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La sociologia è lo studio delle leggi

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La sociologia è lo studio delle leggi che regolano universalmente il divenire umano e che stabiliscono i termini dell'ordine sociale. Come scienza nasce in Europa sul finire dell'ottocento da due grandi filoni del pensiero occidentale, quello positivista e quello storicista. Contribuiscono alla determinazione di questa disciplina il filone pragmatistico e quello interazionistico negli Stati Uniti, nonché la tradizione sempre nordamericana della "critica sociale". Diverse scuole, diverse tradizioni di pensiero e diverso lavoro sul campo non hanno contribuito alla creazione di metodi e regole universalmente condivise, ma pur in assenza di regole comuni la sociologia presenta molte caratteristiche proprie di una disciplina scientifica matura da cui derivano definite tecnologie sociali e strumenti consolidati per affrontare anche problemi di elevata complessità. L'emancipazione delle diverse discipline scientifiche dalla filosofia si compie in epoche molto diverse tra loro, ma presenta una caratteristica comune: quando l'area disciplinare si definisce autonoma essa rivendica la propria specificità in quanto corpo coordinato di teoria, ricerca e metodo. Nella storia del pensiero occidentale questo processo è il più delle volte molto lungo, complesso e costellato di controversie; tuttavia, una volta compiuta la transizione, è irreversibile. La nascita della sociologia come scienza è stata tardiva. La lunghissima fase, che va da Platone fino al XIX secolo, è chiamata "preistoria" della sociologia. In personaggi che vanno da Platone fino a Machiavelli, si trovano spunti e intuizioni di tipo latamente sociologico; spunti più consistenti possono ritrovarsi in Montesquieu e in Voltaire: in loro si riflette un atteggiamento posto sull'idea di progresso. Perché il termine "sociologia" venga coniato e pubblicizzato si deve attendere la rivoluzione industriale, l'ascesa politica ed economica della borghesia e il primo affacciarsi delle masse sulla scena politica europea. Positivismo, socialismo utopico e pensiero conservatore concorrono in diversa misura alla definizione di ciò che comincia a venir chiamato "sociologia". Alla base della sociologia delle origini c'è un orientamento di tipo positivistico, che viene dimostrato di fatto dalla periodizzazione di Auguste Comte. Dallo stato teologico allo stato metafisico, allo stato positivo, progresso e ordine procedono in modo complementare. Nello stato teologico si afferma la tendenza primordiale dell'uomo a considerare tutti gli esseri come viventi una vita simile a quella umana; si considerano tutti i prodotti come frutto di una volontà sovrumana. Se nello stato teologico predomina l'immaginazione, nello stato metafisico trionfa la ragione; solo più tardi, nello stato positivo, trionfa l'osservazione. Nello stato positivo la razionalità cede il posto all'osservazione empirica, che consente la determinazione di leggi universali, ed è proprio in questo stato che fioriscono le scienze, e fra queste anche la sociologia. Un parallelo al pensiero di Comte si ha in Herbert Spencer, maggiore esponente del positivismo sociologico inglese. Essi sono considerati i precursori della sociologia come scienza, perché le "leggi universali" enunciate da loro non sono che verifiche presunte; essi non si preoccupano di verificarle. La nascita della sociologia come scienza si fa risalire convenzionalmente al 1987, data di pubblicazione de Il suicidio di Emile Durkeim. Con Durkeim quindi si passa dalla genericità verbale a uno sforzo di sistematizzazione che può definirsi scientifico: ha inizio la vicenda della sociologia come disciplina scientifica autonoma. Mentre i positivisti si erano preoccupati di ampliare al massimo l'ambito della propria analisi, Durkeim  si pone i problema dell'oggetto in stretta connessione con quello del metodo. Fare della sociologia una scienza autonoma significa per Durkeim individuarne e definirne l'oggetto e delinearne il metodo. È necessario distinguere i fatti sociali dai fenomeni organici, perché i fatti sociali consistono di rappresentazioni di azioni, e dai fenomeni psichici, perché questi hanno luogo nella coscienza individuale. Fatti sociali per eccellenza sono pratiche costituite, istituzionalizzate e "cristallizzate", come regole giuridiche o sistemi finanziari. I fatti sociali non cristallizzati, pur conservando quegli attributi che definiscono il fatto sociale, cioè l'esteriorità e la coercitività rispetto agli individui, sono chiamati da Durkeim correnti sociali. Caratteristica del fatto sociale è che esiste una "dualità di natura", ovvero una dissociazione tra fatto sociale, in quanto stato collettivo, e le sue molteplici rifrazioni e incarnazioni individuali. La statistica ci fornisce la dimensione quantitativa generale del fatto sociale. Dalla definizione di fatto sociale, ovvero il prodotto delle interazioni che si stabiliscono tra le coscienze individuali, discendono le regole del metodo sociologico. La regola fondamentale e più generale afferma che i fatti sociali vanno considerati come cose, i quanto sono oggetti esterni al soggetto conoscente e quindi non conoscibili per comprensione, poiché se ne ignorano le cause e la natura. Dire che il fatto sociale è una cosa significa evidenziare che conoscerlo implica un certo atteggiamento da parte del soggetto conoscenti. Corollario di questa regola è l'affermazione che, nello studio dei fatti sociali si devono scartare sistematicamente pregiudizi e nozioni che non hanno nulla di scientifico. Un secondo corollario prescrive di assumere come oggetto di ricerca solo quei fenomeni che è possibile definire sulla base di certe caratteristiche esterne ad essi comuni. L'osservanza di questa regola consente di classificare e di studiare i fatti sociali sulla base delle loro caratteristiche. Un terzo corollario, afferma che, quando il sociologo si appresta a studiare un qualsiasi fatto sociale, egli deve considerarlo dal lato in cui si presenta isolato dalle sue manifestazioni individuali. Nella metodologia sociologica di Durkeim sono presenti limiti che derivano dalla contrapposizione tra individuo e società, fra dimensione psicologica e collettiva. Tuttavia con Durkeim il sociologo diventa per la prima volta ricercatore empirico. Nella sua ricerca sul suicidio, Durkeim conduce una attenta analisi secondaria dei dai statistici disponibili circa l'andamento del fenomeno nei vari paesi europei, elabora ipotesi e le sottopone a conferma manipolando i dati empirici indicati. A Durkeim non interessa spiegare un suicidio in particolare ma gli interessa il suicidio come fatto sociale, cioè il tasso di suicidi che si riscontra in diversi contesti sociali. Egli cerca di sottoporre a verifica empirica, o a falsificazione, le teorie tradizionali; delinea i contesti sociali in cui sembrano svilupparsi correnti suicide; osserva come il fenomeno tende a crescere in periodi di boom e di crisi economica, che il fenomeno è più elevato nei paesi protestanti che i quelli cattolici. La chiave esplicativa generale per Durkeim è che esiste una precisa corrispondenza tra l'integrazione sociale e, il tasso dei suicidi: quanto maggiore è il grado di integrazione sociale, tanto minore è il tasso dei suicidi. Durkeim costruisce una tipologia dei suicidi, distinguendo il suicidio anomico (mancanza di leggi e regole di condotta largamente condivise) dal suicidio egoistico, quando l'individuo attribuisce maggior peso ai propri valori a scapito delle norme societarie, e dal suicidio altruistico, caratterizzato da una totale interiorizzazione dei valori societari in nome dei quali si giunge a compiere il supremo sacrificio (si pensi ai kamikaze). Lo sviluppo della sociologia empirica, negli Stati Uniti negli anni venti, rappresenta una risposta ai molti problemi sociali venutisi a creare con lo sviluppo dell'industrializzazione e l'urbanizzazione. Nel contatto tra le etnie diverse sostanzialmente chiuse in se stesse e nel dilagare della criminalità offensiva, i sociologi empirici trovarono uno sconfinato campo di indagine. Non a caso in questi anni si sviluppano la sociologia industriale, la sociologia urbana e la criminologia. Si assiste a un fiorire di ricerche, fra cui spiccano quelle della "scuola ecologica", interessate a definire i rapporti intercorrenti fra l'habitat urbano e i gruppi sociali in esso presenti. Per la ricerca sociale empirica la data di pubblicazione di Knowledge for What?, di Robert Lynd rappresenta una data storica: esso sottopone a critica impietosa la ricerca sociale astratta e fine a se stessa, spesso insignificante nei suoi risultati in quanto priva di ipotesi teoriche rilevanti. Il 1939 segna un punto di ritorno, favorendo il riemergere dell'esigenza teorico-sistematica che si era eclissata con l'affermarsi della ricerca sociale empirica all'inizio degli anni Venti. Nello sviluppo delle sociologia scientifica in Europa la matrice positivistico è centrale, analogamente è la matrice della sociologia scientifica nordamericana anche se in essa domina la componente pragmatica, mentre è pressoché assente il filone storicistico. Di questo filone un grosso esponente è Max Weber. L'orientamento storicistico si caratterizza per la sua propensione, per la conoscenza storico sociale, a ricercare l'oggettività. Mentre Durkeim punta a minimizzare le differenze, gli storicisti le esaltano. Essi distinguono le scienze della natura dalle scienze della cultura: le prime sono scienze esenti da valori e sono volte al generale, le seconde pongono al centro della propria problematica l'uomo, inteso come essere cosciente di valori e sono volte all'individuale. Per Max Weber interpretare e conoscere la realtà significa attribuire a cause concrete effetti concreti. Il fine delle scienze storico- sociali è, per Weber, quello di razionalizzare la realtà empirica, ordinandola mediante dimostrazioni scientifiche corrette, tali da essere valide anche a persone con diversi imperativi etici. La scienza sociale analizza le condizioni del realizzarsi storico dei valori, ma non si pronuncia in merito alla loro validità: allo stesso modo essa non può dare indicazioni né fornire norme per l'agire pratico degli individui, né per l'attività politica. La scienza sociale non indica se lo scopo da perseguire sia di per sé giusto o sbagliato, ma indica quali sono i mezzi più idonei per preparare e conseguire uno scopo e quali possono essere le conseguenze dell'ottenimento di quel determinato scopo. Weber precisa che è la razionalità rispetto a scopi che consente l'individuazione di leggi sociologiche. Come ogni agire, anche l'agire sociale può essere determinato: in modo razionale rispetto allo scopo; in modo razionale rispetto al valore; in modo affettivo; in base alla tradizione.



L'agire sociale è peraltro influenzato dal potere e informato da considerazioni connesse al potere. Durkeim da una parte, e Weber dall'altra, possono essere considerati i classici per eccellenza della sociologia come scienza.

Come detto, la sociologia si afferma negli Stati Uniti e in Europa, a misura che si compie la transizione dalla società contadino-artigianale alla società industriale, che inizia impetuosamente sul finire del Settecento e che si compie in tempi diversi ma con modalità analoghe nei diversi paesi. Con la società industriale cambiano i pesi relativi delle diverse attività economiche; l'organizzazione del lavoro subisce profondi mutamenti; cambiano radicalmente gli stili di vita, i modelli di comportamento, le fonti del potere e dell'autorità; comincia l'ascesa della borghesia e il trasferirsi delle masse attive verso aree dove si trasformano le materie prime; si formano le coscienze nazionali e comincia lo sviluppo di una formazione socio-economica, il capitalismo. In questo momento tutte le certezze tradizionali entrano in crisi, e si sviluppa l'esigenza di uno studio sistematico della natura delle società moderne. Il modello della società contadina-artigianale può applicarsi in secoli di storia, ma nella società industriale sembra già essere largamente caduto in disuso. Una società industriale è caratterizzata dalla preminenza dell'industria manifatturiera di tipo moderno con investimenti di capitale in grandi fabbriche che sfruttano i ritrovati tecnologici della ricerca scientifica e producono in modo standardizzato. Si creano diversi fenomeni sociali, quali: la formazione di una classe operaia, composta da soggetti aventi diversi gradi di qualifica; lo sviluppo di organizzazioni formali della classe operaia, come i sindacati; l'urbanizzazione e la tendenza alla concentrazione in grandi aree metropolitane; la divisione crescente del lavoro. Con l'industrializzazione si sconvolge la stratificazione sociale tradizionale, si acuisce il conflitto sociale, si conura un più stretto rapporto tra chi detiene il potere economico e chi detiene il potere economico. Sulla divisione del lavoro si concentra l'interesse dei sociologi. Per Marx la divisione sociale del lavoro è "naturale", e si origina nell'ambito della famiglia, dal sesso e dall'età. La divisione economica del lavoro è frutto di esigenze economiche: essa presuppone la divisione sociale del lavoro, e reagisce su di essa frammentando l'uomo al pari dell'attività produttiva, ma non è naturale, perché esige requisiti tecnici e specialistici. Essa consente di risparmiare tempo e denaro, ma conduce il lavoratore all'alienazione dal prodotto del proprio lavoro. Il lavoratore diventa solo parziale, e la merce non è che il prodotto comune di molti lavoratori parziali. Nella società contadina-artigianale, l'unità produttiva elementare era costituita dalla famiglia e le unità più complesse dalla famiglia patriarcale e dal villaggio. Ciò sviluppava un senso di interdipendenza funzionale in quanto basato su vincoli di sangue e vicinato, che viene meno nel momento in cui l'autorità non riposa più sul prestigio dell'età, ma sulla posizione occupata e sul ruolo svolto all'interno di una organizzazione gerarchica. In Europa vennero delineandosi due grandi orientamenti in rapporto alla valutazione della natura e delle conseguenze di questo processo: da un lato si schierarono i romantici, tendenzialmente conservatori, e dall'altro gli apologeti. Da questi due grandi filoni di pensiero si sviluppano più tardi gli apocalittici, critici della società di massa e dei suoi modelli consumistici, e gli integrati, che invece esaltano questo tipo di società. Precursore del filone romantico è Rousseau, il quale sollecita alla riscoperta di quanto di spontaneo, non mediato dalla cultura e dalla società, può ritrovarsi nei singoli esseri umani. Appartengono al filone degli apologeti tutti i positivisti, ed è  con Durkeim che si ha una visione opposta a quella romantica: per egli lo sviluppo tecnico è un fatto economicamente, socialmente e culturalmente positivo. Contribuisce a sviluppare la complessità dell'organizzazione sociale, e quindi a sviluppare una solidarietà che egli definisce "organica". Le società complesse, fondate sulla divisione sociale del lavoro e sulla differenziazione funzionale degli individui, sono moralmente migliori delle società semplici, dove l'individuo è soggetto ad autorità che possono essere disfunzionali ed è tenuto a compiere un ruolo predeterminato. Questa costrizione rimane nelle società complesse, ma è un imposizione riposante sulle esigenze funzionali di un convivere sociale. Da qui, per Durkeim, una nuova morale di solidarietà libera ed intelligente ed una crescente mobilità sociale. A volte il predominio della tradizione impedisce il mutamento delle società semplici; lo stesso non accade nelle società complesse, industrializzate o sulla via di questo processo, nelle quali la razionalità prende il posto della tradizione. La Grande Trasformazione consiste nel pensiero che anche il più sacro dei principi dettati dalla tradizione può essere violato in nome di istanze di sopravvivenza, progresso e razionalità, una razionalità che stravolge il vecchio ordine sociale per edificarne uno nuovo più dinamico, equo, funzionale a bisogni collettivi e individuali. I primi tentativi di razionalizzazione produttiva all'interno delle fabbriche sono condizionate da fattori individualistici e utilitaristici, che hanno un esito socialmente sfavorevole ed economicamente limitato. È il caso del taylorismo, che consisteva nella misurazione dei tempi e dei metodi del lavoratore alla macchina con lo scopo di individuare la maniera unica, che diverrà lo standard della produzione, che poteva permettere di svolgere nel minor tempo possibile e con minor dispendio di energia il compito ripetitivo assegnato al singolo operaio. La precisa determinazione dei tempi e dei metodi spettava alla direzione aziendale. Raggiunto ciò, si stimolava l'adattamento degli operai tramite un sistema di incentivi, che in prospettiva tayloristica, doveva sviluppare la competizione in vista dell'ottenimento di un salario più alto, ovviamente compensato da un'accresciuta produttività del lavoro. Il "costo" sociale del taylorismo fu alto in termini di alienazione individuale, tensione sociale, mancanza di coesione fra lavoratori svolgenti azione complementari ma estraniati dal prodotto, dalla fabbrica e dai lavoratori. Ci si rese conto abbastanza rapidamente che era inutile e controproducente abbreviare i tempi delle operazioni standardizzate dell'operaio e incentivare la produttività individuale se poi si creava un clima di tensione e di conflitto che si rivelava dannoso e disfunzionale. Oltretutto anche i sindacati ebbero un ruolo rilevante nel favorire l'abbandono di questo sistema a favore di un approccio basato sulla soddisfazione del lavoro e sulla identificazione del lavoratore con l'azienda. La riscoperta del piccolo gruppo all'interno dell'organizzazione formale dell'azienda, è dovuta a Elton Mayo e alla sociologia industriale, che fornirono una nuova base per lo studio dell'azienda come sistema sociale. Con ciò si scopriva l'esistenza di rapporti umani all'interno dell'azienda, se ne intravedevano interrelazioni con le strutture istituzionali della stessa e se ne stabiliva la rilevanza in rapporto agli scopi essenziali dell'azienda stessa: produzione e profitto. Si delineava una complessa trama di interrelazioni fra conurazioni gerarchiche "informali" e gerarchiche istituzionali, fra norme sviluppate dai gruppi primari, e quindi accettate e rispettate da tutti in quanto avvertite come proprie, e norme imposte dall'alto. Da qui il delinearsi di una nuova strategia aziendale, orientata nel senso delle relazioni umane e incentrata sulla maggiore possibile soddisfazione del lavoro. Si sviluppano quindi, a partire dagli anni sessanta, due diversi filoni: da una parte quello centrato sull'obiettivo di sviluppare un nuovo modo di produrre, con rotazione di mansioni e larga autonomia dei lavoratori nel reparto, dall'altra quello che pone invece l'attenzione sul tempo libero. Ha prevalso il secondo filone perché, con la crescita della disoccupazione, pur in fase di sviluppo economico, si è rafforzata l'idea di suddividere il lavoro esistente fra un numero maggiore di lavoratori, contenendo orario di lavoro e salario, ma ampliando il tempo libero. Idealmente l'ordine è garantito dalla razionalità sia nell'organizzazione del lavoro che nelle relazioni sociali, ma è chiaro che non si dà un ordine stabile se esso non è garantito dalla gratificazione e dalla approvazione. È quanto intravede per primo Emile Durkeim descrivendo la sacralità del sociale, ed è anche la premessa del paradigma strutturalfunzionalista, secondo la quale teoria, un sistema può dirsi integrato nel momento in cui la stragrande maggioranza dei componenti individuali del sistema stesso è sufficientemente motivata ad agire in conformità con le aspettative connesse ai propri ruoli. Ciò implica un sufficiente grado di soddisfazione per le attività svolte, l'interiorizzazione delle norme culturali societarie, e che fra i livelli del sistema sociale strutture istituzionali, cultura, intesa come insieme di norme, valori e modelli di comportamento, e personalità, intesa come insieme delle motivazioni all'agire individuale, non si diano eccessive alterazioni. La misurazione dell'integrazione di un sistema sociale reale è teoricamente possibile approfondendo analisi delle diverse dimensioni in cui si articolano i tre livelli del sistema, in riferimento ad un tipo ideale in cui le strutture istituzionali riflettono nel modo più adeguato le norme culturali societarie che, a loro volta, risultino pienamente interiorizzate da componenti individuali delle società fino a motivarne l'agire; questo risulterebbe perfettamente conforme alle mete culturali, alle norme istituzionalizzate e inoltre sarebbe gratificante per l'individuo, che non incontrerebbe ostacoli sociali nella realizzazione di sé e delle proprie aspettative. Nel momento in cui si studia l'integrazione di un singolo sistema, nella prospettiva funzionalistica si presenta il rischio inevitabile di privilegiare l'ordine vigente e di considerare il conflitto sociale come una malattia. Viene introdotta quindi la possibilità di considerare variamente funzionali, disfunzionali e afunzionali diversi elementi socioculturali presenti in un sistema. Si evita così la tesi, peraltro indimostrata, della indispensabilità funzionale di ogni elemento. Fra le poche teorie sociologiche consolidate occupa una parte centrale la teoria dell'anomia, delineata da Durkeim e sviluppatasi con Robert King Merton: essa pone l'accento sulle fasi di estrema tensione fra parti sociali e individuali, dove, saltando ogni compatibilità, ha luogo una rottura che può manifestarsi sotto forma di crisi normativa societaria, di messa in discussione, da parte degli individui, di norme e valori culturali. L'anomia semplice si riferisce allo stato di disorientamento di un gruppo o di una società soggetta ad un conflitto fra sistemi di valori, che sfocia in un certo grado di disagio e separazione dal gruppo; l'anomia più acuta riguarda il deterioramento e la disintegrazione del sistema dei valori in grado più estremo. Analogo è il problema dell'alienazione, anche se qui non esiste una precisa teoria sociologica. La teoria di Marx sull'alienazione del 1844 è più una denuncia dell'uomo nella società capitalistica che una teoria sociologica. È stato possibile misurare il senso di alienazione sul lavoro, tanto da individuare cinque dimensioni dell'alienazione, adattabili dal contesto aziendale al più ampio contesto sociale. Questi gradi sono: Impotenza, cioè il sentimento individuale di non poter influenzare il contesto sociale in cui si interagisce; Mancanza di significati, cioè la percezione di una mancanza di valori che ispirano l'agire; Assenza di norme, intesa come sensazione che vengono normalmente usati mezzi illegittimi per conseguire certi scopi; Isolamento, inteso come sentimento di estraniamento dalle mete culturali della società; Autoestraniamento, cioè l'incapacità di trovare attività autogratificanti.

