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna costruire la di­fesa della pace», dice il preambolo della costituzione dell'UNESCO. Perché non provare a cercare nelle no­stre menti una soluzione che non sia quella brutale e ba­nale di altre bombe e di altri morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non quella appunto della nostra mente, ed ancor meno quella della nostra co­scienza, mi dicevo tentando di tenere lontane le zanzare.

La notte è fortunatamente breve. Alle cinque la voce metallica di un altoparlante comincia a salmodiare dal­l'alto di un minareto vicino; altre rispondono in lonta­nanza. Partiamo.

Nella hall dell'albergo dove arrivo a fare colazione è già accesa la televisione. La prima notizia, all'alba, non è più la guerra in Afghanistan, ma l'annuncio fatto a Washington del «più grande contratto di forniture belliche nella storia del mondo». Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione della nuo­va generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3000 pezzi per un valore di 200 miliardi di dollari. Gli aerei entreranno in funzione nel 2012.

Per bombardare chi? mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel 2012 avranno giusto vent'anni e mi torna in mente una frase dell'invasato «dottore»:

«Se gli americani vogliono combatterci per quattro an­ni, noi siamo pronti, se vogliono farlo per quarant'anni siamo pronti. Per quattrocento, siamo pronti».

E noi? Questo è davvero il momento di capire che la storia si ripete e che ogni volta il prezzo sale.


LETTERA DA QUETTA

Il talebano col computer

Quetta, 14 novembre 2001


Scrivo queste righe da una modesta locanda affacciata sul grande bazar della città dove una medioevale folla di uomini barbuti e inturbantati, avvolti nella moderna foschia azzurrognola delle esalazioni di autobus e mo­torini, si mescola a ciuchi, cavalli, barrocci e carretti. La frontiera afghana è a un centinaio di chilometri e questa città, acquattata in una conca di spigolose, brulle montagne grigio-rosa, è una delle spiagge su cui si ab­battono le onde della guerra vicina lasciandosi dietro i soliti resti umani del naufragio: profughi, orfani, feriti, mendicanti.

Non si fanno due passi senza essere accostati da mani scarne e supplicanti, da sguardi vuoti di donne dietro il burqa. Sono riuscìto a trovare una camera qui perché il «turista» americano che la occupava è partito una mat­tina per l'Afghanistan e non è più tornato. La prima ver­sione della sua ssa è stata che i talebani lo ave­vano arrestato ed impiccato come agente della CIA. Un'altra che è stato ucciso in uno scontro a fuoco. I ta­lebani hanno semplicemente detto che il cadavere era all'ospedale di Kandahar e chi voleva poteva andare a prenderselo. Nessuno l'ha fatto e il padrone della locan­da ha riaffittato la stanza. Secondo lui l'americano si fa­ceva chiamare «maggiore», parlava un paio di lingue locali e mostrava a tutti dei bei rotoli di dollari. Chi sa chi era davvero e come sono andate le cose. Anche di una piccola storia così è ormai diventato impossibile stabilire i fatti.

Già, i fatti. Tutta la vita ci son corso dietro convinto che li - nei fatti accertati e sicuri - avrei trovato una qualche verità. Ora, a 63 anni, dinanzi a questa guerra appena cominciata e con l'inquietante presentimento di quel che seguirà, mi pare che i fatti sono solo un'appa­renza e che la verità dentro di loro è al massimo come una bambola russa: appena la si apre se ne trova una più piccola e ancora una più piccola, e ancora una più pic­cola fino a che si resta con un minuscolo seme.

Frastornati dai dettagli di tanti fatti, perdiamo sempre di più il senso dell'insieme. A che serve essere informa­ti ora per ora sulla caduta di Mazar-i-Sharif e di Kabul quando queste ci sono presentate come «vittorie» e non ci rendiamo conto che, come umanità, stiamo comun­que subendo alcune terribili sconfitte: quella di ricorre­re ancora alla guerra come soluzione dei conflitti e quella di rifiutare la non-violenza come la più grande prova di forza.

È un vecchio detto che in tutte le guerre la verità è la prima a morire. In questa la verità non ha fatto neppure in tempo a nascere. Spie, informatori, millantatori e me­statori pullulano ormai ovunque, specie in una città di frontiera come questa, ma il loro ruolo è diventato mar­ginale. Quelli che davvero contano in questa guerra di bugie sono gli spin doctors, gli esperti in comunicazio­ne, gli addetti alle pubbliche relazioni. Sono loro ad of­fuscare il fondo di inutilità di questa guerra e ad impe­dire così all'opinione pubblica del mondo, specie quella dell'Europa, di prendere una posizione morale e creati­va in proposito. Un gruppo di questi scienziati-illusionisti è appena venuto da Washington a stabilirsi a Islamabad per «gestire» le centinaia di giornalisti stranieri ora in Pakistan; un super-esperto del ristretto gruppo che fi­no ad ieri lavorava alla Casa Bianca è andato a stabilirsi al numero 10 di Downing Street per aiutare Tony Blair nel suo ruolo di imbonitore americano, quasi fosse lui e non Colin Powell il segretario di Stato.

La verità di questa guerra sembra essere così indici­bile che ha costantemente bisogno di essere impacchet­tata, di essere «gestita», di essere oggetto di un'astuta camna di marketing. Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi. L'unico modo di resistere è ostinarsi a pen­sare con la propria testa e soprattutto a sentire col pro­prio cuore.

Due settimane fa ho lasciato Peshawar e in compa­gnia dei miei due studenti di medicina, incontrati per caso, mi son messo in viaggio per il Pakistan. L'idea era di prendere la temperatura di questo «paese dei pu­ri» (questo vuol dire Pakistan), nato nel 1947 dalla spartizione dell'impero inglese in India per dare una pa­tria ai musulmani, ed ora in prima linea di un conflitto in cui una delle tante poste è la sua stessa sopravviven­za. L'idea era di vedere da vicino le conseguenze della guerra in Afghanistan di cui gli americani continuano a dire che «è solo la prima fase», per capire cosa succe­derà al resto del mondo - il nostro mondo, il mondo di tutti - quando questa guerra da qui si sposterà verosi­milmente in Iraq, in Somalia, in Sudan, forse in Siria, in Libano e chi sa ancora dove. Sono più di sessanta i paesi in cui, secondo Washington, si annidano i terrori­sti, e chi non collaborerà con gli Stati Uniti a snidarli sarà considerato un nemico.

Possibile che in Europa si siano levate così poche vo­ci contro questa rigidità, quasi suicida, dell'America? Possibile che l'Europa sia stata, dopo la verità, l'altra grande vittima di questa guerra?

In questo viaggio, per evitare la trappola dei percorsi obbligati, predisposti dagli imbonitori, e quella degli al­berghi di lusso, ormai tutti adibiti a tenere occupata la «stampa internazionale» con le quotidiane conferenze stampa, i comunicati e le interpretazioni di ex ministri e generali in pensione, abbiamo deciso di star lontani da tutto ciò che è ufficiale e di seguire la logica di quell'u­nico filo che a volte può essere davvero magico: il caso. Così, passando da un incontro casuale a un altro, con l'aiuto dei miei due studenti, ho fatto centinaia di chilo­metri da un angolo all'altro del paese, ho parlato con decine di persone, ho assistito al più grande raduno di musulmani del mondo - se si esclude quello dei pelle­grini alla Mecca - e alla fine ho provocato un ordine di arresto nei nostri confronti da parte del ministro degli Interni del Baluchistan che ha sguinzagliato i suoi com­mando per venirci a ripescare nella cittadina di Chaman, sulla linea di confine con l'Afghanistan, dove c'e­ravamo illusi di passare, inosservati, la notte.

Il tutto è cominciato in una casa da tè di quell'affa­scinante centro della vecchia Peshawar che ancora è il bazar dei racconta-storie. Seduto, accanto a noi, sulla stuoia di lia lisa e polverosa a bere kawa - un infu­so di foglie non fermentate - da piccoli bricchi smalta­ti, neri di sporco e di ammaccature, stava un uomo sui trent'anni con una barba foltissima e lo sguardo strana­mente dolce e fermo. Ci siamo guardati; ci siamo par­lati e il pomeriggio è passato in un soffio con tutti gli altri avventori presto in cerchio a seguire, coinvoltissimi, la nostra conversazione. Non so se tutto quel che Abu Hanifah mi ha raccontato era vero, ma, da una se­rie di controlli fatti poi con l'aiuto dei miei studenti, penso lo fosse. Diceva di essere nato «35 o 37 anni fa» nella provincia di Ghazni, in Afghanistan, di essere il comandante di 250 talebani, di aver combattuto con­tro gli indiani in Kashmir, di essere stato richiamato in Afghanistan dopo l'inizio dei bombardamenti e di esse­re arrivato la sera prima in Pakistan con un piccolo gruppo dei suoi per una missione. Gli ho chiesto tutto quel che uno vorrebbe sapere dei talebani e le sue ri­sposte erano pronte, precise e politicamente informate come un tempo quelle di un commissario politico cine­se o vietcong.

Diceva che le bombe e i missili non fanno loro paura («i guscì dei Cruise già vengono usati per fare dei mi­nareti»), che la guerra comincerà sul serio solo quando le truppe americane scenderanno a terra e che i talebani non potranno mai essere completamente eliminati dal­l'Afghanistan perché «taleb vuol dire uno che ha stu­diato in una madrassa e in ogni famiglia afghana c'è or­mai uno come me». Diceva che anche la possibile mor­te del mullah Omar, ora il capo dei talebani, non cam­bierà nulla; il consiglio supremo dei saggi, la shura, «è fatta di mille mullah Omar ed ognuno di loro può succedergli». Diceva che ogni città, ogni villaggio, ha una struttura locale che rappresenta la shura e che quella re­sterà in piedi e sarà la vera autorità per la popolazione anche quando i talebani, in certe fasi della guerra, do­vessero essere costretti a cedere terreno ai nemici per poi tornare ad attaccarli. Forse si illudeva, ma sembrava convintissimo.

L'impressione che ho avuto di quell'uomo non era quella di un fanatico ignorante, imbevuto di superstizio­ne come i giovani jihadi che avevo incontrato nei vil­laggi fuori Peshawar. Quelli credevano che le bombe americane sarebbero state fermate da miracolose mani che al momento giusto sarebbero apparse in cielo. Era­no ottusi, indottrinati all'odio. Lui no. Sapeva che le ar­mi degli americani sono «formidabili», ma diceva che alla fine dei conti l'arma più potente è quella della fede.

Era riflessivo, informato sulle cose del mondo, coscien­te. Più che un miliziano, mi pareva un monaco d'un or­dine combattente, come da noi un tempo, forse, erano i templari.

Ho chiesto ad Abu Hanifah come era possibile per lui andare e venire in Pakistan, un paese prima legatissimo ai talebani ma ora schierato contro di loro e alleato de­gli Stati Uniti. Come era possibile per lui, ora «il nemi­co» della guerra contro il terrorismo, essere li, in una città pakistana, a prendere apertamente il tè con me? Ha riso lui ed han riso tutti quelli che avevamo attorno. Questa è la realtà: nonostante l'ufficiale rovesciamento di fronte e la drammatica presa di posizione del genera­le Musharraf a favore di Washington, il Pakistan resta nel fondo estremamente ambivalente nei confronti della guerra. Il governo di Islamabad sa che i pashtun, sia quelli che vivono in Afghanistan sia quelli che vivono in Pakistan, si considerano una unica nazione: antagonizzarli significa rischiare una guerra civile lungo i due­mila chilometri della frontiera. Il rischio crescerà se l'Afghanistan verrà praticamente diviso in due con l'Alleanza del Nord in controllo di Kabul e delle regioni settentrionali, comunque abitate da non-pashtun, ed i pashtun-talebani in controllo del Sud.

Islamabad sa che, nonostante le recenti epurazioni volute da Washington, l'intero apparato statale pakista­no, specie quello delle forze armate e dello spionaggio, è pieno di elementi che coi talebani sono legati a doppio filo: li hanno concepiti, li hanno tenuti a battesimo e ne condividono l'ideologia e la fede religiosa. Non è certo un caso che la notte stessa in cui il generale Musharraf, su pressione degli americani, annunciò la rimozione del capo dei suoi servizi segreti, un incendio distrasse tutti i dossier riguardanti i talebani, le storie dei loro capi, le sectiune delle loro postazioni, delle loro caverne. Se gli americani avessero messo le mani su quei documenti la loro caccia a Osama bin Laden e al mullah Omar sa­rebbe stata molto più semplice.

Inoltre Musharraf sa che la guerra americana in Af­ghanistan ha creato una grande simpatia per i talebani e che il mito di Bin Laden, «eroe dei poveri oppressi», «simbolo della rivolta musulmana contro l'arroganza della superpotenza infedele», si sta diffondendo fra le masse e potrebbe rivolgersi in ogni momento contro di lui, già descritto dai fondamentalisti come un kaffir, un infedele, uno che «mangia dollari americani».

Il semplice fatto di aver sfidato gli Stati Uniti fa di Bin Laden un eroe popolare. Dovunque sono stato in queste due settimane ho visto i suoi poster nelle riven­dite dei giornali, la sua faccia sul retro degli autobus, dei trisciò, sui vetri delle macchine private, appiccicata ai carretti dei gelatai ambulanti. Le cassette coi suoi di­scorsi sono in vendita in tutti i bazar. Persino nei circoli della borghesia più agiata, quella che manda i li a studiare in America, che ha legami economici con gli Stati Uniti e che appoggia il presidente Musharraf per­ché «con la pistola americana puntata alla testa non aveva altra scelta», ho sentito espressioni di odio anti-americano inconcepibili solo alcuni mesi fa. «Ormai c'è un piccolo Osama in ognuno di noi», mi spiegava, senza alcuna ironia, una elegante, ingioiellata signora della buona società di Lahore, durante una cena.

Era stato Abu Hanifah a farmi andare a Lahore. Mi aveva spiegato che la sua «missione» in Pakistan era di partecipare all'annuale riunione dei tablighi jamat, e così l'ho seguito. Impressionante. A trenta chilometri da Lahore, in una piana chiamata Raiwind, per tre gior­ni, oltre un milione di uomini (non ho visto una sola donna) venuti da ogni angolo del Pakistan e da varie parti del mondo si sono ritrovati all'ombra di immensi teloni bianchi; assieme, in una costante nuvola di polve­re gialla sollevata dal vento, hanno pregato cinque volte al giorno, hanno ascoltato i discorsi degli anziani ed hanno riaffermato quell'incredibile legame di fratellan­za musulmana che per noi occidentali è a volte difficile da capire, abituati come siamo a pensare sempre più al «mio» e sempre meno al «nostro».

I tablighi sono una strana, disciplinata e potente or­ganizzazione. Formalmente sono dei missionari islami­ci dediti non alla conversione degli infedeli ma alla ri­forma in senso spirituale dei musulmani «caduti sotto l'influsso del materialismo occidentale». Ogni membro dell'organizzazione dedica, gratuitamente, quattro mesi all'anno a questa opera di missione. A piccoli gruppi, senza mai leggere i giornali e mai guardare la televisio­ne per non distrarsi, viaggiano nel paese, vivono nei vil­laggi più remoti e reinsegnano alla gente «la originaria via di Allah». Con questo loro lavoro si sono fatti una estesa rete di contatti ed hanno ora una grande influen­za, non solo in Pakistan, ma in varie parti del mondo in cui sono presenti. Il loro segreto è che restano nell'om­bra. I tablighi non cercano pubblicità, non vogliono che si scriva di loro, non permettono di essere fotografati, filmati, e i loro capi non danno interviste.

I tablighi sostengono di essere per la non-violenza, di non voler fare politica e non vanno per questo confusi coi fondamentalisti dei partiti islamici estremisti che qui manifestano contro il governo e appoggiano aperta­mente Osama e i talebani. Eppure, passando ore e ore in quella immensa, disciplinata congrega di uomini, tutti col loro berretto bianco o un turbante in testa a snoccio­lare i loro rosari, mi è parso ovvio che, nonostante tutte le apparenti differenze, c'è fra i tablighi, Osama e i ta­lebani una obiettiva coincidenza di interessi ed una im­plicita solidarietà. E questa va capita perché, per esten­sione, coinvolge ogni musulmano in ogni parte del mondo.

Osama ha innanzitutto un obiettivo politico: la libe­razione dei luoghi sacri dell'Islam dalla presenza degli infedeli e dalla dinastia ora regnante, definita da lui «corrotta». In altre parole, Osama vorrebbe prendere il potere in Arabia Saudita. Il suo secondo obiettivo è riportare quel paese, i cui sudditi qui in Pakistan ad esempio sono popolarmente conosciuti come «sesso ed alcol», a una forma di Islam più puro e spirituale. Siccome vede gli Stati Uniti come i protettori dell'at­tuale regime saudita e i corruttori del mondo islamico in genere, Osama ha dichiarato la sua jihad.

Con l'aspetto politico di tutto questo i tablighi hanno poco o nulla a che fare. Molto invece con l'aspetto re­ligioso. Anche loro vogliono tornare a un Islam più spi­rituale. E in questo simpatizzano di fondo con Osama e i talebani. Ma c'è di più. I tablighi, come molti altri ele­menti non necessariamente fanatici ed estremisti dell'u­niverso islamico, hanno una più generica e più esisten­ziale aspirazione: quella semplicemente di condurre un'esistenza diversa dalla nostra, di vivere secondo altri principi, di stare fuori dai meccanismi internazionali che loro vedono dominati da leggi e valori di stampo esclusivamente occidentale.

Nelle conversazioni che ho avuto in queste due setti­mane con tanti e diversi tipi di musulmani in Pakistan, ho notato un continuo riferimento a una sorta di violen­za di cui molti dicono ora di sentirsi vittime. La causa? Il confronto con l'Occidente. A torto o a ragione, molti percepiscono la globalizzazione come uno strumento della nostra «civiltà atea e materialistica» che, appunto attraverso l'espansione dei mercati, diventa sempre più ricca e più forte a scapito del loro mondo. Con una certa paranoia anche i musulmani più colti di questo paese vedono in ogni mossa dell'Occidente, compreso il con­ferimento del premio Nobel della letteratura a V.S. Naipaul, un attacco all'Islam.

Da qui la reazione difensiva e il ricorrere all'Islam come a un rifugio. La religione diventa l'arma ideologica contro la modernità, vista come occidentalizzazione. Per questo anche i moderati come i tablighi, senza voler essere jihadi, finiscono per simpatizzare con i talebani e con Osama, invece che con l'Occidente.

Questo è il problema che abbiamo dinanzi: un pro­blema che non si risolve con le bombe, che non si risol­ve andando a giro per il mondo a rovesciare regimi che non ci piacciono per rimpiazzarli con vecchi re in esilio o coalizioni di convenienza messe assieme in qualche lontana capitale. Osama può anche venir stanato dal­l'Afghanistan; i talebani possono anche essere sgomina­ti e ridotti a una forza annidata nelle montagne ad ali­mentare una nuova guerriglia, ma il problema di fondo resta. Le bombe non fanno che renderlo più virulento.

A noi può parere strano, ma c'è oggi nel mondo un crescente numero di persone che non aspira ad essere come noi, che non insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i nostri desideri. Un commercian­te di tessuti di 60 anni, incontrato al raduno dei missionari tablighi, me lo ha detto con grande semplicità:

«Non vogliamo vivere come voi, non vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non vogliamo la vo­stra libertà. Vogliamo che la nostra società sia retta dal­la sharya, la legge coranica, che la nostra economia non sia determinata dalla legge del profitto. Quando io alla fine di una giornata ho già venduto abbastanza per il mio fabbisogno, il prossimo cliente che viene da me lo mando a comprare dal mio vicino che ho visto non ha venduto nulla», mi ha detto. Mi son guardato attor­no. E se tutta quella enorme massa di uomini - l'ultimo giorno si dice fossero un milione e mezzo - la pensasse davvero come lui?

Ero curioso. Nella folla avevo perso le tracce di Abu Hanifah, e ho chiesto a quel commerciante se potevo andarlo a trovare a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo. Ve­niva da Chaman, una cittadina sulla linea di confine esattamente a mezza strada fra Quetta, capitale del Baluchistan pakistano, e Kandahar, il centro spirituale del mullah Omar in Afghanistan. Chaman è praticamente chiusa agli stranieri e l'unico modo di andarci è in un convoglio scortato dalla polizia e con un permesso spe­ciale rilasciato a Quetta. È così che sono finito in questa locanda.

Facendo la prima passeggiata per orientarmi, ho sco­perto che ero vicino all'ospedale della città dove ogni giorno arrivano i feriti civili dei bombardamenti ameri­cani su Kandahar. E li ho conosciuto «Abdul Wasey, 10 anni, afghano, vittima di missile Cruise, gamba frat­turata», come dice un sectiunello scritto a mano ed attac­cato al muro scortecciato dietro il suo letto sporco e polveroso. È pallidissimo e magro come un'acciuga. Un mattone legato con una corda al suo calcagno pen­zola dal fondo del letto per tenergli immobile la gamba ingessata. L'altra, solo pelle ed ossa, è come il palo di una granata. Abdul giocava a cricket con i suoi amici in un prato quando sono stati colpiti. Gli altri sette son morti. Il padre l'ha portato qui con un fratello di 14 anni che ora gli tiene comnia. Lui è tornato in Afghanistan. L'ospedale è pieno. Ogni letto è una storia, ma ho sentito che la mia curiosità non era benvenuta. E poi a che serve saperne di più? A che serve sapere che i mis­sili Cruise che hanno ammazzato gli amici di Abdul, stroncato la gamba a lui e a tutti i disgraziati che giac­ciono immobili e muti in questo sudicio ospedale di provincia, raggiunto come una grande speranza alla fine di una giornata di viaggio, sono caduti dove son caduti a causa di una «errata impostazione del computer»? Quei missili dovremmo semplicemente smettere di produrli.

Il convoglio per Chaman parte da Quetta, a volte sì a volte no, la mattina alle dieci. L'idea è di portare un gruppetto di giornalisti autorizzati al posto di frontiera, farli restare al massimo un paio d'ore e poi riportarli a Quetta. I pakistani non vogliono rendere troppo pubbli­ci i tanti traffici che avvengono a quel confine e si dice che incoraggino i ragazzini dei campi profughi a pren­dere a sassate i visitatori per tenerli lontani. Odio questo tipo di visite guidate e, appena messo piede a Chaman, coi miei due studenti, mi sono dileguato. La popolazio­ne era ostile e non ce l'abbiamo fatta a raggiungere la casa del nostro mercante di stoffe. Ci ha salvato una delle piccole ambulanze di Abdul Saddar Edhi, il «san­to» di Karachi, che vanno oltre la frontiera a prendere i feriti. Nel pomeriggio sono riuscìto a incontrare una de­legazione di talebani a cui ho consegnato una richiesta di visitare Kandahar il giorno dopo, ma non ho potuto passare la notte a Chaman. La polizia ci ha trovati e, do­po qualche calcio ai miei studenti e un po' di diploma­zia da parte mia, siamo stati rilasciati.

Anche lì il caso ci ha dato una mano. Stavamo tor­nando a Quetta, seguiti a vista da una jeep carica di commando, quando la nostra macchina, proprio in cima al passo di Khojak, ha forato concedendomi una sosta d'una decina di minuti e con ciò una grandiosa, indi­menticabile visione dell'Afghanistan e dell'assurdità di quel che l'Occidente, con l'America in testa, cerca di farci. Il sole era appena tramontato e una mezza luna diafana cominciava ad argentarsi nel cielo di pastello sopra una distesa di montagne. A volte rosa, a volte vio­lette o color ocra, brulle, eppure vive, erano come le on­de di un oceano congelato dall'eternità. Su una vetta vi­cina, una decina di camionisti avevano disteso i loro tappetini da preghiera sulla polvere e come ritagli neri di carta contro quell'immensità si inchinavano ritmica­mente verso occidente, sapendo che altri milioni di mu­sulmani in quello stesso momento facevano nella stessa direzione gli stessi gesti con lo stesso pensiero diretto allo stesso, indescrivibile dio che li tiene tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge.

Ripensavo alla mia ultima domenica a Firenze, dopo l'11 settembre, quando ho fatto il giro delle chiese giu­sto per sentire cosa vi si diceva. Niente. Una grande de­lusione. Da San Miniato a Santo Spirito, a Santa Maria Novella tutti i sacerdoti leggevano lo stesso passo del Vangelo, tutti facevano gli stessi generici discorsi, sen­za un solo riferimento alla vita di oggi, ai problemi ed alle angosce della gente per quel che sta succedendo nel mondo. Qui in Pakistan ogni venerdì le moschee tuona­no, a volte delirano, ma con ciò legano i fedeli, dando loro qualcosa, magari di sbagliato, a cui pensare, a cui dedicarsi. Da noi la Chiesa preferisce ancora tacere, in­vece che rompere i ranghi dell'ortodossia politica e far sentire con fermezza una sua voce di pace.

Guardavo la sequenza infinita delle montagne scurirsi rapidamente e mi chiedevo come potranno mai gli ame­ricani trovare in quel labirinto lunare la caverna in cui si nasconde Osama. Si dice che ce ne siano almeno 8000, ognuna con tunnel lunghi a volte chilometri, con varie entrate, con vari livelli. E anche se lo trovano? La guer­ra, così come è stata annunciata, non finirà qui.

Pensata da quel passo fra le montagne d'Asia, l'Eu­ropa mi pareva lontanissima, così come sono certo che quel che succede qui pare lontano all'Europa. Eppure non è così. Quel che avviene in Afghanistan è vicinissimo, ci riguarda. Non solo perché la caduta di Kabul è tutt'altro che la soluzione ai problemi dell'Afghanistan, ma perché l'Afghanistan «è solo la prima fase». L'I­raq, la Somalia, il Sudan sono molto più vicini.

Che faremo quando Bush vorrà andare a bombardare là? Abbiamo fatto i conti con i musulmani che vivono fra noi e che ora possono essere indifferenti alla guerra in Afghanistan, ma lo saranno meno quando verranno bombardate le loro case? Vogliamo anche noi parteci­pare alle uccisioni di stile israeliano di tutti quelli che la CIA deciderà di mettere sulle sue liste nere?

Sarebbe molto più saggio - mi pare - che ora l'Eu­ropa dissentisse e che, invece di lasciare i suoi vari go­verni a fare singolarmente la loro parte di «satelliti» di Washington, si esprimesse con una sola voce ed aiutas­se, da vera amica ed alleata, l'America a trovare una via d'uscita dalla trappola afghana.

Giorni fa un giornale in lingua urdu argomentava convincentemente che i vari paesi che ora in un modo o in un altro incoraggiano gli americani ad impegnarsi in Afghanistan, in fondo lo fanno sperando che gli ame­ricani ci si impantanino e che la loro credibilità di gran­de potenza venga messa in discussione. Iran, Cina, Rus­sia e al limite lo stesso Pakistan hanno buone ragioni di risentimento contro gli Stati Uniti e grandi preoccupa­zioni per questa nuova presenza militare americana nel cuore dell'Asia centrale. L'Europa non è in alcun modo in questa posizione.

Allo stesso modo però l'Europa non può essere del tutto indifferente alla possibilità che gli Stati Uniti per­seguano, dietro il paravento di questa guerra internazionale al terrorismo, un progetto tutto loro per la realizza­zione di un nuovo ordine mondiale che persegua esclu­sivamente l'interesse nazionale americano.

Il gruppo ora al potere a Washington, formato princi­palmente da veterani della Guerra Fredda, con in testa il segretario alla Difesa Rumsfeld, fa pensare che questa tentazione possa essere reale. È quel gruppo, legato fra l'altro agli interessi dell'industria bellica, che ha da sempre contestato i trattati per la limitazione degli armamenti ed ora ne chiede l'abrogazione; è quel grup­po che ha sostenuto la necessità della superiorità nu­cleare americana ed ha in passato detto che le armi ato­miche son fatte per essere usate e non per restare per sempre ferme nei silos.

Con la fine della Guerra Fredda e la ssa di una vera minaccia, quell'America ha visto con preoccu­pazione il ridursi progressivo della spesa militare USA ed ha fatto di tutto per identificare un nuovo nemico che giustificasse la rottamazione dei vecchi armamenti e la produzione di tutta una serie di nuovi sistemi bellici «intelligenti» per il campo di battaglia tecnologico del XXI secolo. Un primo candidato a questo ruolo di «nemico» è stata la Corea del Nord, finché non si è scoperto che il paese moriva letteralmente di fame ed era molto improbabile che si mettesse a sfidare la po­tenza americana. Poi è stata la volta della Cina, ma è risultato difficile sostenere che Pechino potesse minac­ciare più che l'isola di Taiwan, visto che non ha ancora neppure un bombardiere a lungo raggio. A questo punto è spuntata l'ipotesi dell'Islam, «nemico» contro cui di­fendersi nell'appena inventato «scontro di civiltà».

Il massacro dell'11 settembre ha reso quel nemico estremamente credibile ed ha permesso all'America di varare tutta una politica che sarebbe stata altrimenti inaccettabile. Il nemico è stato ora identificato nei «ter­roristi» e il processo di demonizzazione nei confronti di quelli che Washington definisce tali è cominciato. I pri­mi a farne le spese sono stati i talebani ex mujaheddin ed Osama bin Laden, creature loro stessi, non va dimen­ticato, dell'America quando questa ne aveva bisogno per combattere l'Unione Sovietica.

L'Europa non può seguire, senza una pausa di rifles­sione, l'America su questa strada. L'Europa deve rifarsi alla propria storia, alla propria esperienza di diversità al fine di trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di civiltà.

La grandezza delle culture è anche nella loro per­meabilità. Basta non affrontarsi a colpi di aerei carichi di civili innocenti e di bombe sganciate, seppur per sba­glio, su chi non è responsabile di nulla.

Anche dei fondamentalisti islamici come i talebani possono, pur a loro modo, cambiare. Fossero stati rico­nosciuti come il governo legittimo dell'Afghanistan nel 1996 quando presero il potere, forse i Buddha di Bamiyan sarebbero ancora al loro posto e forse ad Osama bin Laden non sarebbe stato steso il tappeto rosso. An­che i talebani vivono nel mondo e debbono, a loro mo­do, adattarcisi.

Quando sono andato al consolato afghano di Quetta per sollecitare la mia domanda del visto per Kandahar il diplomatico talebano che mi ha ricevuto aveva sulla scrivania un bel, moderno computer. Forse guardava in Internet le ultime notizie sul suo paese per indovinare quanto ancora sarebbe rimasto al suo posto, ora che Ka­bul è caduta.

Tornando alla locanda, mi fermo all'ospedale a salu­tare Abdul Wasey. Il corridoio è affollato di afghani appena arrivati con nuovi feriti. Nel letto accanto a quello di Abdul c'è ora un uomo sulla cinquantina col ventre squarciato da una scheggia. Mi vede entrare e dare ad Abdul due cose che ho portato. Raccoglie faticosamente il fiato e urla: «Prima vieni a bombardarci, poi a portar­ci a biscotti. Vergogna».

Non so cosa fare. Cerco dentro di me delle giustifica­zioni, delle parole da dire. Poi penso ai soldati francesi, tedeschi e italiani che presto si uniranno a questa guerra e mi rendo conto che, alla fine di una vita in cui ho sem­pre visto feriti e morti fatti da altri, mi toccherà ancora vedere, in questo ospedale o altrove, le vittime delle mie bombe, delle mie pallottole. E mi vergogno davvero.

LETTERA DA KABUL

Il venditore di patate e la gabbia dei lupi


Kabul, 19 dicembre 2001


La vista è stupenda. La più bella che potessi immagi­narmi. Ogni mattina mi sveglio in un sacco a pelo diste­so sul cemento e su qualche piastrella di plastica d'uno stanzone vuoto all'ultimo piano del più alto edificio del centro città e gli occhi mi si riempiono di tutto quel che un viaggiatore diretto qui ha sempre sognato: la mitica corona delle montagne di cui un imperatore come Babur, capostipite dei moghul, avendole viste una volta, ebbe nostalgia per il resto della vita e desiderò che fos­sero la sua tomba; la valle percorsa dal fiume sulle cui sponde è cresciuta la città a proposito della quale un poeta, giocando sulle due sillabe del nome Kabul in persiano, scrisse: «La mia casa? Eccola: una goccia di rugiada fra i petali di una rosa»; il vecchio bazar dei Quattro Portici dove, si diceva, è possibile trovare ogni frutto della natura e del lavoro artigiano; la mo­schea di Puli-i-Khisti; il mausoleo di Timur Shah; il santuario del Re dalle Due Spade costruito in onore del primo comandante musulmano che nel VII secolo dopo Cristo, pur avendo già perso la testa, mozzatagli da un fendente, continuò - secondo la leggenda - a combattere con un'arma per mano, determinato com'e­ra a imporre l'Islam, una nuova, aggressiva religione appena nata in Arabia, a una popolazione che qui, da più d'un millennio, era felicemente indù e buddhista; e poi, alta, imponente sulla cresta della prima fila di colli, proprio di fronte alle mie vetrate, la fortezza di Bala Hissar nella cui residenza hanno regnato tutti i vin­citori e nelle cui galere han languito, o sono stati sgoz­zati, tutti i perdenti della storia afghana.

La vista è stupenda, ma da quando sono arrivato, più di due settimane fa, con in tasca una lettera di presenta­zione per un vecchio intellettuale, nella borsa una bibliotechina di libri-comni-di-viaggio e in petto un gran misto di rabbia e di speranza, questa vista non mi dà pace. Non riesco a goderne perché mai, come da queste finestre impolverate, ho sentito, a volte quasi come un dolore fisico, la follia del destino a cui l'uomo, per sua scelta, sembra essersi votato: con una mano co­struisce, con l'altra distrugge; con fantasia dà vita a grandi meraviglie, poi con uguale raffinatezza e passio­ne fa attorno a sé il deserto e massacra i suoi simili.

Prima o poi quest'uomo dovrà cambiare strada e ri­nunciare alla violenza. Il messaggio è ovvio. Basta guardare Kabul. Di tutto quel che i miei libri raccontano non restano che i resti: la fortezza è una maceria, il fiu­me un rigagnolo fetido di escrementi e spazzatura, il ba­zar una distesa di tende, baracche e container; i mauso­lei, le cupole, i templi sono sventrati; della vecchia città fatta di case in legno intarsiato e fango non restano, a volte in file di centinaia e centinaia di metri, che pate­tici mozziconi color ocra come sulla battigia le guglie dei castelli di sabbia costruiti da bambini e subito espu­gnati dalle onde.

Tanti monumenti sono letteralmente ssi. L'e­nigmatico Minar-i-Chakari, Colonna della Luce, co­struito fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad nel I secolo dopo Cristo, forse per commemorare l'illuminazione di Buddha, non ha resistito alle cannonate e dal 1998 non è che un triste cumulo di antichi sassi.

Kabul non è più, in nessun senso, una città, ma un enorme termitaio brulicante di misera umanità; un im­menso cimitero impolverato. Tutto è polvere e ho sem­pre di più l'impressione che nella polvere che mi anne­risce costantemente le mani, che mi riempie il naso, che mi entra nei polmoni, in questa polvere c'è tutto quel che resta di tutte le ossa, di tutte le regge, le case, i par­chi, i fiori e gli alberi che hanno un tempo fatto di que­sta valle un paradiso. Settanta diversi tipi di uva, trentatré tipi di tulipani, sette grandi giardini folti di cedri era­no il vanto di Kabul. Non c'è assolutamente più nulla. E questo non per una maledizione divina, non per l'eru­zione di un vulcano, lo straripamento di un fiume o una qualche altra catastrofe naturale. Il paradiso è finito una volta e poi di nuovo e poi tante altre volte per una sola, unica causa: la guerra. La guerra degli invasori di secoli fa, la guerra dell'Ottocento e dell'inizio del seco­lo scorso portata qui dagli inglesi - che ora, poco deli­catamente, son voluti tornare a capo della «Forza di pace» -, la guerra degli ultimi vent'anni, quella a cui tutti, in un modo o nell'altro, magari solo vendendo armi a uno dei tanti contendenti, abbiamo partecipato; ed ora la guerra americana: una fredda guerra di macchine contro uomini.

Forse è l'età che mi ha fatto sviluppare una sorta di isterica sensibilità per la violenza, ma dovunque poso lo sguardo vedo buchi di pallottole, squarci di schegge, vampate nere di esplosioni ed ho l'impressione di esserne, io, ora, trafitto, mutilato, bruciato. Forse ho perso, se l'ho mai avuta, quella obiettività dell'osservatore non coinvolto, o forse è solo il ricordo di un verso che Gandhi recitava nella sua preghiera quotidiana, chiedendo di potersi «immaginare la sofferenza degli altri» per poter capire il mondo, ma davvero non riesco ad essere distaccato come se questa storia non mi ri­guardasse.

Dall'alto della mia finestra vedo un uomo camminare lento e voltarsi continuamente a guardare una giovane donna che gli arranca dietro senza una gamba. Forse è sua lia. Anch'io ne ho una e solo ora, per la prima volta nella vita, penso che potrebbe saltare su una mina. Il freddo ora screpola la pelle e vedo gruppi di bambini-mendicanti che accendono dei falò con sacchetti e pezzi di plastica trovati nei cumuli di spazzatura. Ho un nipo­te di quell'età e mi immagino lui a respirare quell'aria puzzolente e cancerogena pur di scaldarsi. Dopo giorni di ricerca sono finalmente riuscìto a rintracciare l'anzia­no signore per il quale avevo una lettera di presentazio­ne: l'ex curatore del museo di Kabul. L'ho trovato al bazar di Karte Ariana dove ora, per campare la fami­glia, vende patate. Avrebbe potuto succedere a me; po­trebbe ancora succedere a ognuno di noi: a causa di una guerra.

Mi hanno raccontato che, durante il periodo più duro della guerra, fra il 1992 e il 1996, quando quelle stesse fazioni dell'Alleanza del Nord che ora governano Ka­bul, ma che allora avevano fatto di questa città il loro campo di battaglia e il loro mattatoio (più di 50.000 fu­rono i morti civili), i grandi container di ferro, arrivati via mare e poi via Pakistan pieni delle armi e munizioni americane per la jihad contro l'Unione Sovietica, veni­vano usati dai gruppi di mujaheddin come prigioni per i loro nemici e che a volte, per rappresaglia, i prigionieri ci venivano dimenticati dentro, a volte ci venivano arro­stiti appiccando il fuoco a delle taniche di benzina mes­se attorno. Non so se sia vero, ma non riesco più a guar­dare uno di questi container - e ce ne sono a migliaia, dappertutto, riciclati in abitazioni, negozi ed officine - senza ripensare a quella storia.

Ogni oggetto, ogni muro, ogni faccia qui sono segna­ti, mi pare, da questa orribile violenza che è stata ed è ancora - ora, in questo momento, mentre scrivo - la guerra.