Strettamente connesso all'industrializzazione è il fenomeno dell'urbanizzazione, ovvero il processo di concentrazione della popolazione nelle aree urbane. La dimensione urbana era già conosciuta nell'antichità, ma è solo nel corso della Roma di Augusto che si ha una precisa notizia di una metropoli di un milione di abitanti. A partire dal XI secolo nell'Europa occidentale si manifesta la ripresa della vita urbana parallelamente al rifiorire delle attività commerciali, che avevano subito nei secoli precedenti un forte rallentamento. Lo sviluppo della città medievale è collegato con la possibilità di svolgere attività mercantile; la formazione delle nuova classe sociale mercantile dette ai vecchi borghi nuova vitalità. La nuova classe sociale si contrappone alla vecchia classe dominante, quella feudale, che aveva avuto nella camna il suo centro abitativo ed economico-sociale. Alcuni storici pensano sia composta da individui del tutto estranei alla società feudale, cioè una massa di emarginati senza terra e in cerca di fortuna, altri ritengono che la nuova classe si formi per separazione da quella feudale, dalla quale alcuni membri si staccano organizzando il commercio dell'eccesso agricolo disponibile. Il processo di urbanizzazione medievale rappresenta una trasformazione organizzativa e produttiva delle città e delle società. L'urbanizzazione moderna esplode in Inghilterra a partire dal XVIII secolo e poi in tutta Europa, America settentrionale e parte dell'America meridionale nel XIX secolo. Si sviluppa non solo una borghesia urbana modernizzante e propensa all'innovazione, ma anche un globale stile di vita alternativo rispetto a quelli della tradizione agro-pastorale. Le aree metropolitane si specializzano al loro interno e si stratificano: dove vivono le elite si chiudono i confini delle aree residenziali; la città borghese si espande nelle aree intorno al centro; cresce a macchia d'olio l'immensa periferia. L'esigenza degli spostamenti diventa cruciale: il tempo è al centro di ogni valutazione sia per la borghesia urbana che per il crescente proletariato. Nelle città della società industriale si corre, ci si affanna, ci si chiude in famiglie di poche persone, si smarrisce la solidarietà del villaggio e si subisce l'urto della criminalità. Tuttavia si ha accesso a strutture sanitarie e servizi, si comincia a scegliere un lavoro evitando la predestinazione dei li all'attività dei padri e dei nonni. Crescono le incertezze e le disuguaglianze, ma crescono anche le opportunità di far fortuna e le possibilità di accostarsi allo svago, alla cultura e al centro politico ed economico del sistema. L'urbanizzazione moderna presenti due grandi facce: quella che si accomna all'industrializzazione e quella, sempre più diffusa nel terzo mondo, selvaggia apparentemente fine a se stessa. Le condizioni socioeconomiche che influiscono sull'urbanizzazione sono le stesse che influiscono sull'industrializzazione: il progresso tecnico fondato sull'applicazione della scienza, le trasformazioni socioeconomiche prodottesi nelle camne in seguito all'abolizione dei terreni di uso pubblico ed al diffondersi del latifondo, la diminuzione della mortalità ed il conseguente aumento della popolazione. Il sistema economico di tipo industriale ha progressivamente esercitato un azione di trasformazione sul sistema politico-amministrativo, sul sistema sociale e sul sistema di valori socialmente condivisi. Lo sviluppo delle aree metropolitane si accomna a massicci fenomeni migratori e al frequente spostarsi verso aree suburbane di settori di ceti medio-alti già residenti in zone dove vanno ad insediarsi i nuovi arrivati. Nella metropoli tende a perdersi la distinzione tra centro urbano e aree che progressivamente conducono alla camna. Resta ben visibile un centro, cui si aggiungono altre aree centrali e si sviluppano zone periferiche, aree industriali e zone residenziali. In quasi tutte le metropoli europee, il centro storico resta anche centro commerciale e direzionale, area d'uffici e di residenzialità a livello socialmente alto. In alcune metropoli, come quella di New York o Los Angeles, si crea un immensa conurbazione, ovvero aggregati di città attorno alla metropoli centrale. Il fenomeno più vistoso degli ultimi decenni è stato la crescita delle megalopoli nei paesi poveri e in via di sviluppo del sud del mondo. Fra le prime venti megalopoli ben dodici sono asiatiche, quattro latinoamericane, due africane e due statunitensi: nessuna europea. Il problema di questa crescita urbana senza precedenti nei paesi poveri e in via di sviluppo risiede nel fatto che queste città sono sempre meno in grado di fornire opportunità economiche e servizi essenziali ai nuovi arrivati. Peraltro la tumultuosa urbanizzazione del sud del mondo è dovuta solo in parte all'incremento demografico, perché la causa principale è da ricercarsi nell'aumento di flussi migratori, sia interni che internazionali. Alle cause storiche dell'esodo dalla camna alla città, come povertà, fame e aspettative di una vita migliore, si aggiunge un nuovo fattore: il degrado ambientale. Infrastrutture e servizi pubblici inadeguati, abitazioni precarie, degrado ambientale, scarsità di opportunità economiche e precarietà del lavoro stanno trasformando le metropoli de paesi poveri o in via di sviluppo in una sorta di nuovo modello urbano: la città insostenibile. In concomitanza con l'urbanizzazione, cresce anche l'interesse scientifico per questo vistoso cambiamento sociale. L'interesse riguarda la città come formazione socioculturale emergente, come luogo di innovazione e di conflitto, come centro di stili di vita profondamente difformi rispetto a quelli propri delle società agro-pastorali. Mentre in Europa questa sociologia urbana nasce come un modulo della teoria sociologica generale, negli Stati Uniti l'approccio al fenomeno urbano è orientato all'individuazione e risoluzione dei drammatici problemi posti dall'inurbamento, dall'immigrazione e dall'incontenibile crescita delle metropoli a partire dalla fine dell'ottocento. Ciò pose la natura e la qualità della vita urbana al centro dell'interesse dell'opinione pubblica nordamericana e di un numero crescente di sociologi, soprattutto nell'area metropolitana di Chicago, principale meta di immigrati e zona ad intensissimo grado di industrializzazione e di urbanizzazione. Proprio all'università di Chicago si forma, nel 1892 il primo dipartimento di sociologia del mondo e in esso opera la cosiddetta scuola di ecologia sociale urbana. La prima fase di sviluppo della sociologia urbana (fine 800-anni 40) riflette una forma di dualismo tra la ricchezza di spunti teorici degli studiosi europei, cui non si accomnano lavori di ricerca sul campo, e la vastissima attività di ricerca empirica condotta negli Stati Uniti, che non muove da premesse teoriche e raramente perviene ad elaborare teorie di rilievo. La ripresa degli studi sulla città nel dopoguerra si sviluppa soprattutto negli Stati Uniti a partire dagli anni sessanta, dove prende corpo un vivace filone orientato alla pianificazione urbana, allo sviluppo metropolitano e al risanamento programmato delle aree più degradate. Anche in Europa cresce l'interesse dal punto di vista sociale per l'urbanizzazione. La prima fase dura fino alla metà degli anni sessanta e fa registrare uno sviluppo simile a quello americano. Tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, in coincidenza con l'esplosione delle rivolte urbane a Parigi e in altre città europee, si assiste ad una sorta di rivoluzione nella sociologia urbana, che rompe con la tradizione ecologica. Si prende atto della crisi urbana ed invece che sull'integrazione sociale ci si concentra sulla crescita delle disuguaglianze sociali. Anche l'urbanizzazione senza industrializzazione nei paesi del terzo mondo contribuisce a porre in evidenza il tema della crisi urbana. È una breve grande fiammata che trae i suoi motivi ispiratori dagli anni della contestazione e che sconvolge la sociologia urbana europea fra il 1968 e i primi anni ottanta, ma le acquisizioni resteranno assai modeste. Superati gli anni caldi, la sociologia del territorio scopre l'ambiente e l'abitazione, mentre l'analisi ecologica viene arricchita da articolate variabili socioeconomiche che decretano, fino alla fine degli anni ottanta, il trionfo dell'idea delle tre Italie. All'Italia industriale nel Nordovest e all'Italia socioeconomicamente arretrata del Mezzogiorno, si aggiunge una terza Italia adriatica, tutta centrata sulla piccola impresa, che dal Nordest si estende fino al Molise. Gli anni novanta segnano un superamento di questo modello a favore di una territorializzazione più complessa, segnando la fine della crescita della grande industria nel Nordovest e fenomeni di deindustrializzazione nel mezzogiorno.

L'idea delle diseguaglianze sociali "naturali" entra in crisi a seguito dell'irrompere dell'illuminismo, dell'egualitarismo della rivoluzione nordamericana e in seguito al diffondersi dei principi della rivoluzione francese. Il problema comincia ad essere affrontato in termini sociologici con l'avvento della società industriale. La classe sociale diventa oggetto di critica, a misura che viene superata l'idea della naturalità delle diseguaglianze. Marx mostra come l'esistenza delle classi è legata a determinate fasi dello sviluppo storico. A Marx si deve la previsione della necessaria vittoria della classe operaia a coronamento del conflitto di classe nelle società capitalistiche, con conseguente instaurazione di un assetto sociale di tipo nuovo in cui il conflitto stesso viene superato. Marx elabora una teoria della stratificazione sociale di tipo dicotomico: borghesia contro proletariato. Egli prenderà però nella giusta considerazione anche le classi intermedie. Il conflitto presuppone la presa di coscienza degli interessi di classe e quindi l'organizzazione politica del proletariato: da qui la fondamentale distinzione marxiana fra classe in sé, intesa come puro insieme di individui che condividono condizioni e interessi obiettivi, e classe per sé, intesa come effettivo determinarsi di una formazione sociale pronta alla lotta. La classe si dispone allo scontro e si organizza nel Partito, che ha il compito di elaborare idee alternative alle idee dominanti della classe dominante, ovvero la borghesia, in quanto possiede la potenza materiale dominante. Il concetto marxiano di classe mostra una scarsa funzionalità di fronte alla stratificazione sociale nelle società industriali avanzate. L'idea stessa di proletariato è inutilizzabile per analizzare la stratificazione sociale delle società avanzate, così come quella delle società del terzo mondo. Mentre nelle prime gli operai specializzati fanno parte del ceto medio, nelle seconde non è cresciuto affatto la formazione sociale del proletariato, ma si è espanso un generico sottoproletariato fatto di ex contadini che conducono vite precarie nelle sterminate periferie delle megalopoli asiatiche, africane e latinoamericane. L'analisi della stratificazione sociale può essere condotta richiamando l'attenzione anche su fattori non solo economici, ma anche di prestigio e di potere. In questa direzione si è orientata la sociologia americana tradizionale, che ha elaborato strumenti di misurazione della stratificazione sociale con riguardo agli stili di vita dei diversi gruppi sociali e delle diverse etnie degli Stati Uniti, ai livelli di prestigio socioprofessionale e alle capacità di esercitare o subire influenza. L'aspetto del potere e dell'influenza caratterizzano anche l'approccio alle classi sociali della sociologia europea. Weber con situazione di classe intende la possibilità del modo di procurarsi beni, della condotta esteriore di vita e dello stato interiore, che consegue del potere di disposizione sui beni o sulle qualificazioni di prestazione, e dalla loro utilizzabilità per conseguire un reddito di un certo ordinamento economico. Con situazione di ceto, Weber intende un effettivo privilegiamento, positivo o negativo, nella considerazione sociale, fondato sul modo di condotta della vita e perciò sulla specie di educazione formale e sul prestigio derivante dalla nascita o dalla professione. Per Weber quindi il possesso di denaro o la posizione sociale di imprenditore non sono di per sé qualificazioni di ceto, ma si tratta di caratteristiche che possono condurre all'acquisizione di quel privilegiamento sociale, che definisce una elevata situazione di ceto. Quindi una determinata situazione di ceto può condizionare una situazione di classe, pur senza identificarsi con essa. Mentre Weber sottolinea la distinzione tra classe e ceto, la sociologia americana affronta il problema di descrivere empiricamente la società in termini di strati sociali servendosi di indicatori di ceto e di indicatori di classe, fino a ricondurre la dimensione economica, quella del potere quella del prestigio e quella psicologica in un unico quadro di riferimento. Secondo il sociologo americano di origine russa Sorokin, è possibile individuare tre grandi tipi di stratificazione sociale: le stratificazione economica, politica e professionale, fra loro intrecciate e sovrapposte. Perciò nelle società industriali dell'occidente è possibile trovare casi in cui ad un elevato prestigio professionale non corrisponda una adeguata posizione economica o viceversa. Col passaggio di individui o gruppi sociali da uno strato all'altro si verifica una situazione di mobilità sociale. Presente in ogni assetto sociale, ad eccezione del sistema indiano delle caste, la mobilità si esalta con la transizione dal feudalesimo alla società moderna: l'industrializzazione, l'urbanizzazione, lo spostamento del baricentro sociale dalle camne alle città e dai campi alle industrie, accelerano ed espandono le dimensioni del fenomeno della mobilità verticale, cioè ascendente o discendente da uno strato all'altro, e della mobilità orizzontale, cioè dalla camna alla città, da una città all'altra senza che si compia necessariamente un passaggio di strato. La teoria della stratificazione sociale si colloca nell'ampio quadro della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana, le quali sanciscono un sogno di libertà, tolleranza, eguaglianza delle opportunità, diritto alla ricerca individuale e comunitaria della felicità. Questo costituisce il Credo Americano, che professa l'eguaglianza delle opportunità in un contesto istituzionale e culturale per cui a ciascuno, senza distinzione di razza, lingua, religione e origini sociali, sia data la possibilità di competere in vista del conseguimento dei fini più alti. Storicamente gli Stati Uniti sono stati conurati come terra di opportunità, ma questo lo è stato pressoché esclusivamente per i bianchi europei immigrati in america, non certo per milioni di neri trasferiti nel nuovo mondo in catene. Il credo Americano non si è affievolito, anzi ha ritrovato vigore come visione del mondo e ha dato segnali di maggiore concretezza a seguito dell'impetuosa ascesa, fra le classi medie, di consistenti minoranze nere, asiatiche e ispaniche. Si capisce quindi come il modello dicotomico caratteristico degli stati europei sia estraneo alla società americana. Strettamente connesso all'appartenenza di classe è l'accesso al potere. Per Marx il possesso di potere politico è conseguenza del possesso dei mezzi di produzione. Storicamente la borghesia ascendente dell'Europa nordoccidentale esercitò un'influenza sullo sviluppo dell'etica protestante in coerenza con le proprie esigenze di razionalizzazione e modernizzazione della vita sociale. Così la classe sociale borghese va consolidando il proprio potere politico: tuttavia, la borghesia estende progressivamente la sua influenza culturale, sia pure entro i confini dell'aristocrazia dominante, preurando quel che accadrà con l'illuminismo e il successivo trionfo politico che si compie tra la fine del settecento e la prima metà dell'ottocento. L'esercizio reale del potere si intreccia variamente con il possesso di attributi visibili che sempre meno sono le proprietà dei mezzi di produzione. Così nelle società industriali occidentali si formano consistenti gruppi di individui che controllano l'apparato burocratico-amministrativo ed esercitano un potere d'influenza, di controllo, di accelerazione o vanificazione delle decisioni che non si accomna al potere economico. Si forma inoltre una classe di manager che ha competenze tecnico-scientifiche , e quindi assume decisioni ben più determinanti di quelle che possono assumere i detentori formali del titolo di proprietà sui mezzi di produzione. Il neocapitalismo trionfante in Europa, Stati Uniti e Estremo Oriente non vede sire la stratificazione in classi sociali. Se al vertice si trovano, con i titoli formali di proprietà, eredi di dinastie, il controllo è sempre più diffusamente delegato a tecnici, specialisti e gente che lavora nell'interesse di altri. Nelle società avanzate cresce a dismisura l'area dei ceti medi, con contraddittori fenomeni di proletarizzazione da un lato, e di specifica emergenza dall'altro. A ciò si aggiunge una crescente area di gruppi variamente marginali, che prendono il posto dell'ottocentesco sottoproletariato urbano industriale. Mentre per Marx la relazione e l'appartenenza di classe si colloca in una polarità di dominio, per Weber la classe è in relazione ad un mercato, all'interno del quale fra le classi possidenti e la classi acquisitive si collocano molteplici prestazioni che vanno dalle semplici prestazioni manuali alle prestazioni specialistiche. Il riferimento di classe è dato dalle capacità acquisite dall'individuo che possono essere poste e valorizzate sul mercato al pari di una qualsiasi altra prestazione. È all'interno di questo che, secondo Weber, si collocano i gruppi di status, ossia gruppi di persone che condividono uno stile di vita e un identità. Questi gruppi possono organizzarsi in gruppi di potere di vario tipo, ma essi sono fra di loro distinti e spesso in conflitto. Mentre nell'accezione marxiana una classe economica può trasformarsi in organizzazione di pressione o in partito politico, nell'accezione weberiana le classi economiche possono diventare gruppi di status che a loro volta possono diventare gruppo di potere o di pressione. La larga adesione ad un comune stile di vita a livello socioculturale, accomnata dall'apparente smarrimento della coscienza di classe favorisce il declino della lotta di classe all'interno delle contemporanee società. Laddove conflitto esiste, non coinvolge la totalità dei membri di una classe e non sono quindi manifestazioni di lotta classe, ma coinvolgono singole categorie professionali animate da rivendicazioni salariali. Con l'apparizione sulla scena sociale dei movimenti collettivi sul finire degli anni sessanta, il conflitto di classe non se, ma cambia di luogo e di segno. Essendo i conflitti di lavoro istituzionalizzati, essi si risolvono con negoziati che danno luogo ad incrementi salariali. I conflitti si spostano dalle fabbriche alla società e questo segna una differenza epocale. Se i conflitti tradizionali di classe tendevano a controllare l'organizzazione del lavoro e delle risorse collettive, la marginalità dei conflitti di lavoro che si conurano come riduzione delle diseguaglianze di reddito è dovuta al fatto che è mutata la conurazione della classe dirigente, che in massima parte non è più costituita dai proprietari dei mezzi di produzione. La classe operaia è sostituita nella protesta sociale da altri soggetti. Questa protesta però non è una reale minaccia per l'organizzazione produttiva perché priva di legami istituzionali in grado di fungere da veri e propri gruppi di pressione e perché le rivendicazioni avanzate sono di natura individualistica e non generale. Anche all'interno del contesto italiano, la stratificazione sociale, più che dipendere da indicatori economici, dipende da indicatori genericamente attribuibili alla condizione individuale o alla collocazione geografica. Le fonti di conflitto risiedono soprattutto in quella larga fascia di manodopera non specializzata e precaria e in quella fascia di disoccupazione, che sembrano essere la costante delle società capitalistiche avanzate. Gli studi sulle classi sociali in Italia, realizzati da Paolo Sylos Sabini, si basano sulla scelta di due parametri di stratificazione: la distribuzione del reddito e il modo in cui esso si ottiene. Si hanno quindi classi sociali come: Borghesia vera e propria, costituita da grandi proprietari di fondi agricoli e urbani, imprenditori ed alti dirigenti di società per azioni, professionisti autonomi e alti dirigenti dello stato; Piccola borghesia impiegatizia; Piccola borghesia relativamente autonoma, costituita da coltivatori diretti, artigiani e commercianti; Piccola borghesia, costituita da categorie particolari come militari e religiosi; Classe operaia; Sottoproletariato.

Lo sviluppo dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione producono, all'inizio del Novecento l'avvento di quella che verrà chiamata società di massa, ovvero l'affacciarsi delle masse organizzate sulla scena delle società europee. Per massa si intendeva allora la massa bruta, pronta a seguire le idee di agitatori e obbedire alle parole d'ordine da questi diffuse. Lungo questa line si sviluppò la cosiddetta psicologia delle folle, i cui esponenti mostrarono il loro timore per l'avvento delle masse che avrebbero sconvolto irreparabilmente l'ordine costituito per sostituirvi disgregazione, conflitto e rozzezza culturale. Positiva fu invece l'idea di massa per coloro che si rifacevano a concezioni di tipo socialista: da Proudhon a Marx, i pensatori socialisti si attendevano il rapido dispiegarsi di potenzialità progressive e rivoluzionarie in conseguenza del delinearsi di condizioni strutturali tali da favorire l'avvicinamento di grandi masse di popolazione dall'estrema periferia verso il centro della società. La società di massa si conura quindi come la migliore delle società possibili, quella in cui le grandi masse popolari trovano canali adeguati di elevazione e partecipazione. Non la pensano così gli esponenti della teoria critica della società, i quali, sulla base dell'esperienza dell'irrazionale esplodere del totalitarismo nazista, resa possibile da un uso spregiudicato di tecniche proandistiche rivelatesi efficaci su grandi masse di tedeschi, levano preoccupate grida d'allarme circa la massificazione, il livellamento dei gusti e dell'aspirazioni e lo smarrimento di un autonoma capacità di giudizio critico che, col diffondersi del consumismo, la società di massa recherebbe con sé. Ecco perché, la società che si costituisce nel ventesimo secolo è la peggiore di tutte, la più indefinita, irrazionale e imprevedibile negli sbocchi. Sociologi empirici come David Riesman, uno fra i massimi sociologi americani contemporanei, definisce "folla solitaria" e "aggregato di individui senza volto" quella immensa classe media del tutto anonima che celebra i riti, come fare la fila ai magazzini, alla metropolitana o al cinema, di una società che viene diretta da un potere invisibile e lontano. Si sviluppa così una personalità eterodiretta, che si sostituisce alla personalità diretta dalla tradizione dominante nelle società agro-pastorali. La personalità eterodiretta vede l'altro come una maschera di ruoli sociali, e non come persona; ciononostante essa è guidata da altri, commisura se stessa a quell'altro che percepisce come simile, lotta per eguagliarlo e per essere sempre più simile. Tutto ciò è un riflesso di una fondamentale esigenza del sistema consumistico. In questa realtà si sviluppa, secondo Riesman, un tipo di personalità caratterizzato da ansia ed instabilità emotiva, da insicurezza e disponibilità alla ricezione delle più svariate stimolazioni esterne, come mass media e pubblicità proandistiche. Tuttavia, gli indicatori empirici dimostrano che per grandi masse europee, nordamericane e giapponesi, la società di massa è la migliore fra quelle succedutesi nella storia. Non si tratta però della migliore delle società possibili, anzi, è proprio nella società di massa che si acquisisce la drammatica consapevolezza delle diseguaglianze e dei decrescenti livelli di qualità della vita nelle metropoli. Massimo difensore della società di massa è il sociologo americano Edward Shils, secondo il quale la società di massa è uno sviluppo degli ideali della polis greca, con le sue caratteristiche di partecipazione, collegialità nelle decisioni e fondamentale consenso. Con la società di massa si è attenuato il peso della tradizione, si è disperso il carisma e il sacro terrore dell'autorità, si sono rafforzati la dignità e i diritti dell'individuo, sono riemersi dall'oscurità del medioevo valori come la civiltà e l'individualità, valori che si estendono a livello di massa in modo da produrre un crescente consenso morale. Consenso che si articola attorno ad un nucleo centrale di valori, principi, modelli di comportamento e convinzioni, che i mezzi di comunicazione di massa possono rafforzare ma difficilmente scalfire. Il processo di persuasione dei mass media è lento e complesso: esso non scorre nel potente mezzo di comunicazione di massa alla massa, ma si svolge attraverso la mediazione di personaggi riconosciuti come attendibili e autorevoli. La persuasione non è necessariamente quella che esplicitamente viene indotta dal messaggio proandistico, ma quella che, in modo ben più sottile, si esercita tramite messaggi apparentemente neutri, di tipo evasivo o variamente consumistico. La cultura di massa impone di consumare oggetti e uomini fattisi oggetti, in particolare divi, nei quali l'uomo medio si identifica: è il divo a vivere tutte le esperienze che l'uomo medio vorrebbe vivere; è il divo a rappresentare il modello di una vita possibile di evasione e di svago; questo modello contraddice solo apparentemente l'altro modello imposto dalla "buona vita" familiare, che si conforma sull'etica del lavoro e non sull'etica dello svago e dell'evasione. Ma almeno in America, a differenza che in Europa, la dimensione ludica e quella del lavoro sembrano entrambe assorbite nella cultura di massa. A sostegno di questa ipotesi si è osservato come la pubblicità, che è l'espressione principale della cultura di massa, tenda a operare una efficace sintesi tra piacere e dovere: questa sintesi, che è sostanzialmente acquisita nella società nordamericana, in Europa non è culturalmente accettata in modo pacifico ed uniforme a causa della relativa arretratezza del sistema neocapitalistico e della persistenza di una cultura semicontadina. La società di massa nordamericana è una società integrata, cioè una società in cui esiste una cultura dominante largamente interiorizzata dalla grande maggioranza della popolazione, mentre i paesi dell'occidente europeo sono ben lontani da una situazione del genere. L'omologazione e l'appiattimento che tendono a ridurre le differenze nei modelli di comportamento e negli stili di vita sono dunque i tratti distintivi della cultura di massa, dove ci si interessa sempre meno delle strutture sociali e sempre più si emettono giudizi di condanna sulla base di canoni di valutazione estetici sugli oggetti culturali degradati immessi nel ciclo della produzione e del consumo. Nelle società di massa si presenta il rischio che possano di tanto in tanto prevalere l'emotività, l'irrazionalità diffusa ed esplosioni incontrollabili di panico o di aggressività. Il filone di studiosi di formazione centroeuropea si cimenta nel tentativo di prevenire forme di totalitarismo. Per loro gli impulsi irrazionali pronti ad esplodere sono costituiti dal manifestarsi di movimenti collettivi di protesta, da mobilitazioni incontrollate guidate da elite in competizione politica, da atti terroristici che possono sconvolgere la vita di intere metropoli. Si pone allora il problema del controllo dell'inconscio collettivo, controllo che impone da un lato la gestione democratica dei mezzi di comunicazione di massa e dall'altro una crescente partecipazione dei cittadini all'assunzione di decisioni strategiche. Ben diverso è l'approccio dei critici della società di massa, i quali approdano a forme di pessimismo circa le potenzialità disgreganti e distruttive insite nella logica dei consumi di massa, della funzionalità di ogni aspetto della vita, accomnata dall'imposizione di norme e modelli di comportamento standardizzati e uniformi. Gli uomini non sono più individui, ma pure unità impersonali massificate che hanno interiorizzato i valori consumistici e repressivi, l'adesione ai quali crea l'illusione del consenso. La manipolazione si trasforma in un dato trascendente, tale da far smarrire la nozione della distinzione fra manipolatori e manipolati. Divenendo qualcosa di insito nella logica della società industriale avanzata, produrrebbe una dinamica sociale equivalente ad un processo di perpetuazione del consenso, assicurato da complessi meccanismi di controllo che inducono al consumo e sono a loro volta perfezionati dal bisogno di consumare. Il Sistema riesce quindi a far coincidere i propri fini con quelli che la massa degli individui avverte come propri. Nei primi anni della protesta (1968-l970) si salda il grande fronte degli esclusi, che non concorre alla spartizione dei benefici offerti dalla società dei consumi, del quale sarebbero parte, oltre ai popoli del terzo mondo alle le minoranze etniche, anche coloro che non sono inseriti a pieno nel sistema, ovvero gli studenti, i quali non fanno ancora parte del sistema in quanto privi di un definito ruolo socioprofessionale e non più integrati in quella basilare istituzione del Sistema stesso che è la famiglia. Avanguardia di un fronte oppositivo al sistema, studenti ed intellettuali si pongono come l'elite di una composita formazione sociale protagonista di una nuova forma di conflitto. Il conflitto assume caratteri diversi da quelli descritti dalla teoria marxiana. Si oppongono al sistema i studenti, gli intellettuali, i professionisti, gli scienziati, i tecnici, e solo più tardi la massa operaia. Le elite in rivolta contro il sistema non si conurano come classe sfruttata in senso marxiano, anzi per certi aspetti sono privilegiate: esse detengono un potere che nelle società industriali acquista crescente importanza: quello legato alla produzione, utilizzazione e conservazione della conoscenza scientifica. Di qui il ruolo centrale nelle società tecnologiche dei produttori di conoscenza in tutte le loro categorie e livelli. Il nucleo centrale dei produttori di conoscenza è composto da soggetti che esercitano la loro attività al di fuori del settore industriale: laboratori di ricerca scientifica, agenzie operanti nel settore del controllo sociale e organizzazione sociali complesse costituiscono quel settore terziario avanzato che si colloca al centro della dinamica evolutiva in atto nelle società tecnologiche, che sono definite come società postindustriali perché: 1. l'industria ha lasciato il suo ruolo centrale di attività economica, culturale e politica, in cui hanno luogo conflitti sociali che producono significati mutamenti nel medio e lungo periodo; 2. perché è dal terziario avanzato che si diffondono verso altre aree della società norme, valori e modelli di comportamento; 3. perché i fautori principali del nuovo conflitto di classe non sono più nel proletariato industriale ma fra gli addetti del settore terziario avanzato. Il conflitto sociale non si sviluppa esclusivamente nei termini di un conflitto per la conquista del potere economico o per l'emancipazione dallo sfruttamento, ma come conflitto tra potere e classi sociali che puntano all'emancipazione dalla manipolazione e dal dominio. Mentre le società avanzate dell'Europa occidentale, fra il 1968 e il 1980, attraversano fasi di acuta conflittualità interna, un numero crescente di paesi il cui ordine sociale complessivo è largamente arretrato lontanissimo dal tipo ideale della società postindustriale, si immettono tumultuosamente entro una logica di aspettative collettive tipiche della società e della cultura di massa. Entrano in larga misura nel modello della società di massa i paesi dell'Est europeo, molti paesi arabi, diversi paesi dell'America Latina e del terzo mondo afroasiatico. Nella misura in cui il potere delle forze dirigenti della società si espande e la capacità integrativa del sistema si accresce, la lotta di classe muta non solo quanto ai partecipanti e agli obiettivi. Il nemico non è più una persona o una categoria sociale, come il monarca e la borghesia, ma è piuttosto l'insieme dei modi d'azione spersonalizzati, razionalizzati e burocratizzati del potere economico-politico. Contro questo avversario dai contorni non precisamente delineati scende in campo un diverso rivale di classe: i produttori d conoscenza, ovvero ricercatori, tecnici e operatori del settore terziario avanzato. Gli studenti fecero da detonatore: essi furono in grado di far scoppiare un movimento collettivo e di rilevanti dimensioni perché strutturalmente collocati in una posizione contraddittoria: da una parte potenziali produttori di conoscenza, dall'altra esclusi dal centro della società. Gli studenti si fecero portatori di istanze utopiche, caratterizzate da una negazione totale dell'ordine esistente e della sua logica, in un clima di eccitamento collettivo, coinvolgente e mobilitante. Quello del '68 è il primo dei movimenti collettivi che scuotono le società avanzate. Entrando in rotta di collisione con il sistema, esso entra in conflitto anche con le diverse istituzioni che strutturano il sistema stesso, compresi i partiti socialisti e comunisti. Il movimento studentesco del '68 subisce l'urto massiccio delle istituzioni che progressivamente stemperano le punte contestative e le inglobano. Nella mischia dei movimenti di protesta europei è presente anche la distruzione della sovversione sociale e del terrorismo variamente autoctono, teleguidato e strumentalizzato. Si assiste così, nella seconda metà degli anni settanta, ad un crescendo di rapimenti, attentati, omicidi a freddo di personaggi assunti come simbolici. Si intensifica inoltre il terrorismo dell'Ira nordirlandese, quello basco in Sna e quello delle Brigate Rosse in Italia. Negli Stati Uniti, l'esplodere dei conflitti è legato anzitutto alla diffusa opposizione alla guerra in Vietnam, che spinge decine di migliaia di giovani a contestare il potere, e alla spinta emancipativi dei neri e delle donne. Solo con gli anni ottanta riprende quota la lettura ottimistica della società postindustriale. Gli anni novanta, con il crollo del comunismo, estendono indubbiamente l'area del consenso.