Neppure l'alba, dopo una notte di dormiveglia col rombo intermittente dei B-52 che passano alti, è rincuo­rante a Kabul. Il sole sembra un incendio dietro il para­vento delle montagne che rimangono a lungo come ritagli di carta scura contro l'orizzonte. Capita che, mentre la città è ancora tutta nell'ombra, un solitario B-52 si illumini improvvisamente dei primi raggi dorati e di­venti come un misterioso, inquietante uccello da preda intento a scrivere con le sue quattro code di fuoco strani messaggi di morte nel cielo nero-turchese.

I B-52 non sono qui soltanto per bombardare i rifugi degli uomini di Bin Laden o i convogli sospetti in cui potrebbe nascondersi il mullah Omar. Son qui per ricor­dare a tutti chi sono i nuovi poliziotti, i nuovi giudici, i nuovi padroni-burattinai di questo paese. L'alzabandie­ra americano, messo in scena lunedì scorso, giorno del­la grande festa musulmana di Id, alla fine del Ramadan, era fatto esattamente per dire questo, con la banda dei marines che intonava il Dio salvi l'America, i discorsi di circostanza, il picchetto d'onore ed il lento, lentissi­mo issare del vessillo a stelle e strisce sul pennone del giardino. Varie rappresentanze hanno riaperto a Kabul i loro battenti; diplomatici iraniani, turchi, francesi, cine­si, inglesi ed italiani hanno rispolverato le scrivanie e tirato su la loro bandiera: ma nessuno ha fatto di questa routine un tale evento.

Gli americani hanno una loro sorta di ossessione con la bandiera. Quella che hanno rimesso sull'ambasciata di Kabul è la stessa che avevano ammainato nel 1989. Ma non era la prima che gli Stati Uniti ripiantavano sul suolo afghano. Quella l'hanno issata i marines nella lo­ro base alla periferia di Kandahar agli inizi della cam­na militare. La base è stata battezzata «Campo Giu­stizia» e la bandiera, tanto perché sia chiaro che «giu­stizia» in questo caso vuol dire soprattutto «vendetta», porta le firme dei familiari delle vittime delle Torri Ge­melle.

Gli afghani non hanno alcuna difficoltà a capire que­sto tipo di cose. Nel 1842 il grande bazar dei Quattro Portici, con i suoi famosi disegni murali e le sue deco­razioni floreali, venne raso al suolo e saccheggiato dalle truppe inglesi per vendicare l'uccisione di due emissari di Londra ed il successivo sterminio, da parte degli af­ghani, di un corpo di spedizione di 16.000 uomini e di­pendenti sulla via da Kabul a Jalalabad: solo un medico sopravvisse a raccontare la storia. Nel 1880 furono di nuovo gli inglesi, dopo aver impiccato nel cortile della fortezza 29 capi afghani di una nuova rivolta indipen­dentista, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar, per­ché - come scrisse il generale di Sua Maestà che diresse l'operazione - «indelebile resti il ricordo di come sap­piamo vendicare i nostri uomini».

Con questo tipo di «ricordi», a cui fanno riferimento tanti monumenti e nomi di strade e quartieri nella Kabul di oggi, sarebbe certo stato più corretto, da parte di quella misteriosa entità che si definisce «comunità internazionale» e che in verità sembra sempre di più un club ad uso e consumo degli Stati Uniti, affidare il co­mando della «Forza di pace» ad un paese che non fos­se, come l'Inghilterra, identificato qui col colonialismo, l'aggressione e un record di nessun vanto: il primo bombardamento aereo della storia in cui le vittime furono dei civili fu il bombardamento di Kabul da parte del­l'aviazione inglese nel 1919.

Secoli prima gli afghani avevano conosciuto un'altra e ancor più memorabile vendetta. Passando per la piana di Bamiyan nel 1221, Gengiz Khan aveva visto morire suo nipote, colpito da una freccia afghana, e aveva or­dinato che in quella valle non fosse lasciato alcun segno di vita. Per giorni i soldati mongoli sgozzarono ogni uo­mo, donna, bambino e animale fino a che, si dice, le spade erano senza filo e le braccia stanche; poi segaro­no ogni albero e sradicarono ogni pianta. Fu così che per centinaia d'anni i grandi Buddha scolpiti nella roc­cia, ma già spogli dell'oro originale che li ricopriva, guardarono con gli occhi vuoti nella valle aspettando che altri guerrieri, questa volta i talebani, armati di ba­zooka, venissero a demolirli per vendicarsi, forse, con­tro la «comunità internazionale» che si rifiutava, a di­spetto di ogni evidenza, di riconoscerli come i legittimi governanti dell'Afghanistan.

Ora tocca ai talebani essere vittime degli americani che vogliono vendicare i loro morti e soprattutto voglio­no ristabilire nel mondo l'idea della loro invulnerabili­tà. Il fatto che i talebani non siano direttamente - e forse neppure indirettamente - responsabili di quei morti è ormai irrilevante. Così come è irrilevante che gli afgha­ni, certo non coinvolti nel massacro delle Torri Gemel­le, siano stati i primi a are il conto di quella vendet­ta. Quanto sia costato resta un mistero.

Questa è una guerra seguita da centinaia di giornali­sti, una guerra a cui sono certo dedicate più carta stam­pata e più ore televisive di qualsiasi altra guerra prece­dente, eppure è una guerra che gli Stati Uniti con gran­de determinazione riescono a mantenere invisibile e di cui non faranno mai sapere l'intera verità.

Ci sono in questa guerra domande a cui gli Stati Uni­ti si rifiutano di rispondere e che per questo nessuno po­ne già più. Eccone alcune: quante sono state finora le vittime civili - assolutamente innocenti - dei bombar­damenti americani? A mio parere già molte di più delle vittime delle Torri Gemelle.

Quante sono state le vittime fra i militari talebani? A mio parere, oltre diecimila. La sola prova che ho è pic­cola, ma significativa. Prima di venire in Afghanistan sono ripassato da Peshawar e sono tornato nella regione pakistana dominata dai fondamentalisti islamici dove, subito dopo l'inizio dei bombardamenti, avevo incon­trato i giovani che partivano, entusiasti, per la jihad. Be­ne, ne ho rivisto uno che era appena riuscito a tornare: sconfitto. I bombardamenti a tappeto dei B-52, raccon­tava, erano stati terrificanti e micidiali. Assieme ai suoi comni era andato per combattere gli americani, ma di quelli non aveva visto neppure l'ombra. Aveva solo sentito i loro aerei rombare, altissimi, in cielo e vissuto i devastanti risultati delle loro bombe attorno a sé: uomi­ni fatti letteralmente a pezzi, altri travolti dallo spaven­toso spostamento d'aria, che morivano col sangue che colava loro dalle orecchie e dal naso. Di un gruppo di 43 erano sopravvissuti solo in tre. Se è successo lo stesso là dove i talebani han cercato di resistere e di man­tenere il controllo del terreno, come hanno fatto per set­timane a Kandahar, le loro perdite debbono essere state considerevoli.

Senza una difesa antiaerea, bloccati in postazioni fis­se, in primitive trincee e fortini di terra, i talebani sono rimasti alla mercé del massiccio, ininterrotto martella­mento aereo americano. Mai nella storia delle guerre ce n'è forse stata una così impari, una in cui l'asimmetria delle perdite è stata così evidente: gli Stati Uniti hanno inflitto migliaia e migliaia di morti al costo praticamente di nessuno dei loro. Eppure questo non aveva fatto cam­biare al mio giovane jihadi la sua visione del mondo, non aveva indebolito la sua cieca fede dell'Islam, non lo ave­va indotto a odiare di meno l'Occidente o ad ammirare gli americani per la loro superiorità militare. Niente af­fatto. «Le nostre armi non bastano a raggiungere gli americani nei loro aerei. Allora tocca ad Allah decidere cosa fare di loro», diceva. L'essere diventato ghazi - un veterano della jihad - gli dava ora una posizione di pre­stigio nel villaggio e nella organizzazione fondamentalista islamica ai cui ordini diceva di voler rimanere. «E se l'ordine fosse di andare a mettere una bomba a New York o da qualche altra parte?» gli ho chiesto. «Lo fa­rò», ha risposto senza esitazione. In questa perversa ca­tena di violenza, quale altra «vendetta» può ora conce­pire un ragazzotto musulmano, incolto e ottuso, in un vil­laggio di fango dell'Asia contro il pilota di un B-52 che, ai suoi occhi, ha massacrato decine dei suoi comni?

Il terrorismo di cui sono stati vittime gli americani a New York e a Washington è nato esattamente da questa situazione di asimmetria creatasi con la fine della Guer­ra Fredda. Finché il mondo era bipolare e la minaccia di un reciproco annientamento nucleare teneva a bada i due Grandi, Unione Sovietica e Stati Uniti non pote­vano permettersi di andare a giro per il mondo a fare quel che volevano. Prima o poi uno dei due arrivava al limite posto dall'altro e doveva fermarsi. Non è più così e gli Stati Uniti, col loro sofisticato arsenale militare, ormai senza pari, possono oggi intervenire in tante parti del mondo, specie quello povero; possono permettersi qualsiasi violenza, sicuri di non doversene aspettare in cambio una eguale. Gli Stati Uniti, portan­do la guerra oggi in Afghanistan, domani in Sudan o in Somalia, in Iraq o in Siria, non corrono alcun rischio. Tranne quello di una eventuale risposta inversamente asimmetrica: il terrorismo.

Il modo con cui gli americani hanno deciso di reagire agli attacchi di New York e Washington non risolve il problema. Anzi lo provoca, riaffermando l'asimmetria dei rapporti. Pensando di proteggersi, gli americani hanno reso tutti più vulnerabili e la vita dell'intero pia­neta più precaria e meno piacevole.

Un'altra improponibile domanda a proposito della guerra che gli americani stanno conducendo in Afgha­nistan è questa: che cosa è successo alle centinaia di fa­miglie degli arabi venuti qui a combattere, per conto de­gli americani, la jihad contro i sovietici e rimasti poi qui al seguito di Osama bin Laden? La casa accanto a quel­la del mio «venditore di patate» era abitata da un grup­po di famiglie così. «C'erano varie donne e almeno una decina di bambini. Una notte sono tutti partiti su dei ca­mioncini», dice. Dove sono ora?

Il mio giovane jihadi fuori Peshawar raccontava che, tornando verso il Pakistan, aveva attraversato la regione attorno a Tora Bora e aveva visto dei combattenti arabi andare dai contadini pashtun della regione a pregarli di prendere con sé le loro mogli e i li, facendosi pro­mettere che si sarebbero occupati di loro. Come certi bambini ebrei lasciati a dei contadini ariani perché so­pravvivessero alle retate naziste. Che colpe ha quella gente? Chi si occuperà di loro?

Le vittime di questa guerra non sono soltanto quelle già morte sotto le bombe, ma quelle che moriranno nei prossimi mesi perché le bombe e le mine americane hanno ridotto ulteriormente le già ridottissime aree col­tivabili dell'Afghanistan, e quelle che stanno morendo ora - a decine e decine al giorno - perché, nella cinica condotta della guerra, i bombardamenti hanno bloccato per mesi le indispensabili consegne di cibo del World Food Program, l'organizzazione alimentare delle Na­zioni Unite, ora diretta da una signora americana.

Ci sono in questo momento centinaia di migliaia di afghani (250.000 soltanto a Maslakh, vicino a Herat) che per sfuggire ai bombardamenti USA sono finiti in zone remote del paese dove in questa stagione, a causa della neve, è impossibile far arrivare loro del cibo e che già muoiono di fame e rischiano di sire in mas­sa. Ma la loro è una tragedia che passa inosservata: di­sturba il quadro positivo che i portavoce della Coalizio­ne Internazionale contro il Terrorismo intendono pre­sentare al mondo e, tranne qualche inorridito e ribelle funzionario delle Nazioni Unite, nessuno ne parla, nes­suno si indigna. Se qualcuno solleva qualche dubbio la risposta è ormai sempre la stessa: «Ricordatevi dell' 11 settembre», come se quelle vittime potessero giustifica­re tutto, come se quelle vite fossero diverse dalle altre e comunque valessero molto, molto di più.

Una forma di violenza ne genera un'altra. Solo inter­rompendo questo ciclo si può sperare in una qualche so­luzione, ma nessuno sembra disposto a fare il primo passo. Fra le tante organizzazioni non governative che si affollano ora in Afghanistan a portare, coi soldi dei vari governi, la loro versione di umanità e di aiuti, non ho sentito di nessuna che intenda venire qui a lavo­rare per la riconciliazione, a proporre la non-violenza, a far riflettere gli afghani - e forse anche gli altri - sulla futilità della vendetta. E, mio Dio, se ce ne sarebbe bi­sogno! Raramente ho visto un paese così imbevuto di violenza, di ostilità, così propenso alla guerra. Dovun­que mi rivolgo sento odio. I tajiki odiano i pashtun, gli uzbeki odiano i tajiki, i pashtun odiano gli uzbeki e tutti odiano gli hazara, visti ancora oggi come i di­scendenti delle orde mongole - il loro nome significa «a migliaia» - ed eredi di Gengiz Khan.

Ho sempre creduto che la sofferenza fosse una maestra di saggezza e venendo in Afghanistan pensavo di trovarci, dopo tanta sofferenza, un terreno fertile per una riflessione sulla non-violenza e un impegno alla pa­ce. Per niente! Neppure là dove sarebbe più ovvio.

Il centro ortopedico del Comitato Internazionale del­la Croce Rossa è uno dei posti più commoventi di Ka­bul, un concentrato di dolore e di speranza diretto da un torinese schivo ed efficiente, Alberto Cairo. Lui è la so­la persona del centro ad avere due mani e due gambe. A tutti gli altri, pazienti e impiegati, medici e tecnici, manca regolarmente qualcosa. Persino l'uomo delle pu­lizie è senza una gamba. «Lavorare qui serve a noi a sentirci utili e serve a chi arriva qui, avendo perso un pezzo di sé, a vedere che è possibile continuare a vive­re», dice l'uomo che mi accomna. Era un traduttore. Un giorno, tornando a casa in bicicletta, un cecchino dell'Alleanza del Nord lo ha centrato in una gamba spappolandogliela sopra al ginocchio. «Se non è morto, quel tipo è ora di nuovo a Kabul», ho commentato co­me soprappensiero. «Lei lo ha perdonato?» «No. No. Se potessi lo ammazzerei con le mie mani», mi ha ri­sposto. Tutti quelli che ci stavano a sentire erano d'ac­cordo.

Nella sezione delle donne una ragazzina di 13 anni impara a camminare con un nuovo piede di plastica, muovendosi lentamente lungo un tracciato di orme ros­se sul pavimento. Un giorno, sei mesi fa, la madre le ha chiesto di andare a cercare un po' di legna per il fuoco. Poco dopo ha sentito un'esplosione e le urla. Chiedo alla fisioterapista che l'aiuta, anche lei senza una gamba, persa anni fa su una mina nascosta nel cortile della scuola, se ritiene possibile un mondo senza guerra. Ri­de, come avessi raccontato una barzelletta. «Impossibi­le. Impossibile», dice.

Ogni politico in visita a Kabul si fa vedere al centro di Alberto Cairo e porta aiuti perché lui continui il suo convincentissimo lavoro. Quel che nessuno ha il corag­gio di dire è che l'unico modo di metter fine a quel la­voro, agli aiuti e alle visite dei politici è quello di proi­bire, ora, subito, la fabbricazione e il commercio di tutte le mine possibili. Che la «comunità internazionale» mandi una «Forza di pace» a smantellare qualunque fabbrica di mine, dovunque si trovi nel mondo!

Cairo è in Afghanistan da 12 anni e conta di restarci per il resto della vita. Di lavoro ne ha: oltre al milione di vecchie mine, ci sono ora tutte quelle nuove semina­te dal cielo dagli americani. Anche lui sorride della mia speranza in un mondo senza guerra. «In Afghani­stan la guerra è il sale della vita», dice. «La guerra è più saporita della pace.» II suo non è cinismo; è rasse­gnazione.

Ma io non posso rassegnarmi, anche se mi rendo con­to che quello che stiamo vivendo è un momento particolarmente tragico per l'umanità. Da settimane tutto quello che vedo e che sento a proposito di questa guerra sembra fatto per dimostrare che l'uomo non è assoluta­mente la parte più nobile del creato e che nel suo cam­mino di incivilimento sta subendo ora, davanti ai nostri occhi, con la nostra partecipazione, una grande battuta d'arresto.

Proprio all'inizio del terzo millennio, all'inizio di quella che tanti giovani pensavano fosse The New Age, la nuova era di pace e serenità, l'uomo ha innesca­to un pericolosissimo processo di nuova barbarie. Pro­prio quando una serie di regole del convivere umano parevano assicurate e condivise dai più, proprio quando le Nazioni Unite sembravano diventare la sede per la ri­soluzione dei conflitti, proprio quando le varie conven­zioni sui diritti umani, sulla protezione dell'infanzia, della donna e dell'ambiente parevano aver gettato le ba­si per una nuova etica internazionale, tutto è stato scon­volto e l'amministrazione della morte altrui è tornata ad essere una routine tecnico-burocratica come per Eichmann era diventato alla fine il trasporto degli ebrei.

Sotto gli occhi di soldati occidentali, a volte con la loro attiva partecipazione, prigionieri con le mani legate dietro la schiena vengono fucilati ed il massacro, defi­nito convenientemente una «rivolta carceraria», viene archiviato. Interi villaggi di contadini, la cui unica col­pa è di essere nelle vicinanze di una montagna chiamata Tora Bora, vengono rasi al suolo dai bombardamenti a tappeto. Le vittime sono centinaia, ma la loro esistenza viene spudoratamente negata con l'affermazione che «tutti gli obiettivi colpiti sono militari». Una persona­lità di rilievo come il segretario alla Difesa Rumsfeld descrive i combattenti di Osama bin Laden come «ani­mali feriti», per questo particolarmente pericolosi e con ciò possibilmente da abbattere, anche quando il rifiutare la resa di un combattente disarmato è un crimine di guerra secondo le Convenzioni di Ginevra. Il fatto che le quasi quotidiane apparizioni del segretario Rumsfeld al podio del Pentagono siano diventate uno dei program­mi più popolari e più seguiti d'America dice molto sullo stato attuale di gran parte dell'umanità.

La tortura stessa cessa di essere un tabù nella co­scienza occidentale e nei talk-show si discute ormai apertamente sulla legittimità di ricorrervi quando si trat­ti di estrarre al sospetto-torturato delle informazioni che salvino vite americane. Pochissimi protestano. Nessuno chiede apertamente se i marines, le forze speciali e gli agenti della CIA, che stanno interrogando centinaia di talebani e arabi per scoprire dove si nasconda Osama bin Laden, lo facciano rispettando le norme secondo cui i prigionieri di guerra son tenuti solo a dare le pro­prie generalità. La «comunità internazionale» ha ormai accettato che l'interesse nazionale americano prevalga su qualsiasi altro principio, compreso quello finora sa­crosanto della sovranità nazionale.

La stessa stampa americana ha messo da parte molti dei vecchi principi che l'hanno in passato resa impor­tante nel suo ruolo di controllore del potere. Ho visto con i miei occhi l'originale di un articolo scritto dal­l'Afghanistan da un corrispondente di un grande quoti­diano e quel che poi è stato pubblicato. Un tempo sareb­be stato motivo di scandalo. Non ora. «Ormai siamo di­ventati la Pravda», diceva il giornalista.

Quando un altro corrispondente ha proposto di scri­vere un ritratto psicologico del mullah Omar per spiega­re, fra l'altro, come e perché il capo supremo dei talebani, non consegnando Bin Laden, abbia messo in gio­co l'esistenza del suo regime, la risposta della redazione è stata: «No. Il pubblico americano non è ancora pron­to». La verità è che si deve evitare tutto ciò che può umanizzare la ura del «nemico», tutto ciò che può spiegare le sue ragioni. Il nemico va demonizzato, va presentato come un inaccettabile mostro da eliminare.

Solo per un attimo c'è stato nel servizio in diretta della CNN sul massacro dei prigionieri nella fortezza di Mazar-i-Sharif un tocco di compassione per quelle centinaia di cadaveri sparliati oscenamente nel cor­tile e fra i quali un soldato dell'Alleanza del Nord già andava a giro con delle orribili pinze a cercare di recu­perare dei denti d'oro dalle bocche spalancate. Sullo schermo è so uno svizzero del Comitato Internazionale della Croce Rossa che ha spiegato d'essere li per fotografare e cercare di identificare quei morti. «Ognuno di loro ha una famiglia», ha aggiunto. Quei pochi fotogrammi con quelle poche parole sono scom­parsi da tutte le edizioni in cui il servizio è stato poi, più volte, ritrasmesso.

Non è ssa invece - anzi è stata ripetuta a non finire, specie nelle emissioni radio della Voice of Ame­rica e della BBC rivolte all'Asia - la storia secondo cui negli ultimi giorni gruppi di talebani allo sbaraglio avrebbero fermato gli autobus sulla strada Kabul-Jalalabad, e dopo aver controllato, come facevano quando erano al potere, la lunghezza «islamica» delle barbe dei passeggeri, avrebbero mozzato naso e orecchie a tutti quelli che se l'erano accorciata. Le vittime sareb­bero state portate negli ospedali di Kabul e Jalalabad. Una mattina ho fatto il giro di tutti gli ospedali della ca­pitale alla ricerca di quei malcapitati. Non ne ho trovato uno. Non esistono. Quella storia era falsa, ma una volta trasmessa nessuno si è preoccupato di smentirla. Allo stesso modo era falsa, anche se è stata persino usata dal­la moglie di Tony Blair come esempio degli «orrori» talebani, la storia secondo cui sotto il regime del mullah Omar le donne che avevano le unghie laccate se le ve­devano strappare via di forza.

Le emozioni suscìtate da tutta una serie di notizie fal­se, compresa quella delle fiale di gas nervino «trovate» in un campo di Al Qaeda vicino a Jalalabad, sono ser­vite a rendere accettabili gli orrori della guerra, a met­tere le vittime nel conto dell'«inevitabile prezzo» da are per liberare il mondo dal pericolo del terrorismo. Questo era il fine della politica di informazione e disin­formazione fatta da Washington e questo è quel che ha alimentato l'opinione pubblica del mondo occidentale. L'autocensura dei mezzi d'informazione americani, e in gran parte anche di quelli europei, ha fatto il resto.

La determinazione con cui gli Stati Uniti hanno inte­so tacitare ogni voce dissidente e seccare ogni possibile fonte di verità alternativa è stata dimostrata dal missile caduto «per sbaglio» sulla sede a Kabul della televisione araba Al Jazeera. Sono andato a vedere. Non c'è sta­to alcuno sbaglio. La villetta in cui stava la redazione era la terza di una fila di costruzioni tutte uguali, in ce­mento, ad un piano, con un giardinetto attorno, in un viale uguale a tanti altri nel quartiere Wazir Akbar Khan. Nei paraggi non c'erano caserme, ministeri, carri armati o altri possibili obiettivi militari. Nel mezzo del­la notte un singolo missile, lanciato da un aereo ad alta quota, è caduto esattamente li, su quella villetta, sven­trandola. Un colpo alla libertà di espressione, ma un colpo ormai dato per scontato, accettato, giustificato: un colpo entrato a far parte della nostra vita come i tri­bunali speciali americani, gli arresti senza garanzie le­gali, le sentenze di morte senza appello.

Eppure niente di tutto questo - non i morti innocenti, non i massacri di prigionieri, non la limitazione dei no­stri diritti fondamentali, non l'ingiustizia profonda della guerra - ha scosso l'opinione pubblica. Certo non quel­la americana, ma neppure quella europea.

L'attuale, diffusa indifferenza verso quel che sta suc­cedendo agli afghani, ma in verità - senza che ce ne ac­corgiamo - anche a noi stessi, ha radici profonde. Anni di sfrenato materialismo hanno ridotto e marginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il danaro, il successo e il tornaconto perso­nale il solo metro di giudizio. Senza tempo per fermarsi a riflettere, preso sempre più nell'ingranaggio di una vi­ta altamente competitiva che lascia sempre meno spazio al privato, l'uomo del benessere e dei consumi ha come perso la sua capacità di commuoversi e di indignarsi. È tutto concentrato su di sé, non ha occhi né cuore per quel che gli succede attorno.

È questo nuovo tipo di uomo occidentale, cinico e in­sensibile, egoista e politicamente corretto - qualunque sia la politica -, prodotto della nostra società di sviluppo e ricchezza, che oggi mi fa paura quanto l'uomo col Ka­lashnikov e l'aria da grande tagliagole che ora è ad ogni angolo di strada a Kabul. I due si equivalgono, sono esempi diversi dello stesso fenomeno: quello dell'uomo che dimentica d'avere una coscienza, che non ha chiaro il suo ruolo nell'universo e diventa il più distruttivo di tutti gli esseri viventi, ora inquinando le acque della ter­ra, ora tagliandone le foreste, uccidendone gli animali ed usando sempre più sofisticate forme di varia violenza contro i suoi simili. In Afghanistan tutto questo mi appa­re chiaro. E mi brucia e mi riempie di rabbia.

Per questo, a pensarci bene, l'unico momento di gioia che ho avuto in questo paese è stato quando ci son passato sopra. Dall'oblò di un piccolo aereo a nove posti delle Nazioni Unite in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo appariva come se l'uomo non fosse mai esisti­to e non ci avesse lasciato alcuna traccia di sé. Da lassù il mondo era semplicemente meraviglioso: senza fron­tiere, senza conflitti, senza bandiere per cui morire, sen­za patrie da difendere.

Ho pietà di coloro che l'amore di sé lega alla patria; la patria è soltanto un campo di tende in un deserto di sassi dice un vecchio canto himalayano citato da Fosco Maraini nel suo Segreto Tibet. Se anche ci fossero state, quelle tende non le avrei viste.

Per stare al sicuro l'aereo volava a dieci chilometri di altezza e la terra, ora ocra ora violetta e grigia, era come la pelle grinzosa d'un vecchio gigante; i fiumi le sue ve­ne. Dinanzi, come un mare in tempesta che improvvisa­mente fosse diventato di ghiaccio, avevamo la barriera innevata dell'Hindu Kush, «l'assassino di indù», a cau­sa delle centinaia di migliaia di indiani morti di freddo in quelle montagne mentre venivano trasportati come schiavi verso l'Asia centrale dai loro conquistatori moghul.

L'Afghanistan è stato da sempre, per la sua posizione geografica, il grande corridoio del mondo. Da qui son passate tutte le grandi religioni, le grandi civiltà, i gran­di imperi; da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte le merci, tutte le arti. Qui sono nati un visionario-filosofo come Zarathustra, un poeta come Rumi, qui so­no nati gli inni vedici che sono all'origine delle scritture sacre indiane, e da qui è venuta la prima analisi gram­maticale del sanscrito, la lingua a cui tutte le nostre deb­bono qualcosa. Da qui son passati tutti quelli che nei se­coli sono andati a derubare l'India delle sue ricchezze materiali e da qui è passata la ricchezza spirituale del­l'India, il buddhismo, prima di diffondersi nell'Asia centrale, in Cina, in Corea e alla fine in Giappone. E proprio in Afghanistan il buddhismo, incontrando la grecità che Alessandro il Macedone si era lasciato die­tro, s'è espresso nelle sue più raffinate forme artistiche. L'Afghanistan è una vasta, profonda miniera di storia umana, sepolta nella terra di posti come Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat, Ghazni e Balkh, l'antica Bactria, conosciuta come «madre di tutte le città».

«E voi, che ci fate qui?» chiese nel 1924 un viaggia­tore americano, sorpreso di vedere a Kabul, fra quelle delle grandi potenze, anche un'ambasciata italiana. «L'archeologia», si sentì rispondere dall'allora mini­stro plenipotenziario Paternò dei Marchi. Dall'inizio del secolo scorso tanti sono stati gli scavi fatti in Afgha­nistan da nostre missioni scientifiche ed era davvero pe­noso, nelle prime settimane dei bombardamenti, sentire che i B-52 americani, alla caccia dei talebani, praticava­no ora una loro nuova forma di archeologia andando a scavare, a suon di bombe a tappeto, proprio in quei po­sti preziosi.

Questo, d'essere al centro di un qualche interesse al­trui, è il destino dell'Afghanistan. È così che dai greci ai persiani, ai mongoli, ai turchi, fino ai russi e agli inglesi nell'Ottocento, il paese è sempre stato la posta di un qualche Grande Gioco. Ancora oggi è esattamente così.

Quando l'aereo delle Nazioni Unite s'è posato sulla pista di Bagram, un posto che duemila anni fa fu la ca­pitale di una grande civiltà - Kushan - di cui le guerre han spazzato via ogni traccia in superficie, i nuovi giocatori erano tutti li, su quella pista di cemento in mezzo ad una valle ora deserta e punteggiata dalla spettrale presenza di carcasse di carri armati, elicotteri, camion, aerei e cannoni. Mentre tre marines e un cane lupo, an­che lui americano, venivano ad annusare meticolosa­mente i miei bagagli, dei soldati russi trafficavano, poco più in là, attorno a un loro aereo e a una fila di camion dai tendoni chiusi su cui era scritto: «Dalla Russia per i bambini dell' Afghanistan». Dinanzi alle rovine di una caserma si vedevano le sagome di alcuni soldati inglesi. Bisognava guardare le stupefacenti montagne che al ca­lar del sole sembrano prendere vita e muoversi col mu­tare delle ombre e dei colori, per non disperarsi: la vec­chia storia stava semplicemente ricominciando.

La «comunità internazionale» pensa di aver trovato una soluzione per i problemi dell'Afghanistan in una formula che combina violenza e soldi, milizie afghane colpevoli di vari misfatti, ma ora tenute a bada anche loro dai B-52, e una persona per bene come il nuovo ca­po dell'esecutivo Hamid Karzai, unico e debole pashtun fra i rappresentanti forti delle altre etnie.

Spero che la formula funzioni, ma non ci credo. Cer­to, anche a Kabul la vita riprende. L'ho vista riprendere a Phnom Penh dopo la fine dei khmer rossi, l'ho vista riprendere nelle foreste del Laos e del Vietnam defoliate dagli agenti chimici e cancerogeni degli americani. Ma che vita? Una vita nuova, una vita più consapevole, più tollerante, più serena, o la solita vita di ora: aggres­siva, rapace, violenta?

Uno dei momenti che non dimenticherò di questi gior­ni a Kabul è stata la visita allo zoo. «Vale la pena, mi creda», aveva suggerito il «venditore di patate». Era venerdì, giorno di festa per i musulmani, e qualche decina di persone aveva ato i 2000 afghani (0,04 euro) del biglietto per entrare a vedere la collezione più patetica e misera di animali che uno possa immaginarsi: un pic­colo orso col naso scortecciato e purulento, un vecchio leone orbo che non sta più sulle gambe e a cui è morta di recente la leonessa, un cerbiatto, una civetta, due aqui­le spennacchiate e tanti conigli e piccioni. Durante le battaglie fra i vari gruppi mujaheddin dell'Alleanza del Nord, prima che arrivassero i talebani, lo zoo è stato per un po' la linea del fronte; ci son cadute sopra bombe e missili e molte gabbie si sono sfasciate permettendo a vari animali di scappare. I lupi non sono stati così fortu­nati e in una gabbia puzzolentissima, senza acqua, dove un guardiano butta una volta al giorno degli avanzi di carne, ne sono rimasti due vecchi esemplari.

Sono li da anni: soli, prigionieri, chiusi nello stesso spazio. Si conoscono. Si conoscono bene, eppure stri­sciano in continuazione, guardinghi, contro le pareti or­mai lustre e la rete tutta rabberciata e, incrociandosi, ogni volta ringhiano, si mostrano i denti e si aggredi­scono, aizzati da una piccola folla di uomini che forse s'illudono d'essere diversi e non si rendono conto d'es­sere, anche loro, nella gabbia dell'esistenza solo per morirci.

Tanto varrebbe allora viverci in pace.

LETTERA DA DELHI

Hei Ram


Delhi, 5 gennaio 2002


l'india è casa. Ci abito da anni. Ci tengo i miei libri, ci trovo il rifugio che un uomo cerca dal turbinare del mondo; ci sento, come in nessun altro posto, il senso dell'insensato scorrere della vita. Ma ora anche l'India è una delusione. Anche l'India non parla che di guerra, mobilita i suoi soldati e i suoi cannoni, minaccia di usare le sue bombe atomiche contro il Pakistan e, come un pri­mo della classe che ha appena imparato a memoria l'as­surda dottrina di George W. Bush - «o con noi, o con i terroristi» - scodinzola felice dietro al carro da guerra americano. Un paese di un miliardo di persone! Il paese che deve la sua indipendenza a Gandhi, il Mahatma, la grande anima: oggi un paese come tutti gli altri. Peccato.

Questa era l'occasione per l'India di tornare alle sue fonti, di ritrovare il linguaggio antico della sua vera for­za, la non-violenza; l'occasione di rifarsi alla sua storia recente di non-allineamento e di ricordare al mondo la possibilità di quella «via di mezzo» che esiste sempre. m questo caso: né con loro, né coi terroristi.

Invece anche qui non si sente che la retorica dello «spalla a spalla», la litania della coalizione internazionale contro il terrorismo, ed un gran sproloquiare di rabbia e orgoglio, di coraggio e determinazione, di esser pronti al sacrificio. Il tutto perché gli attuali governanti dell'India sperano di sfruttare la situazione creata dal­l'attacco americano in Afghanistan per risolvere con la forza il loro problema del Kashmir che da cinquant'anni nessuna forza ha risolto (fra India e Pakistan ci sono già state tre guerre) o, ancor peggio, perché il prin­cipale partito della coalizione al potere, il BJP, spera, facendo la voce grossa sulla guerra, senza in verità vo­lerla davvero, di vincere le prossime elezioni in due im­portanti Stati del paese. Così è il mondo, anche quello indiano, ormai: nessun principio, ma tanti espedienti; nessuna aspirazione spirituale, solo il desiderio di pic­coli o grandi vantaggi materiali.

Tutte le lezioni del passato sono dimenticate. Eccone una piccola piccola, ma, come tutte quelle di Gandhi, una su cui riflettere. Nel 1947, India e Pakistan erano formalmente diventati due Stati indipendenti. In verità erano ancora due tronconi sanguinanti dello stesso cor­po che la doppiezza del potere coloniale inglese aveva contribuito a dividere. Gandhi si era opposto con tutte le sue forze alla spartizione. Diceva che sia il Pakistan sia l'India erano il suo paese e che si sarebbe rifiutato di usare un passaporto per andare dall'uno all'altro. Il suo idealismo fu sconfitto e il suo digiunare non fermò la disperata, biblica migrazione di popoli e il massacro di almeno un milione di persone. Il realismo dei piccoli e grandi interessi prevalse.

La divisione era stata fatta, vagamente, in base al­l'aggregazione religiosa - gli indù da una parte, i mu­sulmani dall'altra - e lasciando ai maharajah dei 562 principati di scegliere da che parte stare. Quello del Kashmir era indeciso: lui era indù, ma la maggioranza dei suoi sudditi era musulmana. Così per due mesi restò formalmente indipendente. Il Pakistan ne approfittò per mandare in Kashmir dei «volontari» ad annettere quel prezioso pezzo di terra; gli indiani ne approfittarono per spingere il maharajah a decidere a favore dell'India e mandare in Kashmir il loro esercito. La guerra era già in corso quando si trattò, per completare la spartizione di quel che era stato l'impero inglese in India, di divi­dere equamente fra India e Pakistan le riserve che resta­vano nelle casse ancora comuni a Delhi. Nehru, che era il primo ministro indiano, sostenne che il Pakistan avrebbe usato quei soldi per finanziare la guerra in Kashmir e che l'India doveva tenersi tutto. Ma Gandhi non volle saperne. Nessuna ragione poteva, secondo lui, prevalere su un sacrosanto principio di giustizia: il Pa­kistan aveva diritto alla sua parte e l'India doveva dar­gliela. Così fu. Che lezione! Una lezione che gli costò la vita. Fu subito dopo quella decisione di dare al Paki­stan i 550 milioni di rupie che Gandhi, accusato dai fon­damentalisti indù di essere pro-musulmano, venne as­sassinato il 30 gennaio 1948.

Da allora fra India e Pakistan non c'è mai stata pace ed il Kashmir, nel frattempo distrutto, martoriato e divi­so da una cosìddetta «linea di controllo» lungo la quale i due eserciti, ora armati di ordigni nucleari, si fronteg­giano, resta un campo di battaglia. Come in tutte le guerre ormai, a morire sono soprattutto i civili.

Ci fosse ancora Gandhi o qualcuno della sua dimen­sione morale, oggi, saprebbe bene che nella questione del Kashmir nessuno è stato «giusto», che Pakistan e India hanno enormi responsabilità per il presente stato di cose, che tutti e due, nel perseguimento dei loro fini, hanno commesso orribili crimini e che le vere vittime di tutta questa storia sono stati - e sono tuttora - i kashmiri a cui nessuno, in più di mezzo secolo, ha semplicemen­te chiesto: «E voi cosa volete?» Secondo me, vorrebbe­ro innanzitutto stare in pace e godersi quella valle che resta uno dei più bei posti al mondo.

E un giorno lo faranno perché, a meno che l'umanità si suicidi, il grande continente indiano - con una popo­lazione pari a quella della Cina - dovrà tornare ad esse­re quello che era già nel 1947: una unità di diversità. In­diani, pakistani e bangladeshi hanno le stesse radici, la stessa cultura, la stessa storia, compresa la storia recen­te delle guerre che han combattuto fra di loro; esatta­mente come i francesi e i tedeschi, gli italiani e gli au­striaci. Se il continente europeo è riuscìto a diventare una comunità, lo potrà diventare benissimo anche il continente indiano.

Perché allora, invece che preparare nuovi massacri, non mettersi subito, ora, a lavorare per una maggiore in­tegrazione, per un continente senza guerre, senza fron­tiere, magari con una moneta unica e, se questo è trop­po, almeno con un grande, comune impegno a dare l'ac­qua potabile a tutti, visto che dal Pakistan all'India, al Bangladesh solo un quarto della popolazione ce l'ha?

Ma l'acqua da bere non sembra una causa degna d'impegno. La guerra lo è molto di più. E se questa ma­ledetta guerra fra India e Pakistan - magari anche per sbaglio - dovesse scoppiare davvero e diventasse nu­cleare - uno sbaglio tira l'altro -, il numero dei morti sarebbe immenso.

L'attuale situazione fra India e Pakistan è la prova lampante di quanto sia assurda, ingiusta e pericolosa la dottrina americana enunciata a sostegno della coali­zione internazionale contro il terrorismo. Tutte le ragio­ni addotte dagli Stati Uniti per andare a bombardare l'Afghanistan e rovesciare i talebani darebbero ora al­l'India il diritto di bombardare a tappeto il Pakistan e rovesciare il regime del generale Musharraf: gli indiani sono stati da anni vittime di orrendi attacchi terroristici - l'ultimo al Parlamento il 13 dicembre scorso -; non ci sono dubbi che le organizzazioni terroristiche che colpi­scono l'India hanno sede in Pakistan, ed è altrettanto provato che il governo pakistano ha dato asilo a quei terroristi. Guerra, allora? Guerra giusta da parte dell'In­dia? Nessuna guerra è giusta. Comunque resta un pro­blema: chi sono i terroristi? Molti degli uomini che l'In­dia definisce tali, per altri sono combattenti per la liber­tà. C'è poi un altro problema: al contrario dei talebani, che non avevano alcun modo di difendersi contro la strapotenza americana, i pakistani hanno forze armate moderne, dispongono di ordigni nucleari e la guerra contro di loro avrebbe conseguenze imprevedibili.