Il processo di industrializzazione e l'avvento delle società di massa favoriscono uno spostamento delle fonti di legittimazione del potere politico dalla tradizione al consenso, dalla sacralità simbolica imposta ed accettata, ad una scelta dettata da motivazioni socioeconomiche, ideologiche e d'interesse, da un centralismo a un regolato pluralismo. Caratteristica distintiva dell'attività politica è l'esercizio del potere. Già Max Weber definì la politica come quella attività che aspira a una partecipazione al potere o ad un'influenza sulla distribuzione. Per Weber esistono due fonti generali del potere. La prima è quella della costellazione di interessi che genera un potere basato sull'influenza sui dominati, i quali lo accettano in base a precisi interessi personali. La seconda consiste in un'autorità stabilita che assegna il diritto del comando e il dovere dell'obbedienza: in questo caso i dominati accettano l'esercizio del potere prescindendo da ogni motivazione o interesse. Il potere ha dunque a che fare con l'influenza e l'autorità: il potere inteso come imposizione è un potere instabile. Storicamente ogni sistema di potere cerca di sviluppare meccanismi di legittimazione e di costituire un apparato amministrativo che esegua il comando e imponga l'obbedienza. Queste sono le due variabili su cui si basa il potere legittimato. Esistono tre tipi di potere legittimo: Potere tradizionale, se poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre e nella legittimità dell'autorità. Si obbedisce alla persona designata dalla tradizione; Potere carismatico, se poggia sulla dedizione straordinaria al valore esemplare di una persona e negli ordinamenti da essa creati. Si obbedisce al leader in quanto tale; Potere legale, se poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti. Si obbedisce all'ordinamento statuito legalmente. Il potere tradizionale è la forma di potere più appropriata per una struttura sociale semplice ed ha un apparato amministrativo formato da dipendenti o servitori personali del capo. Il potere carismatico può aversi sia in società agro-pastorali sia in società complesse ed ha un apparato amministrativo formato persone scelte in base alla devozione personale al capo. L'affievolirsi della tensione emozionale che consente al capo carismatico di mantenere il potere può condurre alla quotidianizzazione del carisma e quindi alla ricerca di una nuova ura carismatica o alla progressiva legalizzazione del potere. A un capo carismatico è possibile che si ricorra anche in società industriali che affrontano crisi economiche o politiche, come successe con Hitler e Stalin. Il potere legale implica un apparato amministrativo burocratico e si fonda su una serie di presupposizioni razionali che nulla lasciano all'imprevedibilità e all'eccezionalità. Le persone che detengono il potere sono elette o designate secondo procedure legali. Il potere basato sull'autorità legale è il sistema di dominio tipico del mondo occidentale moderno e si sviluppa in Europa a partire dalla fine del medioevo. Il potere diventa stabile favorendo lo sviluppo di un'attività economica razionale come il capitalismo. L'esercizio del potere legale assume essenzialmente due forme: lo stato moderno europeo e i partiti politici. Lo Stato, ordinamento politico sorto in Europa verso la fine del medioevo, è la possibilità di organizzazione del potere che domina nel mondo; esso esercita il potere politico attraverso una rete di istituzioni. Principio legittimante di qualsiasi forma di potere legale è la legge, e quindi un tipo di diritto. Lo stato moderno si caratterizza per il cosiddetto diritto legislativo. Il diritto sotto forma di legge si pone come insieme di norme statuite di proposito mediante pattuizione o imposizione. La convergenza tra stato e diritto può essere letta in almeno due modi: il primo è quello della giuridificazione dello stato, con un potere che si razionalizza attraverso una sempre più complessa struttura normativa; il secondo è quello della statalizzazione del diritto, che considera il potere in funzione del diritto. Oltre al diritto, lo stato moderno si caratterizza per la creazione di un apparato amministrativo di tipo burocratico, dove per burocrazia s'intende un concetto che definisce tutti gli apparati di amministrazione gestiti da funzionari. Essa si caratterizza: per l'esistenza di un corpo di regole generali a cui tutti sono vincolati; per un'organizzazione gerarchica che svolge con continuità la sua attività; per un'accentuata divisione del lavoro. Esse presenti però anche dei pericoli. Il principale è la possibile tendenza antidemocratica della burocrazia nel momento in cui i burocrati possono approfittare della loro posizione per espandere a dismisura la propria autorità. Inoltre il rischio della fusione tra burocrazia e potere politico può determinare la totale burocratizzazione della società, come è avvenuto nei paesi del blocco sovietico. Nonostante la progressiva estensione di istituzioni rappresentative a partire dalla fine dell'ottocento, in quel periodo si delinea un filone di analisi sociologico-politica centrato sull'idea della permanente divisione fra elite e sudditi, le quali teorie sono chiamate teorie elitistiche. Il primo a formulare una teoria delle elite è Gaetano Mosca: per egli, in tutte le società esistono due classi di persone: i governanti e i governati. La prima, meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode dei vantaggi che esso porta. La seconda, più numerosa, è diretta e regolata dai governanti in modo più o meno legale, arbitrario e violento. Il domino di una minoranza su una maggioranza, che Mosca enuncia come legge universale, si basa su due ragioni: la capacità organizzativa e la posizione delle elite. L'organizzazione da sola non è sufficiente a sancire l'affermazione di una minoranza come classe dirigente. È essenziale che i suoi membri si distinguano dalla massa dei governati in virtù di determinate qualità, dalle quali deriva una evidente superiorità materiale, intellettuale o morale. Queste qualità vengono riconosciute e strutturano un sistema di stratificazione sociale che le valorizzi. Con il prevalere del potere legittimato attraverso le leggi, la qualità della classe è divenuta la ricchezza, accanto alla quale vi sono fattori di influenza politica e sociale quali la notorietà, la cultura e il sapere tecnico. Orientato alla costruzione di un grande sistema teorico è stato Vilfredo Pareto, che si è dedicato  alla costruzione di una teoria della stratificazione sociale che si fonda sul principio dell'eterogeneità, secondo cui, essendo gli uomini diversi fisicamente, moralmente e intellettualmente, ogni società è inevitabilmente caratterizzata dalla diseguaglianza. Essa è reale nella misura in cui a ciascun individuo si può assegnare, per ogni ramo dell'attività umana, un indice di capacità: tutti coloro che hanno gli indici più elevati nel ramo della loro attività formano l'elite. La struttura sociale è pertanto costituita da uno strato inferiore, la classe non eletta, e la classe superiore, la classe eletta. La distribuzione del potere, la composizione della classe dirigente, le possibilità di partecipazione dei cittadini alle istituzioni politiche sono elementi che definiscono un regime politico. Schematicamente esistono due grandi tipi di regime: quello democratico e quello non democratico. Un regime può dirsi democratico se: esiste una reale competizione politica e viene garantita la possibilità di opposizione; viene esercitato il suffragio universale; si tengono elezioni libere a scadenze regolari; tutte le cariche politiche più importanti vengono assegnate attraverso processi elettivi; vi sono più partiti in competizione; esistono diverse fonti di informazione. Esistono diverse classificazioni e tipologie dei regimi democratici: quelli basati sul tipo di partecipazione (democrazia diretta o rappresentativa), sul rapporto tra governo e parlamento (democrazia parlamentare, semipresidenziale o presidenziale), sul numero dei partiti ( democrazia bipartitica o multipartitica). Laddove vengono a mancare i requisiti della democrazia politica, si hanno regimi non democratici. Nella serie dei regimi non democratici si individuano tre grandi gruppi: i regimi autoritari, quelli totalitari e quelli tradizionali. Possono dirsi regimi autoritari quelli in cui: il pluralismo politico e le fonti d'informazione sono limitate; è assente la mobilitazione estesa e spontanea; il potere, detenuto dal leader, viene esercitato in modo arbitrario. Fra questi fanno parte i regimi militari, tipici dell'America Latina, i regimi corporativi, come quelli di Franco in Sna, quelli populisti, come in Argentina con Peron, fino ai regimi fascisti e comunisti, che rappresentano i casi limite delle forme di dominio autoritarie. Il concetto di totalitarismo nasce con lo stalinismo in Unione Sovietica e con il nazismo in Germania. Nei regimi totalitari: il pluralismo politico è del tutto assente; esiste un alto grado di mobilità indotta dall'alto, sostenuta dal partito unico e da un'ideologia forte, articolata e rigida; per il leader non esiste alcun limite nell'esercizio del potere e questo è altamente imprevedibile. Ciò che più caratterizza questi regimi è la volontà di trasformazione totale e radicale della realtà sociale. La differenza fra i due totalitarismi risiede solo nell'ideologia. Ancora largamente diffusi sono i regimi tradizionali. Qui è presente il potere personale del sovrano, l'ereditarietà del potere stesso, l'arbitrarietà del suo esercizio. Diffusi nella penisola arabica, questi regimi evidenziano una straordinaria differenza tra esteso benessere e arretratezza politica e sociale.

Quale che sia il regime politico, il problema comune ai governanti consiste nell'acquisizione e nella conservazione del consenso dei cittadini, che è essenziale per i regimi democratici. I regimi tradizionali cercano il consenso attraverso simbolismi e identificazioni politico-religiose, mentre i regimi totalitari i distinguono per il sistematico impegno ad una mobilitazione ideologica tale da imporre consenso. Nei regimi totalitari l'organizzazione del consenso è devoluta ad un partito unico e fortemente ideologico cui sottostanno il governo e le istituzioni culturali ed economiche. Nei regimi democratici compete ai partiti politici il crearsi consenso con progetti e idee-guida. Essi nacquero da ristretti club borghesi del XIX secolo. Nei partiti comunisti l'organizzazione del consenso poggia sulla capillarità della presenza di sezioni nel territorio e di cellule nei luoghi di lavoro. In Italia e in Francia il partito di raccolta in funzione anticomunista scelse di far leva su una rete organizzata ancora più estesa e capillare di quella dei partiti comunisti, ovvero la chiesa cattolica. Per i partiti liberali, antecedenti ai partiti di massa legati alla borghesia urbana alta e medio-alta, il declino è stato inevitabile nell'era delle grandi contrapposizioni ideologiche. Tuttavia, come effetto della fine del comunismo e dell'eclissi del marxismo come ideologia, in Italia è sorto dal nulla "Forza Italia" un movimento politico privo di orientamento liberaldemocratico, privo di strutture organizzative, di tradizioni, di presenza sul territorio che ha vinto le elezioni politiche del 1994. L'acquisizione del consenso nelle società avanzate a regime democratico non sembra essere più compito pressoché esclusivo di strutture politiche organizzate di massa. I mass media, e in particolare la televisione, unitamente a più sofisticate strategie di marketing, giocano un ruolo sempre più crescente nel raccogliere consenso. È a Max Weber che si deve il primo sistematico tentativo di classificare i partiti politici di massa. Questi possono rappresentare interessi condizionati dalla situazione di classe o dalla situazione di ceto. L'agire di comunità di un partito implica necessariamente una associazione formalizzata. Ciò perché il partito tende a perseguire scopi oggettivi, come la realizzazione di un programma politico-idelogico, e personali, come il conseguimento di benefici, potenza e prestigio per i leader e i suoi seguaci. La caratteristica di influenzare i tutti i modi l'apparato sociale si manifesta in partiti che si fondano su principi interni del tutto diversi, quali sono i partiti di patronato e i partiti ideologici. I primi sono delle organizzazioni che i pregono come scopo l'insediamento del leader nella carica direttiva; il leader, a sua volta, provvederà a sistemare nell'apparato governativo e statale i suoi collaboratori. Tali sono i partiti negli Stati Uniti. Ciò può consentire uno periodico ricambio degli uomini responsabili dei vari settori dell'apparato ed impedire la formazione di una casata inamovibile di burocrati. I partiti ideologici si basano su una determinata visione del mondo ed il loro agire è finalizzato alla realizzazione di programmi ispirati da ideali di contenuto politico. Maurice Duverger, negli anni cinquanta, svolse un'analisi sistematica dei partiti cattolici moderni, pervenendo ad una serie di classificazioni. Il primo tipo è quello dei partiti liberali e conservatori, privi di un'organizzazione capillare, sono basati su comitati indipendenti di notabili la cui attività è costituita dalla preparazione e conduzione delle battaglie elettorali, piuttosto che dal reclutamento di nuovi iscritti. Il potere è gestito dal gruppo facente capo al leader parlamentare che riesce a prevalere sugli altri. Rientrano in questa categoria i due grandi partiti statunitensi, il democratico e il repubblicano. Il secondo tipo è quello dei partiti socialisti europei, la cui struttura si basa sull'inquadramento di grandi masse popolari. Il numero rilevante degli iscritti rende necessaria una vasta organizzazione amministrativa nell'ambito della quale prestano la loro opera funzionari di professione retribuiti. Un terzo tipo è quello creato dal fascismo e dal comunismo: essi si basano su una dottrina rigida e totalitaria, che non solo esige un'adesione politica ma un impegno assoluto di tutto l'essere che non ammette distinzione tra vita pubblica e privata. Intorno alla metà degli anni sessanta, pur permanendo le caratteristiche burocratiche dei partiti di massa, i partiti sono sempre più orientati a perdere le proprie rigidità ideologiche e a far proprie le più variegate istanze di categorie e gruppi di interesse. Alla base della trasformazione c'è la concorrenza sul mercato elettorale, condizionato da mutamenti spesso imprevedibili e indipendenti dal comportamento dei partiti stessi, i quali tendono a farsi portatori di istanze piuttosto elastiche e generiche da risultare accettabili ad una base elettorale più ampia possibile. Per realizzare questo è necessario che il partito entri nelle menti degli elettori, come la marca di un prodotto di consumo. I diversi tipi di regime politico implicano forme diverse di partecipazione dei cittadini all'attività politica, e nei regimi democratici essa è essenziale. Esistono livelli diversi di coinvolgimento individuale nella vita politica: la presenza, che è la forma meno intensa e si basa su comportamenti passivi e ricettivi; l'attivazione, quando il soggetto svolge una serie di attività politiche; la partecipazione vera e propria, quando l'individuo contribuisce ad una decisione politica. Mentre con la partecipazione forte l'individuo interviene e influenza le decisioni del gruppo di cui si è membri, la partecipazione debole prevede non abbia la possibilità di influenzare le decisioni politiche. Connesso a queste due accezione di partecipazione è il problema relativo alla visibilità: la partecipazione visibile è quell'insieme di atti diretti ad influenzare le decisione del potere politico, mentre la partecipazione non visibile è quella esercita dalla cosiddetta opinione pubblica, che non si attiva quasi mai. La partecipazione politica ha le sue origini con l'emergere dello stato moderno e con l'affermazione del potere legale, che si ampliò notevolmente con la formazione degli stati nazionali e con i mutamenti socioeconomici. Essa era dapprima limitata alle elite, poi si estese alla borghesia, ai ceti medi e infine alle classi subalterne. Indicatore fondamentale della partecipazione politica è il voto; esso traduce con immediatezza le preferenze generali dei singoli elettori. Gli studi sulla partecipazione elettorale si sono sempre posti due domande: perché gli individui votano, e chi tra i vari gruppi all'interno della società vota di più. Rispetto alla prima questione si sono avuti due tipi di risposte: si vota in base ad un calcolo strumentale o per svolgere una funzione di tipo espressivo. Dal prevalere di uno o dell'altro elemento è nata la distinzione tra voto d'opinione e voto d'appartenenza. Per la seconda questione si sono avute tre tipi di risposte. Una legata allo status socioeconomico, ovvero votano di più coloro che sono al centro della società; l'altra sostiene che votano di più coloro che hanno maggiore capacità di identificazione; l'ultima sostiene invece che la maggiore o minore partecipazione elettorale dipende da una serie di variabili individuali quali la chiare percezione del proprio interesse, il senso di efficacia del proprio voto, un'adeguata informazione. In Europa sono indicatori indiretti di partecipazione politica l'iscrizione al sindacato, la frequentazione di circoli ricreativi collegati a partiti politici. Sono indicatori diretti di partecipazione politica l'iscrizione a un partito, la partecipazione alla vita di una sua articolazione territoriale, l'assunzione di cariche politiche. Oltre a questo tipo di partecipazione istituzionale, ci sono situazioni in cui si partecipa in forma extraistituzionale attraverso il crescere spontaneo di movimenti collettivi centrati su istanze di protesta, su sentimenti diffusi di disagio che possono sfociare in comportamenti antisistema. Questi hanno sconvolto i sistemi politici italiano e francese fra il 1968 e i primi anni ottanta ed erano centrati sul tema dell'ambiente, sui diritti delle donne e dei diversi. Sono propri dei movimenti collettivi la spontaneità e la mobilitazione di massa, la propensione a manifestazioni, cortei e forme di protesta provocatorie I movimenti collettivi sono canali di partecipazione extraistituzionale per gruppi sociali minacciati di declassamento oppure più spesso per soggetti appartenenti a classi e ceti in rapida scesa sociale. Istituzionalmente tenuti ai margini della partecipazione politica nei regimi democratici europei sono i gruppi d'interesse, il cui peso è largamente riconosciuto e legittimato nel sistema americano. L'analisi dei gruppi d'interesse si orientata su tre direttrici: l'individuazione e la classificazione dei gruppi; il ruolo che svolgono nel sistema politico; le loro modalità d'azione nel sistema politico. Rispetto al primo tema si sono individuate quattro tipi di gruppi: i gruppi d'interesse anomico, che rappresentano interessi nuovi e non riconosciuti dal potere che adottano spesso forme di partecipazione politica non convenzionale e a volte anche illegale e violenta; i gruppi d'interesse non associativi, basati sull'etnia, la famiglia e sul riconoscimento di legami primari; i gruppi d'interesse istituzionali, come la chiesa e i militari, che si organizzano per la difesa e la promozione di una serie di privilegi; i gruppi d'interesse associativi, che sono quelli più diffusi, come il sindacato e le organizzazioni degli imprenditori. Rispetto al secondo tema si possono distinguere tre posizioni fondamentali: quella pluralistica, che giudica positivamente il gran numero di gruppi presenti verso i quali lo stato e il governo devono resistere alle diverse pressioni; quella corporativa, che evidenzia lo stretto legame tra stato e potere politico da un lato ed una serie di gruppi, ognuno rappresentante esclusivo di un settore produttivo o sociale. In questa visione i gruppi sono fortemente dipendenti e subordinati allo stato, che ne garantisce la sopravvivenza; quella neocorporativa liberale, in cui lo stato assicura ai gruppi d'interesse l'esclusività della rappresentanza e un certo grado di soddisfacimento delle istanze attraverso politiche concentrate, e i gruppi, in cambio, garantiscono il consenso alle scelte attuate dal governo. Il sistema politico italiano si è caratterizzato per la presenza del più forte e organizzato fra i partiti comunisti operanti in regimi democratici dell'occidente, per il suo profondo radicamento sociale nelle grandi città e nelle tre regioni rosse: Emilia Romagna, Toscana e Umbria. Negli anni settanta il caso italiano si arricchisce di ulteriori elementi di anomalia. Si sviluppa il fenomeno dell'eurocomunismo, dove i partiti comunisti europei prendono le distanze dal sistema sovietico dell'URSS. Il parlamentari del partito comunista italiano sostengono il governo nella lotta alle Brigate Rosse ed entrano a far parte organicamente della maggioranza di governo dopo l'assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Prende forma il regime consociativo, in cui restano all'opposizione solo l'estrema destra e l'ultrasinistra movimentalista.