Per questo gli americani si danno in questi giorni un gran daffare per cercare di calmare gli animi dei due con­tendenti e in fondo per spiegare che solo loro, gli ameri­cani, possono perseguire i loro terroristi, che solo loro possono andare a stanarli nei paesi che a loro fa comodo e che solo loro, gli americani, possono andare a rovescia­re i governi che a loro non piacciono. Ci si può forse im­maginare un paese che chieda agli Stati Uniti di conse­gnare alla giustizia un qualche loro cittadino responsabi­le di atti terroristici a Cuba, Haiti, in Cile? O che Wash­ington consegni uno di quei loschi uri che, per conto degli Stati Uniti, sono stati responsabili di prolungate camne terroristiche, ad esempio in America Latina, e che ora godono della protezione americana?

Quella che gli Stati Uniti perseguono è la loro giusti­zia, non la giustizia. Gli Stati Uniti non hanno alcun vero interesse a risolvere il problema del Kashmir, così come non ne hanno a risolvere il problema dell'Afghanistan. Sono entrati di forza in questa regione per esercitare una loro vendetta e per perseguire i loro interessi nazio­nali. Ora che ci sono, ci resteranno. L'attacco all'Afgha­nistan ha mutato l'assetto del mondo e ha dato agli Stati Uniti, per la prima volta nella storia, libero accesso al­l'Asia centrale ed all'Asia del Sud. A questo accesso non rinunceranno: gli accordi fatti con le repubbliche ex sovietiche verranno prolungati oltre l'emergenza anti-terroristica e la base militare che gli Stati Uniti stanno costruendo a Jacobabad in Pakistan sarà permanente, an­che perché serve a tener d'occhio - e in caso estremo ad azzerare - l'arsenale nucleare pakistano, percepito, si sa, come «la bomba atomica islamica».

Mettendosi, senza condizioni e senza ripensamenti, al seguito della potenza americana - magari con la spe­ranza di sfruttarla ai loro fini -, gli indiani non hanno fatto altro che aumentare il peso degli Stati Uniti nella regione e rinunciare definitivamente alla loro posizione di distanza e di diversità dai blocchi altrui. Non era ne­cessario.

L'India è un paese povero, ma ha ancora - e forse è l'ultimo al mondo - una sua forte e profonda cultura di stampo spirituale, capace di resistere all'ondata mate­rialistica della globalizzazione che appiattisce ogni identità e ingenera ovunque un soffocante conformi­smo. Questo era il momento in cui l'India avrebbe po­tuto fare l'elogio della diversità, in cui avrebbe potuto ricordare che, ancor più di una coalizione contro il ter­rorismo, il mondo ha bisogno di una coalizione contro la povertà, una coalizione contro lo sfruttamento, contro l'intolleranza.

L'India, «la più grande democrazia del mondo», avrebbe potuto rammentare alle democrazie dell'Occi­dente che non è limitando le libertà dei propri cittadini, proteggendo le nostre società col filo spinato, dando sempre più potere agli organi repressivi e con ciò au­mentando il senso di esclusione da parte dei diversi, che risolveremo i nostri problemi.

Questo era il momento in cui l'India avrebbe potuto dichiararsi contro la violenza, ogni tipo di violenza, an­che quella del «nuovo ordine mondiale» che, coi suoi principi e criteri pretesamente «globali», ma in verità dei paesi «forti» ex colonialisti, impone all'India stessa e a tanti altri paesi ex coloniali, economicamente sotto­sviluppati e con ciò «deboli», politiche che aumentano solo la ricchezza dei ricchi, la povertà dei poveri e ren­dono gli uni e gli altri sempre più infelici.

L'India resta comunque, nonostante i suoi politici, un paese a sé, un paese il cui corpo sociale non è mosso esclusivamente da aspirazioni terrene. Solo in India an­cora oggi milioni e milioni di uomini e donne, dopo una normale esistenza di padri o madri, impiegati o profes­sionisti, rinunciano a tutto ciò che è di questa vita - i possedimenti, gli affetti, i desideri, il nome - per diven­tare sanyasin, rinunciatari, e vestiti di arancione, all'età in cui noi andiamo in pensione, si mettono in pellegri­naggio e, di tempio in tempio, di ashram in ashram, vanno per il paese vivendo di elemosina. Finché questo succederà e la popolazione continuerà a nutrire i sanya­sin e ad aver rispetto di loro, l'India rappresenterà un'alternativa esistenziale e filosofica al materialismo che oggi domina il resto del mondo. Per questo l'India resta, nel fondo, un fronte di resistenza contro la globa­lizzazione e in difesa della diversità.

Col suo solo esserci l'India rammenta a noi occiden­tali che non tutto il mondo desidera quel che noi desi­deriamo, che non tutto il mondo vuole essere come noi siamo. Ripenso all'Afghanistan e mi rendo conto quan­to questo valga per quel disgraziato paese. La «comu­nità internazionale», che ora arriva li coi suoi soldi, i suoi soldati, i suoi consigli e i suoi esperti, non sarà af­fatto la soluzione per l'Afghanistan, ma un nuovo pro­blema, se il futuro del paese sarà solo una proiezione delle fantasie e degli interessi occidentali invece che delle aspirazioni degli afghani, di tutti gli afghani.

Ho lasciato Kabul due settimane fa per venire a fare le feste in famiglia a Delhi, ma la mia testa è come fos­se rimasta sempre là. Ho negli occhi la stupenda vista dalle mie due finestre impolverate, ho nelle orecchie il costante ronzio del bazar, i richiami alla preghiera dei muezzin e le grida dei ragazzini che cercano clienti per i taxi in partenza per le strade sempre più pericolose della provincia. Sfoglio i blocchetti pieni di note, di sto­rie sentite, di riflessioni fatte lì per lì e, nella distanza, mi appare sempre più chiaro che tutto quel che sta suc­cedendo e succederà d'ora innanzi in Afghanistan ha nel fondo a che fare con la diversità: con il diritto ad essere diversi. Un secolo fa, per gli afghani, come per altri popoli del mondo, la diversità stava nel rendersi in­dipendenti all'oppressione coloniale; oggi è nel restare fuori da un sistema più sofisticato, ma ugualmente op­primente, che cerca di fare di tutto il mondo un merca­to, di tutti gli uomini dei consumatori a cui vendere pri­ma gli stessi desideri e poi gli stessi prodotti.

Dietro ogni progetto di ricostruzione, ogni piano di risanamento che gli aiuti internazionali finanzieranno in Afghanistan c'è una domanda che nessuno sembra avere il coraggio di porre chiaramente: che tipo di paese si vuole ricostruire? Uno come il nostro o come il loro? Il grande pericolo per gli afghani oggi è che, nell'eufo­ria della ritrovata libertà di sognare, finiscano solo per sognare come noi occidentali vogliamo che sognino e finiscano per guardare alla loro storia con gli occhi di quelli che ora gliela stanno riscrivendo. Basta conside­rare la versione corrente di quel che è successo recente­mente in Afghanistan per rendersi conto di quanto que­sta sia già cosparsa di distorsioni e di bugie: alcune piantate ad arte dalla proanda di guerra americana, altre spontanee e dovute al fatto che chiamiamo realtà quel che percepiamo attraverso i nostri sensi, i nostri pregiudizi e le nostre idee fisse.

Un esempio tipico è stata l'immagine che gli organi d'informazione occidentali hanno dato in generale dei talebani: erano orribili (una versione islamica dei khmer rossi di Pol Pot); hanno commesso terribili crimini con­tro l'umanità, specie contro le donne; non avevano al­cun appoggio popolare; erano praticamente una forza di occupazione straniera, tenuta al potere dai pakistani; l'arrivo dei soldati dell'Alleanza del Nord a Kabul è stata una vera liberazione. Ricordo il titolo di un grande quotidiano italiano che il 15 novembre diceva: «Kabul: tacchi alti e rossetto»; altri raccontavano di donne che gettavano via il burqa; in alcuni casi lo bruciavano.

Questo è ovviamente un quadro che serve a giustifi­care la condotta della guerra americana in Afghanistan, il proseguire dei bombardamenti che continuano a fare vittime civili e la caccia al mullah Omar, ai suoi mini­stri ed ai suoi ambasciatori di cui, correndo loro dietro, si è dimenticato di spiegare quali «crimini» abbiano commesso. Ma è un quadro esatto? Probabilmente no.

Il regime dei talebani era certo arbitrario e repressi­vo, ma gli studenti coranici non erano assassini patolo­gici. Nel corso della guerra civile, i talebani sono stati vittime ed autori di alcuni massacri (nel 1998, ad esempio, 3000 talebani furono fatti prigionieri e ster­minati a Mazar-i-Sharif; un anno dopo, nello stesso po­sto, per rappresaglia, i talebani fecero lo stesso con 2000 hazara); ma, al contrario della Cambogia di Pol Pot, nell'Afghanistan del mullah Omar non ci sono sta­ti killing fields, non ci sono stati piani di sterminio di una parte o di un'altra della popolazione, non c'è stato nessun tentativo di creare un «uomo nuovo», elimi­nando i vecchi. I talebani si vedevano come i protettori della gente, come i moralizzatori della vita afghana, secondo loro, inquinata dalle più varie influenze stra­niere. Non va dimenticato che il primo atto pubblico dei talebani fa, nel 1994, l'esecuzione a Kandahar di un comandante mujaheddin colpevole d'aver rapito e stuprato due giovani donne e poi l'impiccagione di un altro comandante, reo d'aver «sposato» un ragazzi­no di cui s'era invaghito e d'averlo portato a giro tutto inghirlandato su un carro armato come fosse stato un carro nuziale.

Certe proibizioni talebane, tipo quella degli aquiloni perché i bambini, giocandoci, sottraevano tempo alla memorizzazione del Corano, o certe regole come quella sul mantenimento di una lunghezza «islamica» della barba, erano palesemente assurde. Altre meno. I talebani, ad esempio, mandavano in galera per una settimana chi veniva sorpreso a guardare la TV o ad ascoltare del­la musica, e in questo c'era una logica: l'Afghanistan non produceva nessuna cassetta, nessun programma te­levisivo (l'Afghanistan non produce ormai neppure i fiammiferi!), per cui tutto quello che la gente poteva ve­dere o sentire era di importazione - di solito indiana - e ciò era considerato non «islamico», era visto come fon­te di corruzione. Il loro ragionamento nel fondo non era troppo diverso da quello di chi in Occidente non vuole che i li guardino la televisione e tutti gli assurdi pro­grammi di violenza e di sesso che propone.

Una mattina sono andato alla vecchia sede di TV Ka­bul che aveva appena ripreso le trasmissioni. È stata una scoperta: la sede era in ottime condizioni. I talebani non l'avevano toccata, anzi avevano continuato a a­re gli stipendi ai tecnici perché mantenessero in funzio­ne le apparecchiature. Era come se avessero sperato un giorno di farla ripartire con programmi loro. L'hanno fatta rifunzionare quelli dell'Alleanza del Nord, ma la gente preferisce captare i programmi della BBC, del Pa­kistan e dell'India.

Una delle imprese più ingegnose che ho visto nascere e fiorire sotto i miei occhi è stata la produzione di artigianalissime antenne paraboliche fatte con le lattine della Coca-Cola. Improvvisamente ce n'erano dapper­tutto, mentre decine di vecchi negozi di elettricità e lampadine si trasformavano in rivendite di televisori e videoregistratori contrabbandati dal Pakistan e dall'I­ran. Gli effetti sono stati immediati e un giorno, andan­do a mangiare da Khalid, un vecchio cinema riadattato ad osteria, ho dovuto accettare, con disappunto, che la nuova riconquistata libertà aveva messo a tacere gli usignoli che prima cinguettavano nelle gabbie sistemate fra i tavoli: dei barbutissimi avventori stavano davanti ad un televisore a tutto volume, inebetiti, a guardare la videocassetta di una giunonica donna che faceva la danza del ventre.

Da questo punto di vista la fine dei talebani è stata, per Kabul, una piccola gioia. Accanto alle vecchie car­toline di Kabul, le bancarelle vendono ora anche nuo­vissime urine di attrici indiane e copie di cassette. Il padrone di una fabbrichetta di tappeti nel quartiere di Kote Parwal, dove ero capitato per caso cercando qualcos'altro, mi ha mostrato orgoglioso le nuove ac­quisizioni con cui rendeva più piacevole la vita dei suoi operai: due poster di stelle del cinema e un registratore che mandava in continuazione una qualche musichetta. Gli «operai», in una stanza piccola e fredda, erano quindici bambini - il più piccolo aveva 7 anni, il più grande 16 -; lavoravano li otto ore al giorno, ventiquat­tro giorni al mese per un salario di 3000 afghani (0,07 euro) al giorno: meno di quanto serve per comprare un chapati, una notta che a Kabul costa 4000 afghani. Il padrone non dava a quei ragazzini niente da mangiare, né ogni tanto qualcosa di caldo da bere.

«Ma quelli sono fortunati. Sopravvivono», mi ha ri­sposto il funzionario di un'organizzazione umanitaria a cui la sera ho raccontato la storia. «Qui da anni i bam­bini muoiono come le mosche. Al tempo in cui a Bamiyan venivano distrutti i Buddha, decine e decine di bambini in quella stessa valle morivano di fame a causa della siccità e a causa dell'embargo, eppure la comunità internazionale piangeva solo sul destino delle statue», ha detto. La distruzione dei Buddha è certo stato uno degli atti più provocatori dei talebani ed ha contribuito moltissimo a rafforzare nel mondo l'immagine del loro regime come «folle» e «criminale».

Fra i tanti altri crimini attribuiti ai talebani ci sono le amputazioni di mani e piedi a persone accusate di furto, e alcune esecuzioni pubbliche, tra cui la fucilazione di alcune donne. Certo che quelle non sono state scene edificanti, ma sono da vedere nel contesto di una socie­tà che, durante la guerra civile, aveva perso ogni sem­bianza di ordine e che, grazie alla dura reimposizione della sharya, la legge coranica, era tornata a sentirsi al sicuro. A detta di tanti abitanti di Kabul con cui ho parlato, al tempo dei talebani nessuno doveva più teme­re d'essere derubato; le donne potevano viaggiare da un angolo all'altro del paese senza tema di esser molestate; le strade del paese erano sicure.

Le esecuzioni pubbliche sono qualcosa che ripugna alla coscienza occidentale. Ma sono più civili le esecu­zioni che avvengono per iniezione all'interno dei penitenziari americani? Almeno, secondo la sharya, se la fa­miglia della vittima perdona il condannato, quello può essere, anche all'ultimo momento, liberato; al contrario di quanto succede ai condannati in Texas, dove George W. Bush ha convalidato ogni singola sentenza di morte passata dalla sua scrivania di governatore.

La sharya è sempre stata la legge dell'Afghanistan e persino le costituzioni promulgate nei vari tentativi di secolarizzare il paese ne hanno dovuto riconoscere la validità, specie nell'ambito del diritto di famiglia e di proprietà. Sorprenderà molti in Occidente sapere che i giudici designati dal nuovo governo afghano hanno già detto che i principi della sharya dovranno restare al­la base del futuro sistema giuridico del paese.

Al momento la legge è ancora quella del fucile. Kabul è piena di uomini armati e la sera, prima dell'entrata in vigore del coprifuoco, la gente è sempre inquieta dinanzi all'ombra di un uomo con un Kalashnikov: ladro o poli­ziotto? Appena fuori della capitale, le condizioni di sicu­rezza sono incerte anche di giorno. Il paese è in mano a vari signori della guerra, ognuno dei quali estorce, con le sue bande di armati, pedaggi lungo le strade. All'incer­tezza prodotta da questa rinata forma di banditismo, a cui i talebani avevano messo fine ritirando con la forza gran parte delle armi in mano ai privati, si aggiunge ora il rischio delle bombe americane che possono in ogni momento cadere in qualsiasi angolo del paese.

All'inizio della guerra, gli americani hanno distribuito con grande generosità dei telefoni satellitari ai vari capi tribali e comandanti afghani che promettevano di rivoltarsi contro i talebani e di fornire informazioni utili a dirigere gli attacchi aerei contro gli uomini di Osama bin Laden e del mullah Omar. È successo però - e suc­cede ancora - che alcuni di questi capi tribali mandino i bombardieri USA a colpire i loro avversari politici o i villaggi dei loro concorrenti, con la scusa che nascondo­no dei talebani, facendo aumentare il numero dei civili uccisi «per sbaglio». Un comandante col senso degli affari ha usato il suo satellitare per farsi paracadutare dagli americani, due volte di seguito, grandi quantità di cibo sostenendo d'essere responsabile d'un gran gruppo di persone che stavano morendo di fame. Non era vero.

A parte la sharya, un'altra questione che ha molto contribuito all'immagine negativa dei talebani è stata quella del burqa. L'imposizione talebana di questo, ai nostri occhi, davvero orribile indumento che copre le donne dalla testa ai piedi ha acceso a tal punto la fanta­sia del mondo occidentale che, a un certo momento, sembrava che la liberazione delle donne da quel sacco spettrale fosse uno dei fini della guerra americana in Afghanistan, una sorta di «vantaggio collaterale» dei bombardamenti. L'impressione del mondo è stata: finiti i talebani, finito il burqa. Ma non è andata affatto così.

La folla del bazar che ogni giorno vedevo dalle mie due splendide finestre su Kabul era sempre quella di due colori: il grigio-ocra-marrone dei mantelli degli uo­mini e il grigio-azzurro-carta-da-zucchero delle centi­naia e centinaia di burqa che tutte, davvero tutte, le don­ne continuavano a portare. Nei venti giorni che son ri­masto a Kabul non ho visto per strada una sola donna a viso scoperto.

Questo è un punto su cui non mi stancherò mai di in­sistere: a noi può parere assurdo che gli altri non voglia­no vivere, mangiare, vestirsi come noi; a noi occidentali può parere assurda una società che preferisce la poliga­mia e impone l'assoluta fedeltà, invece della nostra temporanea monogamia e della nostra costante promi­scuità sessuale. A noi pare naturale che una donna vo­glia essere come un uomo, fare il soldato, l'avvocato, il pilota di aerei, che voglia essere indipendente economi­camente, invece di dedicarsi ad allevare li, educarli e regnare su una casa.

A noi piace vedere il mondo come lo conosciamo e quindi siamo solo capaci di immaginarci la liberazione di Kabul come una liberazione dal burqa: se le donne non lo buttano via, le incitiamo o le hiamo perché lo facciano, come pare abbia fatto una troupe televisiva.

Quel che dimentichiamo è che il burqa appartiene a un mondo diverso dal nostro, a una diversa cultura; di­mentichiamo che, come la sharya, ha una sua tradizione ed è solo un aspetto, quello più esteriore - appunto del vestiario -, di un principio molto più generale, il prin­cipio del purdah, la tenda, che nelle società islamiche separa le donne dagli uomini: le separa nelle loro stan­ze, nel mangiare, nella loro educazione. Le separa, ma così facendo, dal loro punto di vista, le protegge anche. Perché il burqa è anche questo: una protezione, un sim­bolo dell'inavvicinabilità femminile in un paese dove è ancora d'uso che il medico, nei villaggi, non tocchi una paziente donna e che solo un fratello o il marito le può riferire i suoi mali. Così come succedeva in Cina, dove nacquero le belle urine in avorio di donne nude, ap­punto per indicare su quelle i punti dolenti del corpo.