In paesi come Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi si sviluppa, a partire dalla fine degli anni quaranta, un particolare assetto nel sistema di relazioni fra stato e cittadino e nel riconoscimento di diritti e doveri. Lo stato sociale, o Welfare State, si estende poi, a partire dagli anni sessanta in Italia, Sna e Grecia. Le prime forme di stato sociale si hanno in Inghilterra nel 1834 con l'approvazione del Poor Law Amendment Act, una legge che vede la povertà non più come la condizione di chi è costretto a lavorare per sopravvivere, ma come uno stato di indigenza e di miseria. Il riconoscersi in tale stato comportava da un lato l'assistenza pubblica sotto forma di ricovero presso case di lavoro, ma dall'altro lato, comportava un tenore di vita comunque inferiore a quello dei lavoratori dipendenti degli strati più bassi e la perdita dei diritti politici e civili. Lo Stato quindi provvede ai bisogni di un povero non in virtù di un diritto all'assistenza, ma perché vede in lui un pericolo per l'ordine pubblico e per l'igiene della collettività. Nella seconda metà del secolo,cominciano a svilupparsi sempre in Gran Bretagna le prime forme di solidarietà di classe. Comincia a sorgere una filosofia fondata sulla mutua assistenza fra componenti della classe operaia, e nascono le friendly societies, società di mutuo soccorso per casi di malattia, disoccupazione, vecchiaia e morte. Esse promuovono la nascita e lo sviluppo di scuole per adulti, una prima affermazione della cooperazione edilizia e un sindacalismo riformista. Le prime forme di mobilitazione politica e sindacale, oltre all'estensione del suffragio al di sopra del 50 % della popolazione maschile adulta, contribuirono in modo decisivo all'affermazione dei diritti delle classi svantaggiate. Nel 1911, in Gran Bretagna vengono gettate le basi dei moderni sistemi di welfare grazie a Winston Churchill e al suo National Insurance Act, che prevedeva l'istituzione di un sistema di assicurazione obbligatoria per i casi di malattia. In base allo schema assicurativo approvato, i lavoratori dovevano versare un contributo settimanale. In caso di malattia, il lavoratore avrebbe ricevuto assistenza medica farmaceutica gratuita oltre ad un assegno di malattia. Questa legge segnò l'importante conquista di quelli che in seguito verranno chiamati diritti di cittadinanza. In Italia si è delineato uno stato sociale straordinariamente esteso, che da un lato ha inevitabilmente appiattito verso il basso la qualità dei servizi e assistenza e, dall'altro ha favorito la crescita di u ceto burocratico dello stato sociale. Lo stato sociale all'italiana ha rappresentato lo specchio di una società che si è prodigiosamente socialdemocratizzata a partire dal 1969, ma che raramente è riuscita ad incanalare questa spinta in termini di reale equità ed efficienza. Da qui la crisi del welfare italiana, che assume connotazioni tanto più serie quanto meno sembra acquisita stabilità nel sistema politico e istituzionale del paese. All'inizio degli anni cinquanta con welfare ci si riferiva a un nuovo modello di società che fosse in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini dalla nascita alla morte. Due sono i fattori importanti che hanno fatto emergere le politiche sociali: la guerra, la quale dava forma al solidarietà nazionale e rappresentava la base delle nuove istituzioni; l'austerità economica all'interno della quale venivano realizzate le riforme. Si afferma quindi il principio che tutti gli individui indipendentemente dal reddito, in quanto cittadini hanno il diritto di essere protetti attraverso il amento in denaro o con servizi. Gli studiosi tendono a spiegare l'origine e lo sviluppo del welfare state in termini riconducibili a due grandi scuole si pensiero. Da una parte, i sostenitori dei modelli pluralistici interpretano l'istituzione delle politiche sociali come il risultato di processi di crescita e di progressiva differenziazione determinatasi con la modernizzazione; dall'altra, i teorici marxisti spiegano le politiche sociali come specifico prodotto dello sviluppo capitalistico e come strumento indispensabile per un migliore impiego del capitale e per comporre il conflitto di classe. All'interno di questi due modelli si possono ulteriormente distinguere altri due approcci: quello funzionalista e quello conflittualista. All'interno delle teorie pluraliste,quello funzionalista interpreta le politiche sociali come tentativi di fornire risposte adeguate a problemi posti dalle nuove condizioni di vita emerse con l'industrializzazione e con l'urbanizzazione. Le politiche sociali sarebbero quindi una diretta conseguenza dei crescenti bisogni di sicurezza che trovano risposte grazie all'ampliamento delle competenze degli apparati burocratici dello stato. Compito dello stato è non solo quello di attenuare la contrapposizione fra le richieste basate sul merito e quelle basate sul bisogno, ma di mettere in campo delle strategie per garantire l'universalità delle prestazioni. Sul versante marxista l'emergere delle politiche sociali è conseguenza dello sviluppo di un settore industriale monopolistico. Esso è il cuore non solo del sistema capitalistico ma anche delle politiche sociali. L'approccio conflittualista non solo distingue le politiche sociali come il prodotto di conflitti che vanno dalla periferia la centro, ma posiziona le politiche sociali all'interno di una strategia finalizzata all'integrazione sociale. L'istituzione delle politiche sociali può essere vista sia come risposta alla democratizzazione e alla organizzazione dei lavoratori sia come reazione al venir meno del vincolo di legittimità che lega i governati a i governanti. Nelle società industriali l'integrazione può avvenire solo istituendo la cittadinanza, che può essere scomposta in tre elementi: civile, che assicura i diritti della libertà individuale; politico, che assicura il diritto di entrare a far parte dell'esercizio del potere a prescindere dalla collocazione di classe; sociale, che assicura il diritto ad un livello minimo di benessere economico, sicurezza sociale e patrimonio culturale. Il welfare state parte dal presupposto che la società produce certi beni e certi servizi sulla base di un certo tipo di risorse. Nell'evoluzione delle politiche sociali, i problemi connessi al welfare state sono di tipo distributivo, affinché a ciascuno sia assicurata una minima parte. La crisi strutturale di questo modello è dunque semplicemente riconducibile al fatto che le risorse distribuite superano di gran lunga le entrate. Ciò comporta un'inevitabile ridimensionamento delle politiche sociali e una loro profonda trasformazione. Schematicamente si possono individuare tre grandi categorie di welfare state: quella sviluppatasi in regimi sociopolitici liberali come Gran Bretagna e Stati Uniti, in cui l'egemonia sociale della borghesia imprenditoriale e dei valori liberali da essa rappresentati, ha ostacolato il riformismo sociale. Qui i sistemi di protezione sociale sono riservati solo a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti; quella conservatrice-corporativa, che comprende il paesi dell'Europa continentale, è caratterizzata dall'integrazione dell'egemonia borghese con la tradizione statalista, dalla dottrina sociale della chiesa e dalle organizzazioni politico-sindacali delle categorie sociali. Qui i programmi di protezione sociale sono più articolati, ma tendono a preservare le differenze interne al mercato; quella dei paesi scandinavi, caratterizzata dall'egemonia socialdemocratica, che ha prodotto l'espansione di uno stato sociale incentrato sull'intervento pubblico in sostituzione sia del mercato che della famiglia garantendo a tutta la popolazione prestazioni di alta qualità. Le classi medie nel mondo socialdemocratico sono inserite all'interno di schemi universali, creando così un solidarietà e un sostegno generalizzato nei confronti delle politiche sociali pubbliche. La crisi strutturale che, da circa trent'anni, investe le politiche sociali evidenzia quasi dovunque gli stessi problemi strutturali di fondo. A differenza dei servizi privati, i servizi pubblici sono esposti al pericolo di insoddisfazione dei cittadini specie all'interno di un contesto dove una rapida espansione dei servizi offerti dal welfare state ha comportato l'estensione di numerosi beni da sottoporre ai consumatori, ma anche un abbassamento delle qualità dei servizi stessi. Il deterioramento della qualità di un prodotto è caratteristico delle prestazioni offerte all'interno di mercati non concorrenziali. Più si estendono i servizi, più si abbassa la qualità dei servizi forniti, più cresce l'insoddisfazione dei cittadini, e di conseguenza, più cresce un loro ricorso a strutture private. Un intervento dello stato nelle politiche sociali diventa efficace solo nella misura in cui conserva il suo carattere di eccezionalità, mentre diventa inefficace e insostenibile se acquista la caratteristica della sistematicità. Sono indispensabili quindi riequilibri e nuovi modelli di relazioni, criteri di regolazione più flessibili, nuovi modi di tutela dei cittadini, efficienza delle burocrazie e produttività degli interventi.

La distinzione tra primo mondo, società socioeconomicamente avanzate a regime capitalistico e liberaldemocratico, secondo mondo, paesi a regime collettivista dell'Europa centrorientale, e terzo mondo, paesi dell'Asia, Africa e America Latina, con il crollo dei regimi comunisti è definitivamente superata. Da un lato si hanno società politicamente arretrate che presentano floride economie legate al petrolio, come l'Arabia Saudita, dall'altro l'ultimo grande paese a regime comunista, la Cina, che sta entrando in una fase di accumulazione capitalistica selvaggia, con ritmi di crescita vertiginosi. Alcuni paesi ex comunisti, come Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia e Polonia si avvicinano all'Europa occidentale, altri come Bulgaria, Albania e Slovacchia rimangono sottosviluppate. Danno segni di vitalità socioeconomica e apertura politica paesi del sudest asiatico come Thailandia e Indonesia, mentre precipitano verso forme di estrema arretratezza socioeconomica paesi dell'Africa nera. I paesi dell'Africa settentrionale sono attraversati da paurose ventate di integralismo islamico. È facile capire come al bipolarismo Usa-Urss si sia sostituito un nuovo disordine mondiale. Con il vuoto lasciato dal crollo dell'Urss sono emerse vecchie e nuove forze che hanno mutato profondamente lo scenario geopolitica, come l'esplosione dei conflitti etnici nell'ex unione sovietica, la riunificazione della Germania, la guerra nell'ex Jugoslavia e nel Golfo, la difficile pace in Medio Oriente. Con la svolta del 1989 viene a mancare la logica del sostegno da parte di uno dei due blocchi in situazioni di conflitto fra stati in ogni angolo del paese, e con essa la possibilità per movimenti rivoluzionari di trovare automaticamente appoggio da parte del blocco ostile a quello cui faceva riferimento il potere centrale dello stato in questione. In Europa tornano alla ribalta, come variabili sociopoliticamente rilevabili l'etnia, la religione e l'identità rivendicata da popoli o nazioni minori o conviventi con altri entro la stessa entità statuale. Un esempio ci è dato dalla scissione della Cecoslovacchia, dove il peso della storia, delle diversità culturali, di risentimenti e rivendicazioni d'identità, hanno esercitato un ruolo preminente nella scelta della separazione consensuale. Inoltre l'incertezza creatasi con il crollo del sistema bipolare non ha interrotto processi come quello della globalizzazione o come quello della crescita delle diseguaglianze socioeconomiche fra Nord e Sud del mondo, ai quali vanno aggiunti processi culturali e geopolitici come la riscoperta dell'Islam come elemento ispiratore di condotte politiche e la regionalizzazione del potere internazionale, con il delinearsi di potenze egemoni in determinate aree. L'analisi del drammatico divario fra Nord e Sud ha sviluppato numerose teorie. Classica è la teoria diffusionista di Daniel Lerner, che analizza il processo di modernizzazione in cinque paesi del Medio Oriente. Per Lerner il processo di sviluppo dei paesi occidentali è ripetibile ed è necessario quindi esportarne le condizioni ai paesi sottosviluppati. Gli elementi del modello di Lerner sono l'urbanizzazione, l'alfabetismo, la partecipazione ai mezzi di comunicazione di massa e la partecipazione politica. Ad essi si aggiunge una componente della personalità che governa il comportamento umano che Lerner chiama empatia, che ha il compito di assicurare la coerenza interna nei mutamenti delle istituzioni politiche, economiche e culturali. Lerner è stato da più parti criticato per la sua prospettiva etnocentrica, trascurando completamente le caratteristiche socioculturali dei paesi sottosviluppati. La teoria diffusionista trova una estremizzazione nell'approccio psicologico di David McCleland, che teorizza la necessità di formare giovani fortemente motivati all'imprenditorialità. Questo sarebbe il fattore chiave dei processi di sviluppo economico, che potrebbe essere innescato tramite l'alfabetizzazione, l'urbanizzazione, la diffusione dei mass media, la partecipazione politica e catalizzato da una elite di giovani ad alto livello di istruzione e dalla forte motivazione. L'economista Rostow punta a definire le fasi di sviluppo che tutti i paesi dovrebbero attraversare. Tutte le società possono essere catalogate in una di cinque categorie, che sono: società tradizionale, la fase delle condizioni preliminari per il decollo, il decollo stesso, il passaggio alla maturità e il periodo del grande consumo di massa. Una società tradizionale è una società la cui struttura si è sviluppata entro limitate funzioni produttive. Il secondo stadio di sviluppo comprende società durante il processo di transizione ed è derivato da qualche intrusione esterna di società più progredite. Nella fase del decollo, le forze tendenti al progresso economico si espandono e giungono a dominare l'intera società. Numerose critiche sono state rivolte a questa teoria sotto diversi profili, poiché è stato messo in risalto che questa impostazione è errata dal punto di vista storico, poiché da per scontato che il sottosviluppo sia lo stadio originario delle società tradizionali, e quindi le società oggi sviluppate sarebbero state un tempo sottosviluppate. Alle teoria economiche si sovrappongono, sul versante sociologico, le complessità del modello strutturalfunzionalistico, dove l'analisi più sistematica si deve a Neil Smelser, secondo il quale lo sviluppo si pone nei termini di un processo di differenziazione-integrazione strutturale. Per differenziazione strutturale s'intende quel processo per cui una struttura di ruoli multifunzionali e di organizzazioni scarsamente specializzate si trasforma in una struttura di ruoli differenziati, esercitati dagli individui in termini di un crescente numero di unità sociali differenti e di organizzazioni specializzate e più autonome. Smelser individua quattro tipi di differenziazione strutturali: quella delle attività economiche, quella delle attività familiari, quella dei sistemi religiosi, e quella dei sistemi di stratificazione. I limiti dell'analisi strutturalfunzionalistica si spiegano nella difficile traduzione in termini operativi della teoria; inoltre questo modello offre una scarna visione dello sviluppo e della modernizzazione in chiave evoluzionistica che non sia applica ai processi socioeconomici e politici reali. Per coprire queste carenze offrono importanti contributi diversi studiosi, che tuttavia non delineano teorie sistematiche, a differenza di un gruppo omogeneo che si raccolse negli anni cinquanta intorno alla Cepal, ovvero Commision Economica para America Latina, e che innescano lo sviluppo della teoria della dipendenza, che afferma che è la collocazione dei singoli paesi nel processo storico mondiale del colonialismo e dell'imperialismo a segnare la logica del sottosviluppo. Gunder Frank, uno dei più celebri teorici della dipendenza, ha sostenuto che il sottosviluppo è il prodotto di un insieme di relazioni di dominio-subordinazione che si estendono dalla metropoli fino alle zone più remote e arretrate dell'area sottosviluppata. Queste relazioni creano una contraddizione espropriazione-appropriazione dell'eccesso economico e una contraddizione della continuità di cambiamento. Efficace come denuncia, la teoria della dipendenza non ha sviluppato significative proposte di intervento, se non in termini di sollecitazione antimperialiste ed ha subito l'urto del crollo del mito dell'antimperialismo militante, quello della dissoluzione del fronte terzomondista e quello di una serie di dati empirici che ne hanno scosso alle fondamenta la stessa impalcatura teorica. Da questi dati è emerso che i paesi in via di sviluppo più integrati nell'economia mondiale hanno avuto una crescita più rapida e sostenuta che paesi meno integrati nel sistema internazionale. L'errore di fondo di questa teoria è stato la negazione di una esistenza significativa alle parti del sistema internazionale: esisterebbero solo leggi universali del sistema intero, mentre la logica delle parti del sistema sarebbe solo un riflesso di quest'ultimo. Le deficienze della teoria della dipendenza stanno nell'interpretazione dei processi di sviluppo attualmente in corso nelle società periferiche, ma anche nelle grossolane semplificazioni storico-sociali che esse proponeva.

Il concetto di socializzazione, inteso come dispositivo di produzione, sopravvivenza e riproduzione sia societario che individuale, può essere concepito sia in termini di processo, nella misura in cui faccia riferimento al modo in cui la socializzazione dell'individuo si realizza effettivamente, sia in termini di prodotto, come il risultato di una serie complessa di influenze socioculturali ed esperienze. I contenuti della socializzazione tendono a connotarsi per il loro carattere di continuità, stabilità e cumulatività. Non tutti i membri di una società seguono gli stessi percorsi di socializzazione, a meno che non si tratti di società molto semplici. In società complesse altamente differenziate è possibile immaginare un doppio livello di socializzazione. Ad un primo livello i processi di socializzazione puntano a formare l'individuo a competenze sociali di base elementari ed essenziali. Tali processi si svolgono nella prima fase del ciclo di vita dell'individuo. A questo primo livello i processi di socializzazione determinano la conformazione dell'individuo in una personalità. Le competenze acquisite consentono all'individuo forme essenziali di interazione sociale e di scambio di risorse affettive e materiali. Ad un secondo livello, i processi di socializzazione puntano a trasmettere all'individuo competenze sociali specialistiche. Essi si collocano in fasi più avanzate del ciclo di vita individuale e interessano tutti i membri di una società, ma in maniera differenziata, a seconda dei gruppi e degli aggregati di cui ogni individuo si sente parte, detenendo una determinata posizione e svolgendo una precisa funzione. La socializzazione, a questo livello è strumentale ad un'adeguata collocazione dell'individuo in strutture organizzate che possono essere differenti quanto a numeri di membri, obiettivi, valori e norme di riferimento, ed avremo una socializzazione primaria, oppure possono essere di numero non limitato, ed avremo una socializzazione secondaria, oppure ancora non necessariamente contraddistinte da un carattere di continuità le une rispetto altre. Mentre l'approccio sociologico contemporaneo alla socializzazione tende a ridurre al minimo il rilievo della dimensione genetica a vantaggio di una concezione ipersocializzata dell'individuo, ha avuto una certa importanza, tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, l'idea genetico-deterministica secondo cui l'ereditarietà avrebbe finito col condizionare pesantemente l'impatto socializzante di fattori ambientali eventualmente non coerenti con il patrimonio genetico. Alla base del concetto di socializzazione è rinvenibile l'idea di un processo di apprendimento sociale tale da produrre una conformazione dell'individuo a valori e norme prevalenti entro una data società o entro un particolare segmento della stessa, quale può essere la classe sociale, il gruppo religioso, una minoranza etnica di appartenenza dell'individuo. In società altamente differenziate, spesso accade che l'appartenenza dell'individuo a più organizzazioni e gruppi può produrre conflitti che investono direttamente il piano dei valori e delle norme. La socializzazione primaria interessa i primi anni di vita dell'individuo e coinvolge direttamente i soggetti che interagiscono più frequentemente con il bambino ovvero i genitori e i membri del nucleo familiare. I processi di socializzazione primaria si svolgono essenzialmente entro un set di relazioni sociali più o meno organizzate, che è il contesto familiare. L'attribuzione di rilevanza fondamentale alla socializzazione primaria deriva dall'idea diffusa secondo la quale nella prima fase di vita dell'individuo prende forma definita quella che viene indicata come struttura della personalità di base, ovvero un complesso organizzato di valori, norme e regole di condotta. La successioni delle fasi della socializzazione nel corso della vita di un individuo è tale che le fasi precedenti condizionano quelle successive; è quindi il primo passo che finisce per essere, nel bene e nel male, il più importante e delicato. La regolarità e l'adeguatezza delle risposte ai bisogni infonde nel soggetto un senso di sicurezza che lo porterà a stabilire un rapporto di fiducia non solo con il mondo sociale e con l'ambiente esterno, che il bambino tende ad identificare con la ura con cui egli interagisce più spesso e più intensamente, ovvero la madre. Al contrario l'irregolarità e l'inadeguatezza delle risposte, non rimuovendo lo stato di disagio collegato al bisogno, fanno sì che il soggetto maturi un senso di incertezza che si tradurrà nell'istituzione di un rapporto di sfiducia, se non di ostilità, con il mondo sociale e con l'ambiente esterno. I genitori attribuiscono al bambino un ruolo, un insieme di tratti distintivi di quel soggetto, nel senso che essi maturano delle aspettative nei riguardi del lio sulla base del ruolo che gli hanno attribuito; d'altro canto, essi calibrano la loro azione socializzante sulla base di quelle che essi ritengono essere le aspettative legate invece al loro ruolo. Un ruolo si può così intendere come l'insieme delle regole di condotta e delle aspettative che confluiscono su un determinato individuo in base allo status che egli detiene entro una rete più o meno organizzata di relazioni sociali. La definizione di questo insieme avviene da parte di altri soggetti che interagiscono da ruoli, collegati a quello dell'individuo. Dato un certo ruolo è possibile immaginare un comportamento ad esso conseguente che può essere valutato, dai soggetti interagenti, più o meno conforme o deviante rispetto alle aspettative e ai modelli di condotta prescritti da quel ruolo. I meccanismi di base dei processi di socializzazione primaria, secondo la sistematizzazione di Parsons, agiscono a due diversi livelli: il livello di gratificazione, o catettico, e il livello cognitivo, o valutativo. Il livello catettico riguarda le conoscenze che orienteranno la scelta di un oggetto piuttosto che di un altro per soddisfare lo stesso bisogno. Tali meccanismi sono cinque. Il primo meccanismo riguarda le relazioni tra la gratificazione-deprivazione connessa all'esito di un dato comportamento e l'intensità della propensione del soggetto a ripeterlo in certe condizioni; le gratificazioni sosterranno il modello di comportamento, mentre le deprivazioni le attenueranno. Il secondo meccanismo, l'inibizione, consiste nell'apprendimento dell'astensione dal compiere una data azione determinata da un certo bisogno in vista delle conseguenze di essa. Il terzo meccanismo, la sostituzione, si riferisce ad una dinamica di traslazione da un oggetto ad un altro quale elemento in grado di soddisfare un dato bisogno. Esso comporta l'inibizione sotto forma di rinuncia del vecchio oggetto, ma in più comporta la capacità di trasferire, cioè di imparare che il nuovo oggetto può dare delle gratificazioni equivalenti alle precedenti. L'imitazione, il quarto meccanismo, consiste nell'assunzione da parte di un individuo di elementi particolari della cultura, parti di conoscenza, della pratica e del comportamento espressivo di un altro individuo. Il quinto meccanismo, l'identificazione, assume un carattere intensivo rispetto all'imitazione, dal momento che presuppone il completo assorbimento di un modello. I processi di socializzazione primaria si svolgono essenzialmente entro un set di relazioni sociali più o meno organizzate, che è il contesto familiare. La socializzazione secondaria comprende tutti i processi in base ai quali l'individuo è in grado di assumere e realizzare un dato ruolo entro un definito contesto sociale; ciò avviene quando egli ha acquisito le competenze specifiche. Il primo centro di socializzazione secondaria è rappresentato dall'organizzazione scolastica, i cui fini istituzionali consistono nella trasmissione di conoscenze e di capacità di base a livelli linguistico-comunicativo, estetico-espressivo, e logico-matematico. L'organizzazione scolastica può essere caratterizzata quale contesto di relazioni sociali che favorisce o ostacola l'apprendimento. L'esperienza scolastica, per il tipo di relazioni sociali che essa implica, assume, insieme con quella familiare, un carattere decisivo ai fini dell'adesione dell'individuo a una data concezione del potere, ad un definito modello di prestazione, ad un preciso schema di relazione sociale. La centralità della scuola come agenzia di socializzazione secondaria è sempre più messa in discussione dall'attività lavorativa, sia per via del precoce decadimento cognitivo che ha luogo nelle società avanzate, che per via delle specifiche competenze richieste sul posto di lavoro. Favorisce un buona socializzazione lavorativa quel fenomeno chiamato socializzazione anticipatoria, che coinvolge direttamente quei soggetti che precocemente assumono ruoli, ovvero aderiscono a valori e modelli di comportamento tipici di contesti sociali. La socializzazione anticipatoria sostiene e agevola gli esiti dei processi attivati dall'alto da agenzie di socializzazione interessate ad una data definizione del contesto socioprofessionale in vista di specifici scopi produttivi. Potenziali agenti di socializzazione sono il gruppo dei pari e il gruppo di riferimento. Il gruppo dei pari implica rapporti di completa reciprocità tra i membri che lo costituiscono. Questa struttura favorisce lo sviluppo di un sentimento di collaborazione e solidarietà, ma il sentimento di appartenenza di gruppo convive con un sentimento di individualità che genera competizione; di qui un sistema di norme di condotta per la regolazione della competitività, che, manifestata oltre certi livelli, metterebbe in pericolo la stabilità del gruppo. La teoria dei gruppi di riferimento fu sviluppata da Merton, che la applicò per mettere appunto il concetto di privazione relativa, ovvero la soggettiva convinzione di essere stato deprivato di un riconoscimento che viene percepito come dovuto. La socializzazione è strettamente legata all'integrazione sociale, alla inculturazione, inteso come l'interiorizzazione delle norme culturali che regolano un sistema da parte di un soggetto in crescita, e alla acculturazione, ovvero il processo analogo a quello dell'inculturazione da parte di un soggetto proveniente da differenti contesti. Su di essa incidono in maniera crescente e spesso controversa i mass media, e in particolare la televisione. Se dal punto di vista dell'integrazione sociale, la televisione continua ad essere vista come strumento di manipolazione delle masse e come mezzo di potenziale straordinaria partecipazione, dal punto di vista della socializzazione infantile e adolescenziale, il ruolo questo mezzo è ancora più controverso. Si denunciano spesso i rischi dell'esposizione adolescenziale a messaggi violenti, la difficoltà di distinguere, da parte dei più piccoli, la dimensione della fiction da quella della realtà. La socializzazione, in diverse occasioni, può dar luogo a comportamenti devianti. Questo può accadere quando il processo dell'integrazione sociale non ha sortito risultati efficaci per l'individuo in ragione della predominante influenza di subculture devianti, o per la marginalità sociale in cui è cresciuto, oppure quando l'interiorizzazione delle norme sociali e culturali è parziale o distorta per le più svariate ragioni sociali o psicologiche. Specifico e sistematico è l'approccio di Sutherland, che getta le basi della moderna criminologia. Secondo il principio dell'associazione differenziata, teorizzato da Sutherland, un soggetto agisce in modo deviante quando le percezioni favorevoli all'infrazione prendono il sopravvento; nell'associazione differenziata entrano in gioco fattori non devianti e fattori devianti e chi viola delle norme altro non è che un soggetto poco esposto ai primi e molto esposto ai secondi. I limiti di questa teoria vanno dalla scarsa attenzione prestata all'aspetto psicologico alla incerta definizione di associazione, che non spiega perché alcuni soggetti in interazione con devianti delinquano e altri no. Negli ultimi tempi si è sviluppato un filone di studi sulle devianza che va sotto il nome di Label Theory, ovvero teoria dell'etichettamento, che è legato al modello dell'interazionismo simbolico, che è schematicamente riconducibile a dei punti fermi come: l'individuo è il prodotto dell'interazione; la costruzione dell'individuo si realizza tramite contatto con altri individui e solo grazie al linguaggio; non è possibile predeterminare in modo preciso il comportamento umano in quanto costruito su una continua serie di interazioni; l'insieme dei significati viene manipolato dai soggetti per controllare i propri comportamenti. La devianza nasce dalla società nel senso che è la collettività stessa a creare la devianza istituendo norme la cui infrazione comporta l'etichettamento a individuo deviante. Il processo di etichettamento nasce da una vera reazione sociale ad un ripetuto atto deviante commesso da un soggetto che ignora le ripetute sanzioni; questa dinamica di reazione caratterizza la risposta della collettività si a livello espressivo con indignazione, si a livello esecutivo, con l'etichettamento del deviante. La reazione sociale si muove attraverso una fase definitoria, in cui si delimita e si chiarisce la categoria deviante, una fase classificatoria, dove sono catalogati i singoli casi delle categorie tramite l'applicazione della legge, e una fase degli effetti in cui si valutano le conseguenze dell'etichettamento di un individuo. Questa teoria è soggetta a numerose critiche che vanno dal suo estremo riduttivismo nell'affermare che solo età, estraniazione sociale e razza sono variabili influenti sull'etichettamento allo scarso sostegno empirico.

Nella società avanzata è cresciuta la quantità dei rapporti interpersonali che ogni individuo intrattiene, poiché, data la complessità del sistema, si giocano più ruoli fra loro intrecciati, essendo tecipi di più gruppi sociali. Ogni gruppo, sia di tipo formale che informale reca con sé una specifica subcultura cui i singoli membri sono tenuti a conformarsi, pena l'esclusione dal gruppo stesso. Attraverso il gruppo ciascun individuo apprende alcuni schemi di comportamento che lo aiutano ad inserirsi nella società e ad interiorizzare norme e valori. All'interno del gruppo si svolge il processo di socializzazione e di apprendimento culturale di ogni individuo, prima attraverso la famiglia e il gruppo di amici, poi all'interno di gruppi precostituiti come la classe scolastica, lo staff tecnico, il reparto industriale. Il gruppo si pone anche come tramite fra i suoi membri e la società, permettendo ai primi di agire attivamente per reinterpretare e modificare le strutture sociali e le norme culturali. Società, gruppo e individuo si trovano su una sequenza ininterrotta e ordinata che presuppone un rapporto reciproco, una reciproca determinazione e un vero e proprio scambio di influenze. Nell'approccio sociologico si pongono in evidenza soprattutto i rapporti sociali del gruppo, le strutture gerarchiche e organizzative che vi si formano e i rapporti che si instaurano fra gruppi diversi. Il sociologo quindi analizza gruppi reali, ponendo l'accento sugli elementi istituzionalizzati di essi e i rapporti con la società nel suo complesso, fa uso di test e di questionari che mirano a conoscere i rapporti esistenti fra i membri, e la ricerca empirica per ragioni tecniche e pratiche non può che svolgersi su porzioni ristrette della società, quindi su piccoli gruppi. È rilevante determinare la numerosità del gruppo, poiché solo nel gruppo ristretto è possibile quel rapporto faccia a faccia che contraddistingue il gruppo primario. Carattere distintivo del gruppo ristretto è la frequenza dei rapporti di interazione e di comunicazione diretta fra i membri, quindi non basta il semplice stare insieme a formare il gruppo. Si ha un gruppo in senso proprio quando i rapporti di interpersonali sono no casuali e quando gli individui componenti collaborano consapevolmente in vista del conseguimento di una meta che da soli non sarebbero in grado di conseguire. Lo scopo da raggiungere può essere pratico, come la risoluzione di un compito o l'esecuzione di un lavoro, oppure può trattarsi di una meta ideale, come il bisogno di comnia o desiderio di amicizia. Si distinguono quindi legami primari, di natura affettiva, e legami secondari, di natura pratica; da qui la distinzione fra gruppi primari, nati per soddisfare bisogni emotivi, e gruppi secondari, istituiti per il raggiungimenti di finalità pratiche. In ogni gruppo secondario tende a svilupparsi una struttura spontanea e informale, costituita da sottogruppi di persone che, avendo occasione di entrare più spesso in contatto personale, ricercano delle soddisfazioni affettive. Analogamente nei gruppi primari si producono regole di comportamento oggettive, che servono a prolungare nel tempo la funzione del gruppo. Nei piccoli gruppi la funzione primaria si attua molto facilmente, grazie al rapporto faccia a faccia. La struttura gerarchico-organizzativa del gruppo deriva dall'esigenza del gruppo di conseguire una meta nel modo più semplice ed efficiente. In alcuni casi essa è molto rigida; in altri, quando la meta è di natura ideale-emotiva i membri assumono il ruolo spettante spontaneamente. La divisione dei compiti suppone una stratificazione per importanza e al vertice, una funzione di guida: si stabilisce perciò un organigramma composto da vari livelli d'importanza nella struttura gerarchica del gruppo, in cui ogni membro occupa un posto preciso. Il gruppo può essere inteso anche come un sistema di comunicazioni, in cui alcuni individui verranno a trovarsi in posizione più favorevole di altri nella ricezione e ritrasmissione dei messaggi; questi individui finiranno per assumere un'importanza determinante nel gruppo, occupando i vertici della gerarchia. Accanto a regole tecniche fissate per arrivare ordinatamente verso lo scopo, si creano altre norme di comportamento generale, che si riferiscono a ciò che è lecito fare e ciò che è incompatibile col gruppo. Entrambe all'inizio ottengono un'obbedienza cosciente da parte dei membri, poi con l'abitudine i membri tendono a interiorizzare il valore di certe norme, al punto che queste divengono l'ideologia del gruppo stesso. Si crea quindi un certo grado coesione che dipende sia dalle capacità del gruppo di rispondere ai bisogni dei membri, sia dalle sue caratteristiche strutturali. La coesione non impedisce la possibilità di conflitti, ma quando essi non si fanno troppo violenti e frequenti al punto di frantumare il gruppo essi possono avere anche la funzione benefica di dare una sistemazione più chiara al gruppo. Norme e valori possono modificarsi nel tempo, parallelamente al modificarsi degli scopi, oppure sotto la spinta innovativa di gruppi minoritari in ascesa. Il ruolo è determinato dalla posizione sociale, dalle aspettative degli altri e dallo status di un certo individuo nel gruppo, che se è ben integrato non c'è molta differenza fra gerarchia dei ruoli e gerarchia degli status. In alcuni gruppi di lunga durata, quando nuove gerarchie più funzionali si sostituiscono a quelle precedenti e i valori del gruppo tendono a modificarsi, possono sussistere considerazioni sociali alte anche laddove il ruolo dell'individuo non sia più fondamentale, in virtù della tradizione, dell'uso e dell'ambiente. Il ruolo che ha maggiore importanza all'interno del gruppo è quello del leader, che ha un'importanza determinante nello svolgimento del compito o nel perseguimento dello scopo del gruppo. Il leader è colui che dirige gli altri, che ha il potere e la facoltà di indurre altre persone a modificare il loro comportamento ed assumerne uno particolare. Esso, pur avendo grande influenza sugli altri, deve egli stesso seguire le prescrizioni imposte dal ruolo e dalle aspettative degli altri membri. Il leader può emergere spontaneamente durante l'interazione specialmente nei gruppi informali. Qualora, nel caso dei gruppi formali, il capo sia imposto dall'esterno, egli deve essere investito di una autorità esterna, prestabilita e garantita di un valore a cui i membri del gruppo sono tenuti ad attenersi. Si hanno quindi due tipi di autorità: una scelta dai membri di un gruppo e sempre revocabile, l'altra imposta dall'esterno, che ha nei confronti del gruppo un potere formale e alla cui designazione i membri del gruppo non possono opporsi. Nel gruppo primario il leader ha funzioni socioemotive e sarà colui che meglio degli altri sa stabilire un'atmosfera affettiva fra i membri, mentre nel gruppo secondario tenderà ad affermarsi colui che ha un maggior bagaglio di cognizioni tecniche e sa meglio degli altri organizzare il lavoro del gruppo. Non esistono individui che saranno leader in qualsiasi situazione e in ogni gruppo, ma accade piuttosto che ogni situazione e ogni gruppo ha un leader le cui caratteristiche sono funzionali al gruppo stesso e alle situazioni in cui esso normalmente opera. Dalle varie forme di direzione del gruppo sono state costruite numerose tipologie, ma la classificazione ancor oggi più usata è quella elaborata da Kurt Lewin, che studiò tre diversi stili di comando in gruppo: il capo autoritario, che impone regole, ottiene maggior consenso nei compiti di rapida esecuzione ma suscita anche reazioni aggressive devianti da parte dei membri; il capo democratico, che cerca di esprimere e organizzare la volontà di gruppo, ottiene una collaborazione attiva e una certa produttività nel lavoro; il capo lassista, che si disinteressa dell'attività dei membri, ottiene l'indipendenza dei singoli ma scarsa motivazione, confusione e improduttività. Esistono casi in cui un individuo potrà avere una certa influenza sugli altri membri senza essere necessariamente un leader, ma si tratti semplicemente di un informatore di colui che poi applicherà attivamente certe soluzioni, che è chiamato gatekeeper, ovvero guardaporte,  ed è un personaggio che gioca un ruolo importante nel processo della comunicazione, perché si tratta della cellula del gruppo aperta verso l'esterno, da cui i messaggi vengono convogliati e ritrasmessi all'interno del gruppo. L'individuo in grado di modificare l'opinione degli altri grazie alle sue capacità tecniche o la suo prestigio viene chiamato leader d'opinione. Si distingue fra leader d'opinione locale e cosmopolita. Il leader d'opinione locale è colui che influenza gli altri in base all'ascendente personale che si è conquistato attraverso l'interazione con i membri del gruppo. Il leader d'opinione cosmopolita è uno specialista che ha influenza in un argomento particolare, che non riguarda soltanto il gruppo di appartenenza. L'analisi del piccolo gruppo può essere condotta ricorrendo a due principali metodi: il primo consiste nell'osservazione e nella registrazione delle attività dei singoli membri e del gruppo. Il secondo metodo implica il ricorso alla tecnica dell'intervista ai membri di un gruppo su argomenti che possono chiarire i vari aspetti delle relazioni interpersonali stabilite reciprocamente. A questa categoria appartiene la ricerca sociometrica. Essa trova un uso produttivo nella determinazione di sottogruppi informali all'interno di un'organizzazione formale. La ricerca sul campo consiste nel richiedere ad ogni soggetto verso quali membri del gruppo provi maggior attrazione, simpatia e affetto e verso quali membri provi antipatia, diffidenza e repulsione. È opportuno che prima di condurre l'intervista si spieghino agli intervistati i motivi della ricerca, l'importanza della loro collaborazione e la necessità della loro sincerità nelle risposte. Importante è il tenore delle domande, poiché è molto probabile che l'intervistato, messo di fronte ad una domanda diretta, rimanga imbarazzato e non sappia esattamente interpretarne il resto. Lo studioso si trova di fronte a due gruppi di risposte, le scelte e i rifiuti. Per avere un quadro sintetico di tutti i risultati ottenuti da ciascun individuo, si usa uno strumento chiamato sociomatrice, in cui le righe indicano le scelte e i rifiuti effettuati, e le colonne le scelte e i rifiuti ricevuti. Dalla sociomatrice emerge il fenomeno delle scelte reciproche, che corrisponde alle linee di maggiore coesione all'interno del gruppo giacché rappresentano sentimenti di attrazione reciproca. La sociomatrice può indicare il grado di successo o insuccesso sociale di ciascun membro del gruppo. Dalla sociomatrice è possibile ricavare diagrammi, chiamati sociodiagrammi, che consentono di visualizzare la rete della attrazioni interpersonali. Un completamento della ricerca è costituito dal test di percezione sociometrica, ovvero chiedere all'intervistato di citare quali persone crede che lo abbiano scelto o rifiutato e chiedere il perché di queste scelte.