In Afghanistan, una bambina non gioca a fare la grande andando a giro per la casa con le scarpe della mamma, ma indossando il suo burqa e sognando il gior­no in cui, donna, avrà diritto al proprio. Cosa penserem­mo noi se un giorno la nostra società fosse conquistata dai naturisti e noi tutti dovessimo celebrare la nostra «liberazione» andando improvvisamente a giro nudi bruchi? Lo so che non tutte le donne dell'Afghanistan, specie quelle che han studiato e quelle che han viaggia­to all'estero, la pensano così, ma lo sanno i nemici del burqa che per le donne dei villaggi più poveri il burqa è anche un simbolo di benessere?

Ogni società tradizionale - dall'India alla Cina, al Giappone, alla Turchia, all'Iran - ha avuto questo pro­blema dell'abito quando, sfidata dall'Occidente, ha do­vuto affrontare il dramma della propria modernizzazione. Le risposte sono state diverse di caso in caso, ma in tutti i casi la questione del vestito è stata - molto più che una questione di moda o di «liberazione» - una sorta di test fra le forze di un passato ritenuto superato e quelle di un futuro ritenuto inevitabile. Perché questo è il nocciolo di tutto quel che è successo in Afghanistan da un secolo a questa parte e di quel che sta succeden­do: una lotta fra tradizione e modernità, la prima vista come fedeltà al passato fondamentalista islamico, la se­conda come adesione al secolarismo di stampo occiden­tale.

Non è un caso che tutte le rivoluzioni afghane degli ultimi centocinquant'anni, compresa quella comunista, e tutte le controrivoluzioni, compresa quella talebana, abbiano avuto a che fare con il burqa. La rivolta che nel 1929 rovesciò Amanullah, il re afghano ancor oggi più benevolmente ricordato, cominciò contro la decisio­ne di togliere il velo alle donne.

La storia di re Amanullah è interessante perché non è difficile vederci certi parallelismi con quel che sta suc­cedendo oggi. Salito al potere nel 1919, dopo l'assassi­nio di suo padre, Amanullah divenne un eroe nazionale per aver sfidato e sconfitto gli inglesi che ancora preten­devano di esercitare una sorta di protettorato sull'Af­ghanistan.

Usando questo suo prestigio, Amanullah lanciò il più vasto programma di modernizzazione - cioè di occiden­talizzazione - che il paese avesse mai conosciuto. Varò la prima costituzione, fondò la prima università, ristrut­turò il sistema legale, apri le scuole alle donne, mandò tanti giovani afghani all'estero a studiare e invitò vari esperti stranieri perché aiutassero l'Afghanistan a rifor­mare l'esercito e l'amministrazione statale. Poi, per ce­lebrare l'ingresso dell'Afghanistan nel consesso delle nazioni sovrane del mondo, a Darulaman, Amanullah cominciò a costruire una nuova città con, al centro, un grandissimo edificio destinato ad essere il Parlamen­to e una serie di bei palazzi in stile europeo, allineati lungo un vialone fiancheggiato d'alberi che, come una sorta di Champs-Elysées, legava questa stravagante nuova Kabul alla vecchia.

In un paese dove l'Islam proibiva ogni rappresenta­zione della vita e dove le immagini di persone ed ani­mali erano assolutamente da evitare, re Amanullah fece costruire fontane con cavalli e gruppi marmorei alla Bernini. Fra i vari monumenti di pura ispirazione occi­dentale, in un paese dove il modello architettonico era sempre stato quello della tradizione islamico-persiana, Amanullah costruì un Arco di Trionfo, un monumento al Milite Ignoto ed una Colonna della Conoscenza e dell'Ignoranza nella quale riassunse tutta la sua visione del mondo: la conoscenza era la modernità, secolare e scientifica, importata dall'estero; l'ignoranza era il tra­dizionalismo locale, fondato sulla religione.

Gli europei erano entusiasti di questo re afghano si­mile a loro e Amanullah, accomnato dalla regina Soraya, nel corso di un viaggio per lui trionfale, fu rice­vuto con tutti gli onori nelle varie capitali e nelle varie corti europee, dove raccolse consensi e promesse di aiu­ti da tutti. Un po' come succede oggi con Hamid Karzai, capo del nuovo governo ad interim installatosi a Kabul.

La modernità di Amanullah però non era altrettanto ben vista ed accettata nel suo paese. La progressiva seco­larizzazione dello Stato e l'esautorazione dei capi tribali, che il re costrinse a presentarsi ad una Loya Jirga, la grande assemblea nazionale, con le barbe tagliate, in giacca e pantaloni, e con la bombetta invece dei loro scialli e turbanti, trasformarono la resistenza passiva dei tradizionalisti in una rivolta popolare. Le foto euro­pee della regina Soraya, con le spalle completamente scoperte, furono la goccia che fece traboccare il vaso. I capi religiosi sostennero che tutto il programma di rifor­me del re era anti-islamico, che il re stesso e la regina - lei una volta si era platealmente tolto il burqa e l'aveva calpestato - si erano convertiti al cristianesimo, erano cioè diventati kaffir, infedeli. Non servirono la repressio­ne e l'impiccagione di una cinquantina di capi rivoltosi. Amanullah dovette fuggire precipitosamente da Kabul a bordo della sua Rolls-Royce e finire poco tempo dopo in Italia, dove il re Vittorio Emanuele, che l'aveva fatto suo «cugino» insignendolo del Collare dell'Annunziata, gli dette asilo. Amanullah morì a Roma nel 1960.

Il trono di Amanullah passò a un semplice contadino incapace di leggere e scrivere, «il lio del portatore d'acqua». Dopo nove mesi, anche lui venne rovesciato e impiccato dall'ex capo militare di Amanullah, Nadir Shah, che promise di rimettere sul trono il re, ma alla fine preferì insediarcisi lui stesso. Ma la politica in Af­ghanistan è un mestiere pericoloso: dopo quattro anni al potere, anche Nadir Shah venne assassinato - tipica­mente per vendetta dal lio di un uomo che lui aveva fatto assassinare - e sul trono nel 1933 andò suo lio Zahir Shah, il re ora da trent'anni, anche lui, in esilio a Roma e su cui sono puntate le speranze di riconciliazio­ne nazionale: nei prossimi mesi, se gli accordi di Bonn verranno applicati fino in fondo, quest'uomo quasi no­vantenne dovrà presiedere una nuova Loya Jirga.

Una scena a cui ho assistito una mattina a Kabul de­scrive bene la disperante situazione a cui la lotta violenta fra modernizzatori e tradizionalisti, sullo sfondo delle guerre contro gli invasori stranieri, ha portato l'Afghani­stan di oggi. Guidato da un vecchio libro con foto di mez­zo secolo fa, ero andato a vedere che cosa restava di Darulaman, la città costruita da re Amanullah. È spavento­so: solo degli scheletri di facciate, delle isolate false co­lonne doriche in un deserto di polvere e macerie. Gran parte della distruzione è avvenuta fra il 1992 e il 1996, quando i vari gruppi di mujaheddin si sono battuti qui. Le ultime distruzioni sono avvenute coi recenti bombar­damenti americani. Ero in bicicletta e un ragazzino, per portarmi a vedere un edificio in cui diceva che un missile aveva ucciso 120 arabi, mi ha fatto andare cautamente, a zigzag, fra pietre dipinte di bianco e nastri di plastica che indicavano campi minati. E lì, in quella distesa di terra ancora infida, battuta dal vento e dal sole, in mezzo alle macerie, lungo il grande viale un tempo alberato, un gruppo di contadini, serenamente, stava zappando e fa­cendo solchi dietro un cavallo legato ad un aratro che ro­vesciava le zolle. Sugli Champs-Elysées di Kabul si se­minava! Dalla terra ricominciava la vita.

Una vita - è bene saperlo - che sarà dominata da quel-l'irrisolto conflitto di sempre fra modernità e tradizione o, come lo interpretava re Amanullah, fra «conoscenza» e «ignoranza». Purtroppo questa è anche l'interpretazione della cosìddetta comunità internazionale, che si vede come la conoscenza venuta in Afghanistan a cacciare l'i­gnoranza, che crede di essere la civiltà venuta a debella­re la barbarie. Non è così, e finché non capiremo che quella in corso in Afghanistan, ma anche in altre parti del mondo - soprattutto in quello islamico -, è anche una lotta per la diversità, questa lotta non finirà mai.

I talebani erano ottusi e repressivi, i talebani erano arrivati al potere con l'aiuto economico e militare dei pakistani, ma i talebani erano un fenomeno afghano, erano il risultato di vent'anni di guerra, il frutto di una vecchia storia con radici contadine. I talebani non erano soldati di ventura al soldo di Islamabad o di Osama bin Laden; erano monaci combattenti, puritani e fa­natici, votati alla missione di «salvare» l'Afghanistan imponendogli una versione semplicistica, primitiva e particolarmente restrittiva dell'Islam. In questo non era­no nuovi; erano la reincarnazione di quella vecchia for­za tradizionalista, anti-urbana, anti-occidentale, con ba­se religiosa, contro cui si era battuto re Amanullah e con cui han dovuto fare i conti tutti i governanti afgha­ni, dopo e prima di lui. Questa forza è rappresentata dai mullah - i maestri, i capi religiosi -, che nelle moschee intonano la preghiera e dietro i quali tutta la congrega­zione, rivolta verso la Mecca, si inginocchia.

I mullah, vestiti di nero su bianco, come le parole del Profeta scritte in nero sulla carta bianca del Corano, so­no sempre stati un importante centro di potere in Afgha­nistan. I mullah, al tempo stesso sacerdoti e guaritori, giudici e maestri e spesso anche proprietari terrieri, hanno sempre avuto un ruolo determinante nella vita del paese, specie nelle camne.

Fu il mullah Mashk-i-Alam, «Profumo del mondo», a dichiarare la jihad contro gli inglesi nell'Ottocento. Fu il mullah Lang, «lo Zoppo», a guidare la rivolta contro il re Amanullah e a finire fra gli impiccati.

Alla fine dell'Ottocento, l'emiro Abdur Rahman do­vette andare a convertire con la forza gli abitanti del Kafiristan, l'ultima regione dell'Afghanistan non ancora musulmana, per ottenere dai mullah la loro approvazio­ne per aprire le prime scuole, i primi ospedali e le prime fabbriche: fabbriche di armi! Non li convinse tutti e il mullah Mastun, «il Pazzo», gli dette filo da torcere.

La legittimità che in Occidente veniva ai governanti del passato da dio e a quelli di ora dal popolo, in Afgha­nistan è sempre venuta dai mullah. Questo perché il paese, nonostante sia diviso in varie etnie che si odiano, si combattono e si scannano a vicenda, ha un comune denominatore a cui tutti pare abbiano bisogno di ricor­rere: la religione, l'Islam.

Le mie finestre su Kabul erano un ottimo osservato­rio per farsi un'idea dell'importanza di questo denomi­natore comune. Dovunque guardassi, qualcosa mi ricor­dava l'Islam: nel panorama, un minareto, una moschea, la cupola di un santuario; fra gli uomini, lo snocciolare costante dei rosari e il loro continuo fermarsi a pregare. Sulla piazza davanti al mio edificio, dove un tempo c'e­ra stata una fontana, era rimasta una striscia di cemento su cui ad ogni ora del giorno c'era qualcuno, un poli­ziotto, un ragazzo, il venditore di zibibbi o un soldato, a fare quella routine di gesti e genuflessioni che sono fra l'altro anche un ottimo esercizio di concentrazione e di ginnastica.

Nella cappella di un santo poco lontano da dove sta­vo, una fila ininterrotta di giovani e vecchi entrava a ba­ciare la coperta verde buttata sulla tomba e a prendere a due mani il Corano avvolto in un fazzoletto di tessuto argentato per strusciarselo sulla faccia, affondarci il na­so, come per respirarne la grazia, prima di buttare dei soldi nella cassetta delle offerte.

Personalmente, ogni volta che mi trovo in un paese islamico provo qualcosa di inquietante. Sono attratto dalla incredibile, per noi insolita, per me anche troppo fisica, solidarietà maschile, e sono respinto dalla durez­za, l'austerità, la mancanza in fondo di gioia e di piace­re che domina le disadorne moschee, dove sembra che niente, proprio niente, debba distrarre l'uomo dal rap­porto con quel suo invisibile, irraggiungibile dio: un dio che non sta su nessun altare, a cui non si può chie­dere nulla, a cui non si confida nulla, con cui non si dia­loga, davanti al quale non si piange, ma che sembra avere la sua mano su tutto. Una religione inquietante, ma è la loro. La religione di un miliardo di persone.

La legittimità del potere talebano veniva da lì, da quella religione e dai suoi rappresentanti, i mullah. E non è certo un caso che agli occhi delle masse afghane l'investitura del mullah Omar come capo spirituale, ol­tre che militare e politico dei talebani, avvenne quando il giovane mujaheddin letteralmente indossò a Kandahar, nel 1994, la kherqa, il mantello sacro che si dice sia appartenuto a Maometto.

Nel 1768 l'emiro di Bokhara aveva regalato la kher­qa ad Ahmed Shah, il fondatore dell'Afghanistan mo­derno, quello che per la prima volta era riuscìto a met­tere assieme i vari clan e a dare al paese la parvenza di uno Stato. Mentre veniva portato a Kandahar, dove oggi è conservato in una moschea costruita apposta, il man­tello rimase per qualche giorno a Kabul. La pietra su cui venne appoggiato è oggi venerata in un santuario, Ziarat-i-Sakhi, che con le sue due piccole cupole azzurre contro il cielo domina una delle colline che circondano Kabul. Secondo la leggenda lo spirito di Alì, cugino e genero di Maometto, venne in quei giorni a rendere omaggio alla reliquia e l'impronta del piede che oggi si vede nella pietra è il segno del suo passaggio.

Forse perché uno dei più grandi cimiteri della città si stende ai piedi del santuario, con migliaia e migliaia di semplicissime pietre senza nome che proiettano le loro brevi ombre sulla terra, forse perché la mattina in cui ci sono andato c'era poca gente e dei bambini giocavano con stormi di piccioni nel cortile, ricordo Ziarat-i-Sakhi come il posto di maggior pace e intensità a Kabul.

E Al Qaeda? Cosa sapeva la gente di Kabul di questa organizzazione? Cosa sapeva di Osama? Poco. Secondo varie persone con cui ho parlato, il nome Al Qaeda era praticamente sconosciuto e solo dopo l'11 settembre l'organizzazione di Bin Laden, menzionata in tutte le trasmissioni delle radio straniere nelle lingue locali, è di­ventata parte del gergo di tutti. E gli arabi? «I talebani dicevano che erano mujaheddin stranieri venuti ad aiu­tarci nella jihad e per questo nostri ospiti», dice ora la gente. Di arabi ce n'erano in varie parti di Kabul, ma sta­vano per conto loro, non si mischiavano alla popolazione afghana; facevano vita a sé. Non erano amati e, come tutti gli stranieri in genere, erano visti con sospetto.

Resta il fatto però che quella parola «ospiti» ha per i pashtun un significato diverso che per noi. Già i viaggia­tori dell'Ottocento e quelli del secolo scorso facevano notare che la melmastia, il dovere d'ospitalità, secondo il pashtunwali, il codice d'onore dei pashtun, era tale che uno arrivava a mettere a rischio la propria vita per proteggere un ospite. Non è per questo da escludere, no­nostante a noi occidentali paia assurdo, che il mullah Omar, sia come pashtun, sia come «difensore della fe­de», abbia sentito come sacrosanto il duplice obbligo tribale-religioso di dare asilo e protezione al suo «ospi­te» Osama bin Laden e ai mujaheddin stranieri.

Vale la pena di ricordare bene la loro storia. Quando i sovietici nel 1979 invasero l'Afghanistan, gli Stati Uniti videro una perfetta occasione per «intrappolare l'orso», indebolire l'Unione Sovietica e vendicare i 50.000 soldati che gli Stati Uniti avevano perso nella guerra in Vietnam. Mosca aveva aiutato i vietcong e i nordvietnamiti ad umiliare gli Stati Uniti; Washington avrebbe aiutato gli afghani ad umiliare e scongere i sovietici. Si trattava di trovare qualcuno che, al fianco degli afghani, combattesse quella guerra per loro. Fu così che gli americani scoprirono il fondamentalismo islamico, non come nemico, ma come alleato. Spinti da una camna di proanda a favore della jihad che gli americani stimolarono, migliaia di giovani da tutto il mondo musulmano si offrirono per andare a combattere «l'Impero del Male», per loro apposita­mente descritto soprattutto come «anti-islamico». In quella che chiamarono Operazione Ciclone gli Stati Uniti finanziarono, addestrarono, armarono e portarono in Afghanistan 35.000 «mujaheddin stranieri».

La guerra durò dieci anni. Nel 1989, dopo aver perso 15.000 soldati, i sovietici si ritirarono e gli americani, avendo ottenuto il loro scopo, persero ogni interesse per l'Afghanistan. Chiusero la loro ambasciata a Kabul e lasciarono che i loro mujaheddin stranieri, sopravvis­suti alla jihad, se la cavassero da soli. Migliaia di egi­ziani, sauditi, yemeniti, algerini, ceceni, uighur cinesi ed altri si ritrovarono così abbandonati a sé stessi.

A casa non potevano tornare perché, agli occhi dei lo­ro governi, non erano ghazi, veterani, da rispettare, ma pericolosi rivoluzionari da eliminare; altrove non pote­vano andare perché nessun altro paese era disposto ad accoglierli (alcuni di loro cercarono di tornare a vivere nel mondo arabo, ma vennero immediatamente impri­gionati e nella maggior parte dei casi assassinati). I mu­jaheddin stranieri non ebbero altra scelta che restare in Afghanistan e mettersi al servizio di Osama bin Laden. La sua nuova jihad contro gli Stati Uniti che «occupano i luoghi sacri dell'Islam, sostengono Israele contro i pa­lestinesi e appoggiano i regimi corrotti del mondo ara­bo» era convincente per chi, a quel punto, si sentiva doppiamente tradito dagli americani. È così che è nata Al Qaeda, ed è così che l'Afghanistan, «il solo vero Sta­to islamico del mondo», come veniva definito dai talebani, con tutti questi «ospiti» è diventato il punto di ri­ferimento di tutti i movimenti fondamentalisti islamici. In maniera molto più limitata, e senza i campi di adde­stramento, qualcosa di simile era già successo negli anni '20, quando re Amanullah, di nuovo per ingraziarsi i mullah, dette ospitalità a tanti militanti islamici prove­nienti da vari paesi e soprattutto dall'India britannica.

Il panislamismo, non va dimenticato, ha radici afgha­ne e non è un caso che la tomba di Jamaluddin Afghani, considerato il padre di questo movimento inteso a stabi­lire l'unità del mondo musulmano, sia al centro dell'u­niversità, ora semidistrutta, di Kabul. Afghani, nato nel 1838, visse gran parte della sua vita in Persia, in Egitto e in Turchia. La questione di fondo di tutto il suo pen­siero fu quella che ancora oggi, irrisolta, arrovella l'Islam: come combinare la religione con la modernità. La soluzione che Afghani propose fu una selettiva ac­quisizione delle conquiste occidentali, ma soprattutto l'unificazione di tutti i paesi islamici del mondo in un grande califfato.

Osama bin Laden era forse riuscìto a convincere il mullah Omar che l'Afghanistan era quel califfato. Si trattava di estenderlo. Quali siano stati i rapporti fra Osama e il capo spirituale dei talebani resta per noi un mistero, ma non è improbabile che Osama, data la sua più sofisticata cultura islamica, la sua età, le sue ori­gini e la sua esperienza del mondo, avesse una grande influenza sul mullah Omar.

E Al Qaeda? Molto probabilmente non era - e non è - una organizzazione omogenea e centralizzata come ora ci vien chiesto di credere. I gruppi che ne fanno par­te - forse solo molto informalmente - hanno origini e storie diverse.

A cinque ore di macchina da Kabul, in una prigione dell'Alleanza del Nord ci sono oggi 329 prigionieri ta­lebani. Due di questi sono uighur, vale a dire apparte­nenti alla minoranza turca, di religione musulmana, che abita da secoli la regione più occidentale della Cina, il Xingjang. La storia di come i due, un ragazzo di 22 anni e uno di 25, son finiti li è questa.

Siccome in Cina gli uighur sono discriminati, non possono studiare la propria lingua, né tanto meno legge­re il Corano in arabo, nel corso degli anni alcune fami­glie hanno incominciato a mandare i loro li nelle madrassa del Pakistan, paese che ha ottimi rapporti con la Cina. Per un po' tutto è andato bene. Poi la Cina, accor­tasi che quegli studenti si radicalizzavano, ha chiesto al Pakistan di rimpatriarli. Una volta rientrati, questi sono stati perseguitati: 132 di loro - secondo il racconto dei due prigionieri - sono stati giustiziati; gli altri, fra cui i miei due, son riuscìti a scappare e andare nell'unico paese che desse loro asilo: l'Afghanistan. Ma anche qui i cinesi hanno continuato a perseguitarli. Il governo di Pechino stava costruendo una nuova centrale telefo­nica a Kabul ed ha minacciato di ritirare tecnici ed aiuti se i talebani non consegnavano loro gli uighur. I taleba­ni si sono rifiutati, citando il solito loro dovere di ospi­talità con cui poi han rifiutato di consegnare Osama agli americani, ma nel caso dei cinesi han trovato un com­promesso: hanno promesso di tenere gli uighur sotto controllo e di impedire loro di usare il territorio afghano per attività anti-cinesi. Così è stato: gli uighur a Kabul sono rimasti praticamente agli arresti domiciliari, e solo quando son cominciati i bombardamenti americani sono stati mandati dai talebani a combattere sul fronte di Kunduz. Li i due sono stati catturati.

E ora? I due aspettano che qualcuno si occupi di loro. Ma chi? Per andar dove? Nessuno li vuole.

Massacrando oltre 500 prigionieri nella fortezza di Mazar-i-Sharif, le truppe del generale Dostun (ora vice­ministro della Difesa nel nuovo governo di Kabul) e i loro consiglieri americani e inglesi hanno evitato che si ponesse un simile problema.

Gli americani pensano forse che, uccidendo ogni se­me del Frankenstein da loro stessi creato, possono risol­vere il problema del terrorismo. Ma non sarà così, a meno che non si affrontino i vari problemi che, per vie di­verse, hanno portato gente così diversa come i sauditi e gli uighur, i ceceni e gli algerini in un posto come l'Af­ghanistan.

L'attuale coalizione contro il terrorismo non fa che aggravare quei problemi e minare con crescente intolle­ranza e odio la via verso una possibile riconciliazione fra i cinesi e le loro minoranze musulmane, fra i russi ed i ceceni, fra il mondo musulmano in genere e l'Oc­cidente. Senza parlare della possibile riconciliazione fra i vari gruppi afghani.

Oggi Kabul è una città sul chi vive; una città in cui, per usata prudenza, la gente dice quel che sa un interlo­cutore occidentale vuol sentir dire: i talebani erano or­ribili, l'intervento americano è stato benvenuto. C'è vo­luto un vecchio poeta di oltre ottanta anni, uno che non ha più niente da temere e che ho trovato, malato a letto, per scrivermi di suo pugno, in pashtun, questi versi nel mio blocchetto di appunti:

Nel giardino a caso ho raccolto uva e pezzi di bombe. Grazie dei regali, George Bush. Sulle orme di Attila il bagno di sangue in Afghanistan è ora caldo

Solo conoscendosi meglio la gente si apre e comincia a dire più sinceramente quel che pensa, a volte persino a manifestare una sorta di ingenua nostalgia per i talebani: duri ma onesti, semplici, spartani, che mangiavano poco e male, che non rubavano e «pensavano solo all'Islam e a morire». La gente si rende benissimo conto che gli at­tuali governanti sono qui solo grazie agli americani che hanno aperto loro la strada di Kabul a suon di bombe; sa che sono gli stessi soldati che in passato hanno distrutto, stuprato e saccheggiato la città, e non si fida.

Un autista afghano delle Nazione Unite mi racconta­va di aver ascoltato una conversazione fra alcuni soldati dell'Alleanza del Nord nei primi giorni dopo la presa di Kabul. Erano arrabbiatissimi perché erano arrivati pen­sando di saccheggiare la città - loro avevano già un in­dirizzo dove portar via delle automobili -, ma all'ulti­mo momento erano stati bloccati dai loro comandanti su ordine degli americani.

La gente poi sa che i talebani non sono affatto finiti, che molti son tornati ai loro villaggi e son pronti a rifar­si vivi e che altri, meno coinvolti con gli aspetti più odiosi del regime, sono liberi a Kabul.

Un giorno sono andato a parlare con alcuni studiosi dell'Accademia delle Scienze. Quando sono uscìto dal­l'ufficio del vicedirettore - una stanza polverosa con una stufa di ghisa senza legna e dei fogli di plastica al posto dei vetri alle finestre - sei o sette uomini di mezza età e grande presenza, con barbe, turbanti e lar­ghi scialli marroni bordati di verde buttati sulle spalle, aspettavano, seduti, di entrare. «Sono funzionari del vecchio ministero talebano per i Pellegrinaggi alla Mec­ca», mi ha detto, scendendo le scale, l'uomo che mi ac­comnava.

Quegli uomini mi parevano afghani veri, afghani in sintonia con la folla del mercato, in sintonia coi vecchi che, dopo la proibizione dei talebani, si ritrovano di nuovo ogni giorno a scommettere sui galli da combatti­mento nelle viuzze tortuose attorno alla moschea di Puli-i-Khisti, in sintonia con quelli che vedevo venire a pregare sulla striscia di cemento sotto le mie finestre. Quei «talebani» che non avevano mai lasciato il loro paese, che avevano vissuto e partecipato a tutti i dram­mi degli ultimi vent'anni, mi parevano molto più afgha­ni degli afghani della diaspora, gli esuli che, dopo anni di esilio, vedevo tornare a Kabul ad offrire la loro espe­rienza di occidentalizzati per la ricostruzione del paese. Vestiti come stranieri, con pantaloni e giacca, spesso con un impermeabile in una città dove non piove e do­ve, anche se ci son nati, non trovano più nulla di fami­liare, sono inconfondibili. A volte quasi patetici.

Debbo ad uno di questi esuli, che grazie al suo per­fetto francese ha già un lavoro al rinato ministero della Cultura, uno dei pochi momenti divertenti del mio sog­giorno a Kabul.

Mi ero accodato una mattina ad un gruppetto di di­plomatici occidentali, invitati appunto dal ministero ad ispezionare le prove di uno dei «crimini» commessi dai talebani. L'appuntamento era davanti alla Galleria d'Arte Moderna, un vecchio edificio ancora in buono stato, poco lontano dal santuario del Re dalle Due Spa­de. Il giovane neofunzionario francofono che faceva da guida ci ha spiegato che era stato il ministro stesso per la Protezione delle Virtù e la Lotta contro il Vizio del regime talebano a venire lì alcuni mesi prima a fare il lavoro di epurazione. Abbiamo fatto il giro delle quattro stanze, notando ai muri gli spazi vuoti delle opere man­canti, e poi, davanti ad una porta sigillata con una carta che portava la firma del ministro stesso, ci siamo messi ad aspettare che uno dei guardiani riuscìsse a trovare la chiave.

Finalmente un uomo sulla cinquantina, con una bella barba rossa di henna, un turbante ed uno scialle marro­ne - forse lui? il ministro? -, ha rotto i sigilli e aperto la porta. Già coperti di polvere, c'erano per terra una ven­tina di quadri di scene storiche con soldati e cavalli e tre grandi tele con donne in grandezza naturale, pensose e nude - completamente nude - nell'atto di asciugarsi o guardarsi il monte di Venere allo specchio. I flash delle macchine fotografiche accecavano i poveri guardiani barbuti costretti a tenere alte le tele, il giovane funzio­nario francofono continuava a parlare di questo «horrible crime contre la liberté d'expression du peuple afghan», un diplomatico scopriva che i dipinti erano co­pie afghane di quadri francesi del primo Novecento; e a me è preso un gran ridere.

Fra questi afghani della diaspora che ora tornano a Kabul - e alcuni sono già membri del nuovo governo - ci sono anche medici, ingegneri e uomini d'affari con esperienza, ma è ovvio che l'Afghanistan che questi so­gnano di mettere in piedi sarà una copia dei paesi occi­dentali da cui questi vengono, come erano copie i palaz­zi e le fontane costruiti da re Amanullah. Questo sareb­be anche un Afghanistan che farebbe piacere alla comu­nità internazionale e ai suoi interessi. Ma sarebbe un Afghanistan degli afghani?

Tocca ora a Hamid Karzai, il nuovo primo ministro, trovare un equilibrio fra tutte queste forze. È un uomo coraggioso e per bene; uno che è stato coinvolto in ogni fase della storia recente del suo paese e che non ha mai messo una grande distanza fra sé e la sua terra. Suo pa­dre fu ucciso dai pakistani, e lui, che era stato ministro degli Esteri nel governo mujaheddin, finì per essere ar­restato. Prigioniero dell'Alleanza del Nord di cui ora è praticamente l'alleato e la faccia presentabile al mondo, Karzai riuscì a fuggire e a riparare a Quetta, in Pakistan. Quando i talebani presero il potere nel 1996, Karzai mantenne buoni rapporti con loro e ad un certo momen­to si parlò persino della possibilità che lui diventasse il loro ambasciatore alle Nazioni Unite, se la comunità internazionale avesse deciso, come sarebbe stato normale in base ai criteri di diritto internazionale, di riconoscere il governo dei talebani e non più quello spodestato del­l'Alleanza del Nord.

La presa di posizione di Karzai contro i talebani è ve­nuta dopo, quando il regime del mullah Omar, forse sot­to la crescente influenza di Osama, si è ulteriormente radicalizzato. Karzai ha un grosso debito con gli ameri­cani. Due volte gli hanno salvato la vita quando, entrato in Afghanistan dopo l'inizio dei bombardamenti, stava per essere catturato dai talebani. Gli americani lo ap­poggiano, ma questo suo essere visto come «l'uomo degli Stati Uniti» non lo aiuta, così come non lo aiuta il non poter chiedere agli americani di cessare i loro bombardamenti sul paese che lui, teoricamente, gover­na o il suo non poter decidere come e quanto la forza multinazionale può restare a Kabul. Essere troppo ami­co degli stranieri non è una benedizione in Afghanistan.

Tutti dicono che gli stranieri sono oggi benvenuti in Afghanistan. Non è vero: l'ostilità degli afghani verso tutti quelli che, specie non invitati, passano dal loro paese è vecchia e profonda.

Uno scrittore americano, nel resoconto d'un viaggio fatto in Afghanistan nel 1925, Beyond Khyber Pass, scrive di uno storico afghano che gli dice: «Tu sei stra­niero e tu riempirai il nostro paese di macchine e fumo, farai uguali schiavi e padroni e distruggerai la vera re­ligione non tu, amico mio, ma il destino che ti porti dietro». Quell'uomo del 1925 non era un talebano e non occorre essere talebano oggi per pensarla come lui. Lo straniero in Afghanistan è sempre stato percepito così, e gli stranieri che gli afghani hanno finora visto ar­rivare con una scusa o un'altra, con questa o quella uni­forme, sono stati tutti, immancabilmente, così: sospetti di voler portare una qualche inaccettabile novità o col­pevoli di un qualche atto di sangue che chiede vendetta.

Ne ho vista una, in miniatura, coi miei occhi. Ero an­dato a dare un'occhiata all'ospedale da campo che i rus­si stavano montando a Kabul, ovviamente per avere an­che loro una buona ragione di essere presenti nella ca­pitale afghana e per tener d'occhio quel che fanno gli americani. I soldati di Mosca di guardia all'ingresso so­no ragazzi di leva; non hanno un soldo e non rifiutano l'offerta di una sigaretta. Uno di questi soldati stava per accenderne una, che gli era giusto stata data da un grup­po di ragazzini, quando la guardia afghana che stava li vicino gli ha urlato: «Fermo. Fermo». Mentre i ragazzi, ridendo, scappavano via, l'afghano ha aperto la sigaret­ta: in mezzo al tabacco c'era nascosta della polvere da sparo.

Episodi così fanno pensare che, col passare del tem­po, se i bombardamenti continuano col loro solito nu­mero di morti «per sbaglio», se gli americani continua­no a voler acchiappare tutti i talebani - comandanti, mi­nistri o ambasciatori che siano - e a volerli portare per «interrogarli» su qualche nave al largo o nella base di Guantanamo a Cuba per giudicarli non si sa di che cri­mini, anche i soldati della forza di pace potranno essere oggetto di vendetta. Per la gente di Kabul, e certo ancor più per quella delle camne afghane dove i bombar­damenti radono al suolo interi villaggi, sconvolgono i campi e mutano il panorama delle montagne, spazzan­done via le vette, quei soldati stranieri a pattugliare le strade non sono diversi da quelli che stanno seduti nei B-52. Forse per questo gli inglesi, che son voluti andare in Afghanistan per primi, han già detto di volersene an­dare entro tre mesi per passare la patata calda ad altri.

Solo se ci sarà una riconciliazione fra afghani, e solo se fra di loro, fra afghani, tutti gli afghani - quelli del­l'Alleanza del Nord e quelli che tornano dall'esilio, ma anche i talebani - potranno decidere, senza troppe im­posizioni e troppi consigli esterni, in quale tipo di Af­ghanistan vogliono vivere, il paese potrà lentamente az­zerare tutti i conti di vendetta ancora palesemente aper­ti. È un lavoro durissimo.

L'aveva capito un grande personaggio di questo se­colo, Badshah Khan, il «Gandhi della frontiera», «il musulmano soldato di pace», un afghano della regione di Peshawar che si unì giovanissimo al movimento di Gandhi e che dedicò tutta la sua vita a convincere la sua gente, i pashtun, una delle etnie più bellicose della terra, a rinunciare alla violenza e al loro antico codice d'onore che impone ad ognuno il badal, l'obbligo di vendicare col sangue ogni atto di sangue o anche un semplice insulto subito dall'etnia, dal clan, dalla fami­glia: un codice di vendetta, questo, che ha macchiato da secoli la storia afghana.

Badshah Khan arrivò a mettere assieme un esercito di oltre 100.000 uomini, i «Servi di Dio», dediti alla non-violenza. Alla testa di questi soldati disarmati, Badshah Khan partecipò alla lotta anti-inglese per l'in­dipendenza. ura inconfondibile, forte, con un grande naso, alto quasi il doppio del Mahatma, Badshah Khan fu al fianco di Gandhi in tutte le sue grandi battaglie, ultima quella contro la spartizione del continente in In­dia e Pakistan. Lui, che pure era un devoto musulmano, non credeva nell'idea di uno Stato fondato sull'esclusi­vità religiosa. Non credeva neppure che i pashtun do­vessero accettare la linea Durant, quell'artificiale fron­tiera stabilita dal colonialismo britannico, che li lascia­va, come sono ancora oggi, divisi: una parte in Pakistan e una parte in Afghanistan. Per questo, quando morì nel 1988, all'età di 98 anni, dopo aver passato un terzo del­la vita nelle galere inglesi prima e in quelle pakistane poi, volle essere sepolto a Jalalabad. L'Afghanistan, oc­cupato allora dai sovietici, era in piena guerra, ma lui ancora sul letto di morte continuò a ripetere che la non-violenza era l'unica forma di difesa possibile e la sola via per salvare il mondo.

Il suo ultimo messaggio fu una semplice domanda. « Perché si producono ancora delle armi di distruzione di massa? »

È una domanda ancora oggi carica di significato. Una domanda a cui dovrebbero rispondere innanzitutto paesi come gli Stati Uniti che, pur producendo in con­tinuazione questo tipo di armi - oltre ad averne già in­genti quantità nei loro arsenali -, minacciano ogni mo­mento di attaccare uno Stato come l'Iraq, sospettato di voler fare la stessa cosa: produrre le sue.

A questo problema delle armi di distruzione di massa non c'è che una soluzione: distruggere tutte quelle che esistono e smettere di produrne di nuove. Solo così nes­suno Stato - «canaglia» o no - potrà usarle; solo così nessun terrorista - islamico o no - potrà impossessarsene, come ha fatto un qualche cittadino americano, anco­ra latitante ed impunito, con le spore di antrace.

Pochissimi si ricordano oggi di Badshah Khan e della sua vita dedicata - senza successo - alla pace. Ma non è sorprendente: quasi nessuno, nell'India stessa, si ricorda davvero del suo maestro spirituale, Gandhi, e di ciò che quella grande anima ha predicato con la sua vita e la sua morte.

L'India, che Gandhi aveva voluto diventasse un esempio di non-violenza per il resto del mondo, l'India di cui pensava che avrebbe potuto difendersi senza un esercito, ma semplicemente con la satyagraha, la forza della verità, quell'India ha oggi centinaia di migliaia di soldati con carri armati, pezzi di artiglieria, jet ed armi atomiche, schierati di nuovo contro quell'altra parte di sé che è il Pakistan.

Il samadhi di Gandhi, il posto inteso ad onorare la sua memoria, è a sei chilometri da casa mia, a Rajgath, in una piana brulla che gli inglesi, costruendo la Nuova Delhi, lasciarono completamente vuota e aperta in caso i loro cannoni avessero dovuto sparare su chiunque dal­la vecchia Delhi avesse cercato di marciare verso la nuova capitale. Ci son voluto tornare, stamani.

In un recinto di pietra rosa c'è un grande prato verde al centro del quale, nel posto dove il corpo del Mahatma venne cremato, brucia ora una fiamma costante. Tutto è trascurato e sporco. Non ci sono fiori nelle aiuole, né acqua nelle vasche piastrellate lungo il percorso. Non c'è neppure Gandhi, né il suo spirito. Nonostante ci va­dano i turisti e i dignitari stranieri in visita in India, è come se quel posto, con quel che rappresenta, non fosse più di moda.

Sulla semplicissima, disadorna piattaforma di marmo nero sulla quale qualcuno ha gettato una manciata di fiori, spiccano due sillabe in hindi: Hei Ram, «Oh, dio», che Gandhi pronunciò quando venne raggiunto dalle pallottole del suo assassino. È come se Bapu, il padre, le ripetesse oggi che l'India, dimenticando il suo esempio, lo ha ucciso una seconda volta. Hei Ram.

LETTERA DALL'HIMALAYA

Che fare?



Nell 'Himalaya indiana, 17 gennaio 2002


Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand'ero giovane le avrei volute conquistare. Ora pos­so lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l'uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa gran­dezza è anche in ognuno di noi, ma li ci è difficile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne. Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne so­no venuti quassù nell'Himalaya, sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. Continuano a venire.

L'inverno scorso davanti al mio rifugio passò un vec­chio sanyasin vestito d'arancione. Era accomnato da un discepolo, anche lui un rinunciatario.