Con Marx ed Engels vengono gettate le basi di quella che viene chiamata sociologia della conoscenza. La distinzione tra sovrastruttura e struttura costituisce la base categoriale dell'approccio di MARX alla conoscenza, in termini sociali. Il diritto, le idee morali, religiose, cioè la sovrastruttura sono riflessi della struttura, solo indirettamente partecipanti della storicità di questa. Gli uomini che stabiliscono rapporti sociali conformemente alla loro produttività materiale, producono anche principi e idee conformemente ai loro rapporti sociali. Data la dipendenza della sovrastruttura dalla struttura è inevitabile che quegli uomini stabiliscano anche i principi dell'ideologia nei suoi vari aspetti. L'impalcatura sovrastrutturale risulta così adattata, tramite l'azione di ideologi attivi al servizio della classe dominante, agli interessi di questa. Con Marx ed Engels si delinea il principio fondamentale della sociologia della conoscenza, e cioè il principio del condizionamento sociale che si esercita sul pensiero. E' con Karl Mannheim, studioso ungherese, che la sociologia della conoscenza si sviluppa lungo linee che prestano attenzione alle concrete influenze che si esercitano socialmente sui modi di pensare individuali. Da Marx, egli riprende l'assunto di base della sociologia della conoscenza, secondo cui le idee sono condizionate dalla classe di appartenenza e dall'assetto sociale in cui le classi si determinano. Egli supera la teoria marxiana per sostenere la necessità di sottoporre allo stesso procedimento critico tutte le forme di ideologia, comprese quelle borghesi ma anche quelle del proletariato. Anzi, si è ad un corretto livello di analisi scientifica solo quando il ricercatore è in grado di sottoporre ad analisi critica non solo il pensiero di ogni altro, ma anche il suo stesso pensiero. Al sociologo della conoscenza compete di chiarire i modi e le forme della dipendenza del pensiero dalla realtà dei gruppi e delle classi sociali. Solo in questo modo, per Mannheim, è possibile espellere l'irrazionalità che condiziona il pensiero e che si riflette sulla massa di individui che hanno smarrito il loro punto di riferimento offerto nei secoli dalla Chiesa. La rottura del consenso e dell'armonia che caratterizza le società moderne con la conseguenza allarmante che una stessa realtà appare differente a seconda delle diverse categorie sociali, dipende da fenomeni sociali che hanno stravolto l'ordine razionale e i valori su cui esso poggiava. Per Mannheim è l'intensificarsi della mobilità sociale a distruggere l'illusione dominante nelle società statiche, secondo cui ogni cosa può mutare ma il pensiero rimane eternamente lo stesso. La mobilità orizzontale ci mostra che i vari popoli la pensano in maniera diversa, ma solo quando questa è accomnata dalla mobilità verticale la fiducia in un'eterna validità nelle proprie forme di pensiero viene spezzata. Acquistano così prestigio e rilievo pubblico anche i modi di pensiero delle classi subalterne che per la prima volta tengono testa alle classi dominanti. Emergono, quindi, una pluralità di ideologie in conflitto. Si dissolve, dunque l'idea dell'unità del pensare e si fa strada la pluralità del pensiero moderno. A ciò concorre la mobilità sociale, la rottura dell'egemonia della Chiesa, l'avanzata delle classi subalterne. La crescente incertezza che ne deriva, trova la naturale compensazione nella tendenza ad affidarsi alla scienza. Da qui l'amalgamazione di pensiero scientifico e pensiero politico. E' proprio dalla lotta politica, intesa come lotta fra categorie sociali che hanno interessi diversi, che emerge la consapevolezza del condizionamento sociale del pensiero. Il concetto di ideologia riflette una scoperta che è emersa con la lotta politica, ossia che le idee dei gruppi dominanti sembrano congiungersi strettamente agli interessi di una data situazione così da escludere qualunque comprensione dei fatti che possa minacciare il loro potere. Il concetto di utopia riguarda i gruppi subordinati impegnati nella trasformazione di una determinata condizione sociale, da non riuscire a scorgere nella realtà se non quegli elementi che tendono a negare. Il loro pensiero non è mai obiettivo, ma può essere usato solo come una direzione all'azione. Dell'ideologia, per Mannheim, bisogna distinguere una concezione particolare e una concezione totale: la concezione particolare dell'ideologia indica come ideologiche solo alcune asserzioni dell'avversario, mantiene le sue analisi a livello puramente psicologico e tiene per ferma l'esistenza di uno schema categoriale di riferimento comune ai contendenti. Essa riflette la dinamica delle lotta politica nella sua forma più rozza e primitiva; la concezione totale dell'ideologia chiama in causa tutti i punti di vista dell'oppositore, vedendoli come un prodotto della vita sociale in cui egli è immerso. Questa concezione può condurre alla tolleranza e alla comprensione dell'altro ma anche alla completa distruzione. Per Mannheim la forma generale dell'ideologia si raggiunge quando il ricercatore ha il coraggio di mettere in discussione anche il proprio punto di vista all'analisi ideologica. L'invito alla tolleranza e all'antidogmatismo conducono, almeno in apparenza, a rigettare il relativismo, cioè quel prodotto del moderno utilizzo storico-sociologico, secondo cui tutti i sistemi di pensiero dipendono dalla concreta posizione umana del singolo pensatore, cui sembrerebbe che la sociologia della conoscenza irreparabilmente conduca. A Mannheim per liberarsi del relativismo non resta che liberarsi della vecchia dottrina della verità intesa come assoluta; questa infatti non è che una forma storicamente delimitata di teoria del conoscere, la quale è costitutivamente incompatibile con l'approccio sociologico. Si dovrà parlare quindi di relazionismo, nella quale prospettiva non si da una verità assoluta, ma solo dei punti vista. La certezza scaturisce dalla prospettiva relazionale da cui muove la sociologia della conoscenza, alla quale spetta il compito di chiarire e demistificare le razionalizzazioni ideologiche di condizioni esistenziali date. Un ruolo centrale spetta, secondo Mannheim, agli intellettuali, potenzialmente in grado di liberarsi dai condizionamenti della classe di provenienza per via dell'educazione allo spirito critico e alla consapevolezza della parzialità delle singole prospettive ideologiche. Non c'è un settore specializzato dell'indagine sociologica che non abbia a che fare con le aree problematiche riguardanti la sociologia della conoscenza: dal sociologo industriale al criminologo, dal sociologo politico allo psicologo sociale, ogni specialista è quotidianamente alle prese con problemi di sociologia della conoscenza. Vengono individuate due varianti della sociologia della conoscenza: quella europea e quella nordamericana. La corrente europea si dedica allo studio delle radici sociali della conoscenza nel tentativo di scoprire i che modo la conoscenza e il pensiero sono influenzati dalla struttura sociale in cui si sviluppano. In questa corrente la sociologia della conoscenza è principalmente interessata ai risultati intellettuali degli esperti, che si tratti di risultati nel campo delle scienze o nella filosofia, economico o politico. Occupandosi della conoscenza, essa studia l'elite intellettuale. La corrente americana ha il suo fulcro nello studio sociologico delle credenze e delle opinioni popolari e l'accento viene posto, più che sulla conoscenza, sulle opinioni. Occupandosi delle opinioni comuni, essa studia le masse. Mentre il sociologo della conoscenza europeo è un teorico che specula ad elevato livello di generalità, lo studioso americano è un ricercatore empirico interessato ad accertare il grado di influenza esercitato da certi tipi di messaggi. Alla corrente americana fanno parte anche l'interesse per le procedure, le influenze cui è sottoposto il processo di indagine scientifica, nonché i valori dominanti nel mondo degli scienziati e le loro regole. In questo caso la corrente americana non si occupa più di opinioni di massa, ma della vita sociale e professionale di una ristretta elite. Nasce così, nei tardi anni quaranta, la sociologia della scienza. L'oggetto di studio della sociologia della scienza è la reciproca relazione fra scienza, intesa come un'attività sociale in progresso che dà origine a prodotti culturali e di civiltà, e società.

L'avvento delle società di massa è caratterizzato non solo dal fatto che masse crescenti di popolazione si avvicinano al centro della società stessa, ma anche dalla diffusione dei mass media: il cinema, la radio e la televisione evidenziano la loro straordinaria capacità di formazione dell'opinione pubblica sia in termini di stili di vita, norme di comportamento e modi di sentire e pensare che di determinazione di visioni del mondo e quindi di comportamento politico-elettorale. Su questo secondo aspetto si concentra l'angosciante preoccupazione degli intellettuali europei che videro l'ascesa del nazismo sotto l'efficace manipolazione delle coscienze tramite un uso spregiudicato dei mass media. La sociologia delle comunicazioni di massa nasce negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni venti, in connessione da un lato con l'accresciuta esigenza delle direzioni aziendali di conoscere i modi migliori per organizzare le proprie camne pubblicitarie per radio e sulla stampa e dall'altro con quel potente stimolo alla ricerca che fu rappresentato dalla grande paura impadronitasi di numerosi intellettuali e uomini politici in seguito alla rapida diffusione della radio anche nelle regioni più isolate del paese. In base alle ricerche condotte fino agli anni cinquanta, si è sempre dubitato della capacità persuasoria dei mezzi di comunicazione di massa: essi agivano prevalentemente come fattori di rafforzamento di opinioni già esistenti. Accanto alle numerose prove empiriche a sostegno dell'ipotesi della rilevanza della comunicazione persuasoria come fattore di rafforzamento, se ne possono citare altre, anche se in maniera molto minore, che mostrano la reale possibilità della modificazione di opinioni e atteggiamenti. Basti ricordare la proanda alleata diretta alle truppe tedesche: inizialmente i messaggi proandistici degli alleati non sortivano effetto, questo perché i messaggi erano manifestatamene strutturati in modo tale da suggerire al destinatario una netta e traumatica separazione dalla subcultura del gruppo cui apparteneva, ma con il progressivo disintegrarsi di questa subcultura l'efficacia del messaggio si accrebbe sensibilmente. È il gruppo che dal punto di vista del persuasore, rappresenta il fattore cruciale e l'elemento su cui agire, infatti un tentativo di mutare un'opinione o un atteggiamento individuale non può avere successo se il soggetto condivide la propria opinione con altri, cui egli è legato, i quali non siano d'accordo col cambiamento. Sarà tanto più probabile che un tentativo di mutare un'opinione o un atteggiamento individuale risulti efficace quanto più, essendo l'opinione o l'atteggiamento condiviso da altri, il soggetto trova negli altri un rilevante consenso al mutamento d'opinione. Con l'analisi sulle tecniche di persuasione impiegate su vasta scala durante la prima guerra mondiale, eseguita dal sociologo Harold Lasswell nel 1927, si sviluppa un filone d'indagine chiamato communication research. I risultati di questa ricerca sono frutto di un'analisi che fa ricorso per la prima volta ad una tecnica di rilevazione che oggi è alla base di numerose ricerche nel campo della comunicazione di massa, la cosiddetta Content Analysis (analisi del contenuto). Strumento principale della persuasione e bandiera nella lotta politica di massa, è lo slogan. L'impronta più marcatamente sociologica nella tradizione nordamericana della communication research si deve a Paul Lazarsfeld che perviene ad una visione teorica globale ancor oggi largamente accettata nella sociologia delle comunicazioni di massa, quella del flusso a due fasi della comunicazione di massa. Egli nelle sua analisi si prende essenzialmente in considerazione casi in cui per effetto dell'esposizione ai mass media, all'influenza di altre persone, o per entrambe le ragioni, si è effettivamente prodotto nei soggetti considerati un mutamento d'opinione. Tuttavia sottolinea insistentemente come questo sia un caso non molto frequente, e che anzi è il rafforzamento dell'opinione preesistente, e non la conversione che costituisce la regola per quanto riguarda gli effetti delle comunicazioni di massa. I media si conurano quindi piuttosto come un potente fattore di stabilizzazione di credenze consolidate che non come agenti di conversioni. Nella recente storia delle comunicazioni di massa si è venuta accumulando una serie multiforme di fallimenti di camne persuasorie a seguito di errori da cui è derivato un effetto boomerang, cioè un risultato controproducente rispetto all'intenzioni dell'emittente. Esistono vari tipi di effetto boomerang. C'è la possibilità che un dato messaggio persuasorio venga interpretato in modo esattamente opposto a quello che ere nelle intenzioni. In casi del genere il boomerang è una funzione di quei fenomeni ineliminabili di distorsione che si accomnano al più ampio fenomeno della memorizzazione e percezione selettiva, in cui della comunicazione vengono memorizzate e percepite solo alcune componenti. In altri casi il verificarsi di un effetto boomerang dipende propriamente dalla inadeguata strutturazione del messaggio in relazione alla subcultura di gruppi cui esso è diretto. Un altro tipo di effetto boomerang, particolarmente frequente nei messaggi persuasori a carattere politico-ideologico, è quello derivante dalla fallacia della esemplificazione malintesa, ovvero il toccare argomenti familiari ad un dato settore del pubblico, qualora tali argomenti vengano presentati in modo generico e superficiale, magari allo scopo di renderli accessibili a un pubblico più vasto, può suscitare una reazione di netto e totale rifiuto da parte di quel particolare settore. Un altro ben noto tipo do effetto boomerang è dato da messaggi persuasori con tono terrorizzante e minaccioso, che i meccanismi psicologici di difesa predispongono alla rimozione. La presenza, in una comunicazione di una minaccia molto forte, costituisce un motivo di preoccupazione tale da predisporre negativamente alla ricezione stessa di tutto il materiale della comunicazione. Lungo questa linea si è sviluppata la cosiddetta nuova retorica scientifica che, sempre più precisamente, è in grado di dire cosa non deve fare il buon persuasore. Per quanto riguarda le indicazione positive, non si è percorsa molta strada dopo gli anni cinquanta. La teoria della dissonanza cognitiva, elaborata nella seconda metà degli anni cinquanta da Leon Festinger contiene indicazioni generali di alcuni possibili accorgimenti che, solo in determinate condizioni, possono favorire la persuasione. Il soggetto consapevole di una dissonanza cognitiva, che ovvero crede in una cosa ma agisce in modo difforme, è particolarmente propenso a cercare consigli, a confrontare le proprie opinioni con quelle altrui, si espone con maggiore frequenza a messaggi persuasori dei mass media, soprattutto in rapporto alla questione per cui si da dissonanza, memorizza più facilmente tali messaggi e se trova un sufficiente sostegno sociale è disposto ad accettarli, purché ciò contribuisca in modo evidente a ridurre la dissonanza. Questo processo ha successo solo quando l'individuo condivide con altri la stessa situazione di dissonanza, e insieme intraprendono il processo di superamento della dissonanza stessa. Ma se la capacità persuasoria dei media fosse nel complesso così modesta, sarebbe difficile comprendere le ragioni per cui sia i regimi autoritari che i regimi democratici ne fanno ampio uso. La televisione influisce notevolmente sulla visione del mondo degli utenti, contribuendo alla determinazione di stili di vita e modelli di comportamento, e tutto ciò si riflette indirettamente sul comportamento elettorale. Questo fu mostrato dagli inglesi Jay Blumler e Denis McQuail nella loro ricerca sulle elezioni britanniche del 1964. Essi avanzarono l'idea che il fattore rilevante di persuasione non è l'elevata esposizione al mezzo, ma piuttosto una particolare struttura motivazionale che predispone all'accettazione del messaggio anche se l'esposizione è minima e, dai risultati ottenuti, l'ipotesi fu largamente confermata. Ci furono quindi cambiamenti nella decisione di voto fra persone inizialmente orientate in senso conservatore o laburista, le quali decisero di passare da un campo all'altro come effetto della proanda o dei commenti politici in televisione, alla radio o sui quotidiani. Ricerche più recenti, sviluppatesi a partire dalla fine degli anni settanta, riflettono approcci diversi, che tuttavia raramente tendono a porsi come teorie generali. Questo accade con l'approccio costruttivista del massmediologo canadese Marshal MacLuhan, secondo il quale la realtà politica sarebbe creata dal mezzo televisivo e, in misura minore dalla radio e dalla stampa. Ciascuno dei media, disponendo di una propria logica, eserciterebbe differenziate influenze. Così, è nella logica del mezzo televisivo il ricorso ad una sintassi lineare-visuale di eventi, scandita da una struttura interpretativa e incalzante nella presentazione delle notizie, l'esigenza di spettacolarità, narratività e di un linguaggio che esageri i conflitti. Ed è proprio nelle news televisive che si crea la realtà sociale e politica. Questa realtà è conflittuale, perché esalta le differenze dei punti di vista, puntando a discriminare il bene e il male; è spettacolare, perché si colora di immagini, parole ed emozioni anche forti. Spettacolarizzazione che ovviamente non deve uscire dai canoni classici dello spettacolo televisivo, il più standardizzato, familiare e tranquillizzante possibile. Crescente diffusione ha poi l'approccio chiamato dell'agenda-setting: in questo caso non si guarda agli effetti comportamentali, di atteggiamento e di visione del mondo, ma più operativamente, della definizione di una agenda, da parte del pubblico, in quanto influenzata dall'esposizione ai media. Fra i settori in cui la televisione esercita un importante influenza, sono al centro dell'attenzione quello dei consumi, quello ella partecipazione sociale e quello della socializzazione. Riguardo ai consumi, gli spot televisivi puntano sempre meno su un progetto esplicito di persuasione, e sempre più su piccole storie cui associare un marchio, una sigla e un prodotto. Sul tema della partecipazione sociale, il dibattito è molto aperto. Alcuni teorici videro nei mass media, e nella televisione in particolare, un potente fattore di estraniamento delle masse dalla vita sociale: il materiale convogliato attraverso i mass media ha l'effetto psicologico di distrarre dalle ansietà abituali e l'effetto sociale di ridurre la critica alla struttura sociale esistente, con l'affievolire lo scontento delle categorie meno privilegiate. Per Lazarsfeld e Merton i mass media potevano esercitare una disfunzione narcotizzante. Per loro, la costante esposizione ad un flusso di comunicazione evasivo, serviva a narcotizzare, più che a vitalizzare il pubblico. Che la diffusione su vasta scala dei media possa avere effetti tutt'altro che portatrici di apatia sociale, lo dimostrano numerose ricerche svolte nei paesi sottosviluppati, dalle quali emerge che l'introduzione dei mass media in generale comporta rilevanti modificazioni nella trama dei rapporti interpersonali. Con l'ingresso dei mass media nella comunità tradizionale entra in crisi la leadership tradizionale, e si guarda con maggiore interesse a chi legge i giornali e a chi capisce i messaggi radiotelevisivi. Riguardo ai messaggi dal contenuto violento e al loro effetto sui più piccoli, si confrontano due teorie. La prima è la teoria dell'imitazione, secondo la quale l'esposizione al messaggio violento di soggetti che non siano adulti predispone al rischio di forti impatti emotivi, squilibri e possibili comportamenti imitativi. La seconda è la teoria della catarsi, secondo la quale l'esposizione a messaggi televisivi violenti tende a scaricare l'aggressività. L'americano Comstock, dopo aver analizzato le ricerche sociopsicologiche degli anni sessanta e settanta, arriva a dire che: esiste una definita relazione fra esposizione alla violenza e comportamenti aggressivi; i bambini possono apprendere nuovi comportamenti aggressivi anche da una sola esposizione ad un breve messaggio simbolico; l'esposizione a rafurazione televisive di violenza può liberare comportamenti aggressivi già appresi; quando la violenza è presentata come comportamento punito, l'aggressività tende ad essere bloccata, ma quando non comporta conseguenze, si accresce la possibilità di successivi comportamenti aggressivi; una forte esposizione a messaggi televisivi violenti può desensibilizzare i bambini dalle conseguenze negative della violenza nella vita reale; gli effetti del messaggio violento possono essere in qualche misura moderati da commenti e osservazioni di adulti che guardano il programma insieme con il bambino.