«Dove andate, Maharaj?» gli chiesi.

«A cercare dio», rispose, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo.

Io ci vengo, come questa volta, a cercare di mettere un po' d'ordine nella mia testa. Le impressioni degli ul­timi mesi sono state fortissime e prima di ripartire, di «scendere in pianura» di nuovo, ho bisogno di silenzio. Solo così può capitare di sentire la voce che sa, la voce che parla dentro di noi. Forse è solo la voce del buon senso, ma è una voce vera.

Le montagne sono sempre generose. Mi regalano al­be e tramonti irripetibili; il silenzio è rotto solo dai suo­ni della natura che lo rendono ancora più vivo.

L'esistenza qui è semplicissima. Scrivo seduto sul pavimento di legno, un pannello solare alimenta il mio piccolo computer; uso l'acqua di una sorgente a cui si abbeverano gli ammali del bosco - a volte anche un leopardo -, faccio cuocere riso e verdure su una bombola a gas, attento a non buttar via il fiammifero usato. Qui tutto è all'osso, non ci sono sprechi e presto si impara a ridare valore ad ogni piccola cosa. La sem­plicità è un enorme aiuto nel fare ordine.

A volte mi chiedo se il senso di frustrazione, d'im­potenza che molti, specie fra i giovani, hanno dinanzi al mondo moderno è dovuto al fatto che esso appare loro così complicato, così difficile da capire che la sola reazione possibile è crederlo il mondo di qualcun altro: un mondo in cui non si può mettere le mani, un mondo che non si può cambiare. Ma non è così: il mondo è di tutti.

Eppure, dinanzi alla complessità di meccanismi disu­mani - gestiti chi sa dove, chi sa da chi - l'individuo è sempre più disorientato, si sente al perso, e finisce così per fare semplicemente il suo piccolo dovere nel lavoro, nel compito che ha dinanzi, disinteressandosi del resto e aumentando così il suo isolamento, il suo senso di inu­tilità. Per questo è importante, secondo me, riportare ogni problema all'essenziale. Se si pongono le domande di fondo, le risposte saranno più facili.

Vogliamo eliminare le armi? Bene: non perdiamoci a discutere sul fatto che chiudere le fabbriche di fucili, di munizioni, di mine anti-uomo o di bombe atomiche creerà dei disoccupati. Prima risolviamo la questione morale. Quella economica l'affronteremo dopo. O vo­gliamo, prima ancora di provare, arrenderci al fatto che l'economia determina tutto, che ci interessa solo quel che ci è utile?

«In tutta la storia ci sono sempre state delle guerre. Per cui continueranno ad esserci», si dice. «Ma perché ripetere la vecchia storia? Perché non cercare di comin­ciarne una nuova?» rispose Gandhi a chi gli faceva questa solita, banale obbiezione.

L'idea che l'uomo possa rompere col proprio passato e fare un salto evolutivo di qualità era ricorrente nel pensiero indiano del secolo scorso. L'argomento è sem­plice: se l'homo sapiens, quello che ora siamo, è il risul­tato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest'uomo, con una nuova mutazio­ne, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto col prossimo e meno rapace nei confronti del resto dell'universo?

E poi: siccome questa evoluzione ha a che fare con la coscienza, perché non provare noi, ora, coscientemente, a fare un primo passo in quella direzione? Il momento non potrebbe essere più appropriato visto che questo homo sapiens è arrivato ora al massimo del suo potere, compreso quello di distruggere sé stesso con quelle ar­mi che, poco sapientemente, si è creato.

Guardiamoci allo specchio. Non ci sono dubbi che nel corso degli ultimi millenni abbiamo fatto enormi progressi. Siamo riusciti a volare come uccelli, a nuota­re sottacqua come pesci, andiamo sulla luna e mandia­mo sonde fin su Marte. Ora siamo persino capaci di do­nare la vita. Eppure, con tutto questo progresso non sia­mo in pace né con noi stessi né col mondo attorno. Ab­biamo appestato la terra, dissacrato fiumi e laghi, taglia­to intere foreste e reso infernale la vita degli animali, tranne quella di quei pochi che chiamiamo «amici» e che coccoliamo finché soddisfano la nostra necessità di un surrogato di comnia umana.

Aria, acqua, terra e fuoco, che tutte le antiche civiltà hanno visto come gli elementi base della vita - e per questo sacri - non sono più, com'erano, capaci di auto-rigenerarsi naturalmente da quando l'uomo è riuscìto a dominarli e a manipolarne la forza ai propri fini. La loro sacra purezza è stata inquinata. L'equilibrio è stato rotto.

Il grande progresso materiale non è andato di pari passo col nostro progresso spirituale. Anzi: forse da questo punto di vista l'uomo non è mai stato tanto po­vero da quando è diventato così ricco. Da qui l'idea che l'uomo, coscientemente, inverta questa tendenza e ri­prenda il controllo di quello straordinario strumento che è la sua mente. Quella mente, finora impegnata pre­valentemente a conoscere e ad impossessarsi del mondo esterno, come se quello fosse la sola fonte della nostra sfuggente felicità, dovrebbe rivolgersi anche all'esplo­razione del mondo interno, alla conoscenza di sé.

Idee assurde di qualche fachiro seduto su un letto di chiodi? Per niente. Queste sono idee che, in una forma o in un'altra, con linguaggi diversi, circolano da qualche tempo nel mondo. Circolano nel mondo occidentale, dove il sistema contro cui queste idee teoricamente si rivolgono le ha già riassorbite, facendone i «prodotti» di un già vastissimo mercato «alternativo» che va dai corsi di yoga a quelli di meditazione, dall'aromaterapia alle «vacanze spirituali» per tutti i frustrati della corsa dietro ai conigli di plastica della felicità materiale. Que­ste idee circolano nel mondo islamico, dilaniato fra tra­dizione e modernità, dove si riscopre il significato ori­ginario di jihad, che non è solo la guerra santa contro il nemico esterno, ma innanzitutto la guerra santa ulterio­re contro gli istinti e le passioni più basse dell'uomo.

Per cui non è detto che uno sviluppo umano verso l'alto sia impossibile. Si tratta di non continuare inco­scientemente nella direzione in cui siamo al momento. Questa direzione è folle, come è folle la guerra di Osama bin Laden e quella di George W. Bush. Tutti e due citano Dio, ma con questo non rendono più divini i loro massacri.

Allora fermiamoci. Immaginiamoci il nostro momen­to di ora dalla prospettiva dei nostri pronipoti. Guardia­mo all'oggi dal punto di vista del domani per non doverci rammaricare poi d'aver perso una buona occasio­ne. L'occasione è di capire una volta per tutte che il mondo è uno, che ogni parte ha il suo senso, che è pos­sibile rimpiazzare la logica della competitività con l'e­tica della coesistenza, che nessuno ha il monopolio di nulla, che l'idea di una civiltà superiore a un'altra è solo frutto di ignoranza, che l'armonia, come la bellezza, sta nell'equilibrio degli opposti e che l'idea di eliminare uno dei due è semplicemente sacrilega. Come sarebbe il giorno senza la notte? La vita senza la morte? O il Be­ne? Se Bush riuscisse, come ha promesso, a eliminare il Male dal mondo?

Questa mania di voler ridurre tutto ad una uniformità è molto occidentale. Vivekananda, il grande mistico in­diano, viaggiava alla fine dell'Ottocento negli Stati Uniti per far conoscere l'induismo. A San Francisco, al­la fine di una sua conferenza, una signora americana si alzò e gli chiese: «Non pensa che il mondo sarebbe più bello se ci fosse una sola religione per tutti gli uomi­ni?» «No», rispose Vivekananda. «Forse sarebbe an­cora più bello se ci fossero tante religioni quanti sono gli uomini.»

«Gli imperi crescono e gli imperi scompaiono», dice l'inizio di uno dei classici della letteratura cinese, Il Ro­manzo dei Tre Regni. Succederà anche a quello ameri­cano, tanto più se cercherà d'imporsi con la forza bruta delle sue armi, ora sofisticatissime, invece che con la forza dei valori spirituali e degli ideali originari dei suoi stessi Padri Fondatori.

I primi ad accorgersi del mio ritorno quassù sono sta­ti due vecchi corvi che ogni mattina, all'ora di colazio­ne, si piazzano sul deodar, l'albero di dio, un maestoso cedro davanti a casa e gracchiano a più non posso fin­ché non hanno avuto i resti del mio yogurt - ho impa­rato a farmelo - e gli ultimi chicchi di riso nella ciotola. Anche se volessi, non potrei dimenticarmi della loro presenza e di una storia che gli indiani raccontano ai bambini a proposito dei corvi. Un signore che stava, co­me me, sotto un albero nel suo giardino, un giorno non ne poté più di quel petulante gracchiare dei corvi. Chia­mò i suoi servi e quelli con sassi e bastoni li cacciarono via. Ma il Creatore, che in quel momento si svegliava da un pisolino, si accorse subito che dal grande concer­to del suo universo mancava una voce e, arrabbiatissimo, mandò di corsa un suo assistente sulla terra a rimet­tere i corvi sull'albero.

Qui, dove si vive al ritmo della natura, il senso che la vita è una e che dalla sua totalità non si può impunemente aggiungere o togliere niente è grande. Ogni cosa è legata, ogni parte è l'insieme.

Thich Nhat Hanh, il monaco vietnamita, lo dice bene a proposito di un tavolo, un tavolino piccolo e basso co­me quello su cui scrivo. Il tavolo è qui grazie ad una in­finita catena di fatti, cose e persone: la pioggia caduta sul bosco dove è cresciuto l'albero che un boscaiolo ha tagliato per darlo a un falegname che lo ha messo as­sieme coi chiodi fatti da un fabbro col ferro di una mi­niera Se un solo elemento di questa catena, magari il bisnonno del falegname, non fosse esistito, questo tavo­lino non sarebbe qui.

I giapponesi, ancora quando io stavo nel loro paese, pensavano di proteggere il clima delle loro isole non ta­gliando le foreste giapponesi, ma andando a tagliare quelle dell'Indonesia e dell'Amazzonia. Presto si son resi conto che anche questo ricadeva su di loro: il clima della terra mutava per tutti, giapponesi compresi.

Allo stesso modo, oggi non si può pensare di conti­nuare a tenere povera una grande parte del mondo per rendere la nostra sempre più ricca. Prima o poi, in una forma o nell'altra, il conto ci verrà presentato. O dagli uomini o dalla natura stessa.

Quassù, la sensazione che la natura ha una sua pre­senza psichica è fortissima. A volte, quando tutto imba­cuccato contro il freddo mi fermo ad osservare, seduto su un grotto, il primo raggio di sole che accende le vette dei ghiacciai e lentamente solleva il velo di oscurità, fa­cendo emergere catene e catene di altre montagne dal fondo lattiginoso delle valli, un'aria di immensa gioia pervade il mondo ed io stesso mi ci sento avvolto, assie­me agli alberi, gli uccelli, le formiche: sempre la stessa vita in tante diverse, magnifiche forme.

È il sentirsi separati da questo che ci rende infelici. Come il sentirci divisi dai nostri simili. «La guerra non rompe solo le ossa della gente, rompe i rapporti umani», mi diceva a Kabul quel vulcanico personaggio che è Gino Strada. Per riparare quei rapporti, nell'ospe­dale di Emergency, dove ripara ogni altro squarcio del corpo Strada ha una corsia in cui dei giovani soldati talebani stanno a due passi dai loro «nemici», soldati dell'Alleanza del Nord. Gli uni sono prigionieri, gli altri no; ma Strada spera che le simili mutilazioni, le simili ferite li riavvicineranno.

Il dialogo aiuta enormemente a risolvere i conflitti. L'odio crea solo altro odio. Un cecchino palestinese uc­cide una donna israeliana in una macchina, gli israeliani reagiscono ammazzando due palestinesi, un palestinese si imbottisce di tritolo e va a farsi saltare in aria assieme a una decina di giovani israeliani in una pizzeria; gli israeliani mandano un elicottero a bombardare un pul­mino carico di palestinesi, i palestinesi e avanti di questo passo. Fin quando? Finché son finiti tutti i pale­stinesi? tutti gli israeliani? tutte le bombe?

Certo: ogni conflitto ha le sue cause, e queste vanno affrontate. Ma tutto sarà inutile finché gli uni non accet­teranno l'esistenza degli altri ed il loro essere eguali, finché noi non accetteremo che la violenza conduce so­lo ad altra violenza.

«Bei discorsi. Ma che fare?» mi sento dire, anche qui nel silenzio.

Ognuno di noi può fare qualcosa. Tutti assieme pos­siamo fare migliaia di cose.

La guerra al terrorismo viene oggi usata per la mili­tarizzazione delle nostre società, per produrre nuove ar­mi, per spendere più soldi per la difesa. Opponiamoci, non votiamo per chi appoggia questa politica, control­liamo dove abbiamo messo i nostri risparmi e togliamoli da qualsiasi società che abbia anche lontanamente a che fare con l'industria bellica. Diciamo quello che pensiamo, quello che sentiamo essere vero: ammazzare è in ogni circostanza un assassinio.

Parliamo di pace, introduciamo una cultura di pace nell'educazione dei giovani. Perché la storia deve esse­re insegnata soltanto come un'infinita sequenza di guer­re e di massacri?

Io, con tutti i miei studi occidentali, son dovuto veni­re in Asia per scoprire Ashoka, uno dei personaggi più straordinari dell'antichità; uno che tre secoli prima di Cristo, all'apice del suo potere, proprio dopo avere ag­giunto un altro regno al suo già grande impero che si estendeva dall'India all'Asia centrale, si rende conto dell'assurdità della violenza, decide che la più grande conquista è quella del cuore dell'uomo, rinuncia alla guerra e, nelle tante lingue allora parlate nei suoi domi­ni, fa scolpire nella pietra gli editti di questa sua etica. Una stele di Ashoka in greco ed aramaico è stata sco­perta nel 1958 a Kandahar, la capitale spirituale del mullah Omar in Afghanistan, dove ora sono accampati i marines americani. Un'altra, in cui Ashoka annuncia l'apertura di un ospedale per uomini ed uno per animali, è oggi all'ingresso del Museo Nazionale di Delhi.

Ancor più che fuori, le cause della guerra sono den­tro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura, l'insicurezza, l'ingordigia, l'orgoglio, la vanità. Lenta­mente bisogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteg­giamento. Cominciamo a prendere le decisioni che ci ri­guardano e che riguardano gli altri sulla base di più mo­ralità e meno interesse. Facciamo più quello che è giu­sto, invece di quel che ci conviene. Educhiamo i li ad essere onesti, non furbi.

Riprendiamo certe tradizioni di correttezza, reimpos­sessiamoci della lingua, in cui la parola «dio» è oggi diventata una sorta di oscenità, e torniamo a dire «fare l'amore» e non «fare sesso». Alla lunga, anche questo fa una grossa differenza.

È il momento di uscìre allo scoperto, è il momento d'impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con nuove armi.

Soprattutto dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio. Spesso ci sentiamo ango­sciati dalla vita che facciamo, come l'uomo che scappa impaurito dalla sua ombra e dal rimbombare dei suoi passi. Più corre, più vede la sua ombra stargli dietro; più corre, più il rumore dei suoi passi si fa forte e lo tur­ba, finché non si ferma e si siede all'ombra di un albero. Facciamo lo stesso.

Visti dal punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Que­sta è una buona occasione.

Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventa­re. Ma preferiamo quello dell'abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione?

Allora: Buon Viaggio! Sia fuori che dentro



INDICE


10 settembre 2001: il giorno mancato

Lettera da Orsigna

Una buona occasione 

Lettera da Firenze

Il sultano e san Francesco  

Lettera da Peshawar

Al bazar dei racconta-storie   

Lettera da Quetta

Il talebano col computer 

Lettera da Kabul

Il venditore di patate e la gabbia dei lupi  

Lettera da Delhi

Hei Ram 

Lettera dall'Himalaya

Che fare?  

IN ASIA

UN RACCONTO D'AVVENTURA, UN REPORTAGE, UN'AUTOBIOGRAFIA

Tiziano Terzani e l'Asia, una storia lunga una vita. Ma è Terzani a raccontarci l'Asia o è l'Asia che ci racconta Terzani? Difficile dirlo, tanto forte è il legame che quest'uomo ha deciso di stringere, fin dal 1965, con il più contraddittorio dei continenti. Leggendo In Asia ci si trova a rivivere gli eventi determinanti della storia asiatica degli ultimi trent'anni (dalla guerra in Cambogia e nel Vietnam alla rivolta di piazza Tienanmen, dalla morte di Mao al «ritorno» di Hong Kong alla Cina), a ripensare ai grandi ideali che hanno attraversato questo continente, ai protagonisti che l'hanno formato. E al tempo stesso Terzani ci invita a prestare ascolto scaltra voce, quella dell'Oriente vero, non condizionato dagli stereotipi, non osservato dall'esterno, bersi vissuto nella sua quotidianità. Terzani, dunque, è si in Asia, ma anche l'Asia è «dentro» Terzani

UN INDOVINO MI DISSE


Nella primavera del 1976, a Hong Kong, un vecchio indovino cinese avverte Tiziano Terzani:

«Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell'anno non volare. Non volare mai». Dopo tanti anni, Terzani non dimentica la profezia, ma la trasforma in un'occasione per guardare il mondo con occhi nuovi: decide davvero di non prendere più aerei, senza per questo rinunciare al suo mestiere di corrispondente. Spostandosi per l'Asia in treno, in nave, in macchina, a volte anche a piedi, il giornalista può osservare paesi e persone da una prospettiva spesso ignorata dal grande pubblico. Il documentatissimo reportage si trasforma così in un'appassionante avventura e in un racconto ora ironico ora drammatico, in cui s'intrecciano vagabondaggi insoliti e incontri fortuiti.

PELLE DI LEOPARDO


Questo volume ripropone, con un titolo che li accomuna e una nuova introduzione dell'autore, i due libri - da tempo introvabili e perciò molto richiesti dai lettori - che hanno segnato l'esordio di Terzani: Pelle di leopardo (1973) e Giai Phong! (1976). Il primo è il diario dei due anni trascorsi seguendo le varie fasi del lungo conflitto in Vietnam; il secondo ricostruisce i retroscena diplomatici e di guerra che nel 1975 portarono alla liberazione di Saigon. Entrambi sono - oltre che l'omaggio a un Paese - l'appassionante resoconto di un viaggiatore instancabile, sempre in prima linea: una testimonianza preziosa, un documento ormai storico, che va oltre la guerra. Il tempo trascorso ci riconsegna queste ine nella loro intatta verità e bellezza, come accade soltanto ai veri scrittori.

LA PORTA PROIBITA

«Non ho scritto quello che ho scritto perché sono stato cacciato dalla Cina. Sono stato cacciato dalla Cina perché ho scritto quello che ho scritto.»

Nel febbraio 1984 (otto mesi prima che questo libro venisse pubblicato per la prima volta), Tiziano Terzani venne arrestato a Pechino, dichiarato «non adatto a vivere in Cina» e quindi espulso. ½ aveva risieduto per quattro anni (con la moglie e i li) e aveva voluto vivere «da cinese», ma era arrivato a sentirsi veramente tale soltanto negli ultimi giorni, quando si era reso conto di aver ormai oltrepassato la «porta proibita» che dava accesso alla vera realtà cinese. Palpitante testimonianza di un uomo che ha voluto vivere «da dentro» una rivoluzione e ne ha ato il prezzo, La porta proibita è un reportage e un'avventura di viaggio, ma soprattutto l'appassionante romanzo di un'avventura umana.





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