Il sociologo impegnato nella ricerca empirica può trovarsi ad affrontare due grandi categorie di problemi. Esso può infatti essere intrapreso ad esplorare e descrivere un dato fenomeno, misurando precisamente una o più variabili dipendenti in una popolazione o in un campione rappresentativo di essa, oppure può riproporsi di dar conto di un fenomeno già noto e sufficientemente descritto nelle sue principali caratteristiche, individuandone le origini o causare l'accadimento da leggi e teorie. Ricerche sul primo tipo di problemi vengono chiamate ricerche descrittive, mentre il secondo tipo di ricerca è di tipo esplicativo. Il vantaggio di un disegno di ricerca esplicativa è che, dove l'ipotesi sia ben costruita, può consentire di provare incontestabilmente l'esistenza del legame ipotizzato fra le variabili studiate, mentre gli svantaggi sono numerosi e seri: anzitutto un disegno di ricerca rigorosamente esplicativa rende virtualmente impossibile la scoperta, non consente di valutare il peso della variabile indipendente ipotizzata, né di stabilirne eventuali connessioni con altre variabili, né di cogliere eventuali mediazioni fra causa ed effetto. Il compito di stabilire le aree problematiche da indagare è essenziale sia che si tratti di ricerca descrittiva, sia che si tratti di ricerca esplicativa. La determinazione delle aree problematiche da indagare è strettamente connessa ad una definizione dell'oggetto specifico dell'indagine e delle variabili che si ipotizza abbiano una rilevanza in rapporto ad esso. Ciò mostra come un disegno di ricerca descrittivo comporta una fondamentale dimensione teorica ed esplicativa. Ad esempio, in un programma di ricerche volto ad analizzare le "strategie di comunità per il recupero dei tossicodipendenti e a misurarne la relativa efficacia", si è trattato di concettualizzare il problema oggetto d'indagine specificando i termini-chiave presenti nella sua formulazione in modo che avessero una precisa funzione operativa nel dirigere le successive procedure di ricerca. La strategia di comunità è stata definita in termini di "azione indirizzata razionalmente ad uno scopo, la quale procede per obiettivi intermedi, avvalendosi di risorse e strumenti fondati in un processo". Si è adottato il criterio di definizione del concetto di efficacia riferibile all'adeguatezza delle risorse investite dalla comunità e del loro uso al raggiungimento dell'obiettivo prefissato. Si mette a punto quindi, sia a livello concettuale che operativo, un modello per la misurazione dell'efficacia della diverse strategie di comunità che tiene nella dovuta considerazione livelli di analisi come: le caratteristiche e gli obiettivi del programma; il contesto socio-organizzativo in cui il programma di intervento viene attuato; le risorse umane, economiche e strumentali impegnate nella realizzazione del programma; le opportunità e i vincoli connessi alle modalità di uso strategico delle risorse; l'esito delle strategia di intervento. Inoltre, considerando che per valutare adeguatamente il prodotto di un intervento strategicamente orientato si deve passare per l'analisi dettagliata del processo stesso, si opera un'ulteriore distinzione dell'efficacia in efficacia in itinere e efficacia ex post. L'efficacia in itinere si riferisce al processo in corso ed è stata specificata in termini di grado di apprendimento delle abilità cui è indirizzato l'intervento riformativo della comunità, nonché di grado di interiorizzazione delle norme e dei valori comunitari. L'efficacia ex post si valuta a processo ultimato e consiste nel reinserimento dei soggetti sottoposti ad un programma di comunità. Per poter procedere nella stima dell'efficacia delle strategie adottate si sono dovute specificare le dimensioni costitutive del concetto di recupero, che sono: normativo-valoriale, comunicativo-relazione, cognitivo e sociale. L'efficacia delle strategie di recupero si è precisata in termini di: capacità dell'utente di controllare la dipendenza da sostanze stupefacenti; reinserimento dell'utente in una rete di relazioni interpersonali; reinserimento dell'utente in un tessuto sociale. Oltre alle strategie di recupero, si sono studiati anche obiettivi di percorso, così da poterne misurare il relativo conseguimento in termini di efficacia in trattamento. Gli obiettivi di percorso sono stati: adattamento alla vita e alle regole della comunità; interiorizzazione dei valori della comunità; induzione alla responsabilità, al rispetto di sé e all'autocontrollo; recupero della progettualità. Nelle diverse comunità studiate, la raccolta dei dati è stata effettuata mediante ricorso a diverse tecniche e strumenti, che vanno dall'osservazione partecipante all'analisi documentale, da interviste a testimoni privilegiati a interviste guidate. I file di dati concernenti gli ospiti della comunità studiata ha creato un code-book, in base al quale sono state formalizzate e codificate tutte le informazioni disponibili per ciascun ospite, riferibili a caratteristiche di base. Si è quindi costruito un data-base, dal quale si è estratto un campione proporzionale in base ai parametri incrociati di sesso ed età. Per determinare la numerosità del campione si è assunto un errore tollerato del 5% e un livello di confidenza del 95%. Si è elaborato un complesso questionario, con il quale si è cercato di capire più specificatamente le modalità di avvicinamento alla droga; i contesti familiari, scolastici e relazionali che hanno fatto da sfondo all'avvio alla tossicodipendenza; si è indagato sul vissuto dei soggetti in trattamento presso la comunità a partire dal primo impatto con essa fino a rilevarne l'attuale posizione nello svolgimento del programma; si sono invitati gli intervistati a valutare l'esperienza comunitaria finora maturata; infine, li si è chiamai a proiettarsi fuori dalla comunità, pensando non solo in termini di progetti e aspirazioni, ma anche di difficoltà. Le domande aperte e quelle strutturate presenti nel questionario e la modalità di conduzione delle interviste hanno reso lungo e complesso il lavoro di post codifica delle informazioni, perché sono entrate nella matrice dei dati ben 196 variabili, della cui struttura si è dato inizialmente conto in un code-book, e successivamente in un recode-book, nel quale e la lista definitiva delle variabili su cui si è condotta l'analisi dei dati. Il passaggio dalla fase propriamente descrittiva ad una più specificatamente esplicativa avviene quando si intende render conto di una situazione problematica attraverso un modello di riferimento concernente la struttura delle relazioni tra variabili da utilizzarsi per testare le ipotesi di partenza. Il modello emerge: 1. dall'individuazione di fattori costituenti una scala nominale, quindi differente sul piano quantitativo. Tali fattori sono rappresentati da: sesso, età, tempo di tossicodipendenza, titolo di studio, estrazione sociale, condizione occupazionale, esperienza di socializzazione, esperienza di tossicodipendenza e progetti per il dopo-comunità; 2. dall'individuazione degli indicatori principali relativi a ciascun fattore; 3. dalla traduzione del rapporto tra fattori in incrocio; 4. dalla traduzione dell'incrocio tra fattori in incrocio tra relativi indicatori. Tra tutti gli incroci effettuati, si passa poi a selezionare ulteriormente quelli che risultano maggiormente validi dal punto di vista della ricerca. I risultati dell'indagine evidenziano una relazione tra i tempi di permanenza in comunità e il successo del trattamento, ovvero le risposte più convincenti al programma di recupero provengono da quegli ospiti che risiedono da più tempo nella comunità analizzata. D'altro canto, i fattori che ostacolano i processi di socializzazione comunitaria sono relativi al tempo di tossicodipendenza, alla socializzazione precoce alla subcultura della droga, e alle caratteristiche del percorso di tossicodipendenza. Il problema della concettualizzazione è fondamentale in rapporto alla misurazione, che costituisce il compito più produttivo del sociologo empirico, che spesso deve fermarsi a livelli elementari di classificazione, ma già riuscendo ad attribuire qualità come maggiore, minore e uguale, si ha un livello di misurazione soddisfacente. Così, nello studio della partecipazione politica, è già importante determinare che la categoria x è più partecipante della categoria y. Ma il problema prioritario da affrontare è definire il concetto di partecipazione politica e individuare indicatori delle dimensioni rilevanti nel contesto sociale sotto indagine. Il termine di questo processo è costituito dal raggruppamento degli indicatori in un indice, possibilmente espresso in forma numerica. In tal modo risulterà possibile disporre i soggetti considerati e le classi entro cui sembrano rientrare, in forma ordinata, graduandone la partecipazione politica. Stabilite le aree problematiche, gli oggetti d'indagine, le loro dimensioni e i loro possibili indicatori, bisogna scegliere le tecniche di rilevazione. La tecnica dell'intervista è la tecnica principale della sociologia empirica e consente di accertare insieme dati oggettivi e percezioni soggettive e di ottenere dati omogenei. È possibile individuare una tipologia delle interviste sulla base del grado di libertà che si lascia all'intervistato. Questa tipologia si articola lungo una linea che va da un massimo grado di libertà, ovvero un'intervista libera non strutturata, ad un massimo di standardizzazione, ovvero un'intervista con questionario con tutte risposte precodificate, con in mezzo una grande fascia di semistrutturazione. L'intervista destrutturata è molto utile sia per un approccio psicologico, o comunque in ricerche che pongano l'accento sulle motivazioni e sugli atteggiamenti dei soggetti, sia nella fase della presa di contatto con un oggetto d'indagine che si conosce poco. Con domande di vario genere si possono raccogliere spunti e indicazioni preziose per l'elaborazione di un adeguato strumento di ricerca. Con questo tipo di ricerca, però, non è possibile fare affidamento sulle maggiori frequenze di risposte riscontrate poiché lo stimolo può non essere affatto uguale per tutti. Inoltre le difficoltà nella conduzione di un intervista destrutturata sono di gran lunga maggiori di quelle in cui ci si imbatte nel somministrare questionari, infatti, quanto maggiore è il grado di libertà, tanto più la rilevanza o l'irrilevanza dei risultati dell'interviste dipende dalla capacità, dall'intuito e dalla personalità dell'intervistatore. D'altro canto, l'intervista non strutturata alcuni vantaggi, poiché può consentire che si sviluppino nuove idee e che si elaborino ipotesi del tutto impreviste in partenza. Fra i tipi intermedi, si può ricordare l'intervista focalizzata, nella quale, pur non essendo specificata la formulazione delle domande, ci si concentra sugli effetti di un evento cui il soggetto ha preso parte. Questo tipo riduce i rischi di arbitrarietà. Un altro tipo intermedio è l'intervista guidata, utilizzata per la raccolta di storie di vita. In questo caso, si lascia parlare l'intervistato, stimolandolo solo a non trascurare alcuni temi centrali che stanno a cuore al ricercatore. Introducendo il questionario, si entra nel versante della standardizzazione. Esso consente, almeno idealmente, di creare una situazione in cui tutti gli intervistati sono sottoposti uniformemente allo stesso stimolo. Importante è la compilazione di un dettagliato verbale che registri alcuni dati fissi e tutto ciò che di rilevante l'intervistatore ha rilevato nell'intervistato, nell'ambiente e nel modo in cui sono state date le risposte. Il questionario, a seconda delle ricerche, può essere più o meno flessibile o rigido. Una sostanziale rigidità del questionario è preferibile nel caso delle ricerche su vasta scala, quando si ambisce a generalizzazioni, azioni o determinazioni quantitative degli scarti fra diverse categorie di soggetti, mentre una maggiore flessibilità è consigliabile nella fase prova del questionario, per sondarne la completezza e la chiarezza. In ogni caso resta consigliabile lasciare una possibilità di risposta diversa da quelle precodificate, con la dicitura "altro". Fondamentale nella ricerca di sfondo è la tecnica dell'osservazione, che è assai frequente come tecnica complementare all'intervista; l'intervistatore osserverà le caratteristiche personali dell'intervistato, il suo ambiente domestico e di lavoro. L'osservazione presenta delle linee direttive, che sono tanto più definite quanto più questa tecnica abbia un ruolo importante nell'indagine. Esistono dei casi in cui questa è l'unica tecnica possibile per l'intera ricerca, quando si presentano barriere linguistiche presso popoli primitivi o in ricerche sui bambini. Una tecnica particolare è quella dell'osservazione partecipante, dove il ricercatore dovrà assumere u ruolo nel gruppo studiato, e ciò comporta un notevole coinvolgimento che inevitabilmente riduce la possibilità di procedere sistematicamente nelle osservazioni. Il metodo storico-ativo indica un approccio allo studio di eventi e comportamenti sociali che basandosi sull'analisi di determinate caratteristiche salienti in diversi periodi storici tende ad isolare i esse quei tratti ripetitivi e uniformi che conducono alla definizione di proposizioni in forma di legge. Tutti i classici del pensiero sociologico hanno proceduto utilizzando questo metodo, arrivando talvolta a definizioni instabili, altre volte a risultati ancor oggi validi. Alla decadenza di questo metodo non si è accomnata la decadenza dell'uso dei documenti, cui i sociologi fanno spesso riferimento, soprattutto sui documenti personali come autobiografie, lettere, diari e appunti. La tecnica dell'esperimento è molto usata nella sociologia dei gruppi e in quella dei mass media. Nelle ricerche esplicative, si ricorre a tale tecnica per stabilire con un sufficiente margine di sicurezza se una ipotizzata connessione si verifica effettivamente o meno. La tecnica dell'analisi del contenuto (content analysis) nacque negli Stati Uniti negli anni venti nell'ambito della sociologia delle comunicazioni di massa grazie ad Harold Lasswell che tentò di analizzare i simboli utilizzati come strumenti di persuasione politico-ideologica durante la prima guerra mondiale. In questa ricerca egli fece ricorso ad un'analisi dal contenuto di tipo qualitativo, ma lo stesso Lasswell si rese conto dell'inadeguatezza di questo approccio e optò quindi per metodi quantitativi. Solo procedendo in questo modo era possibile evitare la genericità dell'approccio qualitativo, dove il ricercatore poteva descrivere ed interpretare i temi proandistici in modo del tutto personale. Le modalità d'uso di questa tecnica sono tre: la prima è quella dove si tende ad identificare tale tecnica con la rilevazione delle frequenze di elementi significanti. Questa variante, più semplice ma meno feconda, mira alla rilevazione delle frequenze di simboli-chiave; la seconda è quella in cui le unità di classificazione non coincidono con elementi dotati di significato all'interno della struttura linguistica del messaggio stesso; la terza è quella in cui si opera analizzando la struttura del messaggio sulla base di categorie d'analisi più generali le quali non corrispondono né ad elementi significanti della struttura linguistica e neppure ad elementi dotati di particolare evidenza all'interno della comunicazione. Nel secondo tipo di analisi rientrano quelle incentrate sulla rilevazione di funzioni narrative, cioè di semplici unità d'azione che consentono lo svolgersi di una storia e che hanno una notevole evidenza. Nel terzo tipo di analisi rientrano indagini condotte sui serial trasmessi dalle radio americane e su progetti di ricerca complessi sui messaggi televisivi. La tecnica dell'analisi del contenuto può consentire quindi la rilevazione di frequenze di simboli, di gruppi di simboli, di modelli proposti, di valutazioni esplicite o implicite presenti nel messaggio analizzato. In ogni caso il principale problema da affrontare è quello della categorie d'analisi: è fondamentale quindi avere ben chiari gli scopi della ricerca, io quali, possono giustificare le scelte da operarsi. Sia l'intervista con questionario, sia l'osservazione, sia l'analisi di contenuto non prendono in considerazione tutti i casi del fenomeno in esame, chiamato universo statistico, ma soltanto un parte di essi, chiamato campione. Un campione di un determinato universo deve possedere due requisiti: la rappresentatività, dove il campione deve rappresentare, in piccolo, le caratteristiche dell'universo di cui fa parte, e la sufficienza, dove il campione è sufficiente se la sua ampiezza è tale da garantirne la rappresentatività. Affinché il campione presenti i requisiti richiesti è necessario ricorrere a procedimenti statistico-matematici che lo estraggono dall'universo cui appartiene. Esistono due procedimenti generali di campionamento, che sono: il campionamento a scelta ragionata, che comprende una serie di procedure di carattere logico che portano all'individuazione, da parte del ricercatore, a una serie di casi tipici sulla base delle conoscenze di cui si è in possesso sull'universo in esame, e il campionamento a scelta casuale, la cui estrazione di un campione è affidata unicamente al caso, ma è necessario anche qui ricorrere a procedimenti di scelta casuale che consentano di attribuire ad ogni componente dell'universo una stessa probabilità di entrare a far parte del campione. Il campione a scelta ragionata è preferibile a quello a scelta casuale quando si deve estrarre un campione ridotto da un universo molto esteso e assai differenziato al suo interno. Ma mentre per i campioni casuali è possibile calcolare l'errore di campionamento, cioè l'errore interno nelle procedure di formazione del campione, ciò non è possibile fare per i campioni a scelta ragionata. Usando procedimenti di scelta casuale è possibile estrarre da uno stesso universo non un solo campione, ma un insieme di campioni che sarà chiamato universo campionario. L'obiettivo del campionamento è di stimare alcuni parametri della popolazione dal valore che tali parametri assumono nel campione; ciò introduce l'errore di campionamento, dato dalla differenza fra il valore del parametro nella popolazione e quello campionario. Quando si estraggono tutti i campioni possibili da un universo, le stime del parametro e gli errori di campionamento si distribuiranno secondo una certa funzione, la cui conoscenza permetterà di determinare un spazio, chiamato intervallo di confidenza, che comprenderà il vero valore del parametro in esame. La probabilità che il vero valore del parametro non sia compreso nell'intervallo di confidenza è chiamata livello di significatività, e più è esteso l'intervallo di confidenza, minore è tale probabilità. Esistono vari metodi di campionamento: il metodo più comodo e rapido di estrazione è quello tramite le tavole dei numeri aleatori. Queste tavole sono costituite da una serie di cifre ricavate mediante scelta a caso, utilizzando ad esempio le estrazioni del lotto. Il metodo del campionamento stratificato, di uso più frequente, si ottiene dividendo la popolazione in varie categorie di unità ritenute fra loro più omogenee ed estraendo un campione casuale all'interno di ogni strato. Il campionamento a grappolo si ottiene suddividendo la popolazione in vari gruppi, campionando uno di questi gruppi e osservando le unità costituenti il gruppo prescelto. Il campionamento sistematico si ottiene estraendo a caso la prima unità del campione e scegliendo le altre in base ad una regola prefissata. Il campionamento a due stadi si ha qualora, avendo suddiviso la popolazione in gruppi, non si rilevino tutte le unità dei gruppi prescelti ma da ogni gruppo venga scelto con estrazione solo un certo numero di unità. Il processo può ripetersi, portando a campionare ogni volta una frazione delle unità campionata ad ogni stadio, avendo così un campionamento a più stadi.




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